Tavernier ambienta nel Senegal coloniale, nel periodo prima della seconda guerra mondiale, una storia di razzismo e colonialismo selvaggi. Noiret è una specie di sceriffo tonto e bonaccione, in un posto dove i neri valgono meno di una cassa da morto e si vede bene quale civiltà portano i francesi.
ma un giorno lo sceriffo esce fuori di testa, cioè comincia a fare quello che avrebbe voluto e non aveva mai fatto.
è un posto in cui tutti i bianchi fingono, una palude fetida per la corruzione, dove i bianchi meno peggio hanno la rogna, almeno.
forse è solo una specie di noir di noir di gente senza qualità, o magari uno sguardo sugli abissi della colonizzazione, o magari il riscatto di un giullare da niente, intanto è un film che di sicuro merita la visione - Ismaele
ma un giorno lo sceriffo esce fuori di testa, cioè comincia a fare quello che avrebbe voluto e non aveva mai fatto.
è un posto in cui tutti i bianchi fingono, una palude fetida per la corruzione, dove i bianchi meno peggio hanno la rogna, almeno.
forse è solo una specie di noir di noir di gente senza qualità, o magari uno sguardo sugli abissi della colonizzazione, o magari il riscatto di un giullare da niente, intanto è un film che di sicuro merita la visione - Ismaele
Gran film del lontano 1981 di un Tavernier nel suo momento migliore. Il quale prende un noiraccio di Jim Thompson, lurido e cattivo come si conviene, e lo traspone nell’Africa coloniale francese anni Trenta, aggiungendo ulteriori suggestioni malate e malsane. Un omuncolo chissà come diventato capo di polizia in un piccolo centro dominato dai francesi coloni e con una popolazione africana dai suddetti coloni vessata, viene continuamente dileggiato e per niente rispettato a causa della sua inettitudine. Finché passa al contrattacco e uccide quelli che lo umiliavano. Poi, in preda ormai alla hybris, continuerà ad ammazzare, sempre avendo l’accortezza di depistare le indagini e costruire indizi a carico di altri. La rivolta di un frustrato che genera guai a catena, l’esempio allarmante di cosa sia capace l’everyman (siamo negli anni Trenta mica per niente). Grandissimo cast: Philippe Noiret il protagonista, e Isabelle Huppert, Jean-Pierre Marielle, Stéphane Audrane.
…Con l'aiuto del ritrovato Aurenche dalla
penna perfida e dall'immaginazione osé, Bernard Tavernier rilegge uno
stralunato romanzo noir dell'americano Jim Thompson, "Pop.
1280" (n. 1000 nella serie "Carré Noir" di
Gallimard), in chiave di puro surrealismo francese, tra Céline e Queneau.
Thompson è già di per sé un autore oltranzista nel denso pastiche linguistico
della sua prosa e oltraggioso nell'invenzione di personaggi irrimediabilmente out. Ma il Tavernier di
"Coup de torchon" ci mette del suo a complicare una già
fittissima ragnatela di pertinenze, spiazzando del tutto il nucleo originario
del racconto e spostando l'azione dal profondo sud degli USA contemporanei a
uno sperduto villaggio dell'Africa francese del 1938.
Siamo all'inizio del film: soggettiva su dei bambini neri africani affamati che rimestano il cibo nella sabbia, controcampo su uno stanco e disperato Lucien Cordier armato di pistola che li fissa immobile, poi la soggettiva segue un volo di avvoltoi fino all'inquadratura del sole in piena eclisse, infine scende la notte, che tutto avvolge in un'atmosfera rarefatta e angusta. Dopo aver indugiato sul nostro protagonista in procinto di svegliarsi, la macchina da presa ci presenta Bourkassa Ourbangui, lo sperduto paesino del Senegal con le milleduecentottanta anime del titolo del romanzo di Thompson: siamo situati nell'Africa occidentale francese, alla vigilia della seconda guerra mondiale, immersi in una natura dai colori metafisici e inquietanti che l'iperrealismo della fotografia sospende in uno spazio-tempo allusivo e metastorico, in un eterno ritorno dell'identico niente di buono, tra espressioni e implosioni di ogni forma vitale. Come annunciato da alcuni passanti per strada, è cominciata la fine del mondo, ma è cominciata già da sempre in una coincidenza tra l'alfa e l'omega, e si è già avviata anche la tragedia personale del protagonista. Cordier, capo della polizia francese di Bourkassa, è un vinto che sopravvive a se stesso e alla situazione.
Incassa, non reagisce, fa finta di non vedere e ripete ostinatamente: "Ho dei pensieri, delle preoccupazioni... Allora ho cominciato a riflettere, ho riflettuto e a forza di riflettere, finalmente, ho preso una decisione: ho deciso che non sapevo cosa fare..."…
Siamo all'inizio del film: soggettiva su dei bambini neri africani affamati che rimestano il cibo nella sabbia, controcampo su uno stanco e disperato Lucien Cordier armato di pistola che li fissa immobile, poi la soggettiva segue un volo di avvoltoi fino all'inquadratura del sole in piena eclisse, infine scende la notte, che tutto avvolge in un'atmosfera rarefatta e angusta. Dopo aver indugiato sul nostro protagonista in procinto di svegliarsi, la macchina da presa ci presenta Bourkassa Ourbangui, lo sperduto paesino del Senegal con le milleduecentottanta anime del titolo del romanzo di Thompson: siamo situati nell'Africa occidentale francese, alla vigilia della seconda guerra mondiale, immersi in una natura dai colori metafisici e inquietanti che l'iperrealismo della fotografia sospende in uno spazio-tempo allusivo e metastorico, in un eterno ritorno dell'identico niente di buono, tra espressioni e implosioni di ogni forma vitale. Come annunciato da alcuni passanti per strada, è cominciata la fine del mondo, ma è cominciata già da sempre in una coincidenza tra l'alfa e l'omega, e si è già avviata anche la tragedia personale del protagonista. Cordier, capo della polizia francese di Bourkassa, è un vinto che sopravvive a se stesso e alla situazione.
Incassa, non reagisce, fa finta di non vedere e ripete ostinatamente: "Ho dei pensieri, delle preoccupazioni... Allora ho cominciato a riflettere, ho riflettuto e a forza di riflettere, finalmente, ho preso una decisione: ho deciso che non sapevo cosa fare..."…
…
Inizio a guardare Colpo di spugna e non ci capisco un cazzo. Non riesco a
capire se è un bel film, una schifezza, uno sferzante pamphlet girato in punta
di cinepresa o una vaccata di rara nefandezza. Non è finita: non riesco neanche
ad afferrare la posizione morale di Tavernier nei confronti del suo
protagonista. Ci si mettono pure le strampalatissime musiche di Philippe Sarde
e i destabilizzanti movimenti della steadycam da 30 kg. indossata da
Pierre-William Glenn a confondermi le idee. Risultato: un film che più va
avanti e più mi disorienta. Inizio a esultare scompostamente. E mi accorgo che
la spirale di follia in cui è precipitato Lucien Cordier (Philippe Noiret,
l’“attore biografico” di Tavernier) è la stessa in cui sono precipitato anch’io
senza avvedermene (e nonostante abbia letto il romanzo di Jim Thompson da cui
il film è tratto). Come diavolo è riuscito a spiazzarmi tanto questo film? Non
soltanto per i suddetti motivi, suppongo, o per le stralunate interpretazioni
di un cast d’eccezione che gioca fuori casa e fuori ruolo
(Noiret ad esempio era spaventato da quanto fosse lontano da lui il personaggio
che doveva interpretare); non soltanto per l’ambientazione decisamente
straniante (l’Africa Occidentale Francese del 1938) o per il taglio ferocemente
politico dell’intreccio (quanto razzismo e quanta intolleranza gronda dalle
situazioni e dai dialoghi!), ma anche, e forse soprattutto, per un’idea di
messa in scena di una semplicità micidiale. Man mano che la vicenda assume toni
sempre più grotteschi e deliranti, le inquadrature (fino ad allora
sistematicamente occupate da persone intente a fare qualcosa di concreto come
mangiare, rassettare, giocare a biliardo, sbucciare un frutto e così via) si
svuotano progressivamente di azioni e si riempiono proporzionalmente di persone
che dialogano in spazi circoscritti e statici - una stretta veranda, sotto un
albero, un piccolo salotto, un’angusta camera da letto – nei quali ci si
interroga sul senso degli eventi, fino a raggiungere una disperata,
volteggiante ammissione: “Non ha nessuna importanza perché, in ogni caso, sono
già morto da tanto tempo”…
…Si Coup de torchon semble
aussi une satire de la colonisation française, avec ses beaufs racistes (Guy
Marchand) ou cruels (Victor Garrivier), ses militaires à côté de la plaque
(François Perrot), ses prêtres paternalistes (Jean Champion), et son peuple soumis
(Samba Mané), avec une domination culturelle flagrante (la projection de Mademoiselle Docteur),
Tavernier et Aurenche suivent en fait d’autres pistes. Ils préfèrent décrire
une petite communauté vivant en vase clos et passant progressivement d’une normalité
en porte-à-faux à la confrontation à des événements étranges. Il baigne ainsi
dans Coup de torchon, un
climat poisseux et une tonalité presque surréaliste ou fantastique. Cette
tendance apparaît dans certains dialogues, à l’instar des « Tu commences à m’ombrager » ou « Tu m’interlocutes » lancés par Nono (Eddy
Mitchell). Mais elle est surtout au cœur du récit, qui voit surgir un faux
fantôme ou un aveugle fou (Raymond Hermantier). Dans cette ambiance glauque,
folle et belliqueuse, l’amour semble impossible et Cordier, autoproclamé
nouveau Christ, ne le trouvera ni auprès de sa mégère infidèle (Stéphane
Audran), ni de la femme fatale (Isabelle Huppert dans son premier rôle
extraverti), ni de l’institutrice (Irène Skobline), seule incarnation de la pureté
dans cet univers. Philippe Noiret trouve peut-être le meilleur rôle de sa
carrière avec ce personnage de policier faible qui finira par vouloir incarner
le bien en causant le mal. Admirablement filmé (les plans sur Huppert suivis
d’un travelling, ou la caméra poursuivant la comédienne après un crime), Coup de torchon fut un succès retentissant suivi de
dix nominations aux César dont aucune ne fut, hélas, concrétisée.
… I've
picked out at least three stories in COUP DE TORCHON. The first is
psychological, the second could be political, the third would love to be
metaphysical. In 1938, in Bourkassa, a village of French West Africa comprising
"Population 1,275" (the name of the celebrated Jim Thompson novel
from which the film is adapted), the cop is called Lucien Cordier. He's a
naive, spineless man, easy to hold up to ridicule. {Philippe} Noiret is the
hero of the first story: his big body takes blows and doesn't return them,
effaces itself. But Cordier is held in contempt by people themselves so
evidently contemptible (Marielle as a pimp, Marchand as a soldier and Eddy
Mitchell as a notorious parasite) that the spectator feels that all this is
exaggerated, that there is an eel under the rock. And if Cordier wasn't so weak
or naive? And if he cooked something up for us? (One knows the importance of cooking in {Bertrand} Tavernier's films.)
Effectively,
a second takes the relay of the first: Lucien Cordier sets himself to
kill, without warning but without anger. We are here in the "even at the
base of abjection he finds the force to rebel against an inadmissible
situation" story. In this occurrence, the situation in Africa on the day
before war, Bourkassa like a cabaret set, the intense mediocrity of colonial
life, with its African zombies and its lost and repulsive little white men.
Noiret is also the hero of this story. This time, it's his big body that gives
blows and his intelligence that plans them. Oh good, says the relieved
spectator: a little revolt, a little simplistic anti-colonialism is good. And
at the same time, he's not convinced, the spectator; he says that in 1981, an
anti-colonialist film is a little facile and almost retro. Today, a director,
especially of the left, should go further, interrogate more deeply. (Look at
Schlondorff.) And if Cordier wasn't only courageous and rebellious? And if
Tavernier cooked us up something else?
So the
third story tumbles down, the most ambitious of the three. The cabaret becomes
very bloody and Cordier very talkative. Not weak, not naive, he gives a true
course in Evil and negative theology for novices. All this explains itself: if
the cop never arrests anyone, it's because, lucidly, he knows that all his
little world is condemned - and him with it. So he would be, not one who kills
nor one who saves, but one who destroys indifferently those who are already
lost and who ignore it (from the ignoble Mercaillou to the good Negro
Vendredi.) And when he kills, it's a little of himself that dies. Noiret is
more than ever the hero of the story, a little chubby exterminating angel,
certainly, but implacable. Beginning as a thick farce on the side of an African
Clochermerle, COUP DE TORCHON would love to end on the side of the aces of
error and redemption. On the side of Christians. Ford or Graham Greene, for
example. In 1938, Tavernier tells us that the white man's burden (again!) was
very heavy to carry. Thank God.
I again
ask myself why these three stories set end to end don't manage to make a good
film, at least a film. Why COUP DE TORCHON remains less
troubling than its subject, less risky than old-fashioned, less dynamic than
agitated. Why the direction in steadycam transforms the space into a rugby
field and the characters into a confused mass, making the spectator seasick
without moving him? I respond to myself…
…This movie was based on a novel, Pop. 1280, by Jim Thompson. I
haven’t read the book, but reader reviews of it call it hilarious and the
blackest of Thompson’s many cynical musings on small town living. Despite what
my description implies, this movie is extremely funny. But the murders are not, even
when they could be filmed in something of a burlesque. This did not hurt the
film, in my opinion. It was the uneven performance of Noiret that had me
confused and ultimately unsold on the character of Cordier. Rose’s almost
nymphomaniacal attraction to him is incomprehensible, though he tells her at
one point that she is well suited to being a prostitute (perhaps because her
standards are so low?). Noiret also does too good a job of covering up how
smart Cordier really is. The change is far too jarring. Although Cordier
suggested to me the character of Tom Ripley, the psychopathic killer created by
novelist Patricia Highsmith, he just didn’t seem as fully fleshed…
…Coup de Torchon left me
cold, unmoved and uninvolved. All I could find to admire was the craftsmanship.
That was after two viewings. I saw the film first at last November's
Chicago Film Festival, and was not quite sure I had really engaged with the
film. Was I missing something? I saw it again recently and had the same strange
feeling that the events on the screen, even though they were so firmly grounded
in a real location, were insubstantial. Despite the dust, despite the
slow-moving muddy river, despite the dirty house dresses and the 5 o'clock
shadow and the yawns and sudden fights and bawdy practical jokes, this movie
never quite breathes. It's an exercise. You can admire an exercise, but it's
hard to really care about one.
Nessun commento:
Posta un commento