Marsiglia è stata la capitale della droga, fornendo il mercato degli Stati Uniti, il film racconta la lotta di un giudice e della polizia contro i boss della droga (sostituiti prontamente dalla mafia siciliana).
il ritmo del film è davvero implacabile, ti tiene attaccato allo schermo, si parte piano, poi è un crescendo di azione e di emozioni.
i due protagonisti, il boss e il giudice, (che un fisicamente po' si assomigliano) sono bravissimi, nelle mani di un regista che sta diventando sempre più bravo.
alla sceneggiatura il regista e la moglie Audrey Diwan (anche lei regista).
un film da non perdere, non te ne pentirai.
buona (marsigliese) visione - Ismaele
Avanza elegante questo gioiello del cinema francese: il dispiegarsi
della narrazione è pura classe.
Strizza l’occhio alla (propria) tradizione polar, senza mai
abbracciarne veramente l’estetica e gli schemi.
Ci troviamo infatti ad un incrocio tra Scorsese e il poliziesco
all’italiana (e non certo tra Friedkin e Melville, come alcuni hanno
sostenuto), il tutto però condito con quel particolare charme e quella
delicatezza espositiva esclusivamente propri della tradizione cinematografica
francofona…
…Degli
Scorsese, dei De Palma,
dei Coppola, degli Hendricks stessi, il regista Cédric Jimenez prende il minimo
indispensabile e scansa le agiografie di ciascun lato della barricata: il
racconto si regala una confezione irrequieta e analogica, esita su una colonna
sonora dai connotati fin troppo "greatest hits", ma si rafforza su
una fotografia vintage che è tutto fuorché imposta. Anzi, quest'occhio un po'
fumoso è il coltello che taglia dentro ogni inquadratura, dalle verdognole
torture in magazzini sconosciuti, agli inseguimenti senza fiato nei campi, agli
assassinii alle fermate dei semafori, in pieno sole, in pieno sfregio.
Certo, quello di Jimenez non è un tentativo di segnare un territorio nuovo o
una cima inconquistabile, ma sottolinea lo stato di salute di una
cinematografia, come quella francese, vitale perché sempre più varia e
credibile. E con tutte le carte in regola per riportare in Europa la gloria del
cinema di genere.
…Misurato il fascino guascone,
Dujardin è il giudice Pierre Michel sotto il sole di Marsiglia e dentro la
confidenziale eleganza del cinema polar. A lui spetta il compito
di arrestare l'ascesa vertiginosa del villain di Gilles
Lellouche, doppio somatico e versione brutale che incide sul film come la luce
del Mediterraneo sulla costa marsigliese. Boss potente, che agli inizi degli
anni Ottanta andrà incontro allo scacco inevitabile di chi si trova nella
condizione del 'sopravvissuto', a disagio in un clima che non riconosce più, il
padrino di Lellouche esercita un controllo quasi assoluto sulla città, a cui si
oppongono le interiorizzazioni noir del giudice di Dujardin
e gli assalti gangsteristici di Benoît Magimel, mai così libero e fisicamente
dirompente.
L'ingente budget, profuso nella
ricostruzione meticolosa di una Marsiglia 'dopata' tra la fine degli anni
Settanta e i primi anni Ottanta e per l'accoppiata divistica, non colma
l'assenza della dimensione politica e storica nel film, che si sviluppa tutto
sulla superficie senza mai infilare il sociologico o magari il tragico o ancora
l'epica. La simmetria gangster charmant e flic incorrompibile,
rinnovata dalla coppia Dujardin - Lellouche, che propongono due personaggi
taciturni e sfuggenti in cui la durezza degli atteggiamenti si mescola a un
senso di fragilità, resta comunque una gran bella ragione per andare al cinema
e prendersi un'infatuazione.
Storia di Pierre Michel, giudice inviato da Metz a Marsiglia
nel 1975 per smantellare il traffico di eroina della French Connection guidata
dal boss Tany Zampa. Storia vera, anni di piombo. Storia privata, intima,
personale di due uomini dalla personalità ingombrante, dai molti nemici, la cui
linea di demarcazione è tutta in un dialogo in cima a una collina, unico
momento di contatto visivo tra gli immensi Dujardin e Lellouche. È nei loro
personaggi, eredi legittimi di decine di volti deloniani e belmondiani, che si
consuma un’e(ste)tica polar a tinte crepuscolari fatta di ambiguità morali,
contraddizioni comportamentali, dissidi interiori e un’idea di legalità
piuttosto malleabile da entrambi gli schieramenti. Se in interni Jimenez si
rivolge alla tradizione di genere francese, è in esterni (scenografici e
drammaturgici, nella messa in relazione dei protagonisti con il mondo istituzional-malavitoso)
che French Connection alza lo sguardo per cercare
Scorsese e Friedkin. La vicenda privata diventa così grande narrazione,
equivalente transalpino del nostrano Romanzo criminale,
con il quale condivide afflato corale, istinti pulp nella definizione dei
personaggi e grammatiche realiste nell’abbondante uso di camera a spalla. Nella
messa in scena filologica della Marsiglia che fu si riaprono ferite mai sanate:
la giustizia, da quelle parti, è ancora lontana. E Michel diventa paradigma del
presente.