sabato 1 febbraio 2025

French connection (La French) – Cédric Jimenez

Marsiglia è stata la capitale della droga, fornendo il mercato degli Stati Uniti, il film racconta la lotta di un giudice e della polizia contro i boss della droga (sostituiti prontamente dalla mafia siciliana).

il ritmo del film è davvero implacabile, ti tiene attaccato allo schermo, si parte piano, poi è un crescendo di azione e di emozioni.

i due protagonisti, il boss e il giudice, (che un fisicamente po' si assomigliano) sono bravissimi, nelle mani di un regista che sta diventando sempre più bravo.

alla sceneggiatura il regista e la moglie Audrey Diwan (anche lei regista).

un film da non perdere, non te ne pentirai.

buona (marsigliese) visione - Ismaele

 



 

Avanza elegante questo gioiello del cinema francese: il dispiegarsi della narrazione è pura classe.

Strizza l’occhio alla (propria) tradizione polar, senza mai abbracciarne veramente l’estetica e gli schemi.

Ci troviamo infatti ad un incrocio tra Scorsese e il poliziesco all’italiana (e non certo tra Friedkin e Melville, come alcuni hanno sostenuto), il tutto però condito con quel particolare charme e quella delicatezza espositiva esclusivamente propri della tradizione cinematografica francofona…

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…Degli Scorsese, dei De Palma, dei Coppola, degli Hendricks stessi, il regista Cédric Jimenez prende il minimo indispensabile e scansa le agiografie di ciascun lato della barricata: il racconto si regala una confezione irrequieta e analogica, esita su una colonna sonora dai connotati fin troppo "greatest hits", ma si rafforza su una fotografia vintage che è tutto fuorché imposta. Anzi, quest'occhio un po' fumoso è il coltello che taglia dentro ogni inquadratura, dalle verdognole torture in magazzini sconosciuti, agli inseguimenti senza fiato nei campi, agli assassinii alle fermate dei semafori, in pieno sole, in pieno sfregio.

Certo, quello di Jimenez non è un tentativo di segnare un territorio nuovo o una cima inconquistabile, ma sottolinea lo stato di salute di una cinematografia, come quella francese, vitale perché sempre più varia e credibile. E con tutte le carte in regola per riportare in Europa la gloria del cinema di genere.

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Misurato il fascino guascone, Dujardin è il giudice Pierre Michel sotto il sole di Marsiglia e dentro la confidenziale eleganza del cinema polar. A lui spetta il compito di arrestare l'ascesa vertiginosa del villain di Gilles Lellouche, doppio somatico e versione brutale che incide sul film come la luce del Mediterraneo sulla costa marsigliese. Boss potente, che agli inizi degli anni Ottanta andrà incontro allo scacco inevitabile di chi si trova nella condizione del 'sopravvissuto', a disagio in un clima che non riconosce più, il padrino di Lellouche esercita un controllo quasi assoluto sulla città, a cui si oppongono le interiorizzazioni noir del giudice di Dujardin e gli assalti gangsteristici di Benoît Magimel, mai così libero e fisicamente dirompente.
L'ingente budget, profuso nella ricostruzione meticolosa di una Marsiglia 'dopata' tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta e per l'accoppiata divistica, non colma l'assenza della dimensione politica e storica nel film, che si sviluppa tutto sulla superficie senza mai infilare il sociologico o magari il tragico o ancora l'epica. La simmetria gangster charmant e flic incorrompibile, rinnovata dalla coppia Dujardin - Lellouche, che propongono due personaggi taciturni e sfuggenti in cui la durezza degli atteggiamenti si mescola a un senso di fragilità, resta comunque una gran bella ragione per andare al cinema e prendersi un'infatuazione.

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Storia di Pierre Michel, giudice inviato da Metz a Marsiglia nel 1975 per smantellare il traffico di eroina della French Connection guidata dal boss Tany Zampa. Storia vera, anni di piombo. Storia privata, intima, personale di due uomini dalla personalità ingombrante, dai molti nemici, la cui linea di demarcazione è tutta in un dialogo in cima a una collina, unico momento di contatto visivo tra gli immensi Dujardin e Lellouche. È nei loro personaggi, eredi legittimi di decine di volti deloniani e belmondiani, che si consuma un’e(ste)tica polar a tinte crepuscolari fatta di ambiguità morali, contraddizioni comportamentali, dissidi interiori e un’idea di legalità piuttosto malleabile da entrambi gli schieramenti. Se in interni Jimenez si rivolge alla tradizione di genere francese, è in esterni (scenografici e drammaturgici, nella messa in relazione dei protagonisti con il mondo istituzional-malavitoso) che French Connection alza lo sguardo per cercare Scorsese e Friedkin. La vicenda privata diventa così grande narrazione, equivalente transalpino del nostrano Romanzo criminale, con il quale condivide afflato corale, istinti pulp nella definizione dei personaggi e grammatiche realiste nell’abbondante uso di camera a spalla. Nella messa in scena filologica della Marsiglia che fu si riaprono ferite mai sanate: la giustizia, da quelle parti, è ancora lontana. E Michel diventa paradigma del presente.

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