mercoledì 9 settembre 2015

Duvar (Il muro) - Yilmaz Güney

è l'ultimo film di Yilmaz Güney, girato in Francia, in un ex monastero, in concorso a Cannes nel 1983, l'anno prima di morire.
ambientato interamente in carcere, donne, bambine, uomini, e ragazzi nello stesso carcere, divisi da un muro.
guardie sadiche, ragazzini che possono solo subire l'ingiustizia e la prevaricazione, continuamente imbrogliati e picchiati senza pietà, un calvario senza fine.
un film doloroso e necessario, di un regista che in carcere è stato per anni, mica lo ha visto al cinema.
da non perdere - Ismaele









Duvar is the last film of Yilmaz Guney. It was made in France under very bad conditions. But it is successful on describing the violence in prison without being too much 'political'. It's a striking movie, which nobody could stay indifferent to it.

…Il film è girato in un'abbazia francese, ma intende rappresentare il carcere di Ankara in cui lo stesso regista fu detenuto. Nello stesso carcere tre sezioni: quella maschile, quella femminile e quella minorile. A dividerle il muro del titolo. Le immagini grezze del regista, che tornava a dirigere in prima persona un film dopo anni di sceneggiature scritte da dietro le sbarre, raccontano la vita dei tre gruppi, con particolare attenzione ai bambini. È fra loro infatti che il dolore sa mostrarsi con maggiore grado di crudeltà e di gratuità. Le ispezioni e le percosse delle guardie, i ragazzini costretti a mangiare le proprie pulci, gli abusi sessuali, i lavori forzati e ancora le percosse, le vessazioni. Infine la morte di un ragazzino, freddato mentre cerca di fuggire: è la goccia che fa traboccare il vaso; la rivolta si organizza e si barrica all'interno delle celle per chiedere trattamenti più umani. Il finale lo lascio a voi, avvisandovi di non farvi troppe illusioni. Durante la vita di cella il popolo d'Anatolia ci è mostrato con tutte le sue tradizioni, i canti, le melodie festanti o sofferenti della bağlama, i balli, le superstizioni, i cibi. Insomma vedendolo resistere nel chiuso della prigione, Güney ce lo fa immaginare com'è al di fuori, costretto da catene sociali, da vincoli d'onore, ma ache depositario di tradizioni secolari, rurali/orali, intatte e vitali. Nel frattempo le esercitazioni e i cori delle guardie e l'intrusione audio di spot commerciali radiofonici, ci danno il senso dell'ipocrisia della società, che negli anni in cui il film è girato associava militarizzazione e ingresso nel luccicante regno del consumismo occidentale.
Lo stile di Guney è davvero degno di nota. È grezzo, come dicevamo, non ha grandi rifiniture artistiche, anche se a volte si riconosce un certo gusto per la composizione dell'immagine. Con naturalezza offre immagini cattive, spietate, marchiate a fuoco da un sapore di realtà che è difficile non avvertire allo stomaco. Ricordiamo il piano sequenza condotto dal punto di vista di una carriola, fisso sul volto di un prigioniero i dodici anni, sofferente mentre va al lavoro forzato in inverno, schifato da tutti i compagni per il fatto di non aver avuto il coraggio di denunciare gli abusi subiti; oppure il primo piano violentissimo di un parto, i tonfi delle percosse, i dettagli di ematomi, cerotti, sangue rappreso. Un pulp neo-realista, senza artificio narrativo. Un film denuncia e un film poesia al contempo, di quelle poesie scritte con parole normali, non ricercate, ma dirette a tutti, alla gente, alle coscienze più che ai sensi estetici. Gli attori vengono dagli arabi delle periferie francesi e dai turchi delle periferie tedesche; era probabilmente gente che sapeva come muoversi all'interno delle pareti di un carcere.

"Duvar" is certainly my favorite Yilmaz Güney film after "Umut" (Hope). The director mainly tries to describe the prison conditions in Turkey after coup d'état in 1980. Being very political himself, he draws a dark picture of a Turkish prison where most people are stuck because of their political activities.

Here we see men, women and children living in different sections; but we are confronted with the tragic story of children, while the adults have to watch them anxiously behind the windows. In their attempt to change to another prison for better conditions; the children try petition, escape and mutiny. In return, they are faced with continuous beating, harassment and even death. In their section, there is never good food, enough bread or water for bathing. In the film, the only likable person is the guardian "Áli Emmi" (Tuncel Kurtiz), who gets his prize by being humiliated and getting fired at the end.

Güney's dark film shifts between (many) bad and (some) good experiences in the prison context, which makes keeps the audience always interested. He uses some interesting techniques and many references to the political context of early 80's Turkey, which makes the film gripping, especially for the contemporaries.

Ultimo lungometraggio di Yilmaz Güney e suo testamento cinematografico,
Opera quasi autobiografica del regista curdo, che costruisce un racconto spietato e crudo 
di una carcere turca di Ankara, estrapolato in parte dai propri ricordi di carcerato 
(il regista è stato rinchiuso anch'egli in un carcere) e da testimonianze di altri detenuti.
Il film si basa sullo stato di barbarie presente nei penitenziari Turchi degli inizi anni '80, che tutt'oggi persiste. Dove bambini, donne e uomini, vivono alla mercé di inumani secondini e feroci egemoni statali, patrocinati da una legge che non possiede occhi né orecchie. Nonostante ciò è presente una poetica di fondo che si riflette nelle interpretazioni degli attori dilettanti, dalle loro capacità di trasmettere incertezze e paure, da alcune frasi, pronunciate come liriche, canti in mezzo all'inferno. Güney fa forza sulla meticolosa ricostruzione del penitenziario, offrendo allo spettatore una panoramica sull'ambiente crepuscolare e torbido di un carcere, consegnando il patrimonio di un'esperienza drammatica a cui lo spettatore non può sottrarsi dal riflettere su quanto ancora l'uomo affoghi nella degenerazione imposta dalle sue stesse regole. 
Emblematico il desiderio di fuga dei giovani protagonisti che si trasforma in una più modesta speranza di trasferimento in un carcere migliore. Ma come mostra lo stesso regista e come a più riprese commentano gli stessi disillusi personaggi, non esistono carceri migliori, e forse nemmeno fuori dal carcere le cose vanno meglio.

…Its writer and director, Yilmaz Güney, spent a considerable period of time in Turkish gaols, first for writing left-wing novels, harbouring anarchists and such things, and later for killing a judge at a nightclub. So he should know what he’s talking about, but he might also have had cause to want to toss a few hand grenades in the direction of the Turks – from the safety of France, mind you, where the film was made and to which he had fled after escaping from prison in 1981. For all of its depiction of the horribleness and brutality of the penitentiary, which contains men, women and teenage boys in separate sections, it’s also strangely dispassionate. The film focuses mainly on the boys, housed in a big dormitory, mistreated generally and terrorised in particular by one especially vicious guard, Cafer. Sadly, in the detailing of all the various degradations and humiliations, character development is left somewhat underdone, particularly in the first half, which reduces the impact of several of the more powerful scenes – such as where the screams of one boy are broadcast across all sections of the prison as the soles of his feet are being beaten (he had recited a mildly subversive poem to the other boys), and where a female prisoner and her lover, all set to be married and sent off with dances and celebrations by the other prisoners, are tricked and taken away to be executed. Even in the second half, when a vulnerable 14-year-old boy (who has been raped by Cafer but is too frightened to report it), gets shot and killed in a pretty futile attempt to escape, one is inclined to think that perhaps it wasn’t such a bad choice that he made.

Ai tempi in cui era una star del cinema popolare turco lo chiamavano “çirkin kral”, il “re brutto”. Seguiva modelli alla James Bond, il Marlon Brando in canottiera, Jack Palance, Burt Lancaster. Il pubblico, soprattutto quello poco raffinato, non solo si immedesimava nei suoi ruoli, ma gli voleva bene, lo considerava uno dei suoi. La sua parabola da divo a regista è accostabile (in termini generali e talvolta specifici) a quelle del nostro De Sica o del maestro Eastwood. Di mezzo una spezia pasoliniana per una passione letteraria e scrittoria che fu l’inizio dei suoi guai giudiziari: nel 1961, a ventiquattro anni, viene condannato a un anno e mezzo di prigione per aver pubblicato un romanzo “di propaganda comunista”. All’anagrafe Yılmaz Pütün, il mondo lo ricorda come Yılmaz Güney, letteralmente traducibile con qualcosa come “sud integerrimo”; non è pedanteria di redattore: in turco ogni nome ha un significato! L’apice della sua carriera lo visse lontano dalla sua gente, in Francia, ricevendo la Palma d’Oro di Cannes per il lungometraggio Yol e morendo poco tempo dopo, avendo giusto il tempo di girare un ultimo film, Duvar. Senza quel premio probabilmente non ci ricorderemmo di lui. Merito di una Francia che in quegli anni dava accoglienza a più di un intellettuale esule: oltre a Güney, in quegli anni a Parigi c’erano Solanas e Costa Gravas, ad esempio, mentre già negli anni Settanta Sartre si era speso per una campagna internazionale contro la carcerazione di Yılmaz del 1972…

La tomba di Yilmaz Güney a Père Lachaise è diversa dalle altre. Non di marmo, di pietra calda, ma una sorta di baldacchino di acciaio lucido, freddo, a sovrastare la lapide. In realtà però non c’è freddezza in quell’acciaio. Paradossalmente quel lucido metallo finisce con il trasmettere calore. O forse è solo la suggestione di chi sta davanti a quella tomba. E vede scorrere davanti agli occhi la vita passionale, appassionata, caldissima di Yilmaz Güney. Che oggi avrebbe 73 anni se un tumore allo stomaco (non curato in prigione), non l’avesse corroso. Güney è morto a Parigi, il 9 settembre 1984. Era arrivato nella capitale francese, esule, in modo rocambolesco. Come del resto avventurosa è stata tutta la sua vita. Era riuscito a beffare i militari che si erano appena impadroniti nuovamente del potere (con il terzo golpe, il 12 settembre 1980, in trent’anni). Era fuggito di prigione. Dal carcere di massima sicurezza sull’isola di Imrali, quello dove dal 1999 si trova, Abdullah Öcalan, il presidente del Pkk. Anche Güney era kurdo. Anzi come sottolineava lui stesso «un kurdo assimilato. Mia madre era kurda, mio padre kurdo zaza. Fino a quindici anni ho sempre parlato kurdo. Poi sono stato separato dalla mia famiglia. A quel tempo dicevano che i kurdi non esistevano. Che la lingua kurda non esisteva. Ma io sentivo gente che cantava e parlava in kurdo. Vedevo i kurdi vivere in estrema povertà e repressione. Mio padre era di Siverek: ho visitato Siverek quando avevo 16 anni. E’ stato allora che ho capito chi ero veramente. E a 34 anni ho potuto finalmente visitare il villaggio di mia madre, Muş. Sürü, è la storia di ciò che accadde alla tribù di mia madre»…


Elia Kazan e Yilmaz Güney sul set del film:



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