domenica 5 marzo 2017

Colpo di spugna (Coup de torchon) - Bertrand Tavernier

Tavernier ambienta nel Senegal coloniale, nel periodo prima della seconda guerra mondiale, una storia di razzismo e colonialismo selvaggi. Noiret è una specie di sceriffo tonto e bonaccione, in un posto dove i neri valgono meno di una cassa da morto e si vede bene quale civiltà portano i francesi.
ma un giorno lo sceriffo esce fuori di testa, cioè comincia a fare quello che avrebbe voluto e non aveva mai fatto.
è un posto in cui tutti i bianchi fingono, una palude fetida per la corruzione, dove i bianchi meno peggio hanno la rogna, almeno.
forse è solo una specie di noir di noir di gente senza qualità, o magari uno sguardo sugli abissi della colonizzazione, o magari il riscatto di un giullare da niente, intanto è un film che di sicuro merita la visione - Ismaele







Gran film del lontano 1981 di un Tavernier nel suo momento migliore. Il quale prende un noiraccio di Jim Thompson, lurido e cattivo come si conviene, e lo traspone nell’Africa coloniale francese anni Trenta, aggiungendo ulteriori suggestioni malate e malsane. Un omuncolo chissà come diventato capo di polizia in un piccolo centro dominato dai francesi coloni e con una popolazione africana dai suddetti coloni vessata, viene continuamente dileggiato e per niente rispettato a causa della sua inettitudine. Finché passa al contrattacco e uccide quelli che lo umiliavano. Poi, in preda ormai alla hybris, continuerà ad ammazzare, sempre avendo l’accortezza di depistare le indagini e costruire indizi a carico di altri. La rivolta di un frustrato che genera guai a catena, l’esempio allarmante di cosa sia capace l’everyman (siamo negli anni Trenta mica per niente). Grandissimo cast: Philippe Noiret il protagonista, e Isabelle Huppert, Jean-Pierre Marielle, Stéphane Audrane.

Con l'aiuto del ritrovato Aurenche dalla penna perfida e dall'immaginazione osé, Bernard Tavernier rilegge uno stralunato romanzo noir dell'americano Jim Thompson, "Pop. 1280" (n. 1000 nella serie "Carré Noir" di Gallimard), in chiave di puro surrealismo francese, tra Céline e Queneau. Thompson è già di per sé un autore oltranzista nel denso pastiche linguistico della sua prosa e oltraggioso nell'invenzione di personaggi irrimediabilmente out. Ma il Tavernier di "Coup de torchon" ci mette del suo a complicare una già fittissima ragnatela di pertinenze, spiazzando del tutto il nucleo originario del racconto e spostando l'azione dal profondo sud degli USA contemporanei a uno sperduto villaggio dell'Africa francese del 1938.
Siamo all'inizio del film: soggettiva su dei bambini neri africani affamati che rimestano il cibo nella sabbia, controcampo su uno stanco e disperato Lucien Cordier armato di pistola che li fissa immobile, poi la soggettiva segue un volo di avvoltoi fino all'inquadratura del sole in piena eclisse, infine scende la notte, che tutto avvolge in un'atmosfera rarefatta e angusta. Dopo aver indugiato sul nostro protagonista in procinto di svegliarsi, la macchina da presa ci presenta Bourkassa Ourbangui, lo sperduto paesino del Senegal con le milleduecentottanta anime del titolo del romanzo di Thompson: siamo situati nell'Africa occidentale francese, alla vigilia della seconda guerra mondiale, immersi in una natura dai colori metafisici e inquietanti che l'iperrealismo della fotografia sospende in uno spazio-tempo allusivo e metastorico, in un eterno ritorno dell'identico niente di buono, tra espressioni e implosioni di ogni forma vitale. Come annunciato da alcuni passanti per strada, è cominciata la fine del mondo, ma è cominciata già da sempre in una coincidenza tra l'alfa e l'omega, e si è già avviata anche la tragedia personale del protagonista. Cordier, capo della polizia francese di Bourkassa, è un vinto che sopravvive a se stesso e alla situazione.
Incassa, non reagisce, fa finta di non vedere e ripete ostinatamente: "Ho dei pensieri, delle preoccupazioni... Allora ho cominciato a riflettere, ho riflettuto e a forza di riflettere, finalmente, ho preso una decisione: ho deciso che non sapevo cosa fare..."…

… Inizio a guardare Colpo di spugna e non ci capisco un cazzo. Non riesco a capire se è un bel film, una schifezza, uno sferzante pamphlet girato in punta di cinepresa o una vaccata di rara nefandezza. Non è finita: non riesco neanche ad afferrare la posizione morale di Tavernier nei confronti del suo protagonista. Ci si mettono pure le strampalatissime musiche di Philippe Sarde e i destabilizzanti movimenti della steadycam da 30 kg. indossata da Pierre-William Glenn a confondermi le idee. Risultato: un film che più va avanti e più mi disorienta. Inizio a esultare scompostamente. E mi accorgo che la spirale di follia in cui è precipitato Lucien Cordier (Philippe Noiret, l’“attore biografico” di Tavernier) è la stessa in cui sono precipitato anch’io senza avvedermene (e nonostante abbia letto il romanzo di Jim Thompson da cui il film è tratto). Come diavolo è riuscito a spiazzarmi tanto questo film? Non soltanto per i suddetti motivi, suppongo, o per le stralunate interpretazioni di un cast d’eccezione che gioca fuori casa e fuori ruolo (Noiret ad esempio era spaventato da quanto fosse lontano da lui il personaggio che doveva interpretare); non soltanto per l’ambientazione decisamente straniante (l’Africa Occidentale Francese del 1938) o per il taglio ferocemente politico dell’intreccio (quanto razzismo e quanta intolleranza gronda dalle situazioni e dai dialoghi!), ma anche, e forse soprattutto, per un’idea di messa in scena di una semplicità micidiale. Man mano che la vicenda assume toni sempre più grotteschi e deliranti, le inquadrature (fino ad allora sistematicamente occupate da persone intente a fare qualcosa di concreto come mangiare, rassettare, giocare a biliardo, sbucciare un frutto e così via) si svuotano progressivamente di azioni e si riempiono proporzionalmente di persone che dialogano in spazi circoscritti e statici - una stretta veranda, sotto un albero, un piccolo salotto, un’angusta camera da letto – nei quali ci si interroga sul senso degli eventi, fino a raggiungere una disperata, volteggiante ammissione: “Non ha nessuna importanza perché, in ogni caso, sono già morto da tanto tempo”…

Si Coup de torchon semble aussi une satire de la colonisation française, avec ses beaufs racistes (Guy Marchand) ou cruels (Victor Garrivier), ses militaires à côté de la plaque (François Perrot), ses prêtres paternalistes (Jean Champion), et son peuple soumis (Samba Mané), avec une domination culturelle flagrante (la projection de Mademoiselle Docteur), Tavernier et Aurenche suivent en fait d’autres pistes. Ils préfèrent décrire une petite communauté vivant en vase clos et passant progressivement d’une normalité en porte-à-faux à la confrontation à des événements étranges. Il baigne ainsi dans Coup de torchon, un climat poisseux et une tonalité presque surréaliste ou fantastique. Cette tendance apparaît dans certains dialogues, à l’instar des « Tu commences à m’ombrager » ou « Tu m’interlocutes » lancés par Nono (Eddy Mitchell). Mais elle est surtout au cœur du récit, qui voit surgir un faux fantôme ou un aveugle fou (Raymond Hermantier). Dans cette ambiance glauque, folle et belliqueuse, l’amour semble impossible et Cordier, autoproclamé nouveau Christ, ne le trouvera ni auprès de sa mégère infidèle (Stéphane Audran), ni de la femme fatale (Isabelle Huppert dans son premier rôle extraverti), ni de l’institutrice (Irène Skobline), seule incarnation de la pureté dans cet univers. Philippe Noiret trouve peut-être le meilleur rôle de sa carrière avec ce personnage de policier faible qui finira par vouloir incarner le bien en causant le mal. Admirablement filmé (les plans sur Huppert suivis d’un travelling, ou la caméra poursuivant la comédienne après un crime), Coup de torchon fut un succès retentissant suivi de dix nominations aux César dont aucune ne fut, hélas, concrétisée.

… I've picked out at least three stories in COUP DE TORCHON. The first is psychological, the second could be political, the third would love to be metaphysical. In 1938, in Bourkassa, a village of French West Africa comprising "Population 1,275" (the name of the celebrated Jim Thompson novel from which the film is adapted), the cop is called Lucien Cordier. He's a naive, spineless man, easy to hold up to ridicule. {Philippe} Noiret is the hero of the first story: his big body takes blows and doesn't return them, effaces itself. But Cordier is held in contempt by people themselves so evidently contemptible (Marielle as a pimp, Marchand as a soldier and Eddy Mitchell as a notorious parasite) that the spectator feels that all this is exaggerated, that there is an eel under the rock. And if Cordier wasn't so weak or naive? And if he cooked something up for us? (One knows the importance of cooking in {Bertrand} Tavernier's films.)
Effectively, a second  takes the relay of the first: Lucien Cordier sets himself to kill, without warning but without anger. We are here in the "even at the base of abjection he finds the force to rebel against an inadmissible situation" story. In this occurrence, the situation in Africa on the day before war, Bourkassa like a cabaret set, the intense mediocrity of colonial life, with its African zombies and its lost and repulsive little white men. Noiret is also the hero of this story. This time, it's his big body that gives blows and his intelligence that plans them. Oh good, says the relieved spectator: a little revolt, a little simplistic anti-colonialism is good. And at the same time, he's not convinced, the spectator; he says that in 1981, an anti-colonialist film is a little facile and almost retro. Today, a director, especially of the left, should go further, interrogate more deeply. (Look at Schlondorff.) And if Cordier wasn't only courageous and rebellious? And if Tavernier cooked us up something else?
So the third story tumbles down, the most ambitious of the three. The cabaret becomes very bloody and Cordier very talkative. Not weak, not naive, he gives a true course in Evil and negative theology for novices. All this explains itself: if the cop never arrests anyone, it's because, lucidly, he knows that all his little world is condemned - and him with it. So he would be, not one who kills nor one who saves, but one who destroys indifferently those who are already lost and who ignore it (from the ignoble Mercaillou to the good Negro Vendredi.) And when he kills, it's a little of himself that dies. Noiret is more than ever the hero of the story, a little chubby exterminating angel, certainly, but implacable. Beginning as a thick farce on the side of an African Clochermerle, COUP DE TORCHON would love to end on the side of the aces of error and redemption. On the side of Christians. Ford or Graham Greene, for example. In 1938, Tavernier tells us that the white man's burden (again!) was very heavy to carry. Thank God.
I again ask myself why these three stories set end to end don't manage to make a good film, at least a film. Why COUP DE TORCHON remains less troubling than its subject, less risky than old-fashioned, less dynamic than agitated. Why the direction in steadycam transforms the space into a rugby field and the characters into a confused mass, making the spectator seasick without moving him? I respond to myself…

This movie was based on a novel, Pop. 1280, by Jim Thompson. I haven’t read the book, but reader reviews of it call it hilarious and the blackest of Thompson’s many cynical musings on small town living. Despite what my description implies, this movie is extremely funny. But the murders are not, even when they could be filmed in something of a burlesque. This did not hurt the film, in my opinion. It was the uneven performance of Noiret that had me confused and ultimately unsold on the character of Cordier. Rose’s almost nymphomaniacal attraction to him is incomprehensible, though he tells her at one point that she is well suited to being a prostitute (perhaps because her standards are so low?). Noiret also does too good a job of covering up how smart Cordier really is. The change is far too jarring. Although Cordier suggested to me the character of Tom Ripley, the psychopathic killer created by novelist Patricia Highsmith, he just didn’t seem as fully fleshed…

Coup de Torchon left me cold, unmoved and uninvolved. All I could find to admire was the craftsmanship.
That was after two viewings. I saw the film first at last November's Chicago Film Festival, and was not quite sure I had really engaged with the film. Was I missing something? I saw it again recently and had the same strange feeling that the events on the screen, even though they were so firmly grounded in a real location, were insubstantial. Despite the dust, despite the slow-moving muddy river, despite the dirty house dresses and the 5 o'clock shadow and the yawns and sudden fights and bawdy practical jokes, this movie never quite breathes. It's an exercise. You can admire an exercise, but it's hard to really care about one.

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