venerdì 26 febbraio 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot - Gabriele Mainetti

per completezza Lo chiamavano Jeeg Robot andrebbe visto insieme a
Non essere cattivo e Suburra, per due motivi, appare sempre Luca Marinelli e c'è Roma, protagonista dei film.
e allo stesso tempo sono tre film che vivono benissimo da soli.
Lo chiamavano Jeeg Robot parte lento, e poi cresce e sale a livelli molto alti.
non ti annoi un attimo, i personaggsono perfetti, la sceneggiatura funziona, tutto torna.
Enzo Ceccotti diventa Jeeg Robot grazie ad Alessia, una ragazza fuori di testa, i due si vogliono bene, si completano, si sostengono, si proteggono.
Alessia fa un lavoro a maglia durante il film, e alla fine si capisce cos'è, bisogna aspettare l'ultimo secondo per saperlo.
Claudio Santamaria e Luca Marinelli, i due supereroi, si combattono fino alla morte, alla fine Hiroshi diventa il protettore di Roma e dei romani.
è un film che merita molto, non avrai delusioni, lo so - Ismaele







Lo chiamavano Jeeg Robot è un tipo di cinema che in Italia non avevamo e che ora, forse, potremmo anche avere. Fancuore ai complessi d’inferiorità, al noi non possiamo mica fare quelle robe lì, al questo è un paese per vecchi (e commedie tutte uguali). Ecco qua, possiamo. Vai Hiroshi, menagli. Menagli a tutti.

La storia di Enzo Ceccotti è una storia appassionante, adrenalinica, intensa. Non ha nulla da invidiare alle storie delle origini nei blockbuster più commerciali perché la sua formula essenziale – ma comunque efficace – funziona alla perfezione. Eppure c’è un aspetto su cui la macchina di Hollywood ha un po’ schiacciato il freno a mano negli ultimi anni, e su cui la pellicola tutta italiana di Gabriele Mainetti insiste invece con deciso vigore: il ruolo del villain.
Tra i tanti meriti di Lo Chiamavano Jeeg Robot c’è anche questo, il non aver tratteggiato con minuzia solamente l’improbabile eroe di Tor Bella Monaca protagonista di tutte le vicende, ma anche il suo “avversario” Fabio Cannizzaro, interpretato da un magistrale Luca Marinelli, capace di dare spessore, carisma e – soprattutto – credibilità a un personaggio che in altri contesti sarebbe facilmente scaduto nella macchietta.
Perché un buon film è definito dalla somma di tutte le sue componenti: serve a poco investire sui modelli “in positivo” se poi non esiste una controparte alla pari che possa alzare la posta in gioco; la dinamica d’altronde funziona così. E forse risiede proprio in questo il segreto del successo (per ora critico) del film, nella decisione di calare la storia in un contesto urbano che aiuta a sospendere l’incredulità già in partenza, con protagonisti ritratti a tutto tondo che catturano l’occhio – e il cuore – dello spettatore…


Operazione coraggiosa dell'esordiente Gabriele Mainetti che parte da un soggetto geniale dove protagonista è un rapinatorucolo romano che scappando dalla polizia cade in un bidone radioattivo e acquista una forza sovrumana. Da qui il conflitto, creato ovviamente da una donna, se usare i propri poteri a scopo malavitoso o per aiutare il prossimo.

Mainetti conosce il genere, sfrutta l'immagine di uno dei robottoni più amati dalla generazione 80 e azzecca un bel titolo per nostalgici. La sfida ardita è quella di aver inserito dei supereroi in una Roma noir alla Caligari e direi che è stata superata ampiamente perché i due generi sono legati grazie ad effetti speciali misurati e un realismo che non manca mai. 
La sceneggiatura però non è sempre ad alti livelli e forse c'è qualche momento di troppo e la regia non va mai oltre il minimo sindacale. Come avviene sempre in un film di supereroi il cattivo toglie la scena al buono, anche perché è interpretato da uno strepitoso Luca Marinelli. Un film che comunque merita assolutamente di esser visto e sostenuto.

Mainetti dimostra gusto cinematografico e consapevolezza, autoironia e vigore, e si produce anche in ottimi pezzi di regia (la lunga sequenza finale è, in questo senso, pregevolissima). Soprattutto, il regista evita di perdere di vista, nella giustapposizione e sovrapposizione dei suoi immaginari di riferimento, il senso ultimo della storia: una fiaba metropolitana che vuole descrivere un moderno e originale senso di “eroismo”. Il riconoscimento del coraggio, e della passione che il regista ha profuso in questo suo esordio, è inevitabile. Così come il puntuale, ma questa volta pienamente convinto, applauso che accompagna i titoli di coda.

...Si potrebbe pensare che l’elemento più ispirato alla tradizione Marvel stia nell’ironia che tanto spesso sembra emergere dalla sceneggiatura, ma in realtà, se i film statunitensi preferiscono alleggerire la tensione con battute frivole la cui diretta conseguenza sta nella passionalità dei personaggi sminuita e spesso annullata, questo film si costruisce in maniera acuta e intelligente su un complesso sistema di paradossi. Mescolando il più vivo realismo alle dinamiche fantasiose del fumetto, Mainetti approda a un esercizio che, più che affievolire il pensiero critico dello spettatore, gli dà in pasto riflessioni e spunti che partono proprio dai contrasti evidenti tra realtà esperibile e immaginazione a a un esercizio che, più che affievolire il pensiero critico dello spettatore, gli dà in pasto riflessioni e spunti che partono proprio dai contrasti evidenti tra realtà esperibile e immaginazione...

Mainetti e i suoi compari l’hanno fatta grossa, davvero grossa,  Lo chiamavano Jeeg Robot è grande cinema, e nuovo, italiano come quando italiani erano i film avulsi da compromessi, film che esibivano, raccontavano, incantavano. Mainetti è riuscito, sta riuscendo, riuscirà (ne siamo certi) a far accettare come cinema popolare quella che fino all’altroieri era la visione blindata e respinta (dal sistema cinema, dal pensiero unico, dalla miopia nazionale) di Claudio Caligari, vede e riprende le periferie romane alla stessa maniera, le piazza su grande schermo per quello che sono davvero, cioè non-luoghi distopici, teatri perfetti per una storia come questa. Lo chiamavano e continueranno a chiamarlo Jeeg Robot. E poi Jeeg Robot Colpisce Ancora, e poi Jeeg Robot e Il Ragazzo Invisibile contro i Vampiri Dallo Spazio. Sogniamo seguiti e franchise a valanga, esaltati e commossi. Mainetti una via da percorrere, lui si che può,  e noi lo seguiremo. Sia lodato il Dio del cinema, sempre sia lodato.

Se nel leggere la trama si può pensare che il film sia prevalentemente una commedia, la sua visione ci mette dinnanzi ad un'opera dove più generi si sovrappongono, e dove la componente fantascientifica è oscurata da quella noir. Che molto prende ispirazione dalla rappresentazione di quella mala romana che tanto ha caratterizzato le opere nate sull'onda del successo di “Romanzo criminale – La serie” diretta da Stefano Sollima, e che in una certa maniera ne è diventato punto di riferimento per la rinascita del genere in Italia. Ed è proprio in questo che il film si discosta dal filone supereroistico americano, perché tutto viene riproposto con un punto di vista nostrano, lasciando ai minimi termini i punti di contatto con il genere di derivazione, non prendendosi perciò mai del tutto sul serio. Da questo punto di vista molteplici sono le scene dove la tensione viene spezzata da quelle battute che come dicevamo sono riconducibili alla dissimulazione figlia della commedia, e dove tutto di conseguenza viene dissacrato…

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