lunedì 1 febbraio 2016

La memoria e il lato oscuro della forza - ROTOTOM

C’è un passaggio molto interessante nel film Labyrinth of lies di Guido Ricciarelli, compreso nella short list per l’Oscar come miglior film straniero 2016 e poi scartato nelle nomination. E’ il momento nel quale il giornalista che convince il giovane procuratore Johann Radmann – collaboratore di Fritz Bauer - ad occuparsi dei crimini nazisti e a perseguirne gli esecutori - Adolf Eichmann e Joseph Mengele soprattutto – si scontra con la memoria. O meglio, la sua assenza.
Nella Germania degli anni ‘60 chiunque sia di giovane età è all’oscuro dei campi di concentramento, della macchina di sterminio messa in atto dal demone nazista, delle persecuzioni di Auschwitz e dei forni. Per avere in prestito un libro in una biblioteca che parli dell’argomento si attendono settimane.
Più che un labirinto di menzogne, un cupo velo di vergogna, interesse e colpevolezza – molti nazisti sono mimetizzati nella società post bellica - copre quella che per molti testimoni sopravvissuti è una verità oscena che si è impigliata nel loro sguardo, offuscandone la vita.
Benché non sia un film eccezionale dal punto di vista estetico e narrativo, tanto da venire fagocitato dalla potenza del tema, Labyrinth of lies mette il dito nella piaga in quello che sarà il destino, all’alba dei tre quarti di secolo dalla fine della guerra, del tema dell’Olocausto.  Diciamo tra poco più di un lustro. In questo breve lasso di tempo per forza di cose anche l’ultimo testimone verrà a mancare e quando l’ultimo paio d’occhi offuscato da quella verità oscena si spegnerà, quella verità colerà nel mito. Sempre più lontana, sempre più lenita da teorie revisioniste, rimossa. Senza sguardo, senza la verità di chi ha vissuto e visto in prima persona l’inferno in terra, i fatti saranno solo parole, ricordi tramandati che cambiano di colore e intensità. Le aberrazioni solo iperboli di una retro fantascienza il cui immaginario estetico e simbolico è divenuto stereotipo della rappresentazione del male assoluto slegato dalla realtà dei fatti.
Il lato oscuro della forza, direbbe Darth Vader, ritratto nell’estetica spietata del suo nero sudario, estensione fantapolitica dell’allegoria del potere totalitaristico.


La memoria però è fatta di immagini. E non è un caso se il cinema incessantemente riprende il tema per imbastirci sopra storie, testimonianze, documenti. E’ l’importanza di quelle immagini che rende la memoria viva, attenta. Il documento filmico, benché frutto di finzione, è l’unico media che può far nascere nei cuori delle persone le domande giuste affinché le risposte non sconfinino mai più in una qualsiasi soluzione finale. Certo ci sono anche i filmati e le foto dell’epoca. Ma non bastano da sole proprio perché nell’era sempre più liquida della commistione tra vero e falso, esse non valgono – o non varranno - più come testimonianza. Senza testimoni le verità diventano fantasie, immagini bislacche di un crimine più o meno vero, accaduto in un tempo indefinibile. Modificato, redacted  (direbbe De Palma) con intento censorio.
E’ grazie alla straordinaria potenza evocativa del mezzo cinematografico invece, che questo buco nero della nostra storia recente potrà continuare a far  sentire il proprio respiro. Ogni film contribuisce a dare un’interpretazione, a scoprire uno scorcio di verità, narrare una storia intima che inevitabilmente diventa universale. Ogni opera è un prisma che moltiplica la luce della memoria e grazie all’affabulazione propria del cinema, la rende emotivamente condivisibile e vera, evitando che scivoli nei territori slabbrati del sogno.
Mi secca quando sento dire che Son of Saul (Laszlo Nemes) fortunatamente non è Schindler’s list (Steven Spielberg). Come se il primo escludesse l’altro. Sono due capolavori diversi, due sguardi opposti (dal punto di vista stilistico) e coincidenti (il tema) che trasporteranno nel futuro la memoria e quindi l’immagine  del vissuto. Non essendo più possibile portare testimonianze reali, l’unica verità possibile per non cadere nell’oblio, sarà la rappresentazione di quelle testimonianze a fornire la verità.


Perché mai un ragazzo di 38 anni al suo esordio cinematografico dovrebbe occuparsi di un tema tanto lontano da sé? Nemes nel suo Son of Saul, impone lo sguardo all’interno della pancia dell’inferno. Non ricordo un film così immersivo dal punto di vista visivo e sonoro, dai tempi del Faust di Aleksandr Sokurov. Del campo di Auschwitz immaginato da Nemes si sente l’odore dei corpi, il peso grave dei “pezzi” trascinati nelle “docce”; l’eco delle grida dei condannati che tra lo stupore e l’orrore prendono consapevolezza di una fine assurda, rimbalza tra i muri e si amplifica mischiandosi al ritmico stantuffare dei macchinari di morte in azione. Il suono è quello di una fabbrica che lavora a pieno regime, produttiva, instancabile.
Fuori fuoco, dietro il viso duro di Saul, scorre l’inferno. Trovare un appiglio morale, una sepoltura a quello che – non – è suo figlio ma forse potrebbe esserlo e sicuramente sarà stato figlio di qualcuno di quei “pezzi” che egli per un puro meccanismo di sopravvivenza è obbligato a rimuovere non solo dalla camera della morte ma dalla memoria del mondo,  è la necessità che scavalca quella morte che lo sfiora, sfocata, rimossa come atto di difesa. Era da tempo che non vedevo un uso così espressivo del linguaggio cinematografico.
E allora la risposta viene da sé, alla domanda di prima: perché è giusto farlo.
E nell’era dell’immagine liquida, modificabile, confusa tra la percezione del vero e del falso, Nemes fa un passo avanti: nega l’immagine come feticcio visivo per scaricare tutta la potenza dell’immaginario filmico nella testa dello spettatore, delegando ad ogni intima sensibilità la responsabilità dello sguardo e quindi il suo ricordo.

Ho cercato di spiegare a Caterina, mia figlia di 7 anni, chi erano i nazisti e cosa facevano. Non ci sono riuscito del tutto. Di fronte alle immagini dei bambini pigiati dietro il filo spinato accusati della colpa di esistere, ogni viso, ogni sguardo smarrito mi riportava a lei che non riesce a comprendere il motivo per cui quei bambini siano imprigionati. I bambini sono forniti di default di un senso di solidarietà dettato dalla consapevolezza di essere bambini che poi la vita provvede a rimuovere senza rimorso. Per Caterina i bambini non hanno colore o razza alcuna.  Se piangono stanno soffrendo perché se lei piange vuol dire che soffre; ed è così per il riso, per la tristezza, per la paura. Lei è “i bambini”. Ed è duro spiegare ad una bimba piccola perché degli adulti ammazzavano quelli come lei. La verità è talmente assurda da legittimare in chi la ascolta un qualsiasi senso di incredulità.  E’ proprio questo il pericolo che il tempo rende tangibile. L’incredulità di una storia nera come quella del babau che vive sotto il letto e che alle soglie dell’adolescenza si dissolve nella realtà.
Quello sguardo incredulo che l’immemore, giovane procuratore Johann Radmann non riesce a nascondere durante gli interrogatori ai superstiti del campo di sterminio di Auschwitz, in The labyrinth of lies.


Nell’annata cinematografica 2015 altri film hanno affrontato lo stesso tema, da angolazioni diverse. Riprendendo la caccia al criminale nazista Adolf Eichmann, People Vs Fritz Bauer, di Lars Kraume è la riproposizione della stessa storia di Labyrinth of lies, vista dal punto di vista diretto del procuratore generale  Fritz Bauer, ossessionato dalla figura dell’organizzatore dello sterminio nazista e intralciato da simpatizzanti delle care vecchie croci uncinate installatisi nei piani alti del potere  e mimetizzati nella democrazia. Mentre The Eichmann show di Paul Andrew Williams riprende la storia della diffusione televisiva del processo in Israele del criminale nazista con tutti i dubbi che questa scelta ha comportato. Ma la diffusione televisiva della figura del carnefice ha impresso nella memoria, e da qui l’efficacia delle immagini riassunta dalla definizione di Hannah Arendt, la manifestazione dell’assoluta banalità del male. Un uomo normale, Eichmann, un impiegato della morte. Non un mostro tentacolare proveniente da un altrove lovecraftiano.
 E il sospetto che queste persone in apparenza così normali in realtà bestie in stand by in attesa del momento propizio, siano tutt’ora vicino a noi, è più agghiacciante della manifestazione stessa della follia che portano dentro.
Il cinema si allontana sempre più dal centro dell’inferno per inseguire i demoni errabondi e fornire oltre alla visione dell’Olocausto e le storie delle vittime, anche le facce e le vite degli aguzzini legati indissolubilmente al destino di un popolo e al suo quasi sterminio.

Remember di Atom Egoyan è un altro esempio di caccia al nazista in salsa geriatrica. Se lo stesso tema era affrontato in This must be the place da Paolo Sorrentino con Cheyenne il suo bizzarro musicista alla ricerca del nazista che gli uccise il padre (per poi fotografarlo, nel momento in cui lo trova. Ancora la memoria che vince sull’oblio), qui abbiamo un anziano Zev (Christopher Plummer) che si adopera per rintracciare il comandante nazista responsabile dello sterminio della sua famiglia prima di perdere la memoria per via del morbo di Alzheimer.  Siamo agli sgoccioli, dice il cinema. Manca poco alla discesa nel mito di una memoria ormai labile perché vittima e carnefice sono legati dal medesimo destino e dal medesimo tempo.
Soprattutto il fine della caccia non è la soluzione finale opposta, la ricerca del responsabile di un crimine così totale e aberrante, è sempre impostato come un viaggio all’interno della propria umanità. Poiché per quanto animati da sentimenti di vendetta, i protagonisti di questi film cercano se stessi, dispersi nell’annientamento dei valori a loro più cari.
In questo  nostro cupo tempo segnato da rigurgiti di intolleranza, fanatismo religioso, disprezzo per i più elementari diritti sociali è sempre più difficile essere lucidi. E’ sempre più difficile spiegare ad una bambina che si approccia al mondo la complessità delle mostruose contraddizioni con le quali dobbiamo convivere.

La mia speranza è che il cinema, in ogni forma possibile, possa continuare a generare sguardi, prospettive, memoria e inoculare cultura come un vaccino polivalente in grado di mantenere le persone ad un livello minimo di coscienza tale da non permettere che possano identificare nell’altro il germe patogeno dei propri mali.
Si deve andare al cinema però.
Caterina lo fa, con me al suo fianco.

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