ispirato a un racconto di Edgar Allan Poe, è una storia tutta giocata in un manicomio, ritmo lento, grandi attori, sorprese continue. Ben Kingsley è uno che sta bene nei manicomi, anche qui fa la sua figura, e se continua così bene lo rinchiuderanno in uno di quei posti, se lo merita. e Brad Anderson è sempre bravo, fa pochi film, ma buoni. chissà se arriverà in sala, e comunque non perdetevelo - Ismaele
...Con un
cast pazzesco, che vedeBen Kingsleynel ruolo di Silas Lamb, Michael Cainenei
panni del dottor Salt e la nostra vecchia conoscenza Kate Beckinsalea dare
il meglio di sé recitando il sofferto personaggio di Eliza Graves, Stonehearst Asylumnel
corso delle sue quasi due ore di durata ha il gran pregio di tenere vivo
l’interesse dello spettatore dilazionando le rivelazioni e non offrendo mai
punti di riferimento: può succedere sempre di tutto e non si è in grado di
prevedere le evoluzioni della storia. Non pago, però, lo script di Joe Gangemisi e ci regala anche un finale
sorprendente, di quelli che fanno assistere ai titoli di coda con un sorriso di
soddisfazione. Missione compiuta, quindi, per Brad Anderson,
che dirige con classe e, dopo circa tredici anni, torna a regalare un nuovo,
bellissimo film sullo sfondo di un manicomio...
…il nosocomio d'ambientazione non fatica ad assumere
i metaforici connotati di un mondo le cui menti realmente folli sono quelle che
occupano i posti di comando, di potere. Quindi, evitando, come di consueto, spargimenti di
liquido rosso e sensazionalismi da violenza grafica, il buon Brad confeziona
con adeguato ritmo narrativo una coinvolgente vicenda ad alta tensione
piuttosto impegnata dal punto di vista socio-politico... in maniera non molto
distante dalla filosofia del fare celluloide di autori artisticamente sbocciati
negli anni Settanta quali George A. Romero, John Carpenter e Wes Craven.
…Il tallone d’Achille diStonehearst Asylum, ben confezionato e recitato, è proprio nell’approccio troppo diligente del regista statunitense, legato mani e piedi ai rigidi meccanismi della narrazione e poco alle potenzialità visive. Si ha l’impressione, a lungo andare, di trovarsi di fronte a quelle trasposizione inglesi per il piccolo schermo dei romanzi di Agatha Christie, come il Poirot interpretato dal londinese David Suchet, che ogni sabato allieta i pomeriggi di Rete 4. Tutto chiaro, spiegato e rispiegato, innocuo. Ma il grande schermo dovrebbe essere un luogoaltro, dove osare, confondere, inquietare. O per lo meno sparigliare le carte…
a Denis Villeneuve non devono piacere i film che finiscono bene. Sicario è un film solido, compatto, che non annoia mai. una storia al confine degli Usa e del Messico e al confine della legalità, confine mobile, a seconda delle circostanze. ricorda l'ultimo film di Kathryn Bigelow, sia per la protagonista donna, sia per la caccia all'uomo (mutatis mutandis). naturalmente le scene ambientate a Juarez non sono state girate lì, c'è un limite a tutto. l'agente Kate viene usata per un'operazione più grande di quanto immagina, nella quale il fine giustifica i mezzi, alleati e nemici, buoni e cattivi non si capisce bene chi siano. lo sguardo impotente di Kate, che vede cose che non avrebbe mai dovuto vedere, è il nostro sguardo sul mondo, e non sei più sicuro se esistono i buoni e i cattivi. attori bravissimi e regista super, senza alcun dubbio. non è il miglior film di Denis Villeneuve, ma solo perché ha fatto dei film immensi. questo è "solo" un gran film, non perdetevelo - Ismaele
Un'imboscata dell'FBI rivela molto più di quanto era
previsto: lo spettacolo orripilante di decine di cadaveri nascosti nei muri e
con la testa sigillata in sacchetti di plastica. Per allargare la squadra che
va a caccia dei mandanti di quel massacro la CIA arruola Kate, la giovane
agente dell'FBI che ha partecipato all'imboscata rivelatrice, anche se lei è
un'esperta di rapimenti mentre la squadra combatte da tempo contro il cartello
messicano della droga. È l'inizio di una discesa agli inferi che coinvolgerà
tutti i servizi segreti statunitensi (e la coscienza di un Paese) disposti a
trasgredire ogni regola e a sacrificare ogni parvenza di umanità pur di
mantenere il controllo (ma senza alcuna volontà di debellare il Male)…
Sicario, oltre a raccontare una storia di criminalità e operazioni
sotto copertura, ha secondo i suoi realizzatori e interpreti un significato più
profondo. Il regista Denis Villeneuve pensa che il film
sia incentrato sull'America e sullo scontro tra idealismo e realismo che
avviene nel momento in cui deve affrontare i problemi di altre nazioni. «Sicarioè in parte dedicato a un vecchio
fantasma: l'idea che il Nord America risolverà i problemi più violenti del
mondo in un modo efficiente e invisibile. Una volta era un pensiero in grado di
dare conforto, ma il mondo sembra essere diventato sempre più complicato». Benicio Del Toro è invece convinto che sul
grande schermo si assista a una riflessione sulle conseguenze delle proprie
scelte. Più filosofica ancora la prospettiva di Josh
Brolin: «Il film è un mistero umano che devi afferrare e risolvere da solo. Un
puzzle ricco di tensione ed emozionante»…
…Sicario è uno di quei film in cui il genere si
sposa perfettamente con il cinema d’autore, in cui attraverso una forma
narrativa vicina all’intrattenimento puro si riesce a fare anche arte, per
usare parole scomode. È impossibile non pensare al cinema migliore di Michael
Mann guardando il nuovo lavoro di Villeneuve, sicuramente assimilato nella sua
capacità di costruire eroi solitari in mondi spietati. Qui non c’è un uomo al
centro, c’è una donna, forte, che a un certo punto capisce che la stanno
sfruttando e lo accetta perché sa che sta succedendo qualcosa con cui lei non è
in grado di confrontarsi, non con il codice che fino a quel momento ha seguito.
Matt e Alejandro portano Kate nelle zone del grigio più scuro della legalità e
delle azioni governative, del caos funzionale alla costruzione dell’equilibrio.
Il confine non è solo geografico, ha un valore più esteso, tra quello che è
giusto e quello che non lo è, tra quello che è necessario e i modi per
raggiungerlo…
Se cierran las fronteras en la Europa del Este, la
única vía de escape a la terrible situación bélica que se vive actualmente en
Siria es tapiada a consecuencia, en gran medida, de la presión popular.
Mientras cuatro millones de personas suplican por un lugar en el que cobijarse
de las constantes detonaciones que arrasan día tras día su país, y del reguero
de muertes que éstas originan, nosotros, europeos del primer mundo acomodado —y
perdón por la generalización—, apelamos a un dictamen justo basado en unas
prioridades que consideramos ineludibles. No es que seamos reacios a ofrecer
ayuda al necesitado, el problema es simplemente que, “ahora”, no es un buen
momento. Y es precisamente ese “ahora” el que nos ha excusado cada vez que
nuestro apoyo ha sido requerido, un presente inmediato que nunca sonó tan
ambiguo e indefinido: desesperanzador. ¿Qué podemos hacer? Nos gusta el orden y
cada cosa en su sitio; los santos en el cielo y los pecadores en el infierno.
Somos capaces de asumir que la coherencia en el infierno es el caos mismo,
siempre que éste no salga de sus fronteras y nos salpique. En el infierno, el
orden se conserva gracias a que las víctimas asumen su condición de mártires, a
quienes lloraremos desconsoladamente y cuyas imágenes llenarán los muros
digitales de todas nuestras redes sociales. Sin embargo, cuando esas víctimas,
esperanzadas por nuestro apoyo remoto, deciden pedir ayuda real, en ese momento
se subvierte el orden establecido y el caos invade nuestra zona de confort. Las
consecuencias de perder la contención de la violencia entre estratos
geográficos, dejando que la crueldad se expanda fuera de sus fronteras
asumibles, son devastadoras.
Sicario muestra uno de esos infiernos terrenales, donde hace
tiempo que el primer mundo tiró la toalla y lo abandonó a su suerte en medio de
un caos violento reinado por los magnates del crimen. El filme se recrea con
una impresionante potencia audiovisual —ojo a la fotografía de Roger Deakins—
en las consecuencias que se producen cuando esas fronteras invisibles que lo
separan del mundo civilizado desaparecen, y ese orden, aniquilado, origina que
se crucen ambos mundos en un choque de secuelas fatales…
Dopo gli ottimi Prisoner e Enemy, Villeneuve fa una marchetta. Essendo
un genio non può farla così male ma lealteaspettative non raggiungono quanto sperato…
…Rarefatto ma esplicito nel rappresentare la violenza, sempre
pronta ad esplodere in carneficina nelle zone di confine tra USA e Messico,Sicario più
che un film d’azione è un accurato affondo nelle menti tormentate dei suoi
personaggi. Sebbene risultino infatti impeccabili dal punto di vista registico,
le sequenze action vengono infatti diluite in una serie di momenti di stasi
dove, dai ritratti insistiti dei volti e dei corpi dei protagonisti, emerge la
loro profonda inquietudine, lo spaesamento, la paura della morte. Impossibile
non registrare dunque nel film di Villeneuve una complessiva schizofrenia del
ritmo, che lo rende ben distante dallo sviluppo usuale del thriller odierno e
più apparentabile, proprio per le sue smagliature narrative, al cinema americano
della New Hollywood, con i suoi outsiders un po’ nichilisti e silenti e la sua
alta dose di paranoia antigovernativa, allora figlia della contestazione, oggi
di una realtà sempre più multiforme e difficile da interpretare. Al centro diSicariovi è infatti la necessità per la
protagonista di prendere una posizione in una situazione le cui dinamiche sono
indecifrabili, mentre l’inganno e il relativo twist narrativo sono sempre
dietro l’angolo, ma tardano a manifestarsi.
Sono forse numericamente troppe le sequenze di dialogo che
ribadiscono quanto la nostra agente dell’FBI si trovi a disagio in una squadra
della quale non comprende né la procedura né i reali obiettivi, ma
evidentemente a Villeneuve questa storia interessava più come sfida ed
esercizio di stile che altro. In tal senso, l’autore rischia in più di
un’occasione di incarnare i panni del turista in una realtà, quale è quella del
narcotraffico, distante dalle sue latitudini geografiche come anche dalla sua,
sempre più eclettica, poetica. A consolare e a tratti a far completamente
dimenticare le lacune del film ci pensa però la strabiliante fotografia di
Roger Deakins, intento a profondere della sua luce una pellicola che del gusto
ricercato per l’immagine fa il suo reale punto di forza e il suo primario interesse.
la storia di un ladro diventa l'oggetto di un film di Robert Bresson, e, pur essendo stato censurato in Finlandia per insegnare troppo realisticamente le tecniche del borseggiatore, è un film da non perdere. una donna lo ama, nonostante tutto, un amico cerca di farlo desistere dai suoi deliri di onnipotenza, quella piccola di un borsaiolo, e un commissario di polizia cerca di riportarlo sulla retta via, ma Michael ama troppo il rischio, l'adrenalina del ladro, quasi un cleptomane. e come tutti i film di Bresson, le parole servono a poco, Pickpocket bisogna vederlo e basta - Ismaele
Pickpocket di Bresson è un piccolo grande
capolavoro, piccolo perché la narrazione non supera i 68 minuti, una narrazione
semplice dal taglio documentaristico quasi neorealista, con l'unica peculiarità
di essere raccontata tramite un diario. Perchè questo film può essere considerato un
capolavoro, innanzitutto per l'assoluta perfezione della caratterizzazione del
personaggio protagonista, le dinamiche, i meccanismi psicologici sugli eventi
di un ragazzo che vuol fare il ladro sebbene non sia la sua strada è raccontata
con una precisione e fedeltà introspettiva che non mi stupirebbe lo
sceneggiatore, o l'aiuto sceneggiatore, fosse dedito al taccheggio prima di
darsi al cinema. Inoltre il regista getta uno sguardo sociale ed
esistenziale, "sarò il migliore?", "ha senso vivere?",
"ha senso lavorare, a che serve?", "non è inutile la vita, non è
meglio morire?", "è forse l'amore l'unica possibilità di
redenzione?"..in questo caso, come parabola drammaturgica ideale, sarà
proprio l'amore la svolta definitiva e necessaria. Per qualcuno, può essere impossibile non
rimanere secchi d'innanzi a questa pellicola.
…“Pickpocket” is
about a man who deliberately and self-consciously tries to operate outside
morality (“Will we be judged? By what law?”). Like many criminals, he does it
for two conflicting reasons: because he thinks he is better than others, and
because--fearing he is worse--he seeks punishment. He avoids Jeanne because she
is wholly good, and therefore a threat to him. “These bars, these walls, I
don't even see them,” he tells her. But he does, and is healed by the touch of
her hand. (The famous last line: “Oh, Jeanne, what a strange way I had to take
to meet you!”)
There is incredible
buried passion in a Bresson film, but he doesn't find it necessary to express
it. Also great tension and excitement,tightly reined in. Consider a sequence in
which a gang of pickpockets, including Michel, works on a crowded train. The
camera uses closeups of hands, wallets, pockets and faces in a perfectly timed
ballet of images that explain, like a documentary, how pickpockets work. How
one distracts, the second takes the wallet and quickly passes it to the third,
who moves away. The primary rule: The man who takes the money never holds it.
The three men work the train back and forth, at one point even smoothly
returning a victim's empty wallet to his pocket. Their work has the timing,
grace and precision of a ballet. They work as one person, with one mind. And
there is a kind of exhibitionism in the way they show their moves to the camera
but hide them from their victims.
Bresson films with a
certain gravity, a directness. He wants his actors to emote as little as
possible. He likes to film them straight on, so that we are looking at them as
they look at his camera. Oblique shots and over-the-shoulder shots would place
characters in the middle of the action; head-on shots say, “Here is a man and
here is his situation; what are we to think of him?”
…Humain, spirituel ou
moral, Pickpocket est un parcours, un voyage. Le
dernier vol de Michel répond au premier. Même lieu, juste une inversion de la
position de Michel qui passe de derrière sa victime à devant, position à
l’image qui enferme le héros dans le temps du film. Position également qui rend
inéluctable son cheminement dans le film mais qui dans le même temps lui confère
un statut à part, parenthèse dans la vie de Michel. Celle-ci va véritablement
reprendre à la fin du film au moment où débute son histoire avec Jeanne.Pickpocketest un simple préliminaire, un rêve,
un songe.
La mia generazione non ha potuto mai vedere un film di
Bresson in sala, tranne nei club che dedicavano al Maestro una retrospettiva,
un cineforum, una rassegna. Ecco, allora, che la visione di Pickpocket è
rimasta un fatto privato: il cinema ascetico visto, esplorato, analizzato da
asceti. Qualche anno fa, però, un piccolo locale napoletano ebbe la bella idea
di inserirlo nella programmazione tradizionale, senza neanche pensarci troppo.
Recatomi al cinema, pensando di trovare la sala vuota, resto esterrefatto:
posti in piedi !...
dal Minnesota (quello di Fargo) pieno di neve e freddo alla California (San Francisco), come cambiare pianeta. Riley ha 11 anni, pratica l'hockey su ghiaccio, uno sport non proprio da femminucce, e sta crescendo, e Pete Docter, Ronnie del Carmen inquadrano la sua vita, e la sua psicologia. tutto è bellissimo, pieno di idee, praticamente perfetto. ma qualcosa non mi torna, in troppi momenti la sceneggiatura sembra tratta e adattata da un libro di psicologia, niente di male, anzi, solo che mi è sembrato un po' troppo meccanico, un film per gli adulti, meglio se genitori, per adolescenti, molto meno per bambini. ripensando al film mi è venuto in mente Nel paese delle creature selvagge, diSpike Jonze (film bellissimo, per i miei gusti), anche lì un bambino che cresce, ma i turbamenti del giovane Max sono resi in un modo meno meccanico. ecco, questa è la critica che mi viene in mente, il film è ambizioso, straordinario, ma c'è quella nota stonata. ps: fra tutti i personaggi Tristezza e Bing Bong sono quelli che mi sono piaciuti di più - Ismaele
Si son lette recensioni strabilianti di questo
nuovo Pixar movie dopo la prima mondiale di Cannes lo scorso maggio. Per molti
il miglior film del festival e il migliore film di sempre di casa Pixar.
Dissento. Il concept è straordinario, di una raffinatezza e complessità come
poche volte nel cinema di massa. Ma non tutto funziona, anzi. Storia di una
ragazzina di nome Riley di undici anni, e delle emozioni di base che regolano
il suo cervello, il suo umore, la sua vita. Emozioni che diventano personaggi,
e che vediamo agire alla console di un quartiere centrale cerebrale
determinando con le loro decisioni quello che capita a Riley e come lei lo
percepisce. Idea semplicemente pazzesca, che pure diventa un film di massima
godibilità…
…Diciamo che siamo, in versione Pixar, traIl mago di OzeInception. Con un aspetto molto, molto inquietante.
Che la povera Riley è una marionetta priva di libero arbitrio, il cui agire
dipende solo da quel che fanno le Emozioni alla console. E questo, consentitemi,
è agghiacciante, è il frutto di una visione meccanicistica e
veterodeterministica del funzionamento della mente umana. Tant’è che se nel
film al posto delle Emozioni ci fossero, poniamo, delle figure che
rappresentano ciascuna uno psicofarmaco, il risultato sarebbe lo stesso.
Sopravvalutato.
…Gli artisti e gli sceneggiatori del film hanno voluto portare sul grande schermo una storia ricca di fantasia ma in cui la rappresentazione della mente umana, della memoria e delle emozioni fosse realistica. Per farlo è stata chiesta la collaborazione di molti esperti in materia, tra cui Dacher Keltner, co-direttore del Greater Good Science Center e professore di psicologia all'Università della California, a Berkeley. I suoi studi ventennali hanno contribuito a delineare le cinque emozioni umane da inserire nella storia e il modo in cui mostrare come queste influenzano i comportamenti di ognuno di noi…
Riley ha 11 anni e una vita
felice. Divisa tra l'amica del cuore e due genitori adorabili cresce insieme
alle sue emozioni che, accomodate in un attrezzatissimo quartier generale, la
consigliano, la incoraggiano, la contengono, la spazientiscono, la
intristiscono, la infastidiscono. Dentro la sua testa e dietro ai pulsanti
della console emozionale governa Joy, sempre positiva e intraprendente, si
spazientisce Anger, sempre pronto alla rissa, si turba Fear, sempre impaurito e
impedito, si immalinconisce Sadness, sempre triste e sfiduciata, arriccia il
naso Disgust, sempre disgustata e svogliata. Trasferiti dal Minnesota a San
Francisco, Riley e genitori provano ad adattarsi alla nuova vita. Il debutto a
scuola e il camion del trasloco perduto nel Texas, mettono però a dura prova le
loro emozioni. A peggiorare le cose ci pensano Sadness e Joy, la prima ostinata
a partecipare ai cambiamenti emotivi di Riley, la seconda risoluta a garantire
alla bambina un'imperturbabile felicità. Ma la vita non è mai così semplice. Il segreto della Pixar non risiede nell'abilità
tecnica, sempre raggiungibile o perfezionabile, ma nella forza drammatica delle
loro storie. Storie che non abdicano mai l'originalità narrativa. Prima un bel
soggetto, a seguire la scelta grafica, sempre coerente con quella narrativa che
tende a semplificare la superficie e mai la sostanza. La bellezza delle loro sceneggiature è costituita
poi dai risvolti teorici, che dopo aver esplorato il mondo oggettuale e
indagato i sogni delle cose, reificano le emozioni umane, in altre parole
prendono per concreto l'astratto.Inside Out visualizza
ed elegge a protagonisti della vicenda la gioia, la tristezza, la rabbia, la
paura e il disgusto, emozioni che guidano le decisioni e sono alla base
dell'interazione sociale di Riley, che a undici anni deve affrontare sfide e
cambiamenti…
… Se l'idea alla base, forse,
questa volta non è delle più originali, il modo in cui viene sfruttata è
qualcosa di realmente unico. Non è solo la trovata della sala di comando del
corpo umano gestita dalle cinque emozioni (gioia, tristezza, paura, rabbia,
disgusto), è il modo in cui questo spunto di partenza viene utilizzato a
definire un film fenomenale per intelligenza, forza espressiva, intensità,
capacità di commuovere e dire cose intelligenti e profonde all'insegna
dell'estrema semplicità. Le dinamiche fra le emozioni, la maniera in cui il
loro comportamento e i rapporti cambiano a seconda dell'età e delle persone che
le ospitano, l'impatto che esse stesse hanno sui ricordi e su come questi vanno
a definire la persona svanendo o restando impressi, mutando di significato con
lo scorrere del tempo... la quantità di esperienze, emozioni e cambiamenti al
centro di questo film ha dell'incredibile e lascia il segno. E lo lascia anche
la bravura con cui i vari "personaggi" vengono utilizzati per fare da
allegoria di quel che accade, è accaduto e accadrà nella testa di ciascuno di
noi. Sulla superficie, viene raccontato un mondo pazzerello e alieno, ma
all'atto pratico Inside Out sfrutta i propri personaggi per mostrare
un'esperienza attraverso cui, prima o poi, passiamo tutti…
Certo, resistere è lecito, tentare quasi doveroso, ma di fondo, il
risultato sarà scontato, deciso, devastante.
Pete Docter, oltre ad essere uno dei cervelli dietro l'ascesa
della Pixar, una delle realtà più importanti del Cinema - non solo d'animazione
- della nostra epoca, e l'autore dietro i due film più importanti della stessa
casa di produzione - Monsters&Co eUp!-, deve
essere un profondo conoscitore della parte bambina dell'animo umano, essere lui
stesso rimasto un "fanciullino" o riuscire ad empatizzare
incredibilmente non solo con quello che portiamo dentro - indubbiamente viziato
- noi adulti, ma anche e soprattutto con i più piccoli.
Se non fosse che si tratta di uno dei registi più importanti che
l'animazione abbia in scuderia in questo momento, sarei felice se potesse
essere l'insegnante del Fordino, perchè ho come l'impressione che ne avrebbe
solo ricordi costruttivi ed importanti.
Ma a prescindere da lui, si parlava di resa.
Incondizionata, nello specifico.
Perchè Inside out porta a questo.
Con leggerezza e colore, semplicità e lampi di genio che fanno
invidia perfino alle porte di Sully e Mike o all'apertura fulminante legata
alla vita di Carl ed Ellie.
Inside out, oltre a mostrare uno spaccato della nostra testa e dei
sentimenti che farebbe invidia ad artisti e psicologi, è come un bimbo…
Eppure prima o poi doveva accadere. L'unico approdo possibile era questo. Perchè se sei una fabbrica di emozioni, come la
Pixar è da anni, ad un certo punto non ti accontenti più soltanto di regalarle
queste emozioni ma fai un passo successivo, provi a descriverle, farcele
vedere, capirne i meccanismi, renderle protagoniste dei tuoi cartoni. E' quasi un'operazione di auto analisi quella
degli autori, come se tutti quei geni che questi anni hanno scritto e disegnato
quelle storie indimenticabili adesso avessero voluto entrarvi dentro con un
bisturi per capirne le dimamiche emozionali. Come se quella bimba fossimo noi e loro quelli
alla torre di controllo. E hanno tirato fuori un film geniale,
labirintico, emozionante e profondo, un'opera di animazione che con gambe ferme
e schiena dritta si piazza sulla strada della storia del genere, specie di
pietra miliare per il proseguio del cammino. Inside Out è la summa di tutti
i Pixar precedenti, ha dentro tuttto il loro genio, il loro coraggio, le loro
emozioni. Inseriti in una struttura talmente
impressionante che tutta la meraviglia dell'architettura di Monster & Co,
ad esempio, a sto punto sembra solo un passatempo…
…Inside
Out è una folgorazione, è un’opera raccontata al femminile e questo ci piace
tantissimo, ancor più ci piace la sovversione e la destrutturazione definitiva
della fiaba tradizionale, con il principe azzurro che non è unico ma
infinitamente replicabile usato come oggetto, e la salvezza che arriva da un
amico immaginario, asessuato e alieno da sovrastrutture sociali, ma forse è
solo perché una childhood, e gli ormoni non sono ancora presenti nè raccontati
qui, forse in un sequel auspicabilissimo. Capolavoro assoluto, uno dei segni
indelebili di questo 2015 grandioso per il cinema, dentro e fuori i confini
della animazione digitale.
…Es evidente que los genios detrás de Intensamentese hicieron asesorar de la mejor manera en temas como la neurociencia y la psicología emocional. Todas las escenas de los pensamientos de Riley tienen una manera diferente de explicar cómo funciona nuestra mente o porqué ocurren ciertas cosas. Detrás de cada gags y parlamento se esconden profundos conceptos sobre el subconsciente y el verdadero camino tras la búsqueda de la felicidad, siendo la película capaz de empaparnos con su mensaje sin dejar de lado la entretención y la emoción, con personajes adorables que terminan extrañándose una vez terminada la cinta, y sorprendentemente sin ningún mega villano como antagonista.
Intensamenteen definitiva NO ES una película hecha para niños, los que podrán entretenerse con facilidad, pero difícilmente comprenderán todo lo que se esconde detrás de cada uno de los entrañables personajes.
Intensamentees un mensaje sincero, con la mirada de un adulto que juega a serlo, que nos enseña que crecer es disfrutar las alegrías, pero también aceptar las tristezas y enfrentar los peligros. Una clase de educación emocional a la que todos debiéramos asistir, y vivirla intensamente.
l'ho visto da qualche giorno, è vero che non ricordo la storia, quella non c'è, ma forse non è la cosa più importante. qui Lech Majewski è agli inizi e questo è un film per la tv, che la TVP (televisione di stato polacca) ha prodotto, e questo è un miracolo, che da noi è da molto che non si verifica, una televisione che finanzia un'opera d'arte. le immagini sono dei quadri in movimento, la camera del regista si sposta per abbracciare un enorme quadro, pezzo a pezzi, e fissare qualche dettaglio in movimento. poi Lech Majewski farà anche storie più comprensibili, ma qui no. guardare le immagini di questo film e ascoltare la musica insieme è un'esperienza che davvero merita, è un'altra cosa. potete provare, poi direte se vi è piaciuto, o anche no, chissà. a me è piaciuto molto - Ismaele
Se
la morte è la certezza dell'uomo materiale la solitudine di fronte all'immenso
è quella dell'uomo spirituale che si mette da parte, introspettivo spettatore,
ed osserva ciò che avviene, guarda l'esterno per guardarsi all'interno,
sanguina nei punti fermi imposti,gioisce degli spazi non confinabili
nemmeno dai muri di una casa da dove non esce mai e nella quale la natura, la
vita prenderà inarrestabile il sopravvento sventrando i muri partendo da un
germoglio rampicante, non un impalpabile cielo ma una prateria in una stanza
mondo, da falciare per resistere ancora senza cedere alla materia e continuare
la ricerca del grande significato, che puoi intravedere e non cogliere ché se
lo cogli lo descrivi e se descrivi la bellezza che è la grande legge è come se
la distruggessi, non c'è staticità in quel mondo elevato e puoi solo
accomodarti passeggero su quell'onda, e goderne fino all'ultimo saluto che sarà
come il primo vagito su un candore di neve...
…all’innegabile
bellezza visionaria di alcune situazioni, non posso non rimarcare quello che
per me è un difetto macroscopico: non c’è una storia, non c’è il racconto. Sono
solo tanti quadri, anche belli per carità, messi in sequenza. In altre parole
non esiste una trama, e senza una logica nell’intreccio degli eventi accade che
un autore possa sbizzarrirsi nell’inserire le stranezze più strane che gli
vengono in mente, come chessò… mettere dei cerbiatti che brucano l’erba nella
casa…
"Majewski's normal multi-tasking
takes on even greater dimensions in his absolutely singular 'autobiographical
film opera'. Writing (libretto and music), directing and designing this often
limpidly beautiful 'cycle of life' parable, he conjures some remarkable images
out of an extremely contained spatial and thematic environment…One of a
kind." Gareth Evans, Time Out London
"A fantastical, haunting tale set in a
house where nature fuses with - and eventually consumes - the lives of a
family." Laurence Kardish, Senior Curator, New York Museum of Modern Art
"A modern visual arts masterpiece!"
Ruben Guzman, Curator, Buenos Aires Museum of Fine Arts
"Fascinating film. Extraordinary
imagination." Pierre-Henri Deleau, Biarritz International Festival of
Audiovisual Media
"A visionary and musical poem. A profound,
subtle and very original movie." Claude Chamberlan, Montreal International
Film Festival
"There is a strange, entrancing beauty to
the images and music in 'The Roe's Room'. Majewski creates striking visual
tableaux that possess a memorable, haunting quality." Brendan Kelly,
Variety
"Henri Langlois Association presents two
equally unique film masterpieces at Cinema Accatone in Paris: the somber 'Film'
by Samuel Beckett, and hypnotic 'Roe's Room' by Lech Majewski." Allan
Riou, Le nouvelle Observateur
"Disturbing and visionary." Carlo
Montanaro, La Nuova di Venezia
Ultimately pretentious operatic musical about various
aspects of a family unit with the various forces in it represented as natural
symbols. Family life is explored through four seasons, with plants growing
through walls, fountains coming out of dinner tables, weeds growing in the
house, deer eating grass, the son attempting to eat grass, sex, mundane
household chores or activities, a paternal influence, a maternal presence, etc.
All this is shown with slowly moving artsy visuals while the opera sings about
what we see. For fans of movies like Cremaster only.
un cavaliere, mercenario, soldato, chissà, si reincarna(?) in un truffatore che il potente di turno scopre e compra con pochi soldi.
quel potente è Roberto Herliztka (bravissimo), vive appartato, capo riconosciuto di un gruppo di potere locale, ormai al tramonto, in un tempo deve tutto è parodia e inganno, mala tempora currunt. suor Benedetta, la strega, sopporta le torture di un'Inquisizione senza speranza, e alla fine, strega, diavolo o angelo, chissà, esce dalla prigione (come Roberto Herliztka/Moro in "Buongiorno notte"). un Bellocchio minore, probabilmente, ma le opere minori dei grandi artisti non vanno trascurate - Ismaele
Due
storie fra passato e presente. Stesso luogo, ovvero le antiche prigioni di
Bobbio, un tempo sede di un convento. La prima è ambientata nel seicento e
narra la vicende di un giovane uomo d’armi (Pier Giorgio Bellocchio)
che viene sedotto come il suo gemello prete da una suora che ricorda tanto la
monaca del Manzoni, chiamata Suor Benedetta, la quale sarà suo malgrado
costretta a subire prove dolorosissime al fine di accertare o meno il suo patto
con il Demonio. La seconda invece si svolge ai giorni nostri, dove un
misterioso conte/vampiro (Roberto Herliztka), che esce solo di
notte, viene incalzato da un sedicente ispettore ministeriale (sempre
interpretato da Pier Giorgio Bellocchio).
Quello
che mette in scenaMarco
Bellocchionel suo
ultimo personalissimo film è un mondo perduto dove passato e presente si
confondono, un ambiente ostile chiuso in sé stesso fatto di ombre, echi e
rimandi…
Sangue del mio sangue(che spero vivamente possa portarsi a casa un premio
all’interno del Concorso) è una pellicola che rende palpabile l’eternità
dell’esistere nel suo tempo soprannaturale tutto terreno. Un’eternità portata
addosso da esseri-simboli, metafore di tutti gli uomini che ‘attraversano’ i
secoli, schiacciati alla terra dalla finitezza, imbrigliati tra la schiavitù ad
un presunto peccato da cui ci si deve proteggere (perché la morte ci rende
monchi sin da quando nasciamo) e l’anelito alla libertà e alla bellezza, temuti
anch’essi per i limiti che sono capaci di superare.
Eppure la pellicola diMarco Bellocchioè
‘sparpagliata’, frammentata nella genesi e nelle tematiche affrontate,
apparentemente ‘incollata’ nelle porzioni…con buchi (si fa per dire) di nonsense, di ‘confusione’. Questo per chi non è abituato al cinema di Bellocchio.
I suoi seguaci (io lo sono), annusano le tracce che lascia senza esitazione, e
alla fine del viaggio, non possono non commuoversi
…nel
suo complesso, anche se apprezziamo la libertà di espressione cercata
dall’artista, nonostante alcuni interpreti tornino tra i due episodi, la
sensazione di frammentarietà un po’ ci pervade. Ad unire le due epoche e le due
storie è idealmente il Potere e la messa in discussione dello stesso;
parallelamente a stupirci positivamente è il registro di ironia e leggerezza
che talvolta si respira (vedi, su tutto, il dialogo tra il conte e il suo
dentista – Toni Bertorelli). Così, come in un altalena, quando il tono rimuta
con soluzioni narrative inaspettate, lo si avverte ancor più. Vogliamo citare,
in ultimo, la figura del folle a cui dà corpo Filippo Timi, il quale spunta
proprio come tale, come se fosse un Amleto dal tragico sberleffo e guarda caso
proprio nella storia ambientata nell’epoca moderna…
…Enigmatico, svincolato e sfuggente,Sangue del mio sangue è un film che affronta la Storia e
(ancora una volta) la biografia del suo autore attraverso una declinazione
libera, una rielaborazione del materiale narrativo sganciata da qualsiasi
aderenza o fedeltà. Traslocato di nuovo il suo cinema a Bobbio, estensione di
un corpo individuale, familiare e sociale in procinto di esplodere ieri e di
'risolversi' oggi, Marco Bellocchio non è mai pago di sperimentare e di
sperimentarsi, andando contro o rivedendo il sé che era.Sangue del mio sangue porta addosso i segni di questo
lavoro paziente e faticoso di messa in discussione, sprigionando un'energia
abbagliante, una sintesi di rigore, semplicità, essenzialità, movimento,
fisica, chimica, storia, filosofia, mistero...
Se Marco Bellocchio voleva spiazzarci c’è riuscito in pieno.
Questo è il suo film più fuori-rango, risqué, anarchico, irregolare, di un
autore e di un signore che a settant’anni può permettersi tutto e ha deciso di
rimettersi in gioco e pure divertirsi. E fin qui tutto bene, châpeau. Però, in
questa sua coraggiosa impresa Bellocchio deraglia, infrange ogni regola di
minimo buonsenso e anche minimo buongusto e ci consegna un film sincero e nudo,
urticante nel suo esibito estremismo, ma anche imbarazzantissimo per cose che
mai avresti voluto vedere e sentire. Sincero e insieme impudico. Grideranno
entusiasti, e già hanno applaudito freneticamente in sala alla proiezione
stampa, i ragazzi e i ragazzacci che adorano il cinema di genere o i
Bellocchio-dipendenti che in questa sconclusionata storia di streghe, vampiri,
révenants lassù nella piacentina Val Trebbia, in questo plot confusissimo e con
voragini narrative, hanno ritrovato o hanno creduto di ritrovare il repertorio
delle loro passioni schermiche…
Claudio Caligari ha fatto tre film nella sua vita, sempre a livelli alti, senza scorciatoie, e l'ultimo, in certo modo, contiene anche i due precedenti. è vero, come dicono molti, che il cinema di Caligari ricorda molto cinema Usa degli anni settanta, quello con Al Pacino e Robert de Niro, storie di disperati come quelle di Claudio Caligari, e non è un casi che Valerio Mastandrea si sia pubblicamente rivolto a Martino Scorsese per produrre "Non essere cattivo" (qui). intanto Mastandrea ha spinto e contribuito alla promozione del film, che il regista non ha fatto in tempo a vedere in sala (qui Mastrandrea ricorda l'amico/maestro Claudio) i ragazzi che sono sopravvissuti ai tempi di "Amore tossico", del 1983, (qui), o erano ancora bambini, sono cresciuti e sempre la droga è lì, un modo per fare soldi o per sballarsi. rispetto a quel film qui i ragazzi sono più tristi e sopratutto hanno già visto gli effetti della droga e dell'Aids, c'è chi muore e chi sopravvive, come la sorella e la nipotina di Cesare, che ha una mamma distrutta dal dolore (per la morte della figlia e la malattia di Debora) e fortissima, anche per loro. come nel film precedente, "L'odore della notte", del 1998, (qui), l'unica via d'uscita è mollare tutto per la famiglia, altrimenti la fine violenta è segnata. Vittorio, l'amico di sempre di Cesare, conosce un altro Cesare, e anche noi ci commuoviamo con lui. non perdetevelo - Ismaele
…E’ una vergogna che il cinema italiano,
che ha prodotto qualcosa come duecento film all’anno, in gran parte inutili,
non abbia aiutato Caligari a fare i suoi film, tutti concentrati, e
documentatissimi, su una sorta di storia di Ostia e quindi di Roma vista
attraverso lo sviluppo della droga e della malavita.
E’ vero che questo film, in fondo, è una sorta di
sequel diAmore tossico,
ma come nessuno trattò come Caligari, nel 1983, lo sviluppo dell’eroina a
Ostia, nessuno ha trattato dopo lo sviluppo della cocaina. E non è certo solo
un problema di Ostia e di Roma. E nessuno è andato a vedere l’effetto che hanno
fatto le pasticche e la cocaina nelle borgate e nelle classi meno ricche.
Il cinema italiano tende a nascondere certi
problemi e certe storie, preferisce mettere i soldi sulle storie borghesi con
le famiglie in crisi o nelle commedie. Caligari è andato dritto sulla sua
strada con una forza di volontà degna dei suoi eroi perdenti…
… “La vita è dura e se non sei duro come la
vita non vai avanti”, dice Cesare, il più mosso, nevrotico, aggressivo dei due
amici. E “andarsene da tutta ’sta merda” è più facile a dirsi che a farsi. “I
sòrdi ce vonno”, e di conseguenza lo spaccio, perché “tanta gente ce campa”. I
cattivi non sono solo cattivi, e non sempre è colpa loro se lo sono. La
differenza con tanti film e libri che hanno cercato di raccontare questo
purgatorio senza uscita è che Caligari lo conosce bene e ama i suoi personaggi,
anche i più trucidi, perché sa vedere oltre e dentro. Perchésa, mentre quasi
sempre gli scrittori e i registi non sanno, cioè vedono con gli occhi di chi
sta fuori e non pensano neanche lontanamente a farsi carico di quei dilemmi, di
quella condanna. Non capiscono e non possono capire, ma sono loro a costituire
le schiere della “cultura” e i complici o difensori di fatto di quest’ordine
delle cose, quali che siano le loro opzioni ideologiche…
…Non essere cattivoè la fotografia della nuova borgata attraverso la storia
di due amici Vittorio e Cesare, “fratelli di vita”, vita di eccessi – macchine,
alcol, cocaina – finché Vittorio non incontra l’amore, Linda, e decide di
cambiare, iniziando a lavorare come manovale, mentre Cesare si perde sempre più.
L’aiuto di Vittorio, tornato proprio per Cesare, sembra risolutivo: lavoro,
fidanzata, futuro, come lui. Ce la possono fare, esiste un’alternativa anche
per loro. Ma tentare di salvare Cesare, per Vittorio significa rischiare il
lavoro, persino perdere Linda, mettere in pericolo insomma quel poco che è
riuscito a costruire. Di contro Cesare, dopo ripetute lusinghe dal vecchio
mondo, cede definitivamente perché ha bisogno di soldi subito, e in borgata c’è
solo un modo per fare soldi veloci.
Emanuel, nel ruolo tecnico di Assistente personale del
regista, segue Caligari in ogni fase. Dalla documentazione, alla ricerca delle
location, fino all’orsacchiotto.
“L’orsacchiotto è fondamentale nel film, vedrai…” Trovare
un orsacchiotto sembra semplice. Nel caso di Caligari no. Anche
sull’orsacchiotto lui ha un’idea precisa. Con Emanuel fanno il giro di
giocattolai, centri commerciali, autogrill, passano giornate su internet,
scoprendo che gli orsacchiotti si dividono in due grandi categorie: europeo e
americano. Ma niente. “Nessuno era come ce l’aveva in testa Claudio”, sempre
Emanuel.
La scenografa stremata, la troupe anche: non si può
perdere tanto tempo su un pupazzo. Alla fine viene fatto a mano. “Che c’aveva
di speciale? – s’inalbera Emanuel – pelo lungo, chiaro, e lo sguardo. Uno
sguardo diverso dagli altri. Era l’orso di quando era ragazzino Claudio, lui
rivoleva quello”.
Intanto la sceneggiatura è alla terza stesura.
Sceneggiatura scritta da Caligari con Francesca Serafini
e Giordano Meacci. Non due sceneggiatori alla moda. Tutt’altro che glamour: lei
cresciuta a Torpignattara, lui a Ciampino. Due outsider di talento. Entrambi
allievi di Luca Serianni, lei scrive libri di linguistica e saggi narrativi(questo è il punto– Laterza, Di calcio non si parla– Bompiani), lui lavora in una
libreria di Prati, e scrive romanzi, quest’anno, dopo dieci anni dall’esordioTutto quello che posso(minimum fax), esce il nuovo
romanzoIl cinghiale che uccise Liberty Valance. Serafini e Meacci
danno struttura drammaturgica all’idea e al materiale, tanto che Caligari, dopo
l’ultimo montaggio, confessa: “è più potente diAmore tossico.”
Ma questo succede alla fine.
Prima c’è la scelta degli attori. Protagonisti: Luca
Marinelli e Alessandro Borghi.
Emanuel fa un piccolo cameo in un’allucinazione di
Vittorio.
“Claudio mi diceva: tu sei un diamante, ti devi solo
sfinare. – racconta Emanuel – Anche alla mia ragazza: è perfetto, perfetto, ma
quant’è rozzo… Per raffinarmi mi manda alla scuola di recitazione… due giorni
sono durato. L’ho chiamato: Claudio, io il leone, la candela, la tazzina di
caffè, non la faccio”.
E dunque: soggetto, sceneggiatura, location,
orsacchiotto, attori.
Ospedale. Che non c’entra niente col film, ma con la
storia del film, di come è stato prodotto e girato: intoppi, ostacoli,
vittorie, tempo. Trentantadue anni di attesa, sei mesi di azione.
Ricoverato prima delle riprese, Caligari sta male. I
medici dicono che non c’è più niente da fare. Gli amici però non si arrendono,
non si arrende Emanuel Bevilacqua, non si arrende Valerio Mastandrea.
E Claudio Caligari ce la fa, proprio perché vuole girare
il suo film, il suo terzo film. Alla lettera di Mastandrea, Scorsese non ha
risposto, ma hanno risposto altri produttori: Kimerafilm, Rai Cinema, Taodue, e
Leone Film. GoodFilms per la distribuzione. Budget chiuso. Tutto pronto per
partire, e per partire come vuole Claudio: la storia che vuole lui, gli attori
che vuole lui. Trentadue anni per arrivare fin qui. Come passano trentadue
anni, sarebbe da chiedergli di nuovo. E forse la risposta sarebbe sempre la
stessa: “Perdi due, tre anni su un’idea, non ci riesci a farla, prendi un’altra
idea, ci stai due, tre anni, non riesci a realizzare nemmeno questa, e così
via, ed è così che passano trentadue anni” dove il tempo non è mai perduto, mai
fallimento, ma solo tempo che passa, come se il vero privilegio fosse il tempo
di per sé. Tempo di conoscere, scoprire, invecchiare.
Pochi giorni prima delle riprese Claudio va al cimitero
di Arona – ricorda Francesca Serafini – sulla tomba del padre. Ha nevicato,
tutto è ricoperto di bianco, nessuno è ancora passato di lì. Allora lui decide
di non entrare. Rimane fuori. Rimane a contemplare la bellezza intatta.
Una bellezza che ha a che fare con la verità, non con
l’artificio. Una bellezza che va rispettata. Questo è il cinema di Claudio
Caligari. Eccol’idea precisache ha in testa, tanto che se
mancano le condizioni per rispettarla, lui preferisce rinunciare.
“Muoio come uno stronzo” dice a Mastandrea, un giorno in
macchina, semaforo di Viale dell’Oceano Atlantico. “Muoio come uno stronzo. E
ho fatto solo due film”.
Sbagliato, tre. Perché gira il terzo. Ce la fa. Gira e
monta il suo ultimo film:Non
essere cattivo.
… Il regista non ci risparmia niente, ma
nel suo sguardo non c'è mai nè cinica indifferenza nè facile moralismo. Anche
nei loro comportamenti più abietti, lo spettatore non riesce a non provare
compassione ed empatia per i due giovani sbandati che sono capaci di litigare
furiosamente ma anche di abbracciarsi con tenerezza e di improvvisare una
partita a calcio sulla spiaggia. Come degli eterni bambini cresciuti nel posto
sbagliato. Ma questo, per Caligari, ed è un altro merito del film, non
rappresenta un alibi:la redenzione è sempre possibile e la vita è più forte di tutto, come
si vede nel finale, amarissimo e al tempo stesso aperto alla
speranza. "Non essere cattivo", infine, è un
film attualissimo: i giovani non hanno scoperto le pasticche quest'estate come
le cronache ci portavano a pensare. E il municipio di Ostia è stato di recente
sciolto per mafia...
… Da mesi Mastandrea aveva impostato la lavorazionecon il ruolo di Vittorio lo
scoppiato affidato a Luca Marinelli, già protagonista diLa solitudine dei numeri primi,mentre
quello di Cesare che tenta di rigare dritto era di Alessandro Borghi, una
solida carriera televisiva che non l’ha guastato, poi un giorno Caligari, che
non poteva parlare tanto perché era tracheotomizzato (handicap che gli forniva
il suo unico cespite, una pensione minima di invalidità) ha fatto un gesto con
la mano. «Voleva direinverti
i ruoli. E porca miseria se aveva ragione». Di gesti ce sono stati tanti
durante la lavorazione e uno il Buono non lo dimenticherà mai. «Il film era
finito, mancava qualche aggiustamento e io stavo partendo per girareFai bei sogniconBellocchio.Sono andato a trovarlo, stava
nel letto dove è morto, a casa della madre di 95 anni. Mentre mi alzavo per
andare, mi ha salutato alzando il pollice come per dire tutto OK. Quando sono
arrivato alla porta gli ho dettorifammeloeme l’ha rifatto».
Il Ruvido che non si fidava tanto di nessuno si è
affidato al Buono, che ha dato gli ultimi ritocchi all’eredità. E che mette le
mani avanti: «Tutto il buono del film è suo, tutto il cattivo è di noi che
siamo rimasti. Frank Capra non si lascerebbe sfuggire un dettaglio: nel dire
queste cose, il Buono si commuove.
tratto da un romanzo di Jean Teulé (qui). Patrice Leconte si butta nell'animazione, con un film simpatico, con lo stile di Sylvain Chomet. non resterà nella storia del cinema, ma non dispiace- Ismaele
Cantare la morte per esaltare la vita. Costruire un film
incorniciando una storia dentro un posto che si chiama "La bottega dei
suicidi" in cui si fanno affari d'oro all'insegna del "trapassati o
rimborsati" perché "si muore solo una volta quindi perché non
renderlo indimenticabile?". Ma farlo solo per arrivare a trasformare
quella bottega di morte in una creperie in cui tutto è celebrazione di vita.
Tutto grido di gioia. Tutto perché il grande Patrice Leconte non ha dubbi:
"Musica + amore + crepes e la vita può essere meravigliosa".
Però il tutto è stato vietato nientemeno che ai minori di 18 anni . Solo in
Italia: "Ho saputo solo ieri sera di questo divieto e sono rimasto di
stucco. Io ho una nipotina di 8 anni e, facendo il film, ho pensato continuamente
a lei, perché volevo farlo anche per lei. Quando è finito l'ho fatto vedere a
lei e a dei suoi compagni che si sono ovviamente identificati con l'Alan del
film, perché come lui trovano troppo seri gli adulti, come lui credono che la
vita è bella, perché questo è il messaggio del film: che la vita è
meravigliosa. Mai pensato di fare un film per suggerire alla gente di
suicidarsi e ritengo assurdo che qualcuno possa, anche solo per scherzo,
credere il fil possa indurre qualcuno al suicido". E, invece, c'è chi
pensa di vietarlo in nome di presunti pericoli di emulazione, "perché il
tema del suicido è trattato con estrema leggerezza... per di più la struttura
del cartone animato potrebbe essere più pericolosa per i più giovani...".
Incredibile ma vero…
…una
black comedy, che per definizione dovrebbe avvolgere la sala nel malessere e
suscitare il riso come un esorcismo, lascia il posto ad un elogio nemmeno
troppo giustificato (narrativamente, s'intende) della bellezza di vivere e di
fare le bolle di sapone. I teschi che inBurton
sarebbero diventati simboli di un diritto all'individualità e di uno scomodo
essere "contro", finiscono per dar forma alle dolcissime crêpes dei
Touvache e volume ai loro affari, mentre le tristi canzonette monocordi che non
danno tregua al film cambiano di soggetto ma restano tristi allo stesso modo. Modificando il finale rispetto al romanzo
firmato da Jean Teulé, Leconte rivendica infine apertamente la volontà di
cambiare radicalmente disegno alla favola dolceamara di partenza, ma sono
troppe le lacune di sceneggiatura perché non ci si senta un po' truffati.
Tuttavia, a meno di non trapassare, nessuno si aspetti di venir rimborsato.
…La
bottega dei suicidi è un film
delizioso, particolare, poetico, macabro, cinico ed ironico, un film adatto a
tutti, ma non per tutti, che difficilmente potrà essere apprezzato dal grosso
pubblico, soprattutto dopo il divieto ai minori di diciotto anni che
inspiegabilmente la commissione di censura ha deciso di assegnargli, per il
timore che a qualcuno, soprattutto in tenera età, potesse venir voglia di
togliersi la vita.
… Commerciale, aussi,
cette idée saugrenue d’enlever au roman de Jean Teulé tout ce qu’il avait de
politiquement incorrect pour aplanir les reliefs — visuels tout autant que
moraux— et faire en sorte que « ça passe bien ». En dépit d’un
sujet qui s’y prêtait pourtant énormément, Leconte a fait le choix de ne pas
déranger le spectateur ; mieux vaut le brosser dans le sens du poil. Mais
à douze ans passés, on s’ennuie ferme. Quant au dénouement de l’histoire… Trop
optimiste pour être cohérent, pas suffisamment brutal pour faire opérer le
second degré, il laisse pantois…
…L’animation est correcte, sans plus. On
regrettera une certaine lenteur et une certaine répétitivité mais l’ensemble
reste digeste et drôle, notamment dans certaines scènes politiquement
incorrectes, comme faire fumer son fils pour s’en débarrasser plus vite, etc…
De même, le visuel rétro de l’ensemble est cohérent avec des personnages aux
looks caricaturaux.
Bref, ce Magasin des Suicides est une bonne
surprise : film étonnant pour un réalisateur comme Patrice Leconte, le rendu
Burtonien de l’ensemble est pertinent et les chansons ne sont pas très
dérangeantes car bourrées de jeux de mots improbables. Il est donc préférable
d’aller au cinéma voir ce long-métrage que de faire le grand saut!
…Sinceramente
la pellicola per il sottoscritto è stata una grande delusione.L’atmosfera “gotica” usata dal
regista e dal suo staff conferisce all’opera fin dall’inizio un “vuoto”
contenutistico, producendo una involuzione narrativa dovuta al
continuo privilegiareconcetti
filosofici propri della vita(come
il bene e il male) incastonati (però) insituazioni
stereotipate, a scapito proprio dell’approfondimento psicologico dei
personaggi.
Pur
essendo l’idea di partenza sicuramente accattivante, il film Leconte però, a
causa di scelte discutibili (intermezzi canori francamente stucchevoli, a
tratti quasi irritanti; la fin troppo prevedibile distinzione tra grigiore
quotidiano e calore/colore dell’amore) restituisce un prodottofin
troppo semplice per il genere cui appartiene(ad esempio il Tim Burton diNightmare Before Christmas)
non tanto a livello iconografico (la scelta dello stile “disegnato” è anche
apprezzabile), quanto a livello narrativo.
Un film d'animazione sostanzialmente incomprensibile. Non è
per bambini, non vedo come possano divertirsi, non è per adulti, troppo
infantile, ha una tecnica d'animazione brutta e vecchia e un doppiaggio
italiano orrendo, che ti fa odiare, istantaneamente, il bambino felice, che
segherei in due dopo dieci secondi. Prova a rimandare a Tim Burton, ma
neppure il peggior Burton riesce a mettere insieme una schifezza simile. E'
insulso, inutile, ha qualche battutina felice, ma dopo un'ora fa venire voglia
di suicidarsi. Appunto, forse lo scopo è quello. Ma siccome ho resistito 59
minuti, mi sono salvato. E poi è anche francese, con tutti i difetti del caso.
Brutto.