mercoledì 26 febbraio 2025

Of Money and Blood (D'argent et de sang) - Xavier Giannoli

una serie avvincnte, soldi, truffe, omicidi, indagini, ci sono tutti gli elementi per vedere cinema di serie A.

dirige un regista giovane (e bravissimo, visto il risultato), protagonista il solito eccezionale Vincent Lindon, circondato da tanti bravi attori e attrici.

la serie è composta da 12 episodi, tutti necessari e perfetti.

non mancano i riferimenti politici (Netanyahu e Berlusconi), i maledetti paradisi fiscali, la truffa è quella sui crediti di carbonio (qui qualche informazione).

una serie da non perdere (fra le tante inutili), se vi volete bene.

buona (truffaldina) visione - Ismaele

ps: si può vedere in qualche canale di streaming italiano.


 

 

 

…D’Argent Et De Sang sa catturare dal primo minuto per tutta una serie di motivi. Innanzitutto, abbiamo un cast che definire perfetto è poco. Vincent Lindon usa il solito mestiere per concepire un servitore dello Stato carismatico, astuto e contorto quasi come i criminali a cui dà la caccia, la parte del leone la fanno Bedia e Schneider. Il primo con Fitoussi è la più perfetta riproduzione di truffatore che si sia vista da moltissimo tempo a questa parte, un lestofante in cui l’attore algerino sa far risplendere la totale mancanza di scrupoli, l’astuzia da faina della strada, con l’arsenale fatto di carisma, faccia tosta, bugie e manipolazione psicologica. Quasi più un prestigiatore che un semplice dispensatore di “pacchi”, diventa tutt’uno con l’Attias di un arrogante e infantile Schneider, sorta di totem di ogni furbetto del quartierino appartenente alle tante dinastie patrizie dell’Occidente moderno, cresciuto a Lamborghini e mito dell’impunità come ramo del successo. La volpe e il gatto, il figlio dei bassifondi e il Principe viziato, sono anche l’alto e il basso, il nero e il bianco di un racconto che ci illumina sull’impunità come sine qua non del mercato moderno, che in realtà è truffa legalizzata, speculazione anarchica…

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A guidarlo troviamo il consueto, ottimo Vincent Lindon, che qui è chiamato a vestire i panni di un brillante funzionario statale, il quale, tuttavia, si rivela assai meno determinato ed empatico nella gestione del difficile rapporto familiare con la figlia ventenne.
Fortunatamente per la sceneggiatura, non sempre esente da sbavature, anche tutti gli altri interpreti riescono a dare profondità ai propri personaggi e a portare a galla le divergenti motivazioni che covano nell’ombra sotto l’inizialmente amichevole goliardia dei malavitosi, facendo trasparire anche l’implicita ironia che emerge dal bizzarro accostamento di individui dalle estrazioni sociali molto differenti.
Un sorprendente Niels Schneider, in particolare, dà il volto a un villain inquietante e imprevedibile, che svela solo con il passare degli episodi la propria natura più oscura e profonda, evolvendo in maniera tanto imprevedibile quanto coerente con le vicende narrate.
D’argent et de sang è a tutti gli effetti una serie character driven, che mette a nudo l’anima dei suoi personaggi e ci svela come il denaro e l’avidità possano travalicare qualsiasi barriera sociale, economica o culturale.

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Extrêmement bien documentée, très bien écrite, très fluide dans sa narration, cette fiction inspirée librement du livre-enquête éponyme de Fabrice Arfi, sorti en 2018 aux éditions du Seuil, montre un Xavier Giannoli aussi à l’aise avec l’écriture et la mise en scène d’une série qu’avec celle d’un film… dans un style qui rappellera Le Loup de Wall Street ou Casino, avec un rythme, une mise en scène et un humour qui font mouche dans la première partie notamment, celle qui raconte l’ascension des voyous.

Giannoli montre aussi, de manière très pédagogique, comment cette bande d’escrocs a réussi à trouver la faille et à mettre en place un jeu de sociétés écrans et de prête-noms pour développer leur business. Pas facile, quand on sait la complexité du système financier et des échanges boursiers. Et le pari et réussi ! La série parvenant, même, au-delà du simple fait divers, à sensibiliser le spectateur à la question écologique, en montrant clairement que la mondialisation et la croissance des profits sont liées au réchauffement climatique, et que, d’une certaine manière, la réussite de cet arnaque est aussi une conséquence d’un capitalisme sauvage qui continue de malmener le Monde et de créer des ravages sur toute la planète.

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…L’inquirente-narratore ci presenta dunque la psicopatologia del gioco, dell’azzardo, che motiva le azioni così eccessive da poter risultare inverosimili (benché vere) dei suoi rivali, i quali si sono conosciuti sui tavoli dei casinò per poi, a ridosso della crisi della Lehman Brothers, darsi impunemente ai raggiri in borsa. Malgrado la complessità della sua trama, la serie riesce così ad avvincere, anche grazie a un’ambientazione che corre dietro ai personaggi da una parte all’altra del pianeta (da Panama alle Filippine) con due centri nevralgici: la Parigi dei bassifondi e dell’upper-class; e Israele dove i truffatori operano regolarmente perché protetti dalle rispettive comunità famigliari e d’interesse e dove possono riparare senza rischiare più alcuna estradizione facendo l’aliyah, il ritorno alla Terra Promessa. Tanto più che il vero Mamrin e il fittizio Attias non perdono occasione di vantarsi d’aver finanziato gli affari e le campagne elettorali di Netanyahu. Mentre una delle sue amanti era assidua delle feste “bunga bunga” del premier allora in carica oltralpe…

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martedì 25 febbraio 2025

Uomini si nasce poliziotti si muore - Ruggero Deodato

due poliziotti che lavorano nel reparto operazioni speciali, sotto la guida del superiore (Adolfo Celi), devono risolvere casi difficili, che la polizia normale non riesce a risolvere.

usano sistemi poco ortodossi, a essere sinceri, rischiano molto, ma gli va sempre bene.

qualcuno potrà trovare il film molto violento e poco legalitario, vero, ma la questione è se il film merita la visione e la risposta è Sì.

sceneggiatura di Fernando Di Leo, una garanzia.

buona (motociclistica) visione - Ismaele  


 

QUI si può vedere il film completo

 


Ideologicamente questo"uomini si nasce poliziotti si muore" non è proprio cosi'condivisibile.Questa coppia di poliziotti della squadra speciale va un po'troppo per le spicce,seminando morti ovunque(tra i malviventi)coperta da un capo connivente a cui fa comodo che i due suddetti ripuliscano la citta' da cotanta immondizia.Formalmente il film è decisamente riuscito con scene d'azione costruite in maniera eccellente e un po' di sana ironia goliardica romanesca(la parentesi in cui perquisiscono la casa della sorella -ninfomane- del boss cui stanno dando la caccia è dal schiantar dal ridere).

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…Il film, violento, maschilista, corrivo e decisamente impensabile pensare che possa essere portato in scena oggigiorno mantenendo inalterato il carattere e l'indole dei due gradassi protagonisti, alla sua uscita nelle sale cinematografiche italiane fu vietato addirittura ai minori di 18 anni e sottoposto a vari tagli di alcune sequenze violente.

Tuttavia la pellicola, che inserisce nel film anche la figura, pur solo di contorno, di una segretaria disinibita e femminista (la interpreta la bellissima Silvia Dionisio) che tiene testa baldanzosamente ed ironicamente ai due felloni protagonisti, riscosse un buon successo di pubblico, tanto che la produzione pensò anche di girare un sequel, che tuttavia non venne mai realizzato.

La coppia di uomini duri cui tutto è concesso, il biondo e il bruno, formata da Lovelock e Porel funziona, anche se entrambi i personaggi rimangono macchiette scolpite in superficie, personaggi senza nessuna profondità, oltre che dalla opaca moralità di fondo. Vendicatori irriducibili che si ispirano al giovane Eastwood di Callaghan, in un contesto tutto italiano ed in una società d'altri tempi che è bello ritrovare qui, come in molti altri poliziotteschi, confrontando realtà cittadine cupe e disordinate, fumose e sporche, e trovando sollievo nelle occasioni in cui la realtà attuale appare migliore di quel passato non troppo remoto.

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Ainsi le propos social et politique, s’il existe bien, apparait régulièrement comme masqué, dilué par les choix du réalisateur, alors que l’on pressent leur existence dans le scénario initial de Di Leo. Entre autre la scène où l’on voit les deux drôles de flics bruler des voitures de luxe devant le tripot clandestin du parrain Pasquini apparait comme le reflet d’un véritable commentaire politique du cinéaste. D’autres de ses propos ont totalement disparus, comme l’attirance homosexuelle entre les deux personnages principaux, dont nous savons qu’elle était un thème sur lequel Di Leo travaillait depuis longtemps, sans pouvoir financer le projet correspondant, et qui fut une dimension complètement rejetée par Deodato. Au contraire, le réalisateur pousse les curseurs à l’extrême inverse, avec des séquences machistes particulièrement maladroites, notamment dans l’exploitation des personnages féminins, ou dans les dialogues d’Alfredo et Antonio, d’une lourdeur à toute épreuve. Pourtant les deux personnages ne sont finalement pas détestables. La réussite de Deux flics à abattre repose largement sur le charisme des deux acteurs principaux, Marc Porel et Ray Lovelock, qui parviennent à gagner la sympathie du spectateur, malgré la bêtise de leurs personnages. Le film repose sur une mécanique de Buddy Movie, qui mettrait ici en scène deux sales gosses qui finiront, dans l’absolu, par faire triompher la loi.

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…Ruggero Deodato lascia il segno con un fiero esponente di categoria, uno di quelli che rientrano tranquillamente in un ipotetico (e, per fortuna, nutrito) gruppo di titoli da consigliare a un neofita che decide di approfondire il mitico poliziesco all’italiana. Una sorta di ‘buddy cop’ ante litteram, che segue le regole del genere a cui il regista aggiunge e integra lo stile delle proprie, dal ritmo elevato, scorretto e con una dose di violenza sopra la media che porta a ricordarlo come uno dei più crudi e brutali in questo senso.

L’idea di Uomini si Nasce Poliziotti si Muore viene a un altro pezzo da novanta come Fernando Di Leo, il quale firma prima il soggetto (con i produttori Alberto Marrias e Vincenzo Salviani) e poi la sceneggiatura, che viene proposta ad un Ruggero Deodato in piena risalita dopo il discreto successo di Ondata di Piacere dell’anno precedente, che aveva segnato il suo ritorno al cinema dopo un lungo periodo di tv e spot pubblicitari, altri campi in cui si è sempre mosso con disinvoltura. I due ebbero modo di incontrarsi una sola volta per la prima lettura del copione, a Ruggero Deodato venne concessa piena libertà creativa e di scelte, con Di Leo che in seguito si disse molto soddisfatto della riuscita sullo schermo del suo script.

A mettere le cose in chiaro ci pensa un prologo che diventa specchio dell’intero film. Musica pop/soft rock in sottofondo, i due protagonisti girano in moto capelli al vento quando la quiete viene interrotta da un ferocissimo scippo in cui una malcapitata viene prima trascinata e poi presa a calci in faccia da due malviventi in sella ad un altro ciclomotore.

E’ la miccia che scatena una sequenza funambolica che finisce di diritto tra le note di merito di Uomini si Nasce Poliziotti si Muore, un lungo inseguimento motociclistico nel mezzo del traffico romano, da Via del Corso a Piazza del Popolo, passando per gli interni (letteralmente) del bar nei pressi della Chiesa degli Artisti, il Muro Torto, la scalinata delle Belle Arti, fino a Piazza Monte Grappa. Una serie di prodezze a oltre cento all’ora, moto che salgono sulle auto, percorrono gradini, sfrecciano tra veicoli e pedoni, con piloti rigorosamente senza casco…

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Un film mitologico, e non soltanto perché prima-e-unica volta di Deodato con il poliziottesco (fu scelto dopo l’ottimo thriller Ondata di piacere nda), e nemmeno per il leggendario inseguimento Via del Corso-Piazza del Popolo-Piazza Monte Grappa fatto di soggettive e ritmo filmico travolgente e girato senza i permessi del Comune di Roma, ma perché piena e pura espressione di un cinema controverso, rischioso e meravigliosamente autentico, sempre più lontano dagli attuali paradigmi industriali, eppure leggendario nell’essere ancora oggi – e Quentin Tarantino in questo la sa lunghissima («Uomini si nasce poliziotti si muore? Uno dei più grandi titoli di tutti i tempi, perfettamente all’altezza del suo nome») – quintessenza di un genere da preservare come il cinema poliziottesco all’italiana.

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lunedì 24 febbraio 2025

Il seme del fico sacro - Mohammad Rasoulof

Mohammad Rasoulof è sempre bravo, gira un film clandestino, con un finale da film western, un regolamento dei conti ansiogeno e spietato.

Siamo invece in Iran, la fine è in un posto dimenticato da dio e dal mondo (dimenticato anche dai controllori e censori del potere iraniano).

Il regista, visitatore delle prigioni iraniane, lancia un atto d'accusa contro il regime e la pena di morte (come ne Il male non esiste), e riesce a scappare in Francia.

Non è il suo film migliore, è però un film urgente e resistente.

Da non perdere, è in una settantina di sale, non dovrebbe essere impossibile riuscire a vederlo.

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

 

Rasoulof riflette sul ruolo del giornalismo moderno in Iran e dice: “Nel mio paese, non abbiamo più la fortuna di avere giornalisti liberi. I cittadini lo diventano. Armati di telefonino, vanno alle manifestazioni e fotografano, riprendono, pubblicando ogni cosa sui social, almeno i più coraggiosi. Quella è forse l’unica informazione libera ad oggi in Iran, per questo nel mio film torna la medesima riflessione. È estremamente reale lì ed è sotto gli occhi di tutti. Posso dirvi che moltissimi video li ho recuperati solo una volta uscito dal carcere e ne ho visionati davvero molti, così da selezionare i più forti e dialoganti con il mio materiale narrativo. Tenendo sempre a mente che avrei girato un film clandestinamente. Come avrei ricreato ad esempio le scene di protesta? Non lo sapevo ancora, era soltanto una delle moltissime riflessioni, eppure se volevo davvero realizzarlo, dovevo uscirne. In più volevo ragionare sulla forza dei social, nel rendere più coesi e invincibili gli attivisti e le attiviste, dando loro ulteriore coraggio, così da vederli ancora e sempre più tra le strade e le piazze delle città, a gridare e manifestare in nome della libertà. E poi mi sono chiesto: ma anche qualora riuscissi a ricreare queste manifestazioni, avrei ancora questa forza cruda della verità? Allora mi apparso importante dalla finzione, raggiungere il realismo tipico del documentaristico.

Concludendo poi sul destino dei regimi e l’utilità della violenza, Rasoulof chiosa: “La liberazione non passa mai dalla violenza, a mio avviso. La ricerca di libertà della donna per esempio, che è fortissima e sempre più evidente, rigetta su tutta la linea l’uso della violenza, per questo è capace di imporre una svolta, un cambiamento radicale. Sul futuro del regime iraniano invece e più in generale di tutti i regimi, ciò che penso è espresso dal finale del mio film. È vero, estremamente metaforico e in qualche modo perfino religioso, eppure quello che posso dirvi, in termini di realismo crudo e quindi con grande sincerità, è che il regime annegherà nella propria tomba, si seppellirà da solo. Chi semina vento, raccoglie tempesta.

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Sin dalla prima inquadratura, in cui in dettaglio vediamo consegnare una pistola e delle pallottole, ci troviamo inseriti in una condizione di pericolo imminente che pervaderà con diverse valenze tutto il film. Perché di lì a breve quella realtà, quelle persone che Amin è chiamato a giudicare appellandosi a una legge divina che ritiene di poter interpretare ed applicare con rigore, inizieranno a sua insaputa ad entrare nella sua vita.

Le tre figure femminili al centro della narrazione, la madre e le due figlie, rappresentano, con i tratti della più assoluta verosimiglianza, le dinamiche che intercorrono tra generazioni. La madre, figlia di un uomo poco raccomandabile, ha trovato nel marito e nel rispetto dell'ordine un suo status che ora vede messo in discussione dalle figlie (in particolare da quella maggiore). Ma questo è solo l'inizio perché questo è un film in cui i nascondimenti fanno parte della necessità…

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…La sceneggiatura ha buchi evidenti, sembra che Rasoulof, nell’urgenza di dimostrare, di denunciare, man mano semplifichi i suoi personaggi fino a farne delle figure piatte, bidimensionali, senza reale profondità, solo simboli alcuni del Bene altri del Male. Viene gestita in maniera confusa anche la pista narrativa fondamentale della pistola sparita, pista abbandonata quando ne emerge prepotentemente un’altra, quella di Iman bersaglio dei “giustizieri” della resistenza. Finale a mio parere imbarazzante, dove la necessità del messaggio prende il sopravvento su qualasiasi coerenza e plausibilità. Si esce con la sensazione del capolavoro mancato per poco. Peccato. The Seed of the Sacred Fig resta però, nonostante tutto, un film più maestoso, il più potente tra quelli visti a Cannes, il più necessario.

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…Mohammad Rasoulof decide di veicolare il proprio j'accuse tramite un racconto di finzione, caratterizzato tuttavia dalla stessa duplicità riscontrabile nella struttura del film. Da una parte, si affida a un racconto lineare, costituito dal thriller incentrato sulla ricerca della pistola e culminante con le scene di azione del finale che sfociano nel western, in particolare per via dell'ambientazione polverosa e desertica, oltre che per il cliché della sparatoria conclusiva. Dall'altra parte, il lungometraggio presenta vari nuclei narrativi: all'inizio viene accennato il problema etico che attanaglia Iman alle prese con il suo nuovo incarico, poi vengono affrontate le proteste e il dramma dell'amica delle figlie, in seguito subentra la perdita della pistola e le progressive reazioni scomposte del padre. Se l'ambientazione in interni e la scelta obbligata di concentrarsi sulla famiglia, insieme al male che in modo strisciante la avvelena, assicurano unità a questa molteplicità di nuclei narrativi altrimenti irrisolti, è anche vero che questi ultimi contribuiscono a dividere e a frazionare le relazioni fra i quattro protagonisti disponendoli secondo cerchi concentrici: dall'esterno all'interno troviamo il padre alle prese con il nuovo incarico e con i problemi che questo comporta, poi la madre, punto di congiunzione fra Iman e le figlie, infine queste ultime, intente a relazionarsi al modo esterno simboleggiato dall'amica e dalle proteste…

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Come già nei quattro episodi de Il male non esiste, Rasoulof parte dalla questione morale di un personaggio che si ritrova al bivio tra la coscienza e il dovere, costretto ad affrontare i mostri delle proprie responsabilità. Ma è solo un punto di partenza. Perché non è lui il cuore del film: il solo fatto di essere dalla “parte sbagliata” (e su questo non possono esserci dubbi), lo condanna inesorabilmente a stare nell’ombra. Fino a essere l’ombra. Rasoulof, invece, si concentra sulle donne della storia, coerentemente con lo spirito dei tempi e le infuocate proteste per la morte di Mahsa Amini (la cui immagine, ovviamente, appare nel film). Dunque, sono la moglie Najmeh e le due figlie, Rezvan e Sana, il vero fulcro del discorso politico di Il seme del fico sacro. Che ruota intorno alla dialettica delle loro posizioni e delle loro reazioni, il modo in cui si rapportano all’autorità del capofamiglia e quindi, più in generale, alle gabbie stringenti della teocrazia. Ed è qui che vengono in rilievo le differenze generazionali. Perché se le ragazze sono pronte a mettere in discussione quest’autorità, chi in modo più istintivo e giocoso (la minore, Sana), chi in maniera più consapevole (la maggiore, Rezvan), Najmeh farà più fatica a liberarsi dalle imposizioni del suo ruolo di moglie e madre, sospesa tra la devozione al marito, l’egoistica difesa della sicurezza familiare e la percezione delle ingiustizie del sistema…

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Tre ore o quasi di grande, grandissimo cinema, che un po’ per intensità di racconto e un po’ per realismo crudo, spietato e documentaristico, volano via come un soffio, tenendo lo spettatore incollato alla poltrona. Costringendolo in più di un momento a guardare altrove, pur suggerendogli di non farlo, così da renderlo partecipe di uno spaccato storico/sociale e politico, che non guarda ad un tempo che è stato, piuttosto ad un tempo che è. Se estraneo, nella fortuna, se vicino nell’allerta di un pericolo e di una violenza sempre più feroci, orrorifiche e imminenti. Un impavido, glorioso e brutale inno alla femminilità, alla forza del popolo, cui non resta altro se non continuare a combattere in nome della libertà, della vita e di un’osservazione di fede adeguata e non estremista e al tempo stesso un inno al cinema. Rasoulof ha firmato un capolavoro e clandestinamente lo ha condotto fino a qui e a noi. Celebriamolo e non abbassiamo lo sguardo. Mai.

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venerdì 21 febbraio 2025

Sissignore - Ugo Tognazzi

Oscar (interpretato da Ugo Tognazzi) è uno schiavo, moderno, dell'Avvocato.

è il suo prestanome, anche la donna che sposa (Mary) è l'amante dell'Avvocato.

Oscar è umiliato ogni momento, e però è sempre riconoscente al suo padrone.

non è un film comico, è tragico.

è un film da vedere, senza dubbio.

buona (ansiogena) visione - Ismaele

 

 

…questo è un film sorprendente ambientato in una Milano che sembra quasi una riedizione fantascientifica della Swinging London,con interni arredati con gusto avveniristico,con una storia che a prima vista fa ridere ma poi mano a mano mostra la sua agghiacciante sgradevolezza.Così partiamo da una cella di prigione corredata di radio e addirittura tv,passiamo attraverso una moglie di facciata(tutta moine e sospiri,vestita di drappeggi kitsch che ha le forme di Maria Grazia Buccella)con cui naturalmente non si ha nessun contatto fisico,quelli sono tutti a favore dell'Avvocato,si prosegue per un diploma di ragioniere ottenuto a propria insaputa,un posto da amministratore delegato in fabbrica fino a diventare ingegnere navale giusto per vedere la pima nave progettata andare miseramente a fondo.E donerà all'avvocato anche un orecchio.Però diventerà padre e apprenderà la notizia mentre è rinchiuso (per pochi anni si spera)in una cella che sembra una camera d'albergo di lusso.Una sublime sintesi tra il comico dell'assurdo,l'amarezza e la consapevolezza di essere stato disgregato dal suo padrone.la felicità a denti stretti guardando il tutto da dietro le sbarre,il cosiddetto sole a scacchi,vivere la prorpia vita per interposta persona.

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Sissignore è esteticamente audace, pieno di richiami alla pop art nei colori scarlatti di Giuseppe Ruzzolini, montato con approccio sincopato come se si stesse saltando sul lounge di Berto Pisano. L’hanno scritto tre penne assurde: Tonino Guerra e il suo afflato poetico non ancora usurato dalla maniera; lo sfortunato Franco Indovina, che proprio nel ’68 si lascia esplodere ne Lo scatenato, pazza satira pubblicitaria; Luigi Malerba e il thrilling al servizio dell’avanguardia.

Tognazzi è un protagonista che anticipa e postula il Fantozzi che verrà: pur senza gli eccessi comici e la tragedia introiettata, è difficile non ravvisare un embrione di quel carattere nel servile autista che finisce per accollarsi la responsabilità dell’incidente provocato dal suo padrone. Difficile, inoltre, non trovare nello pseudonimo dell’industriale una gustosa cattiveria: come si fa a non pensare proprio a lui, ogni volta che sentiamo il nome “l’Avvocato”?...

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Commedia ambiziosa e kafkiana, in cui Tognazzi cerca la prova di maturità (come regista: come attore ovviamente l'aveva già data). Purtroppo il ritmo non è sempre adeguato al tema grottesco che il soggetto avrebbe richiesto, e le strizzatine d'occhio sull'alienazione modernista (sceneggiano due collaboratori di Antonioni) si riducono all'insistenza sul futurismo dell'arredamento pop e sulle musiche lounge (pur ottime) di Berto Pisano. Comunque da vedere, grazie anche a un Moschin grandioso come sempre.

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In mezzo a una storia di sottomissione decisamente non banale e al solito magistralmente interpretata da Ugo Tognazzi ci sono tante altre cose interessanti. Una su tutte: l'avvento del capitalismo finanziario, con l'industria che viene inaugurata non per produrre ma per essere acquistata dalla concorrenza. Molto più profondo di quanto possa sembrare a prima vista. Peccato per i ruoli femminili che non vanno oltre la macchietta.

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martedì 18 febbraio 2025

L'uomo nel bosco (Miséricorde) - Alain Guiraudie

il titolo italiano è completamente diverso dal titolo francese, ma ci siamo abituati. 

non si capisce bene cos'è questo film, d'amore, un thriller, umorismo nero, di gelosia.

quello che è sicuro è che non ci si annoia, bravi attori nelle mani di un bravo regista, colpi di scena continui, apparenze che diventano altro, si inizia con un morto, poi un altro, c'è un prete sorprendente, una vedova che sa il fatto suo, due gendarmi che non riescono a capire cosa succede.

purtroppo si può vedere solo in una decina di sale, anche a questo siamo abituati.

cercatelo e godetene tutti.

buona (difficile da vedere) visione - Ismaele


 

 

 

 

…Al netto della serietà con cui inscena le trame del desiderio, "Miséricorde" è altresì un film infuso di toni da commedia nera, ma più che accentuare le deviazioni grottesche dell’intreccio, sembra intento a cogliere con naturalezza i sintomi della quotidianità cui aderisce. Nell’universo di Guiraudie che si pasteggi coi funghi concimati da un corpo in disfacimento non è fatto più inconsueto di un ateo che confessi un parroco - su richiesta, si badi, del prelato, il quale d’altro canto, come il giovane curato che ne "Le due zittelle" di Landolfi arringava in favore della scimmia sbafatasi un piatto di Ostie consacrate, si premura di dichiarare apertamente le sue posizioni ereticali sul delitto e il castigo in quella che è la scena più esplicita di questa operetta morale. E se le vicissitudini di un cadavere sepolto, dissepolto e ri-sepolto richiamano alla memoria quello che è il film più inglese di Alfred Hitchcock, vale a dire "La congiura degli innocenti", l’implacabile coppia di poliziotti si innesta in un solco tra le stravaganze di Bruno Dumont e una invenzione à la Chabrol, incarnando l'ortodossia del senso comune e della morale tradizionale.
Aderendo al principio di Flaubert, secondo cui il maggior esito nell’arte non consiste nel far ridere o piangere, ma nel saper agire come fa la natura, Guiraudie rifiuta l’enfasi e si mette in ascolto del battito sotterraneo che anima le cose del mondo. Lo spia, per così dire, con una macchina da presa ad altezza d’uomo, per scrutare i corpi, per desiderarli e farli desiderare, con quella casta impudicizia d’adolescente che da sempre informa il suo cinema.

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Perché, dunque, in L’uomo nel bosco Jérémie sembra quasi volersi sostituire alla figura del figlio e al tempo stesso a quella del padre, tornando metaforicamente (ma nemmeno troppo) verso il corpo della madre? E perché, nel suo risalire alle origini della vita incontra la morte, e dunque la colpa, senza assumersene la responsabilità? E chi, allora, lo farà per lui quel gesto di misericordia per cui la salvezza passa per la menzogna, il travestimento, il silenzio?
L’immoralità del cinema di Guiraudie sta nella confusione dei comportamenti e dei valori mostrati; nell’oscenità intesa letteralmente come “fuori scena” e normalmente come offensiva verso il comune senso del pudore, perché tutto nel suo mondo grezzo e istintuale è confuso, stravolto, non conforme, non spiegato (e buffo), eppure stranamente – ed è qui lo scandalo – naturale, istintivo. Naturale perché istintivo…

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C’è anche Jérémie, anche lui corpo mutante. Sotto questo aspetto è incredibile il volto di Félix Kysyl (vittima? carnefice? entrambe le cose?) in un gioco di dipendenza con Catherine Frot che sembra uscita da un film di Chabrol. Diventa quasi l’attore di una calibrata messinscena teatrale dove ha bisogno di interpretare più personaggi; ha addosso infatti i vestiti del fornaio deceduto e vuole mettersi quelli di Walter. Potrebbe fare tutti i ruoli, come Dénis Lavant con Léos Carax. Ma anche scomparire, essere un fantasma, guardare da fuori questa versione nera di Rohmer  – una specie di  ‘conte macabre’ – dove le traiettorie dei protagonisti di “Commedie e proverbi” possono essere anche simili ma a muoversi non sono i corpi umani ma gli zombie. Un film in continuo disequilibrio come gran parte dell’opera di Guiraudie, che cerca di dare forma al mistero tra la gravità delle azioni e la banalità del male. Il titolo originale, Miséricorde, forse ne racchiude parte del senso più profondo. Magistrale.

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Miséricorde si rivela uno spasso per come riesce a districarsi tra malizie, segreti e verità inconfessabili, ardori tra uomini che si rivelano segreti di Pulcinella, e il candore dei sentimenti che giustifica atti e comportamenti impulsivi che gli abitanti del paesello risultano vivere con incosciente ma vitale entusiasmo, e soprattutto slanci erotici incontenibili.

Molto valida la prestazione del protagonista, il giovane ed ambiguo Félix Kysyl, attorniato dalla sempre rassicurante Catherine Frot, vedova chioccia moto meno ingenua di quello che potrebbe apparire a prima vista.

Ma la figura più potente, si potrebbe azzardare di tutto il cinema del 2024, è quella dell'astuto prete, abile nel mettere in atto un proprio sentimento di giustizia e di colpa/espiazione tutto suo.

Un personaggio strepitoso, che si mette letteralmente a nudo esibendo l'erezione più clamorosa degli ultimi anni.

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Les Cahiers du cinéma lo hanno collocato in cima alla classifica dei migliori film del 2024, certo è un film che non lascia indifferenti. Se mai è poco pubblicizzato e, di conseguenza, poco visto. Peccato, L’uomo nel bosco è di notevole sottigliezza ottenuta con gradi successivi e quasi inavvertiti di penetrazione…

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L’uomo nel bosco, il cui titolo originale è Misericordia, è un’opera a dir poco misteriosa. L’estrema cura nel mostrarci i suoi lunghi dialoghi è accompagnata dalla costante sensazione che nessuno stia dicendo tutta la verità, che nessuno sia davvero chi afferma di essere. Molte delle sequenze in cui vediamo i personaggi parlare tra di loro sembrano arrivare allo spettatore come brevi frammenti di conversazioni origliate da dietro una porta, in cui non si conosce bene il contesto del discorso e si può soltanto continuare a ipotizzare. Come la fitta foresta in cui il protagonista si aggira in cerca di funghi nasconde innumerevoli segreti, così anche le stesse parole degli abitanti del paesello celano qualcosa, e non soltanto i posti dove è più facile trovare i porcini.

L’alone di mistero generale è però compensato da una regia estremamente realistica, che rifiuta persino la colonna sonora se non per il segmento iniziale dei titoli di coda. Lo sguardo di Guiraudie sulle vie e casette del paese, ma anche sullo splendido bosco che lo circonda, risulta talvolta molto simile a quello che si può trovare in un dipinto realista di fine Ottocento, ad esempio le opere del nostro connazionale Teofilo Patini. Così anche la visione dei rapporti umani, che risultano ridotti all’osso, scarni, ma allo stesso tempo sembrano nascondere qualcosa di più profondo e viscerale. Il tutto risulta essere in uno stato di ambiguità e di assurdo, di oscillazione tra quello che sappiamo, quello che pensiamo di sapere e quello che bisogna tenere nascosto, come ci ha sempre insegnato la realtà del paesino di provincia. Anche lo stesso Jérémie è parte di questa ambiguità, silenzioso, chiuso e quasi in imbarazzo nelle prime volte in cui compare sullo schermo, finché poco dopo non viene messo letteralmente a nudo davanti ai nostri occhi, sia a livello fisico che soprattutto psicologico.

L’uomo nel bosco è un film che ha come obiettivo quello di confondere, poi intrappolare lo spettatore all’interno della sua storia, e infine lasciarlo lì solo, seduto sulla poltroncina a chiedersi “e adesso?”. È un Possum senza il suo mostro, una visione assurda delle pulsioni e perversioni umane che non possono essere portate a galla. È uno sguardo su qualcosa che traspare soltanto, come fa il sole tra i rami degli alberi in un fitto bosco. E forse proprio per questo merita di essere visto.

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lunedì 17 febbraio 2025

Do Not Expect Too Much from the End of the World (Non aspettarsi troppo dalla fine del mondo) - Radu Jude

Radu Jude non delude mai.

in questo film ci sono tanti fatti piccoli e sorpendenti, diverse storie che si rincorrono e si intersecano nella stessa giornata.

Angela Raducani (che ha girato altri film del regista) è interpretata dall'instancabile Ilinca Manolache, che corre come un criceto, una lavoratrice schiava tuttofare.

sono passati i tempi nei quali i lavoratori erano organizzati e contavano qualcosa, la Romania è in mano alle multinazionali che lasciano il paese sempre più povero, l'unica ribellione di Ilinca è quella di creare un personaggio su TikTok, sboccato e sincero, l'unico spazio di libertà per Ilinca.

il film è pieno di citazioni e, per quanto sembri una stramberia, è un godimento per chi guarda.

peccato che il film sia stato nelle sale poco e male, gli attori sono davvero bravi, cercatelo e godetene tutti.

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

 

…Do not expect too much from the end of the world è un film lungo; un film che condensa tanti generi, e innumerevoli registri cinematografici. Ciononostante, quello diretto da Radu Jade è un film che compie una magia più unica che rara: riesce a raccogliere nello spazio dei propri raccordi tutta l'esasperazione di giovani costretti a ore interminabili di lavoro, e una ricerca di evasione dalla realtà nello schermo di uno smartphone. Un mix esplosivo generante un ritratto della nostra quotidianità, dipinta con caustica e irresistibile ironia, abile nel coinvolgere il proprio pubblico fino a inserirsi nello strato più profondo della sua anima.

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La satira dai toni grotteschi sulla società contemporanea, il gioco degli opposti pieno di citazioni, aforismi, battute e scambi tra registri non può più essere considerato (soltanto) un semplice esercizio di stile. Questo film di superfici, come l’ha definito lo stesso Jude, riassume nell’unità del film-aforisma tutte le suggestioni del suo cinema e analizza con una straordinaria profondità riflessiva le immagini del mondo in cui viviamo. Basta un TikTok per avere contezza di temi come la morte, lo sfruttamento sul lavoro, la gig economy, la guerra in Ucraina? Dramma, in parte commedia, in parte road movie, in parte film di montaggio, in parte film d’archivio (Angela merge mai departe, 1981) che sconfina attraverso i suoi protagonisti (Dorina Lazăr, László Miske) all’interno della pellicola contemporanea di Jude.

Do Not Expect Too Much From the End of the World è un film stratificato, denso, per cui un’unica visione non basta a decifrarne completamente la portata riflessiva. Un ulteriore passo in avanti nella filmografia di uno dei cineasti europei la cui analisi sulla contemporaneità sembra aver raggiunto il suo apice espressivo.

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Nell’estenuante traffico di Bucarest, la satira di Radu Jude viene scandita da nuove nevrosi in bianco e nero, alter ego di TikTok e colori d’archivio. Un ambizioso gioco di registri che culmina nell’apice espressivo del regista romeno, grottesco, esasperato, tragicamente realistico. Le violenze del capitalismo contemporaneo intercettano gli anni di Ceaușescu in uno stratificato ‘film di superfici’ fatto di digressioni, aforismi, antitesi, censure. Nulla è lasciato al caso: tutto opera al servizio di un unico, lucidissimo, grande delirio, molto più grande dello stesso film, che non assomiglia a nulla di già visto.

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Il sottotitolo del nuovo film di Radu Jude, ovvero Do Not Expect Too Much From the End of the World, è “dialogo con un film dal 1981”. È quindi evidente che, come nel caso di The Marshal’s Two Executions (2018) e Tipografic majuscul (2020) ci troviamo ancora una volta davanti a quello che è innanzitutto un sofisticato esercizio di montaggio. Un film di finzione che racchiude in sé spezzoni di un film precedente, quello diretto appunto nel 1981 da Lucian Bratu e intitolato Angela Goes On, utilizzato da Jude come capsula del tempo utile a documentare la Bucarest degli anni Ottanta, quindi dell’era di Ceaușescu, che diventa la base visiva per una serie di evocative giustapposizioni della città di allora e di oggi. Jude richiama così in scena Angela Coman (Dorina Lazăr), la protagonista - oggi anziana - di Angela Goes On (o Angela Moves On, titolo dal significato ambivalente, che al movimento nello spazio ne associa anche uno emotivo), che nel film originale guidava moltissimo per le strade di Bucarest per guadagnarsi da vivere. Il montaggio alternato di Radu Jude invita il pubblico a confrontare la Bucarest mappata dall’immaginaria Angela di Bratu nel suo ruolo di tassista, mentre l’era di Ceaușescu stava appena entrando nel suo ultimo decennio, con la Bucarest attraversata dalla nuova protagonista del suo film, anche lei Angela e anche lei in auto, più di 40 anni dopo. Ci troviamo davanti a una città molto più trafficata, con un numero esponenzialmente più alto di auto a intasare le strade della capitale e a scaricare polveri inquinanti nell’aria, al punto che le immagini provenienti dal passato socialista ci appaiono preferibili e avvolte da un nostalgico romanticismo. Ma ovviamente è tutto un gioco di percezioni, un modo per svelare come il cinema - così ieri, così oggi - possa manipolare la realtà e dare una visione falsata della stessa…

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Lontano da ogni scialba ambizione di perfezione tecnica, Jude è autenticamente rosselliniano (con buona pace dei più rigidi e scandalizzati cultori del magistero del regista di Paisà) per la sua capacità di costruire il reale attraverso il rapporto tra l’uomo e lo spazio, tra l’immediatezza della rappresentazione e l’azzeramento delle distanze, tra la schiettezza delle emozioni e la continua scoperta dei luoghi, tra la forza dell’involucro narrativo e le continue epifanie della realtà che costringono a rimettere ogni scena (e ogni scelta) in discussione.

Non solo, però. L’autore di Sesso sfortunato o follie porno (con cui fu premiato con l’Orso d’oro a Berlino) riprende da Rossellini anche la necessità di superare certe contraddizioni del linguaggio da riunire in un nuovo progetto espressivo, anche se il suo sguardo a volte sembra quello di un moralista ottocentesco e a volte quello di un Voltaire meno incarognito. Così, la semplicità quasi sciatta del webcasting si unisce a una fotografia (di Marius Panduru) – in bianconero per la maggior parte della durata – quasi piatta e volutamente senza profondità, realizzata con mezzi pressoché amatoriali (c’è anche il flickering della luce sui muri) ma di una solidità corrusca e perfino scultorea.

Senza contare che la vicenda di Angela dialoga con quella dell’omonima protagonista del vecchio film di Lucian Bratu Angela merge mai departe (1981, titolo internazionale Angela Moves On), che come lei vaga in auto (qui, per la precisione, si tratta di un taxi) per le strade di Bucarest. Spezzoni di questo film vengono mostrati e integrati alla narrazione non solamente come semplice contrappunto. Con un geniale colpo di scena, infatti, si verrà a scoprire che il personaggio principale (non la sua interprete Dorina Lazar, che pure riprende il ruolo) di Angela Moves On è anche la madre di Ovidiu (Ovidiu Pîrșan), colui che sarà poi scelto per raccontare la sua sfortunata vicenda nello spot-progresso. Ennesima dimostrazione di un’idea di cinema liberissima (e per questo radicale), dove il nichilismo si stempera nella beffa: in fondo conviene «non aspettarsi troppo nemmeno dalla fine del mondo», suggerisce il titolo «rubato» all’aforista polacco Stanisław Jerzy Lec. Come a dire che ogni individuo sembra impossibilitato a costruirsi realmente il proprio futuro senza prima ritagliarsi uno spazio di libertà all’interno di un mondo recalcitrante a essere ridotto ai voleri del singolo.

A fare di Do Not Expect Too Much from the End of the World un capolavoro, però, è la capacità di Jude di condensare il discorso all’interno della sua ricerca stilistica che ha la quieta temperanza del gioco. L’apparente eterogeneità del linguaggio, infatti, serve per dimostrare un assunto apparentemente semplice: al giorno d’oggi ogni immagine può essere messa in comunicazione con qualsiasi altra. Non importano le sue origini, i suoi contorni, il suo formato, la sua destinazione d’uso e il suo significato originario: ogni differenza può essere integrata, senza pregiudizi o gerarchie. Un discorso che, in fondo, si è invitati a traslare dal piano ludico e semiserio del film ad altri e ben più importanti aspetti della realtà e della vita.

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Il caos di Non aspettarti troppo dalla fine del mondo è più simile a quello che si intendeva nelle cosmogonie della Grecia antica: una massa oscura e palpitante, sotto la cui superficie si muovono le cose che saranno, che prima o poi verranno, e chissà, magari sotto la coltre oscura riposano anche le macerie di quello che è stato in un’altra iterazione dell’eternità. Cosa siano, queste cose, al momento non è dato saperlo: angeli che verranno a salvare il cinema? I demoni che lo malediranno? Jude ha detto che il suo prossimo progetto è un film girato tutto con l’iPhone in formato 9:16. Perché? Perché è il formato attraverso il quale la maggior parte delle persone che esistono oggi esperiscono il mondo. Perché da tantissimi è considerata, questa, la forma del brutto. Perché per Jude TikTok e Instagram possono ancora essere strumenti d’arte, inizio di un nuovo cinema vernacolare, e qualcuno deve pur cominciare a mettere le fondamenta di questa Decima arte fatta di schermi verticali e video di 30 secondi al massimo. Magari è così che il cinema si salverà, o forse Radu Jude è l’agente del caos, l’angelo del male, l’araldo dell’apocalisse venuto ad annunciarci che il cinema è morto – e quindi il mondo è finito – e queste sono le ceneri che ne restano, a noi la scelta se chiuderle in una teca e piangere o usarle per concime e sperare che qualcosa nasca. Sempre meglio, però, non aspettarsi troppo dalla fine del mondo.

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venerdì 14 febbraio 2025

The Brutalist - Brady Corbet

la storia di László Toth è quella di tutti gli immigrati poveri negli Stati Uniti d'America (dove tutti sono migranti di prima, di seconda, di n-generazione, gli indigeni sono stati, quasi tutti, sterminati).

i (merdosi) riccastri degli Usa sono corrotti, antisemiti (solo con gli ebrei poveri), a volte sono come Henry Ford, massone di Rito Scozzese al massimo grado e sostenitore dei nazisti e di Hitler.

László (interpretato da Adrien Brody) arriva a Ellis Island e sarà ospitato dal cugino (interpretato da Alessandro Nivola, nipote di Costantino Nivola, muratore e architetto, fra le tante arti che ha esercitato, e Ruth Guggenheim, arrivati a New York dall'Italia nel 1939, per sfuggire alle leggi razziali), poi starà in un dormitorio e infine incrocia, in qualità di architetto, il riccastro Van Buren (interpretato da Guy Pearce), un tipo alla Trump, tutto si può vendere e comprare, e quello che non gli danno se lo prende con la forza. 

il sogno americano è un incubo per quasi tutti, per quelli che non comandano niente.

e poi succedono mille avvenimenti, e riesce ad arrivare, dopo anni, la moglie Erzsébet (interpretata da Felicity Jones).

intanto per una volta, nelle multisale, non ci sono dieci minuti di pausa con le immagini di bibite e popcorn gravemente dannosi per la salute, ma per un quarto d'ora d'intervallo, imposto dal regista, sullo schermo c'è l'immagine fissa della foto del giorno di matrimonio di László e Erzsébet, a Budapest, davanti alla sinagoga.

il film dura tre ore e mezzo, e ogni minuto è necessario, ed è cinema di altissimo livello (forse l'epilogo alla Biennale di Venezia è di troppo, questione di gusti).

ci sono tante idee, citazioni, suggestioni, da Paul Thomas Anderson a Orson Welles (per esempio la processione sul crinale della collina sembra, almeno per me, un omaggio a Welles, da Othello).

insomma, uno dei più bei film dell'anno, da non perdere, se vi volete bene.

buona (prolungata) visione - Ismaele



 

…Il progetto consentirà  a Toth di ricongiungersi finalmente con la moglie Erzsebet (Felicity Jones, nel miglior ruolo della sua carriera), inizialmente rimasta in Ungheria e costretta in sedia a rotelle a causa degli stenti patiti durante la guerra, e con la figlia autistica Zsofia (Raffey Cassidy, sempre più brava e inquietante), ma lo renderà anche completamente succube dei soldi e soprattutto dei capricci di Van Buren, le cui divergenze artistiche sulla costruzione dell'opera mineranno irreversibilmente il fisico e la psiche dell'architetto, spingendolo sull'orlo della pazzia e rendendolo sempre più schiavo dell'oppio e della droga. Il rapporto malato tra i due uomini ha ricordato a molti critici, con ragione, il cinema bigger than life di P.T. Anderson, sia ne Il Petroliere che soprattutto in The Master, prendendolo come pietra di paragone per mostrarci un'America violenta, prevaricatrice, razzista, che sfrutta gli stranieri e gli immigrati per tornaconto personale e li getta via come scarpe vecchie una volta che non gli servono più.

The Brutalist per almeno 3/4 della sua durata è un film strepitoso, ambizioso, perfino eccessivo, e proprio per questo ancora più coraggioso e meritorio. Solo nell'ultima parte si sfalda un po', prendendo (forse volutamente) una piega eccessivamente cupa e arrivando in qualche caso al limite del buon gusto (come nella scena in assoluto più drammatica e sopra le righe, quella girata nelle cave di marmo di Carrara - che non intendo svelarvi - in cui la relazione tossica tra i due protagonisti arriverà al punto di non ritorno) ma che non intacca minimamente l'epicità della storia nè la morale di fondo: di come, cioè, la ricerca di una nuova Patria possa spesso avvenire a scapito dell'esclusione e della sofferenza altrui. Perchè il fine giustifica i mezzi, nella società ultracapitalista. E perchè, come spiega il protagonista a un passo dalla morte, "nella vita conta la méta, non il viaggio".

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In sintesi, "The Brutalist" è il più classico dei "vorrei ma non posso". Malgrado elementi di pregio e sequenze notevoli (le cave di Carrara su tutte), mantiene poco rispetto alle sue smisurate ambizioni. Se l'architettura è, come sosteneva Le Corbusier, "capacità di stabilire attraverso materie inanimate dei rapporti in movimento", Corbet qui fa esattamente il contrario, utilizza i rapporti in movimento tra immagini e suoni ma non riesce mai veramente ad animare i suoi personaggi e la sua storia, troppo impegnato ad aprire parentesi mai chiuse. A visione finita, la lotta immane di Toth per erigere un edificio che non si sa bene se sia una biblioteca, una chiesa o un centro congressi, ricorda anche troppo il rapporto di Corbet con il suo film, una figura immensa che sembra ancora in gran parte prigioniera del marmo. Chissà che la citazione di Goethe che apre il film, "nessuno è più schiavo di chi si crede libero", non si possa leggere anche come una sottile autocritica.

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…The Brutalist vuole ribaltare il mito del sogno americano: non c’è spazio per i momenti di gioia, niente scorre liscio, si entra continuamente in conflitto con la società e il sistema capitalistico per mantenere la propria identità, un puzzle che lentamente cade a pezzi e i tentativi per ricostruirlo non possono avere effetti.

Corbet maneggia la sceneggiatura per creare un’opera ineccepibile dal punto di vista audiovisivo, costruendo una messinscena che nei 215 minuti non risulta essere mai pesante, lasciando lo spettatore di fronte a un lungometraggio, sì, lento, ma martellante…

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Corbet realizza un’opera torrenziale, un affresco, una parabola sui tormenti di un artista, divisa in ouverture, epilogo e intermission. Questo perché Corbet si prende il suo tempo per creare un dramma epico con protagonista uno straordinario Adrian Brody. The Brutalist è un film audace, ambizioso, un film che usa le forme, i colori e il suono per sottolineare l’oppressione a cui è sottoposto Lázsló e i muri in cui si imbatte. László è un uomo a pezzi, troppo generoso per riuscire a sopravvivere in una società capitalista, quella stessa società che, attraverso le mire megalomani ed espansionistiche di van Buren, finisce per risucchiarlo…

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…The Brutalist è un'opera straordinariamente ambiziosa che sfida lo spettatore con la sua densità tematica e la sua durata considerevole. 

Corbet costruisce un film che è al tempo stesso un dramma storico, un ritratto psicologico e una riflessione sul ruolo dell'arte nella società  che rendono questa pellicola un'esperienza cinematografica intensa e indimenticabile.

E’ durata circa dieci anni la gestazione di questo film, vuoi per i soliti problemi di finanziamento (enormi per un film indipendente) vuoi per la pandemia, sta di fatto che The Brutalist possiede le stigmate di quei film che passano alla storia, quelle opere monumentali che sono un palcoscenico maestoso su un racconto carico di emozione e di drammaticità; l’opera di Corbet, che ricordiamolo è il più europeo dei registi americani, possiede la grandezza del Cinema che sa trasportare, il cinema eroico, quello che ti tiene incollato sulla sedia e con gli occhi sullo schermo; non a caso il regista decide di utilizzare il sistema Vista Vision a 70 mm il cui ultimo utilizzo era stato negli anni 50, proprio per rendere il più reale e coinvolgente possibile l’esperienza visiva, alla quale concorre una fotografia ed un bianco e nero elegantissimi e glaciali nella loro bellezza  ed una colonna sonora di Daniel Blumberg sempre ben coerente con lo sviluppo narrativo.

Il cast è eccellente ma le prove di Adrien Brody e Guy Pearce , entrambi candidati all’Oscar, sono al limite della perfezione nella loro perfetta adesione ai rispettivi personaggi.

Ribadiamolo, non è un film per tutti: la sua narrazione frammentata, i suoi toni cupi e la sua lunghezza potrebbero scoraggiare alcuni spettatori. Tuttavia, per chi cerca un cinema che stimoli la riflessione e offra un'esperienza estetica e intellettuale di alto livello, The Brutalist rappresenta un capolavoro contemporaneo che lascia il segno, uno di quei film che entreranno di diritto tra quelli che fra 50 anni verranno ricordati; basterebbe un film come questo, ogni 2-3 anni ,a far sì che il Cinema abbia una ragione di esistere.

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