Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
venerdì 28 febbraio 2025
giovedì 27 febbraio 2025
mercoledì 26 febbraio 2025
Of Money and Blood (D'argent et de sang) - Xavier Giannoli
una serie avvincnte, soldi, truffe, omicidi, indagini, ci sono tutti gli elementi per vedere cinema di serie A.
dirige un regista giovane (e bravissimo, visto il risultato), protagonista il solito eccezionale Vincent Lindon, circondato da tanti bravi attori e attrici.
la serie è composta da 12 episodi, tutti necessari e perfetti.
non mancano i riferimenti politici (Netanyahu e Berlusconi), i maledetti paradisi fiscali, la truffa è quella sui crediti di carbonio (qui qualche informazione).
una serie da non perdere (fra le tante inutili), se vi volete bene.
buona (truffaldina) visione - Ismaele
ps: si può vedere in qualche canale di streaming italiano.
…D’Argent Et De Sang sa catturare dal primo minuto per
tutta una serie di motivi. Innanzitutto, abbiamo un cast che definire perfetto
è poco. Vincent Lindon usa il solito mestiere per
concepire un servitore dello Stato carismatico, astuto e contorto quasi come i
criminali a cui dà la caccia, la parte del leone la fanno Bedia e Schneider. Il
primo con Fitoussi è la più perfetta riproduzione di truffatore che si sia
vista da moltissimo tempo a questa parte, un lestofante in cui l’attore
algerino sa far risplendere la totale mancanza di scrupoli, l’astuzia da faina
della strada, con l’arsenale fatto di carisma, faccia tosta, bugie e
manipolazione psicologica. Quasi più un prestigiatore che un semplice
dispensatore di “pacchi”, diventa tutt’uno con l’Attias di un arrogante e
infantile Schneider, sorta di totem di ogni furbetto del
quartierino appartenente alle tante dinastie patrizie
dell’Occidente moderno, cresciuto a Lamborghini e mito dell’impunità come ramo
del successo. La volpe e il gatto, il figlio dei bassifondi e il
Principe viziato, sono anche l’alto e il basso, il nero e il bianco di
un racconto che ci illumina sull’impunità come sine qua non del mercato moderno,
che in realtà è truffa legalizzata, speculazione anarchica…
…A
guidarlo troviamo il consueto, ottimo Vincent Lindon, che qui è chiamato a
vestire i panni di un brillante funzionario statale, il quale, tuttavia, si
rivela assai meno determinato ed empatico nella gestione del difficile rapporto
familiare con la figlia ventenne.
Fortunatamente per la sceneggiatura, non sempre
esente da sbavature, anche tutti gli altri interpreti riescono a dare
profondità ai propri personaggi e a portare a galla le divergenti motivazioni
che covano nell’ombra sotto l’inizialmente amichevole goliardia dei malavitosi,
facendo trasparire anche l’implicita ironia che emerge dal bizzarro
accostamento di individui dalle estrazioni sociali molto differenti.
Un sorprendente Niels Schneider, in particolare,
dà il volto a un villain inquietante e imprevedibile, che svela solo con il
passare degli episodi la propria natura più oscura e profonda, evolvendo in
maniera tanto imprevedibile quanto coerente con le vicende narrate.
D’argent et de sang è a tutti gli effetti una
serie character driven, che mette a nudo l’anima dei suoi
personaggi e ci svela come il denaro e l’avidità possano travalicare qualsiasi
barriera sociale, economica o culturale.
…Extrêmement bien documentée,
très bien écrite, très fluide dans sa narration, cette fiction inspirée
librement du livre-enquête éponyme de Fabrice Arfi,
sorti en 2018 aux éditions du Seuil, montre un Xavier Giannoli aussi à l’aise avec
l’écriture et la mise en scène d’une série qu’avec celle d’un film… dans un
style qui rappellera Le Loup de Wall Street ou Casino, avec un rythme, une mise en scène et un humour
qui font mouche dans la première partie notamment, celle qui raconte
l’ascension des voyous.
Giannoli montre
aussi, de manière très pédagogique, comment cette bande d’escrocs a réussi à
trouver la faille et à mettre en place un jeu de sociétés écrans et de
prête-noms pour développer leur business. Pas facile, quand on sait la
complexité du système financier et des échanges boursiers. Et le pari et réussi
! La série parvenant, même, au-delà du simple fait divers, à sensibiliser le
spectateur à la question écologique, en montrant clairement que la
mondialisation et la croissance des profits sont liées au réchauffement
climatique, et que, d’une certaine manière, la réussite de cet arnaque est
aussi une conséquence d’un capitalisme sauvage qui continue de malmener le
Monde et de créer des ravages sur toute la planète.
…L’inquirente-narratore
ci presenta dunque la psicopatologia del gioco, dell’azzardo, che motiva le
azioni così eccessive da poter risultare inverosimili (benché vere) dei suoi
rivali, i quali si sono conosciuti sui tavoli dei casinò per poi, a ridosso della
crisi della Lehman Brothers, darsi impunemente ai raggiri in borsa. Malgrado la
complessità della sua trama, la serie riesce così ad avvincere, anche grazie a
un’ambientazione che corre dietro ai personaggi da una parte all’altra del
pianeta (da Panama alle Filippine) con due centri nevralgici: la Parigi dei
bassifondi e dell’upper-class; e Israele dove i truffatori operano regolarmente
perché protetti dalle rispettive comunità famigliari e d’interesse e dove
possono riparare senza rischiare più alcuna estradizione facendo l’aliyah,
il ritorno alla Terra Promessa. Tanto più che il vero Mamrin e il fittizio
Attias non perdono occasione di vantarsi d’aver finanziato gli affari e le
campagne elettorali di Netanyahu. Mentre una delle sue amanti era assidua delle
feste “bunga bunga” del premier allora in carica oltralpe…
martedì 25 febbraio 2025
Uomini si nasce poliziotti si muore - Ruggero Deodato
due poliziotti che lavorano nel reparto operazioni speciali, sotto la guida del superiore (Adolfo Celi), devono risolvere casi difficili, che la polizia normale non riesce a risolvere.
usano sistemi poco ortodossi, a essere sinceri, rischiano molto, ma gli va sempre bene.
qualcuno potrà trovare il film molto violento e poco legalitario, vero, ma la questione è se il film merita la visione e la risposta è Sì.
sceneggiatura di Fernando Di Leo, una garanzia.
buona (motociclistica) visione - Ismaele
QUI
si può vedere il film completo
Ideologicamente questo"uomini si nasce poliziotti si
muore" non è proprio cosi'condivisibile.Questa coppia di poliziotti della
squadra speciale va un po'troppo per le spicce,seminando morti ovunque(tra i
malviventi)coperta da un capo connivente a cui fa comodo che i due suddetti
ripuliscano la citta' da cotanta immondizia.Formalmente il film è decisamente
riuscito con scene d'azione costruite in maniera eccellente e un po' di sana
ironia goliardica romanesca(la parentesi in cui perquisiscono la casa della
sorella -ninfomane- del boss cui stanno dando la caccia è dal schiantar dal
ridere).
…Il film, violento, maschilista, corrivo e decisamente impensabile
pensare che possa essere portato in scena oggigiorno mantenendo inalterato il
carattere e l'indole dei due gradassi protagonisti, alla sua uscita nelle
sale cinematografiche italiane fu vietato addirittura ai minori di 18
anni e sottoposto a vari tagli di alcune sequenze violente.
Tuttavia la pellicola, che inserisce nel film anche la figura, pur
solo di contorno, di una segretaria disinibita e femminista (la interpreta la
bellissima Silvia Dionisio) che tiene
testa baldanzosamente ed ironicamente ai due felloni protagonisti, riscosse un
buon successo di pubblico, tanto che la produzione pensò anche di girare
un sequel, che tuttavia non venne mai realizzato.
La coppia di uomini duri cui tutto è concesso, il biondo e il bruno,
formata da Lovelock e Porel funziona, anche se entrambi i personaggi rimangono
macchiette scolpite in superficie, personaggi senza nessuna profondità, oltre
che dalla opaca moralità di fondo. Vendicatori irriducibili che si ispirano al
giovane Eastwood di Callaghan, in un contesto tutto italiano ed in una società
d'altri tempi che è bello ritrovare qui, come in molti altri poliziotteschi,
confrontando realtà cittadine cupe e disordinate, fumose e sporche, e trovando
sollievo nelle occasioni in cui la realtà attuale appare migliore di quel
passato non troppo remoto.
…Ainsi le propos social et politique, s’il existe bien,
apparait régulièrement comme masqué, dilué par les choix du réalisateur, alors
que l’on pressent leur existence dans le scénario initial de Di Leo. Entre
autre la scène où l’on voit les deux drôles de flics bruler des voitures de
luxe devant le tripot clandestin du parrain Pasquini apparait comme le reflet
d’un véritable commentaire politique du cinéaste. D’autres de ses propos ont
totalement disparus, comme l’attirance homosexuelle entre les deux personnages
principaux, dont nous savons qu’elle était un thème sur lequel Di Leo
travaillait depuis longtemps, sans pouvoir financer le projet correspondant, et
qui fut une dimension complètement rejetée par Deodato. Au contraire, le
réalisateur pousse les curseurs à l’extrême inverse, avec des séquences
machistes particulièrement maladroites, notamment dans l’exploitation des
personnages féminins, ou dans les dialogues d’Alfredo et Antonio, d’une
lourdeur à toute épreuve. Pourtant les deux personnages ne sont finalement pas
détestables. La réussite de Deux flics à abattre repose
largement sur le charisme des deux acteurs principaux, Marc Porel et Ray
Lovelock, qui parviennent à gagner la sympathie du spectateur, malgré la bêtise
de leurs personnages. Le film repose sur une mécanique de Buddy Movie,
qui mettrait ici en scène deux sales gosses qui finiront, dans l’absolu, par
faire triompher la loi.
…Ruggero Deodato
lascia il segno con un fiero esponente di categoria, uno di quelli che
rientrano tranquillamente in un ipotetico (e, per fortuna, nutrito) gruppo di
titoli da consigliare a un neofita che decide di approfondire il mitico
poliziesco all’italiana. Una sorta di ‘buddy cop’ ante litteram,
che segue le regole del genere a cui il regista aggiunge e integra lo stile
delle proprie, dal ritmo elevato, scorretto e con una dose di violenza sopra la
media che porta a ricordarlo come uno dei più crudi e brutali in questo senso.
L’idea di Uomini
si Nasce Poliziotti si Muore viene a un altro pezzo da novanta come Fernando
Di Leo, il quale firma prima il soggetto (con i produttori Alberto
Marrias e Vincenzo Salviani) e poi la sceneggiatura, che viene proposta ad un
Ruggero Deodato in piena risalita dopo il discreto successo di Ondata
di Piacere dell’anno precedente, che aveva segnato il suo ritorno al
cinema dopo un lungo periodo di tv e spot pubblicitari, altri campi in cui si è
sempre mosso con disinvoltura. I due ebbero modo di incontrarsi una sola volta
per la prima lettura del copione, a Ruggero Deodato venne concessa piena
libertà creativa e di scelte, con Di Leo che in seguito si disse molto
soddisfatto della riuscita sullo schermo del suo script.
A mettere le cose
in chiaro ci pensa un prologo che diventa specchio dell’intero
film. Musica pop/soft rock in sottofondo, i due protagonisti girano in
moto capelli al vento quando la quiete viene interrotta da un ferocissimo
scippo in cui una malcapitata viene prima trascinata e poi presa a calci in
faccia da due malviventi in sella ad un altro ciclomotore.
E’ la miccia che
scatena una sequenza funambolica che finisce di
diritto tra le note di merito di Uomini si Nasce Poliziotti si Muore, un lungo
inseguimento motociclistico nel mezzo del traffico romano, da Via del Corso a
Piazza del Popolo, passando per gli interni (letteralmente) del bar nei pressi
della Chiesa degli Artisti, il Muro Torto, la scalinata delle Belle Arti, fino
a Piazza Monte Grappa. Una serie di prodezze a oltre cento all’ora, moto che
salgono sulle auto, percorrono gradini, sfrecciano tra veicoli e pedoni, con
piloti rigorosamente senza casco…
…Un film mitologico, e non soltanto perché
prima-e-unica volta di Deodato con il poliziottesco (fu scelto dopo l’ottimo
thriller Ondata di piacere nda), e
nemmeno per il leggendario inseguimento Via del Corso-Piazza del Popolo-Piazza
Monte Grappa fatto di soggettive e ritmo filmico travolgente e girato senza i
permessi del Comune di Roma, ma perché piena e pura espressione di un cinema
controverso, rischioso e meravigliosamente autentico, sempre più lontano dagli
attuali paradigmi industriali, eppure leggendario nell’essere ancora oggi – e
Quentin Tarantino in questo la sa lunghissima («Uomini si nasce poliziotti si
muore? Uno dei più grandi titoli di tutti i tempi, perfettamente
all’altezza del suo nome») – quintessenza di un genere da preservare
come il cinema poliziottesco all’italiana.
lunedì 24 febbraio 2025
Il seme del fico sacro - Mohammad Rasoulof
Mohammad Rasoulof è sempre bravo, gira un film clandestino, con un finale da film western, un regolamento dei conti ansiogeno e spietato.
Siamo invece in Iran, la fine è in un posto dimenticato da dio e dal mondo (dimenticato anche dai controllori e censori del potere iraniano).
Il regista, visitatore delle prigioni iraniane, lancia un atto d'accusa contro il regime e la pena di morte (come ne Il male non esiste), e riesce a scappare in Francia.
Non è il suo film migliore, è però un film urgente e resistente.
Da non perdere, è in una settantina di sale, non dovrebbe essere impossibile riuscire a vederlo.
buona visione - Ismaele
…Rasoulof
riflette sul ruolo del giornalismo moderno in Iran e dice: “Nel mio paese, non abbiamo più la fortuna di avere giornalisti liberi.
I cittadini lo diventano. Armati di telefonino, vanno alle manifestazioni e
fotografano, riprendono, pubblicando ogni cosa sui social, almeno i più
coraggiosi. Quella è forse l’unica informazione libera ad oggi in Iran, per
questo nel mio film torna la medesima riflessione. È estremamente reale lì ed è
sotto gli occhi di tutti. Posso dirvi che moltissimi video li ho recuperati
solo una volta uscito dal carcere e ne ho visionati davvero molti, così da
selezionare i più forti e dialoganti con il mio materiale narrativo. Tenendo
sempre a mente che avrei girato un film clandestinamente. Come avrei ricreato
ad esempio le scene di protesta? Non lo sapevo ancora, era soltanto una delle
moltissime riflessioni, eppure se volevo davvero realizzarlo, dovevo uscirne.
In più volevo ragionare sulla forza dei social, nel rendere più coesi e
invincibili gli attivisti e le attiviste, dando loro ulteriore coraggio, così
da vederli ancora e sempre più tra le strade e le piazze delle città, a gridare
e manifestare in nome della libertà. E poi mi sono chiesto: ma anche qualora
riuscissi a ricreare queste manifestazioni, avrei ancora questa forza cruda
della verità? Allora mi apparso importante dalla finzione, raggiungere il
realismo tipico del documentaristico.
Concludendo poi sul destino dei regimi e l’utilità
della violenza, Rasoulof chiosa: “La liberazione non passa mai
dalla violenza, a mio avviso. La ricerca di libertà della donna per esempio,
che è fortissima e sempre più evidente, rigetta su tutta la linea l’uso della
violenza, per questo è capace di imporre una svolta, un cambiamento radicale.
Sul futuro del regime iraniano invece e più in generale di tutti i regimi, ciò
che penso è espresso dal finale del mio film. È vero, estremamente metaforico e
in qualche modo perfino religioso, eppure quello che posso dirvi, in termini di
realismo crudo e quindi con grande sincerità, è che il regime annegherà nella
propria tomba, si seppellirà da solo. Chi semina vento, raccoglie tempesta.
…Sin dalla prima inquadratura, in cui in dettaglio vediamo consegnare una
pistola e delle pallottole, ci troviamo inseriti in una condizione di pericolo
imminente che pervaderà con diverse valenze tutto il film. Perché di lì a breve
quella realtà, quelle persone che Amin è chiamato a giudicare appellandosi a
una legge divina che ritiene di poter interpretare ed applicare con rigore,
inizieranno a sua insaputa ad entrare nella sua vita.
Le tre figure femminili al centro della narrazione, la madre e le due figlie,
rappresentano, con i tratti della più assoluta verosimiglianza, le dinamiche
che intercorrono tra generazioni. La madre, figlia di un uomo poco
raccomandabile, ha trovato nel marito e nel rispetto dell'ordine un suo status
che ora vede messo in discussione dalle figlie (in particolare da quella
maggiore). Ma questo è solo l'inizio perché questo è un film in cui i
nascondimenti fanno parte della necessità…
…La
sceneggiatura ha buchi evidenti, sembra che Rasoulof, nell’urgenza di
dimostrare, di denunciare, man mano semplifichi i suoi personaggi fino a farne
delle figure piatte, bidimensionali, senza reale profondità, solo simboli
alcuni del Bene altri del Male. Viene gestita in maniera confusa anche la pista
narrativa fondamentale della pistola sparita, pista abbandonata quando ne
emerge prepotentemente un’altra, quella di Iman bersaglio dei “giustizieri”
della resistenza. Finale a mio parere imbarazzante, dove la necessità del
messaggio prende il sopravvento su qualasiasi coerenza e plausibilità. Si esce
con la sensazione del capolavoro mancato per poco. Peccato. The Seed of the Sacred Fig resta però, nonostante
tutto, un film più maestoso, il più potente tra quelli visti a Cannes, il più
necessario.
…Mohammad
Rasoulof decide di veicolare il proprio j'accuse tramite un
racconto di finzione, caratterizzato tuttavia dalla stessa duplicità
riscontrabile nella struttura del film. Da una parte, si affida a un racconto
lineare, costituito dal thriller incentrato sulla ricerca della pistola e
culminante con le scene di azione del finale che sfociano nel western, in
particolare per via dell'ambientazione polverosa e desertica, oltre che per il
cliché della sparatoria conclusiva. Dall'altra parte, il lungometraggio
presenta vari nuclei narrativi: all'inizio viene accennato il problema etico
che attanaglia Iman alle prese con il suo nuovo incarico, poi vengono
affrontate le proteste e il dramma dell'amica delle figlie, in seguito subentra
la perdita della pistola e le progressive reazioni scomposte del padre. Se
l'ambientazione in interni e la scelta obbligata di concentrarsi sulla famiglia,
insieme al male che in modo strisciante la avvelena, assicurano unità a questa
molteplicità di nuclei narrativi altrimenti irrisolti, è anche vero che questi
ultimi contribuiscono a dividere e a frazionare le relazioni fra i quattro
protagonisti disponendoli secondo cerchi concentrici: dall'esterno all'interno
troviamo il padre alle prese con il nuovo incarico e con i problemi che questo
comporta, poi la madre, punto di congiunzione fra Iman e le figlie, infine
queste ultime, intente a relazionarsi al modo esterno simboleggiato dall'amica
e dalle proteste…
…Come già nei quattro episodi de Il male
non esiste, Rasoulof parte dalla
questione morale di un personaggio che si ritrova al bivio tra la coscienza e
il dovere, costretto ad affrontare i mostri delle proprie responsabilità. Ma è
solo un punto di partenza. Perché non è lui il cuore del film: il solo fatto di
essere dalla “parte sbagliata” (e su questo non possono esserci dubbi), lo
condanna inesorabilmente a stare nell’ombra. Fino a essere l’ombra. Rasoulof,
invece, si concentra sulle donne della storia, coerentemente con lo spirito dei
tempi e le infuocate proteste per la morte di Mahsa Amini (la cui immagine,
ovviamente, appare nel film). Dunque, sono la moglie Najmeh e le due figlie,
Rezvan e Sana, il vero fulcro del discorso politico di Il seme del fico sacro. Che ruota intorno alla
dialettica delle loro posizioni e delle loro reazioni, il modo in cui si
rapportano all’autorità del capofamiglia e quindi, più in generale, alle gabbie
stringenti della teocrazia. Ed è qui che vengono in rilievo le differenze
generazionali. Perché se le ragazze sono pronte a mettere in discussione
quest’autorità, chi in modo più istintivo e giocoso (la minore, Sana), chi in
maniera più consapevole (la maggiore, Rezvan), Najmeh farà più fatica a
liberarsi dalle imposizioni del suo ruolo di moglie e madre, sospesa tra la
devozione al marito, l’egoistica difesa della sicurezza familiare e la
percezione delle ingiustizie del sistema…
…Tre ore o quasi di grande, grandissimo
cinema, che un po’ per intensità di racconto e un po’ per realismo crudo,
spietato e documentaristico, volano via come un soffio, tenendo lo spettatore
incollato alla poltrona. Costringendolo in più di un momento a guardare
altrove, pur suggerendogli di non farlo, così da renderlo partecipe di uno
spaccato storico/sociale e politico, che non guarda ad un tempo che è stato,
piuttosto ad un tempo che è. Se estraneo, nella fortuna, se vicino nell’allerta
di un pericolo e di una violenza sempre più feroci, orrorifiche e imminenti. Un
impavido, glorioso e brutale inno alla femminilità, alla forza del popolo, cui
non resta altro se non continuare a combattere in nome della libertà, della
vita e di un’osservazione di fede adeguata e non estremista e al tempo stesso
un inno al cinema. Rasoulof ha firmato un capolavoro e clandestinamente lo ha
condotto fino a qui e a noi. Celebriamolo e non abbassiamo lo sguardo. Mai.
domenica 23 febbraio 2025
venerdì 21 febbraio 2025
Sissignore - Ugo Tognazzi
Oscar (interpretato da Ugo Tognazzi) è uno schiavo, moderno, dell'Avvocato.
è il suo prestanome, anche la donna che sposa (Mary) è l'amante dell'Avvocato.
Oscar è umiliato ogni momento, e però è sempre riconoscente al suo padrone.
non è un film comico, è tragico.
è un film da vedere, senza dubbio.
buona (ansiogena) visione - Ismaele
…questo è un film sorprendente ambientato in una Milano che
sembra quasi una riedizione fantascientifica della Swinging London,con interni
arredati con gusto avveniristico,con una storia che a prima vista fa ridere ma
poi mano a mano mostra la sua agghiacciante sgradevolezza.Così partiamo da una
cella di prigione corredata di radio e addirittura tv,passiamo attraverso una
moglie di facciata(tutta moine e sospiri,vestita di drappeggi kitsch che ha le
forme di Maria Grazia Buccella)con cui naturalmente non si ha nessun contatto
fisico,quelli sono tutti a favore dell'Avvocato,si prosegue per un diploma di
ragioniere ottenuto a propria insaputa,un posto da amministratore delegato in
fabbrica fino a diventare ingegnere navale giusto per vedere la pima nave
progettata andare miseramente a fondo.E donerà all'avvocato anche un
orecchio.Però diventerà padre e apprenderà la notizia mentre è rinchiuso (per
pochi anni si spera)in una cella che sembra una camera d'albergo di lusso.Una
sublime sintesi tra il comico dell'assurdo,l'amarezza e la consapevolezza di
essere stato disgregato dal suo padrone.la felicità a denti stretti guardando
il tutto da dietro le sbarre,il cosiddetto sole a scacchi,vivere la prorpia
vita per interposta persona.
…Sissignore è esteticamente
audace, pieno di richiami alla pop art nei colori scarlatti di
Giuseppe Ruzzolini, montato con approccio sincopato come se si stesse saltando
sul lounge di Berto Pisano. L’hanno scritto tre penne assurde: Tonino Guerra e
il suo afflato poetico non ancora usurato dalla maniera; lo sfortunato Franco
Indovina, che proprio nel ’68 si lascia esplodere ne Lo scatenato,
pazza satira pubblicitaria; Luigi Malerba e il thrilling al servizio
dell’avanguardia.
Tognazzi è un
protagonista che anticipa e postula il Fantozzi che verrà: pur senza gli
eccessi comici e la tragedia introiettata, è difficile non ravvisare un
embrione di quel carattere nel servile autista che finisce per accollarsi la
responsabilità dell’incidente provocato dal suo padrone. Difficile, inoltre,
non trovare nello pseudonimo dell’industriale una gustosa
cattiveria: come si fa a non pensare proprio a lui, ogni volta che
sentiamo il nome “l’Avvocato”?...
Commedia ambiziosa e kafkiana, in cui Tognazzi cerca la prova di
maturità (come regista: come attore ovviamente l'aveva già data). Purtroppo il
ritmo non è sempre adeguato al tema grottesco che il soggetto avrebbe
richiesto, e le strizzatine d'occhio sull'alienazione modernista (sceneggiano
due collaboratori di Antonioni) si riducono all'insistenza sul futurismo
dell'arredamento pop e sulle musiche lounge (pur ottime) di Berto Pisano.
Comunque da vedere, grazie anche a un Moschin grandioso come sempre.
In mezzo a una storia di sottomissione decisamente non banale e
al solito magistralmente interpretata da Ugo Tognazzi ci sono tante altre cose
interessanti. Una su tutte: l'avvento del capitalismo finanziario, con
l'industria che viene inaugurata non per produrre ma per essere acquistata
dalla concorrenza. Molto più profondo di quanto possa sembrare a prima vista.
Peccato per i ruoli femminili che non vanno oltre la macchietta.
giovedì 20 febbraio 2025
martedì 18 febbraio 2025
L'uomo nel bosco (Miséricorde) - Alain Guiraudie
il titolo italiano è completamente diverso dal titolo francese, ma ci siamo abituati.
non si capisce bene cos'è questo film, d'amore, un thriller, umorismo nero, di gelosia.
quello che è sicuro è che non ci si annoia, bravi attori nelle mani di un bravo regista, colpi di scena continui, apparenze che diventano altro, si inizia con un morto, poi un altro, c'è un prete sorprendente, una vedova che sa il fatto suo, due gendarmi che non riescono a capire cosa succede.
purtroppo si può vedere solo in una decina di sale, anche a questo siamo abituati.
cercatelo e godetene tutti.
buona (difficile da vedere) visione - Ismaele
…Al
netto della serietà con cui inscena le trame del desiderio, "Miséricorde"
è altresì un film infuso di toni da commedia nera, ma più che accentuare le
deviazioni grottesche dell’intreccio, sembra intento a cogliere con naturalezza
i sintomi della quotidianità cui aderisce. Nell’universo di Guiraudie che si
pasteggi coi funghi concimati da un corpo in disfacimento non è fatto più
inconsueto di un ateo che confessi un parroco - su richiesta, si badi, del
prelato, il quale d’altro canto, come il giovane curato che ne "Le due
zittelle" di Landolfi arringava in favore della scimmia sbafatasi un
piatto di Ostie consacrate, si premura di dichiarare apertamente le sue
posizioni ereticali sul delitto e il castigo in quella che è la scena più
esplicita di questa operetta morale. E se le vicissitudini di un cadavere
sepolto, dissepolto e ri-sepolto richiamano alla memoria quello che è il film
più inglese di Alfred Hitchcock, vale a dire "La congiura degli
innocenti", l’implacabile coppia di poliziotti si innesta in un solco tra
le stravaganze di Bruno Dumont e una invenzione à la Chabrol,
incarnando l'ortodossia del senso comune e della morale tradizionale.
Aderendo al principio di Flaubert, secondo cui il maggior esito nell’arte non
consiste nel far ridere o piangere, ma nel saper agire come fa la natura,
Guiraudie rifiuta l’enfasi e si mette in ascolto del battito sotterraneo che
anima le cose del mondo. Lo spia, per così dire, con una macchina da presa ad
altezza d’uomo, per scrutare i corpi, per desiderarli e farli desiderare, con
quella casta impudicizia d’adolescente che da sempre informa il suo cinema.
… Perché, dunque, in L’uomo
nel bosco Jérémie sembra quasi volersi sostituire alla figura del
figlio e al tempo stesso a quella del padre, tornando metaforicamente (ma
nemmeno troppo) verso il corpo della madre? E perché, nel suo risalire alle
origini della vita incontra la morte, e dunque la colpa, senza assumersene la
responsabilità? E chi, allora, lo farà per lui quel gesto di misericordia per
cui la salvezza passa per la menzogna, il travestimento, il silenzio?
L’immoralità del cinema di Guiraudie sta nella
confusione dei comportamenti e dei valori mostrati; nell’oscenità intesa
letteralmente come “fuori scena” e normalmente come offensiva verso il comune
senso del pudore, perché tutto nel suo mondo grezzo e istintuale è confuso,
stravolto, non conforme, non spiegato (e buffo), eppure stranamente – ed è qui
lo scandalo – naturale, istintivo. Naturale perché istintivo…
…C’è anche Jérémie, anche lui corpo mutante. Sotto
questo aspetto è incredibile il volto di Félix Kysyl (vittima? carnefice?
entrambe le cose?) in un gioco di dipendenza con Catherine Frot che sembra
uscita da un film di Chabrol. Diventa quasi l’attore di una calibrata
messinscena teatrale dove ha bisogno di interpretare più personaggi; ha addosso
infatti i vestiti del fornaio deceduto e vuole mettersi quelli di Walter.
Potrebbe fare tutti i ruoli, come
Dénis Lavant con Léos Carax. Ma anche
scomparire, essere un fantasma, guardare da fuori questa versione nera di
Rohmer – una specie di ‘conte macabre’ – dove le traiettorie dei
protagonisti di “Commedie e proverbi” possono essere anche simili ma a muoversi
non sono i corpi umani ma gli zombie. Un film in continuo disequilibrio come
gran parte dell’opera di Guiraudie, che cerca di dare forma al mistero tra la
gravità delle azioni e la banalità del male. Il titolo originale, Miséricorde, forse ne racchiude parte del senso più
profondo. Magistrale.
…Miséricorde si
rivela uno spasso per come riesce a districarsi tra malizie, segreti e verità
inconfessabili, ardori tra uomini che si rivelano segreti di Pulcinella, e il
candore dei sentimenti che giustifica atti e comportamenti impulsivi che gli
abitanti del paesello risultano vivere con incosciente ma vitale entusiasmo, e
soprattutto slanci erotici incontenibili.
Molto valida la prestazione del protagonista, il giovane ed
ambiguo Félix Kysyl, attorniato dalla sempre rassicurante Catherine Frot, vedova chioccia moto meno
ingenua di quello che potrebbe apparire a prima vista.
Ma la figura più potente, si potrebbe azzardare di tutto il cinema
del 2024, è quella dell'astuto prete, abile nel mettere in atto un proprio
sentimento di giustizia e di colpa/espiazione tutto suo.
Un personaggio strepitoso, che si mette letteralmente a nudo esibendo
l'erezione più clamorosa degli ultimi anni.
… Les Cahiers du cinéma lo
hanno collocato in cima alla classifica dei migliori film del 2024, certo è un
film che non lascia indifferenti. Se mai è poco pubblicizzato e, di
conseguenza, poco visto. Peccato, L’uomo nel bosco è
di notevole sottigliezza ottenuta con gradi successivi e quasi inavvertiti di
penetrazione…
…L’uomo
nel bosco, il cui titolo originale è Misericordia, è
un’opera a dir poco misteriosa. L’estrema cura nel
mostrarci i suoi lunghi dialoghi è accompagnata dalla costante
sensazione che nessuno stia dicendo tutta la verità, che nessuno sia davvero
chi afferma di essere. Molte delle sequenze in cui vediamo i personaggi parlare
tra di loro sembrano arrivare allo spettatore come brevi frammenti di
conversazioni origliate da dietro una porta, in cui non si conosce
bene il contesto del discorso e si può soltanto continuare a ipotizzare. Come
la fitta foresta in cui il protagonista si aggira in cerca di funghi nasconde
innumerevoli segreti, così anche le stesse parole degli abitanti del
paesello celano qualcosa, e non soltanto i posti dove è più facile
trovare i porcini.
L’alone
di mistero generale è però compensato da una regia estremamente
realistica, che rifiuta persino la colonna sonora se non per il segmento
iniziale dei titoli di coda. Lo sguardo di Guiraudie sulle vie e casette del
paese, ma anche sullo splendido bosco che lo circonda, risulta talvolta molto
simile a quello che si può trovare in un dipinto realista di fine Ottocento, ad
esempio le opere del nostro connazionale Teofilo Patini. Così anche la visione
dei rapporti umani, che risultano ridotti all’osso, scarni,
ma allo stesso tempo sembrano nascondere qualcosa di più profondo e
viscerale. Il tutto risulta essere in uno stato di ambiguità e
di assurdo, di oscillazione tra quello che sappiamo, quello che pensiamo di
sapere e quello che bisogna tenere nascosto, come ci ha sempre insegnato la
realtà del paesino di provincia. Anche lo stesso Jérémie è parte di
questa ambiguità, silenzioso, chiuso e quasi in imbarazzo nelle
prime volte in cui compare sullo schermo, finché poco dopo non viene
messo letteralmente a nudo davanti ai nostri occhi, sia a
livello fisico che soprattutto psicologico.
L’uomo
nel bosco è un film che ha come obiettivo quello di confondere,
poi intrappolare lo spettatore all’interno della sua storia, e
infine lasciarlo lì solo, seduto sulla poltroncina a chiedersi “e adesso?”. È
un Possum senza il suo mostro, una visione assurda delle
pulsioni e perversioni umane che non possono essere portate a galla. È uno
sguardo su qualcosa che traspare soltanto, come fa il sole tra i rami degli
alberi in un fitto bosco. E forse proprio per questo merita di essere visto.
lunedì 17 febbraio 2025
Do Not Expect Too Much from the End of the World (Non aspettarsi troppo dalla fine del mondo) - Radu Jude
Radu Jude non delude mai.
in questo film ci sono tanti fatti piccoli e sorpendenti, diverse storie che si rincorrono e si intersecano nella stessa giornata.
Angela Raducani (che ha girato altri film del regista) è interpretata dall'instancabile Ilinca Manolache, che corre come un criceto, una lavoratrice schiava tuttofare.
sono passati i tempi nei quali i lavoratori erano organizzati e contavano qualcosa, la Romania è in mano alle multinazionali che lasciano il paese sempre più povero, l'unica ribellione di Ilinca è quella di creare un personaggio su TikTok, sboccato e sincero, l'unico spazio di libertà per Ilinca.
il film è pieno di citazioni e, per quanto sembri una stramberia, è un godimento per chi guarda.
peccato che il film sia stato nelle sale poco e male, gli attori sono davvero bravi, cercatelo e godetene tutti.
buona visione - Ismaele
…Do not expect too much from the end of the world è un
film lungo; un film che condensa tanti generi, e innumerevoli registri
cinematografici. Ciononostante, quello diretto da Radu Jade è un film che
compie una magia più unica che rara: riesce a raccogliere nello spazio dei propri
raccordi tutta l'esasperazione di giovani costretti a ore interminabili di
lavoro, e una ricerca di evasione dalla realtà nello schermo di uno smartphone.
Un mix esplosivo generante un ritratto della nostra quotidianità, dipinta con
caustica e irresistibile ironia, abile nel coinvolgere il proprio pubblico fino
a inserirsi nello strato più profondo della sua anima.
…La satira dai toni grotteschi sulla società
contemporanea, il gioco degli opposti pieno di citazioni, aforismi, battute e
scambi tra registri non può più essere considerato (soltanto) un semplice
esercizio di stile. Questo film di superfici,
come l’ha definito lo stesso Jude, riassume nell’unità del film-aforisma tutte
le suggestioni del suo cinema e analizza con una straordinaria profondità
riflessiva le immagini del mondo in cui viviamo. Basta un TikTok per avere contezza di temi come la morte,
lo sfruttamento sul lavoro, la gig economy, la guerra in Ucraina? Dramma, in
parte commedia, in parte road movie, in parte film di montaggio, in parte film
d’archivio (Angela merge mai departe, 1981) che sconfina attraverso
i suoi protagonisti (Dorina Lazăr, László Miske) all’interno della pellicola
contemporanea di Jude.
Do Not Expect Too Much From the End of the
World è un
film stratificato, denso, per cui un’unica visione non basta a decifrarne
completamente la portata riflessiva. Un ulteriore passo in avanti nella
filmografia di uno dei cineasti europei la cui analisi sulla contemporaneità
sembra aver raggiunto il suo apice espressivo.
Nell’estenuante traffico di Bucarest, la satira
di Radu Jude viene scandita da nuove nevrosi in bianco e nero, alter ego di
TikTok e colori d’archivio. Un ambizioso gioco di registri che culmina
nell’apice espressivo del regista romeno, grottesco, esasperato, tragicamente
realistico. Le violenze del capitalismo contemporaneo intercettano gli anni di
Ceaușescu in uno stratificato ‘film di superfici’ fatto di digressioni,
aforismi, antitesi, censure. Nulla è lasciato al caso: tutto opera al servizio
di un unico, lucidissimo, grande delirio, molto più grande dello stesso film,
che non assomiglia a nulla di già visto.
Il sottotitolo del nuovo film di Radu Jude,
ovvero Do Not Expect Too Much From the End of the World, è
“dialogo con un film dal 1981”. È quindi evidente che, come nel caso di The
Marshal’s Two Executions (2018) e Tipografic majuscul (2020)
ci troviamo ancora una volta davanti a quello che è innanzitutto un sofisticato
esercizio di montaggio. Un film di finzione che racchiude in sé spezzoni di un
film precedente, quello diretto appunto nel 1981 da Lucian Bratu e
intitolato Angela Goes On, utilizzato da Jude come capsula del
tempo utile a documentare la Bucarest degli anni Ottanta, quindi dell’era
di Ceaușescu, che diventa la base visiva per una serie di
evocative giustapposizioni della città di allora e di oggi. Jude richiama così
in scena Angela Coman (Dorina Lazăr), la protagonista - oggi
anziana - di Angela Goes On (o Angela Moves On, titolo dal
significato ambivalente, che al movimento nello spazio ne associa anche uno
emotivo), che nel film originale guidava moltissimo per le strade di Bucarest
per guadagnarsi da vivere. Il montaggio alternato di Radu Jude invita il
pubblico a confrontare la Bucarest mappata dall’immaginaria Angela di Bratu nel
suo ruolo di tassista, mentre l’era di Ceaușescu stava appena entrando nel suo
ultimo decennio, con la Bucarest attraversata dalla nuova protagonista del suo
film, anche lei Angela e anche lei in auto, più di 40 anni dopo. Ci troviamo
davanti a una città molto più trafficata, con un numero esponenzialmente più
alto di auto a intasare le strade della capitale e a scaricare polveri
inquinanti nell’aria, al punto che le immagini provenienti dal passato
socialista ci appaiono preferibili e avvolte da un nostalgico romanticismo. Ma
ovviamente è tutto un gioco di percezioni, un modo per svelare come il cinema -
così ieri, così oggi - possa manipolare la realtà e dare una visione falsata
della stessa…
…Lontano da ogni scialba ambizione di perfezione
tecnica, Jude è autenticamente rosselliniano (con
buona pace dei più rigidi e scandalizzati cultori del magistero del regista
di Paisà) per la sua capacità di costruire il reale attraverso il
rapporto tra l’uomo e lo spazio, tra l’immediatezza della rappresentazione e
l’azzeramento delle distanze, tra la schiettezza delle emozioni e la continua
scoperta dei luoghi, tra la forza dell’involucro narrativo e le continue
epifanie della realtà che costringono a rimettere ogni scena (e ogni scelta) in
discussione.
Non solo, però. L’autore di Sesso sfortunato o follie porno (con cui fu premiato con l’Orso d’oro a
Berlino) riprende da Rossellini anche la necessità
di superare certe contraddizioni del linguaggio da riunire in un nuovo progetto
espressivo, anche se il suo sguardo a volte sembra quello di un moralista
ottocentesco e a volte quello di un Voltaire meno incarognito. Così, la
semplicità quasi sciatta del webcasting si unisce a una fotografia (di Marius
Panduru) – in bianconero per la maggior parte della durata – quasi
piatta e volutamente senza profondità, realizzata con mezzi pressoché
amatoriali (c’è anche il flickering della luce sui muri) ma di una solidità
corrusca e perfino scultorea.
Senza contare che la vicenda di Angela dialoga con
quella dell’omonima protagonista del vecchio film di Lucian Bratu Angela
merge mai departe (1981, titolo internazionale Angela
Moves On), che come lei vaga in auto (qui, per la precisione, si tratta di
un taxi) per le strade di Bucarest. Spezzoni di questo film vengono mostrati e
integrati alla narrazione non solamente come semplice contrappunto. Con un
geniale colpo di scena, infatti, si verrà a scoprire che il personaggio
principale (non la sua interprete Dorina Lazar, che pure
riprende il ruolo) di Angela Moves On è anche la madre di
Ovidiu (Ovidiu Pîrșan), colui che sarà poi scelto per raccontare la sua
sfortunata vicenda nello spot-progresso. Ennesima dimostrazione di un’idea
di cinema liberissima (e per questo radicale), dove il nichilismo
si stempera nella beffa: in fondo conviene «non aspettarsi troppo
nemmeno dalla fine del mondo», suggerisce il titolo «rubato»
all’aforista polacco Stanisław Jerzy Lec. Come a dire che
ogni individuo sembra impossibilitato a costruirsi realmente il proprio futuro
senza prima ritagliarsi uno spazio di libertà all’interno di un mondo
recalcitrante a essere ridotto ai voleri del singolo.
A fare di Do Not Expect Too Much from
the End of the World un capolavoro, però, è la
capacità di Jude di condensare il discorso
all’interno della sua ricerca stilistica che ha la quieta temperanza del gioco.
L’apparente eterogeneità del linguaggio, infatti, serve per dimostrare un
assunto apparentemente semplice: al giorno d’oggi ogni immagine può essere
messa in comunicazione con qualsiasi altra. Non importano le sue origini, i
suoi contorni, il suo formato, la sua destinazione d’uso e il suo significato
originario: ogni differenza può essere integrata, senza pregiudizi o gerarchie.
Un discorso che, in fondo, si è invitati a traslare dal piano ludico e
semiserio del film ad altri e ben più importanti aspetti della realtà e della
vita.
…Il caos di Non
aspettarti troppo dalla fine del mondo è più simile a quello che si
intendeva nelle cosmogonie della Grecia antica: una massa oscura e palpitante,
sotto la cui superficie si muovono le cose che saranno, che prima o poi
verranno, e chissà, magari sotto la coltre oscura riposano anche le macerie di
quello che è stato in un’altra iterazione dell’eternità. Cosa siano, queste
cose, al momento non è dato saperlo: angeli che verranno a salvare il cinema? I
demoni che lo malediranno? Jude ha detto che il suo prossimo progetto è un film
girato tutto con l’iPhone in formato 9:16. Perché? Perché è il formato
attraverso il quale la maggior parte delle persone che esistono oggi
esperiscono il mondo. Perché da tantissimi è considerata, questa, la forma del
brutto. Perché per Jude TikTok e Instagram possono ancora essere strumenti
d’arte, inizio di un nuovo cinema vernacolare, e qualcuno deve pur cominciare a
mettere le fondamenta di questa Decima arte fatta di schermi verticali e video
di 30 secondi al massimo. Magari è così che il cinema si salverà, o forse Radu
Jude è l’agente del caos, l’angelo del male, l’araldo dell’apocalisse venuto ad
annunciarci che il cinema è morto – e quindi il mondo è finito – e queste sono
le ceneri che ne restano, a noi la scelta se chiuderle in una teca e piangere o
usarle per concime e sperare che qualcosa nasca. Sempre meglio, però, non
aspettarsi troppo dalla fine del mondo.
sabato 15 febbraio 2025
venerdì 14 febbraio 2025
The Brutalist - Brady Corbet
la storia di László Toth è quella di tutti gli immigrati poveri negli Stati Uniti d'America (dove tutti sono migranti di prima, di seconda, di n-generazione, gli indigeni sono stati, quasi tutti, sterminati).
i (merdosi) riccastri degli Usa sono corrotti, antisemiti (solo con gli ebrei poveri), a volte sono come Henry Ford, massone di Rito Scozzese al massimo grado e sostenitore dei nazisti e di Hitler.
László (interpretato da Adrien Brody) arriva a Ellis Island e sarà ospitato dal cugino (interpretato da Alessandro Nivola, nipote di Costantino Nivola, muratore e architetto, fra le tante arti che ha esercitato, e Ruth Guggenheim, arrivati a New York dall'Italia nel 1939, per sfuggire alle leggi razziali), poi starà in un dormitorio e infine incrocia, in qualità di architetto, il riccastro Van Buren (interpretato da Guy Pearce), un tipo alla Trump, tutto si può vendere e comprare, e quello che non gli danno se lo prende con la forza.
il sogno americano è un incubo per quasi tutti, per quelli che non comandano niente.
intanto per una volta, nelle multisale, non ci sono dieci minuti di pausa con le immagini di bibite e popcorn gravemente dannosi per la salute, ma per un quarto d'ora d'intervallo, imposto dal regista, sullo schermo c'è l'immagine fissa della foto del giorno di matrimonio di László e Erzsébet, a Budapest, davanti alla sinagoga.
il film dura tre ore e mezzo, e ogni minuto è necessario, ed è cinema di altissimo livello (forse l'epilogo alla Biennale di Venezia è di troppo, questione di gusti).
ci sono tante idee, citazioni, suggestioni, da Paul Thomas Anderson a Orson Welles (per esempio la processione sul crinale della collina sembra, almeno per me, un omaggio a Welles, da Othello).
insomma, uno dei più bei film dell'anno, da non perdere, se vi volete bene.
buona (prolungata) visione - Ismaele
…Il progetto
consentirà a Toth di ricongiungersi finalmente con la
moglie Erzsebet (Felicity Jones, nel miglior ruolo della
sua carriera), inizialmente rimasta in Ungheria e costretta in sedia a rotelle
a causa degli stenti patiti durante la guerra, e con la figlia autistica Zsofia (Raffey
Cassidy, sempre più brava e inquietante), ma lo renderà anche
completamente succube dei soldi e soprattutto dei capricci di Van
Buren, le cui divergenze artistiche sulla costruzione dell'opera
mineranno irreversibilmente il fisico e la psiche dell'architetto, spingendolo
sull'orlo della pazzia e rendendolo sempre più schiavo dell'oppio e della
droga. Il rapporto malato tra i due uomini ha ricordato a molti critici, con
ragione, il cinema bigger than life di P.T.
Anderson, sia ne Il Petroliere che soprattutto in The
Master, prendendolo come pietra di paragone per mostrarci un'America
violenta, prevaricatrice, razzista, che sfrutta gli stranieri e gli immigrati
per tornaconto personale e li getta via come scarpe vecchie una volta che non
gli servono più.
The
Brutalist per almeno 3/4 della sua durata è un film strepitoso, ambizioso,
perfino eccessivo, e proprio per questo ancora più coraggioso e meritorio. Solo
nell'ultima parte si sfalda un po', prendendo (forse volutamente) una piega
eccessivamente cupa e arrivando in qualche caso al limite del buon gusto (come
nella scena in assoluto più drammatica e sopra le righe, quella girata nelle
cave di marmo di Carrara - che non intendo svelarvi - in cui la relazione
tossica tra i due protagonisti arriverà al punto di non ritorno) ma che non
intacca minimamente l'epicità della storia nè la morale di fondo: di come,
cioè, la ricerca di una nuova Patria possa spesso avvenire a scapito
dell'esclusione e della sofferenza altrui. Perchè il fine giustifica i mezzi,
nella società ultracapitalista. E perchè, come spiega il protagonista a un
passo dalla morte, "nella vita conta la méta, non il
viaggio".
…In sintesi, "The Brutalist" è il più
classico dei "vorrei ma non posso". Malgrado elementi di pregio e
sequenze notevoli (le cave di Carrara su tutte), mantiene poco rispetto alle
sue smisurate ambizioni. Se l'architettura è, come sosteneva Le Corbusier,
"capacità di stabilire attraverso materie inanimate dei rapporti in
movimento", Corbet qui fa esattamente il contrario, utilizza i rapporti in
movimento tra immagini e suoni ma non riesce mai veramente ad animare i suoi
personaggi e la sua storia, troppo impegnato ad aprire parentesi mai chiuse. A
visione finita, la lotta immane di Toth per erigere un edificio che non si sa
bene se sia una biblioteca, una chiesa o un centro congressi, ricorda anche
troppo il rapporto di Corbet con il suo film, una figura immensa che sembra
ancora in gran parte prigioniera del marmo. Chissà che la citazione di Goethe
che apre il film, "nessuno è più schiavo di chi si crede libero", non
si possa leggere anche come una sottile autocritica.
…The Brutalist
vuole ribaltare il mito del sogno americano: non c’è
spazio per i momenti di gioia, niente scorre liscio, si entra continuamente in
conflitto con la società e il sistema capitalistico per mantenere la propria
identità, un puzzle che lentamente cade a pezzi e i tentativi per ricostruirlo
non possono avere effetti.
Corbet maneggia la
sceneggiatura per creare un’opera ineccepibile dal punto
di vista audiovisivo, costruendo una messinscena che nei 215 minuti non risulta
essere mai pesante, lasciando lo spettatore di fronte a un lungometraggio, sì,
lento, ma martellante…
…Corbet realizza un’opera torrenziale, un
affresco, una parabola sui tormenti di un artista, divisa in ouverture, epilogo
e intermission. Questo perché Corbet si prende il suo tempo per creare un
dramma epico con protagonista uno straordinario Adrian Brody. The Brutalist è un film audace, ambizioso, un
film che usa le forme, i colori e il suono per sottolineare l’oppressione a cui
è sottoposto Lázsló e i muri in cui si imbatte. László è un uomo a pezzi,
troppo generoso per riuscire a sopravvivere in una società capitalista, quella
stessa società che, attraverso le mire megalomani ed espansionistiche di van
Buren, finisce per risucchiarlo…
…The Brutalist è un'opera
straordinariamente ambiziosa che sfida lo spettatore con la sua densità
tematica e la sua durata considerevole.
Corbet
costruisce un film che è al tempo stesso un dramma storico, un ritratto
psicologico e una riflessione sul ruolo dell'arte nella società che
rendono questa pellicola un'esperienza cinematografica intensa e
indimenticabile.
E’ durata
circa dieci anni la gestazione di questo film, vuoi per i soliti problemi di
finanziamento (enormi per un film indipendente) vuoi per la pandemia, sta di
fatto che The Brutalist possiede le stigmate di quei film che passano alla
storia, quelle opere monumentali che sono un palcoscenico maestoso su un
racconto carico di emozione e di drammaticità; l’opera di Corbet, che
ricordiamolo è il più europeo dei registi americani, possiede la grandezza del
Cinema che sa trasportare, il cinema eroico, quello che ti tiene incollato
sulla sedia e con gli occhi sullo schermo; non a caso il regista decide di
utilizzare il sistema Vista Vision a 70 mm il cui ultimo utilizzo era stato
negli anni 50, proprio per rendere il più reale e coinvolgente possibile
l’esperienza visiva, alla quale concorre una fotografia ed un bianco e nero
elegantissimi e glaciali nella loro bellezza ed una colonna sonora
di Daniel Blumberg sempre ben coerente con lo sviluppo narrativo.
Il cast è
eccellente ma le prove di Adrien Brody e Guy Pearce , entrambi candidati
all’Oscar, sono al limite della perfezione nella loro perfetta adesione ai
rispettivi personaggi.
Ribadiamolo,
non è un film per tutti: la sua narrazione frammentata, i suoi toni cupi e la
sua lunghezza potrebbero scoraggiare alcuni spettatori. Tuttavia, per chi cerca
un cinema che stimoli la riflessione e offra un'esperienza estetica e
intellettuale di alto livello, The Brutalist rappresenta un
capolavoro contemporaneo che lascia il segno, uno di quei film che entreranno
di diritto tra quelli che fra 50 anni verranno ricordati; basterebbe un film
come questo, ogni 2-3 anni ,a far sì che il Cinema abbia una ragione di
esistere.