domenica 7 febbraio 2016

L'immagine mancante - Rithy Panh

nel 1984 Urla del silenzio (The Killing Fields) raccontava della Cambogia di Pol Pot, a partire
da un libro del giornalista Sydney Schanberg.
30 anni dopo Rithy Panh, sopravvissuto al genocidio cambogiano, prigioniero nei campi di lavoro, fra gli 11 e i 15 anni, sviluppa il film a partire dalla sua esperienza e dai suoi ricordi. 
ma non è un documentario di memorie, e basta, gli attori principali sono delle statuette d'argilla, che commuovono come attori in carne e ossa, e poi ci sono filmati d'archivio.

i dialoghi sono secchi, brevi, quasi slogan, dicono Rithy Panh e Christophe Bataille, nell'intervista (interessante) nel dvd.
nominato all'Oscar per il miglior film straniero nel 2014, nei cinema è apparso poco o niente, eppure è un film che merita molto, e anche di più.
cercatelo, non ve ne pentirete - Ismaele 







E allora Panh cerca gli indici del massacro tra le lacune del materiale d’archivio, ne satura i difetti mentre ricostruisce la sua storia, elaborando un resoconto individuale che imprima, oggi, un punto di vista personale sul scientifico massacro delle identità attuato ieri dal regime di Pol Pot. Le sue memorie affrontano l’assenza di una rappresentazione scolpendo statuine di parenti e conoscenti uccisi, ricostruendo i paesaggi in cartapesta, sottoponendoli a una voce fuori campo che rivendica la presenza di una prima persona, di un testimone che s’appropri di quel che gli è stato negato, di quel che è stato cancellato, e che interroghi costantemente l’eticità delle immagini: L’image manquante è - soprattutto - quella del soggetto, che qui si rivendica nella lirica trattenuta delle parole, nell’argilla dei suoi ricordi (fatti di pupazzi insieme pudici, perché lontani dalle ambiguità morali della docufiction, e caricaturali, perché simboli dell’annichilimento di regime) e nel pensiero teorico di un regista che riflette sull’ecologia della rappresentabilità, in una dialettica che ritorna al Godard di Ici et ailleurs, e chi si fa tersa didattica dell'immagine. «Un cinema politico - dice - deve scoprire quel che ha inventato». 

Chi parla, il regista, è uno che all'epoca era un ragazzino, 13 anni.
Phnom Pehn era una città grande e viva. C'era il mercato del pesce e della carne, c'era gente che danzava e cantava, c'era il cinema. Arrivarono i Khmer Rossi e portarono via tutti. La città divenne fantasma, tutti i suoi abitanti, o almeno quelli che non furono uccisi (e bastava poco per esserlo, anche un paio d'occhiali vista la volontà di distruggere tutto quello che poteva rappresentare l'istruzione) furono portati in campagna, in campi da lavoro che richiamano tanto altri ben più famosi.
Furono spogliati di tutto, indossarono una veste nera e da quel giorno iniziarono a lavorare la durissima e arida terra per creare la nuova Cambogia Comunista.
La terra già. La terra.
Se quegli schiavi erano uomini costretti a lavorare una terra impossibile da lavorare così, con la terra, il regista Rithy Pahn ha voluto ricostruire e raccontare quegli anni.
Costruendo delle straordinarie miniature di creta.
Erano uomini di polvere, terra e fango, così li racconterò, con polvere, terra e fango…

Rithy Panh, il regista, da molto tempo residente in Francia, è stato uno di quei cambogiani deportati, lui con la sua famiglia, e solo lui sopravvissuto. Come parlarne, come raccontare? Come dire ciò che non si può dire? Un dubbio che è stato anche dei sopravvissuti di Auschwitz. La sua risposta è questo film, che rievoca e ripercorre la sua tragedia individuale e familiare e, insieme, quella del suo popolo. “Per molti anni ho cercato l’immagine perduta, una fotografia presa tra il 1971 e il 1975 dai Khmer rossi mentre dominavano e schiacciavano la Cambogia. Di per sé un’immagine non può provare un massacro di massa, ma ci dà modo di pensare, ci spinge a meditare, a registrare la storia. L’ho cercata invano negli archivi, nei vecchi giornali, nei villaggi cambogiani. Adesso lo so: quell’immagine dev’essere andata perduta. Così l’ho creata”, scrive Rithy Panh, in quello che è il manifesto, la dichiarazione d’intenti, del suo L’image manquante. Mancante forse perché – sembra suggerire Panh – l’orrore non è rappresentabile con il realismo. Tant’è che il suo film ricorre a una ricostruzione dei fatti e delle testimonianze non adottando la modalità del documentario, ma attraverso una strategia narrativa laterale, ricorrendo a figure di creta, statuine create da lui e dal suo staff, inserite di volta in volta in scenari urbani o di villaggi o di angoli di giungla o di campi di lavoro e prigionia. Tutte le location della grande follia khmer rossa all’opera riproposte in forma di scenografia da spettacolo di famiglia. Diorama che sembrano aggraziati presepi a uno sguardo lontano, ma che poi, visti ravvicinati, ci mostrano ciò che succedeva, ciò che è successo. Una scelta coraggiosamente antinaturalistica che è la chiave vincente di questo film, il segno forte che lo rende unico e riconoscibile, e che lo stacca dai molti documenti sullo stessa tema o altri analoghi. L’orrore e la Storia rievocati come in un’opera dei pupi, in un processo di teatralizzazione-messinscena che, anziché edulcorare i fatti, li rende finalmente visibili collocandoli alla giusta distanza, facendone narrazione…

…Rithy Panhn spinge molto sul doppio binario del suo film, il diario personale della tragedia della sua famiglia, il padre che rifiuta di mangiare, il fratello rockettaro che trova la morte in città, la sorella che muore di stenti e di fame nei campi di riso, e il diario della ricostruzione delle immagini mancanti, nella memoria e nelle cineteche.
Pellicole che ci arrivano come dal nulla, un operatore di Pol Pot che ci lascia in eredità terribili scene di carestie e per questo viene punito con la morte. Non si tratta solo di raccontare il male provocato dall'ideologia e, prima, dal capitalismo, quanto di viaggiare nella memoria per fissare la visione del quotidiano mancante, degli anni della infanzia che ci ritornano in mente con i loro colori…
da qui

In primo piano, su tutto, c'è la voce fuori campo del regista. Una voce che diventa quasi un urlo disperato tanto è presente e lucida. Rithy Panh riflette sulla tragedia personale e collettiva, sul potere dell'immagine di regime, sulla necessità di raccontare una verità storica.
Il regista è alla ricerca dell'immagine mancante del titolo, la ricostruisce, la filma, la riproduce. L'immagine mancante è quello che non è mai stato filmato, è un passato che rischia di essere dimenticato. Ma è anche il ricordo lontano di una famiglia devastata nei campi di lavoro, di un padre che si è lasciato morire di fame pur di non scendere a compromessi con i rivoluzionari di Pol Pot, di un ragazzino sopravvissuto a tutto…


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