Quetzalcoatl è una creatura mitica azteca, (ri)appare a New York, e fa le sue vittime.
riesce a capirlo un delinquentello e la polizia, con David Carradine, va sulle sue tracce.
un film sottovalutato, secondo me.
buona (Quetzalcoatl) visione - Ismaele
…“Q” returns to the basic formula, in which a
prehistoric creature terrorizes the city. In this case, the creature is a
Quetzalcoatl, a mythical Aztec monster with wings and four claws. It apparently
has been brought back into existence in connection with some shady human
sacrifices at the Museum of Natural History (although this particular subplot
is very muddled). It lives in a nest at the top of the Chrysler Building, lays
eggs, and terrorizes helpless New Yorkers, who are not sure if this is a real
monster or another crazy circulation stunt by Rupert Murdoch.
Rex Reed was right, though, about the Method
performance by Michael Moriarty. In the middle of this exploitation movie,
there's Moriarty, rolling his eyes, improvising dialogue, and acting creepy.
He's fun to watch, especially in the scene where he names his terms for leading
the cops to the lizard. The cast also includes David Carradine, Richard
Roundtree, and Candy Clark, good actors all, but you have
to be awfully good not to be upstaged by the death throes of a dying
Quetzalcoatl.
Still to be answered: How did one Quetzalcoatl
get pregnant?
…qualche aspetto positivo il film ce l' ha ancora : lo
spunto è interessante , il ritmo non è malvagio , le inquadrature aeree della
metropoli americana sono affascinanti , ci sono alcune coraggiose sequenze
splatterose e soprattutto c' è un buon cast principale . Ma più che il
poliziotto arguto ed ironico interpretato dal bravo David Carradine , il vero
protagonsta è lo sfigato Michael Moriarty , nei panni di un piccolo criminale
con il quoziente intellettivo di una medusa ! Nel contorno si riconoscono poi
le facce note di Richard Roundtree e di Candy Clark . La pellicola è scritta ,
diretta e prodotta da Larry Cohen , autore spesso rozzo e trashoso ma abile a
tirare fuori film decenti dallo scarso budget a disposizione . Secondo me ,
nonostante le tante ingenuità, la sufficienza la merita ancora adesso e quindi
gli affibbio un 6 ....
il film ha una sceneggiatura che è un crescendo lungo tutto il film, sviluppandosi in direzioni che non sempre ti aspetti (meno male!).
il prof Gary si trasforma in Ron, per arrotondare e per provare a cambiare vita.
il suo compito è quello di evitare omicidi su commissione, arrestando in anticipo il mandante.
fino a un incontro che cambia la vita (ah l'amour l'amour...), Ron incontra Madison, è intesa a prima vista, in fondo vogliono le stesse cose, anche se non sempre in modo legale.
attori tutti bravissimi, come il regista, d'altronde.
un film che non delude, promesso.
buona (innamorata) visione - Ismaele
…Hit Man è
un film scritto benissimo, con dialoghi taglienti e cadenzati al secondo,
perché basterebbe infilare una battuta al momento sbagliato per far crollare il
tutto. E non succede. Ed è un lavoro che riflette sul concetto di
identità. Di chi si è veramente, motivo che investe anche le
caratteristiche del film stesso, (volutamente) impossibile da
inquadrare o classificare. Senza spoilerare nulla, perché sarebbe un
delitto in piena regola, visto che questo è proprio il genere di film che non
si gusta se si dovesse sapere mezza cosa in anticipo, possiamo limitarci ad
arguire insieme che se un individuo, un placido docente
universitario, considerato un mezzo sfigato dai suoi stessi studenti,
improvvisamente si ritrova per i giochi del caso e della necessità a dover
incarnare un killer freddo e spietato con il compito di incastrare i
committenti, potrebbe, immagino, subire qualche sconquasso a livello personale,
che nella narrazione si traduce nei misunderstanding che
da sempre caratterizzano la commedia dai Menecmi di
Plauto in avanti (anche se Plauto suppongo non li chiamasse misunderstanding.
Forse). Per farvi capire, qua sotto vedete come il professore scende dal
furgone che funge da centrale operativa per iniziare la sua carriera di
credibile sicario. Ecco, nella distanza che intercorre tra Gary lo
sfigato e Ron il superfigo, contemplando nella stessa distanza le conseguenze
che si generano, sta tutto il film….
…Commedia degli omicidi, con una
sceneggiatura da applausi, il film mette in scena il denominatore comune che
esiste tra l'arte dell'esistenza e quella dello spettacolo, per il tramite di
un Laurence Olivier del lavoro sotto copertura. Il risultato è un susseguirsi
teso e divertente di colpi di scena e di duetti e triangoli eccellenti; una
farsa degli equivoci solcata da una vena più scomoda e dark, che scorre ai
confini estremi della morale e dell'educazione delle giovani menti.
Un film che appare leggero, ma, di nuovo, è solo un travestimento. Ci vuole
un'esecuzione perfetta, infatti, per mascherare con naturalezza un'architettura
complessa.
Tra
voice-over d'ordinanza e spezzoni di film cult - viene addirittura citato un
cult nipponico per eccellenza come La farfalla sul mirino (1967) - il gioco di
Richard Linklater è un divertissement di gran classe, aggiornamento farsesco di
una vicenda realmente accaduta, qui traslitterata ad un intrattenimento sì a
prova di grande pubblico ma ben più sagace della media. La love-story tra un
finto sicario che agisce sotto-copertura per incastrare i mandanti di omicidi
che devono ancora avvenire e una donna che intende assassinare il marito non
nasce certamente sotto i migliori auspici, ma si evolve su linee inaspettate e
sorprendenti, pronta sempre a spiazzare il pubblico. Una commedia romantica
venata di action e di tensione, popolata da battute irresistibili e da gag
frizzanti, dominata dall'alchimia che lega indissolubilmente i personaggi di
Glen Powell e Adria Arjona.
…Quintessenzialmente
indie e gioiosamente inattuale, leggero e mai frivolo, Hit Man scavalca
il biopic per svincolare la storia dal dato biografico: come Gary, il film
passa dal divertimento della commedia al ritmo dell’action, adotta il côte
romantico e attraversa il thriller con il sottofondo noir a ricordarci il
contesto, sconfina nell’umorismo meno accomodante e non rinuncia a momenti
malinconici. Non si tratta di un gioco intellettuale in cui la struttura
rispecchia il personaggio, ma di un film clamoroso, sostenuto da una
sceneggiatura magistrale per la perfetta costruzione narrativa e
l’irresistibile precisione dei dialoghi (Billy Wilder ne sarebbe stato
compiaciuto), scritta da Linklater con Glen Powell.
Attore
– anche produttore, uno e trino – già nel giro del regista – sono entrambi
texani – dai tempi di un film sottovalutato e magnifico come Tutti
vogliono qualcosa!! che qui è francamente memorabile, credibile in
ogni travestimento (compreso quello nerd: mica è facile per un sex symbol
essere attendibile come sfigatello senza ricorrere a trucchi e magheggi),
completamente consapevole del ruolo cucitogli addosso e anche dell’importanza
di un film del genere nella sua carriera. È un po’ la prova definitiva del suo
star power: cronologicamente è successivo a Top Gun: Maverick, ma
per motivi di distribuzione arriva dopo l’imprevisto successo di Tutti
tranne te che l’ha reso un reuccio della commedia commerciale capace
di rinverdire il parterre hollywoodiano (è un momento decisivo per il settore,
vedasi le ascese dei millennials Timothée Chalamet, Zendaya, Jeremy Allen White
e Sydney Sweeney). Powell guida un cast intonatissimo, in cui si distinguono
l’ammaliante Adria Arjona, la stand-up comedian Retta e Austin Amelio come
poliziotto fuori di testa. Nel cinema degli Stati Uniti, Linklater conferma una
doppia appartenenza: quella allo stato del Texas e quella allo stato di grazia.
…Al formidabile duo Linklater-Powell andrebbe
aggiunta anche la portoricana Adria Arjona, sensualissima e “pazza” nei panni
di Madison. L’intesa tra i due è perfetta, attraversa tutte le sfumature
possibili di una relazione a due (l’ironia, il sesso, l’idealizzazione, la
bugia, l’omicidio) e raggiunge il culmine nella grandissima scena in cui Gary e
Madison sono spiati dalla polizia e devono allestire un dialogo fasullo mentre
le informazioni “vere” passano attraverso messaggi scritti sullo
smartphone. Hit Man. Killer per caso procede
spassoso, seguendo il ritmo e le variazioni di una partitura jazz. Ma in
filigrana Linklater riflette sul concetto di identità, immaginazione,
desiderio, mandando qua e là stilettate all’endemica violenza della società
americana e al fallimento di ogni classificazione sociale e comportamentale.
C’è dentro anche una riflessione sull’immaginario pop e cinematografico sulla
figura del sicario. “I sicari non esistono, la gente ci crede perché li ha
visti nella fiction” racconta il protagonista agli spettatori, dando il via a
un continuo rimando di maschere e perversioni tutto consumato in una dimensione
di finzione. Ecco. Se c’è un film straordinariamente lucido sulla reinvenzione
della morale e sulle trasformazioni emotive, sentimentali e culturali degli
esseri umani è questo.
Matt Demon è un dirigente d'impresa che diventa informatore dell'FBI, il film mostra i rapporti degli agenti FBI con l'informatore, a volte comici, spesso serissimi.
Matt Demon è bravo, come sempre, gli agenti FBI di più.
non è un capolavoro, ma non delude.
buona (insider) visione - Ismaele
…“The Informant!” is fascinating in the
way it reveals two levels of events, not always visible to each other or to the
audience. A second viewing would be rewarding, knowing what we find out. Matt
Damon's performance is deceptively bland. Whitacre comes from a world of
true-blue Downstate people, without affectations, surrounded by some of the
richest farmland in the world. His determination to wear the wire leads to
situations where discovery seems inevitable, but he's seemingly so feckless
that suspicion seems misplaced. What he's up to, is in some ways, so very
simple. Even if it has the FBI guys banging their heads against the wall.
Mark Whitacre, released a little early
after FBI agents called him “an American hero,” is now an executive in a
high-tech start-up in California and still married to Ginger. Looking back on
his adventure, he recently told his hometown paper, the Decatur Herald and
Review, “It's like I was two people. I assume that's why they chose Matt Damon
for the movie, because he plays those roles that have such psychological
intensity. In the ‘Bourne' movies, he doesn't even know who he is.”
…The Informant! riesce
comunque ad essere divertente in più di un momento, con quella sua leggerezza
che pare arrivare dalle commedie della Hollywood dei tempi d’oro. Merito dei
brillanti dialoghi di Burns ma anche della bella interpretazione di Matt Damon,
ingrassato e invecchiato per la parte, che non sembra aver problemi a passare
dai ruoli d’azione a quelli comici. Soderbergh, invece, questa volta non sembra
aver trovato la giusta chiave registica, ma per sua fortuna (e degli spettatori)
anche se il film zoppica un po’ la commedia funziona ugualmente.
un'impiegata onesta riesce a scoprire un imbroglio di proporzioni enormi.
e siccome i truffatori sono persone poco gentili, diciamo, un killer va a tapparle la bocca, ma ha fatto male i conti.
buona parte del film, forse a causa del budget, è girato in un ascensore.
buona (claustrofobica) visione, se avete tempo - Ismaele
Soggetto non originale ma film di una
certa presa. Evidente propaganda femminista della donna che sa combattere come
un uomo e la spunta contro un energumeno assassino di professione. Ridicoli
questi aspetti subliminali che inseriscono sistematicamente nei film. Oggi
inoltre, a differenza di un tempo, i "cattivi" tendono a cavarsela,
se non a prevalere, perché quasi sempre sono quegli stessi criminali del mondo
reale finanziario e multinazionale che i film stessi li finanziano e ne
decidono i contenuti, subliminali e non. Fatte queste considerazioni, film che
desta, soprattutto nella prima parte, qualche interesse, che però resta
abbastanza deluso da un finale ambiguo e sfumato poco soddisfacente.
Ridley Scott gira un film di spie, doppi e tripli giochi, Leonardo DiCaprio è la spia efficiente in Iraq e in Giordania, sotto il comando, per quanto possibile, del suo superiore della CIA, collegato dagli USA.
il regista difficilmente delude, e per quanto il film non sia indimenticabile, si vede bene, l'avventura di assassini contro assassini.
…Grazie al montaggio di Scalia, già autore di Black Hawk Down, il film si muove fra cento locations senza smarrirci e ci fa rimbalzare a buon ritmo nel dedalo di bugie, dove "i tuoi nemici si vestono come i tuoi amici e i tuoi amici come i tuoi nemici". Lo spettacolo è assicurato, rinnovato. Il film non dice, invece, quasi niente di nuovo sul fronte orientale, al punto che l'ambientazione passa in secondo piano, nonostante resti il motore delle ottusità sul campo di gioco. Certe ingenuità del personaggio di Di Caprio (mai dell'attore), certe insistenze sugli abiti ideologici di uno scontro prima di tutto d'interessi, certi passaggi narrativi quasi obbligati minano purtroppo il copione, come se di tutto l'esplosivo impiegato sul set qualche carica fosse rimasta in mano all'autore senza che se ne avvedesse, producendo qualche danno. Collaterale.
The acting is convincing. DiCaprio makes
Ferris almost believable in the midst of absurdities; the screenplay by William Monahan, based on
the novel by David Ignatius, portrays
him as a man who grows to reject the Iraq war and the role of the CIA in it.
Crowe, who gained 50 pounds for his part (always dangerous for a beer drinker),
is a remorselessly logical CIA operative. I particularly admired the work of
Mark Strong as the suave Jordanian intelligence chief, who likes little cigars,
shady nightclubs and pretty women, but is absolutely in command of his job.
The bottom line: "Body of Lies"
contains enough you can believe, or almost believe, that you wish so much of it
weren't sensationally implausible. No one man can withstand such physical
ordeals as Ferris undergoes in this film, and I didn't even mention the attack
by a pack of possibly rabid dogs. Increasing numbers of thrillers seem to
center on heroes who are masochists surrounded by sadists, and I'm growing
weary of the horror! Oh, the horror!
in una Roma che non è quella di Sorrentino, in una storia di droga che non è quella di Gomorra, in una Colombia che non è quella di Pablo Escobar, è ambientato il film di Enrico Maria Artale.
è una storia d'amore figlio-madre, dove Julio Cesar (Edoardo Pesce) si fa carico della madre, entrambi sono iperdipendenti, ma non dalla droga.
vivono ancora insieme, di sostengono a vicenda, di mestiere fanno gli spacciatori, il loro rapporto dura oltre la morte (di lei).
Edoardo fa il primo viaggio della sua vita, va in Colombia, per restituire al suo paese le ceneri della madre, che arriva, pare, da un villaggio che si chiama El Paraíso (lo stesso nome della loro barchetta).
e Julio Cesar parte...
un film con una tristezza di fondo, film d'amore e di disperazione, senza effetti speciali, tranne uno, che scoprirete.
visibile in pochissime sale, una caccia al tesoro, insomma.
buona (paradisiaca) visione - Ismaele
Julio Cesar (Edoardo Pesce), vive con la madre tossicodipendente
(Margarita Rosa de Francisco) nella periferia balneare di Roma. Insieme, i due
lavorano per un spacciatore locale, occupandosi di recuperare i muli arrivati
dalla Colombia. La relazione tra i due viene travolta dall’arrivo di Ines
(Maria del Rosario) che spinge Julio a farsi domande sulla sua relazione con la
madre e le sue aspirazioni di vita.
El Paraiso ci fa navigare tra le correnti della relazione umana più
primitiva, il legame tra mamma e figlio, offrendo una finestra su un mondo dove
questo legame diventa tossico: tossico in quanto marcato dall’abuso di
sostanze, ma anche tossico nell'incapacità di un figlio a mollare ed
emanciparsi dalla madre.
D’altronde, l’involuzione della relazione con la madre lancia Julio
in un percorso di ricerca delle proprie origini, che lo porta a viaggiare e
scoprire nuove facette della sua persona, rendendo il personaggio ancora più
identificabile per il pubblico.
Insomma, un racconto potente di relazioni umani tra madre e figlio,
un'intensità leggera che coinvolge ognuno di noi a tratti. Una performance
stellare di Edoardo Pesce complimentata da una bella alchimia con Margarita
Rosa de Francisco. Il tutto implementato da una cinematografia colorata,
visivamente molto piacevole e da una musica trascendente che ci trasporta
nell’atmosfera calda dei bar salsa di Cali.
…A conti fatti, per il coraggio e l’intelligenza
della proposta, El Paraíso meritava senza dubbio di
uscire in sala, certo non a nove (nove) mesi dal passaggio con premi a Venezia
2023. Il premio serve, per la visibilità e per lanciare (o consolidare) una
carriera; vanificarne i benefici, non è il massimo. Con il massimo rispetto per
le strategie produttive e distributive – perché c’è chi fa il cinema e chi ne
scrive e basta e bisogna conoscere la differenza – e con l’augurio che il tour
promozionale in sala di regista e cast aiuti il film a trovare il suo pubblico
– si dice così – El Paraíso meritava una possibilità
diversa. Spetta alle sale smentire la fosca previsione.
…El
Paraiso è un film pregno di sentimento sofferto e la musica e il completamento
naturale della messa in scena, da potenza e fisicità alle immagini. El Paraiso
è il nome di una piccola imbarcazione, che madre e figlio usano per le loro
scorribande marine. Un film non solo tragico, ma anche molto intimo e
teneramente delicato, un ritmo lento, ma funzionale alla storia. Comincia con
un ballo e finisce con un altro ballo in capo al mondo a Cali in Colombia.
Questo è un piccolo grande film poetico ed alla fine un caloroso applauso
spontaneo della sala sancisce il successo popolare della pellicola, ottimo
cinema che magicamente unisce dei perfetti sconosciuti nel giusto tributo al
film, ai magnifici interpreti ed alla regia. Interpreti e personaggi Edoardo
Pesce: Julio Cesar Margarita Rosa de Francisco: madre di Julio Cesar Maria Del
Rosario Barreto Escobar: Ines Gabriel Montesi: Lucio.
La serie di Valeria Golino, tratta dal libro di Goliarda Sapienza, appare in anteprima, in due parti, al cinema.
Attrici bravissime e convincenti, svetta Tecla Insolia, protagonista della storia, Modesta è sempre al centro delle vicende che la riguardano, amata da tutti.
Pochi siamo andati al cinema, per dirvi di non perdervi la serie, quando apparirà in tv.
Un film (serie tv) che merita moltissimo.
Buona (gioiosa) visione - Ismaele
ps: Modesta bambina si assomiglia ad Adriana, se vi ricordate L'Arminuta, simpatica e furba.
…l'abilità della regista sta
soprattutto nell'indirizzare le performance di un cast di attori eccezionale,
potenziando al massimo l'ambiguità di Jasmine Trinca nei panni della badessa
Eleonora e la petulanza dittatoriale di una monumentale Valeria Bruni Tedeschi
nel personaggio della principessa Brandiforti. Fanno loro corona molti ruoli
maschili memorabili (in questa storia che ha le donne al centro), soprattutto
il giardiniere del convento (Giovanni Calcagno) e l'irresistibile gabellotto
(Guido Caprino). Il migliore è Lollo Franco nel ruolo tragicomico del
maggiordomo Antonio. E fra le interpreti femminili sono molto efficaci Alma
Noce (Beatrice) e Alessia Debandi (Ilaria). I dialoghi non sono mai frasi ad
effetto o gesta eclatanti e la regia non indugia, non sottolinea, sceglie di
"buttare via" quelle che in uno sceneggiato tradizionale
diventerebbero scene madri.
La Modesta di Golino è una ragazza
selvaggia che si muove a quattro zampe e legge Baudelaire, una creatura vorace
di conoscenza e di piacere, non vuole Dio ma la vita, ama sapere e sedurre, e
fa fiorire chiunque incontra per poi abbandonare ognuno al suo destino, qualora
diverga dal proprio. È un personaggio intimamente letterario che rimanda a Jane
Eyre come a Barbablù, e che Golino rende accessibile al grande pubblico, senza
inutili vezzi intellettuali.
Modesta è un vettore di libertà, Maudit ma mai autodistruttiva, concentrata
come una freccia sulla realizzazione di sé a dispetto delle sue circostanze,
anzi, facendole fruttare tutte, come in un fuiletton vecchio stile: è Angelica
la marchesa degli angeli senza pretese di virtù; è una Giovanna d'Arco che
invece di ardere sul rogo brucia tutto quello che si frappone fra lei e il suo
futuro luminoso - tanto è il mondo stesso ad essere in fiamme. E sa mantenere
anche una misura di carità, in un universo pieno di disabilità fisiche ed
emotive che per lei non sono mai una scusa, ma possono essere un'opportunità di
emancipazione. Ed è ipermoderna nella concezione dell'amore, quando dice che
"si può amare un uomo, una donna, un cavallo".
Se della scrittura di Sapienza non ha l'anarchica sgrammaticatura o
l'invenzione linguistica, Golino ne rivendica le ombre che ci vengono dietro e
le infinite rifrazioni, scompone e ricompone per immagini ciò che in letteratura
resta disarticolato, e si concede piccoli passi nel delirio solo nei riflessi,
nelle inquadrature da finestre e finestrini (memorabile quella del giardiniere
mentre Modesta si allontana dal convento), dietro a tende avvolgenti.
L'arte della gioia è una fiaba iniziatica dominata da più di una
strega, ed è anche il resoconto di un secolo (Modesta nasce il primo giorno del
'900) pieno di contraddizioni e di scoperte. Golino, come Modesta, unisce
l'utile e il dilettevole, facendo della sua volontà di regista il prodotto del
suo desiderio di autrice. E l'ironia della regista-sceneggiatrice, come la
risata di Modesta, è il loro gesto di suprema rivendicazione femminile.
… In questo continuo chiaroscuro che determina in maniera
lampante anche il percorso del personaggio centrale, ruolo di affascinante
ambiguità che Tecla Insolia sa governare con sorprendente equilibrio, si fa
preponderante il ricorso ai flashback (alcuni episodi decisivi della sua
infanzia, come la violenza subita dal padre, la morte della capra, il primo
approccio con l’amichetto Tuzzu, etc., arrivano in altrettanti momenti cruciali
della sua seconda vita) e assume sempre più importanza l’insistito ma mai banalizzato
riferimento all’ombra che, in più di un’occasione, accompagna l’incedere di
Modesta (insieme a quella carrellata evocativa nel campo bordo strada dove, di
volta in volta, si aggiungono i morti che la ragazza si lascia dietro di sé),
che in quell’incendio iniziale perde la madre e la sorella maggiore, disabile,
solamente le prime due di una lunga serie.
Sicuramente audace nel saper restituire quel tumulto
d’emancipazione che animava le pagine del libro, la serie – cosa peraltro mai
nascosta dalla Golino anche durante la lavorazione – non vuole farsi
trasposizione “fedele” per quello che riguarda l’intera dinamica di fatti e/o
situazioni, piuttosto incarnare del romanzo la mutevolezza e lo squilibrio che
ne caratterizzava l’indole, così sfumata, irregolare e anche per questo
difficilmente collocabile in “un” genere…
Stupendo: un film dal valore estetico e umano meraviglioso, quella
firmato Valeria Golino e Gelormini. Il plauso cresce ancor di più se si pensa
che si tratta di un prodotto concepito per la tv- giustamente, vista
l’estensione. Eppure anche al cinema l’impressione è augusta. Ho visto il film
al cinema, nelle due puntate lunghe, ma mai noiose, da due ore e mezza l’una.
Come sempre, la Sicilia si conferma regina, italiana e forse
mondiale, per l’immaginario estetico che offre: tanto sociale e psicologico,
quanto artistico e paesaggistico.
Profondissimo lo scavo psicologico, autentico e sconcertante per
quanto la realtà possa essere terribile. Infatti un’opera d’arte non ha
bisogno, qui come purtroppo in tanti altri casi, di chissà quale creatività
nell’inventare trame, se parla del possibile e reale ruolo del dolore morale.
Il gabelliere amante è il padre che la violentò. Ippolito è la
sorella: entrambi, accomunati dalla disabilità, rivelano la splendida
sensibilità umana della protagonista Modesta – dimostrata anche dalla rinascita
del disabile Ippolito (una volta morta la sua terribile madre) che può vivere
normalmente grazie a Modesta, capace di compiere un miracolo umano ed
educativo, al netto della terribile e opportunista seduzione operata sul
minorato mentale. La nobile è la madre, arrogante. La coazione a ripetere guida
la protagonista…
in una simpatica giornata di sole accade di tutto.
una piccola stazione di polizia deve chiudere, in un quartiere poco raccomandabile.
il tenente Bishop ha il compito di seguire le operazioni di chiusura, ma una gang compie degli omicidi gratuiti, ma un sopravvissuto si rifugia in cerca d'aiuto in quella stazione di polizia, dove intanto si era fermato un cellulare pieno di condannati a morte, trasferiti da un carcere all'altro.
Napoleone Wilson, il più terribile galeotto, nell'assedio di quella gang troppo numerosa e fuori di testa, è un eroe.
quasi tutto il film è girato dentro lastazione di polizia, in un crescendo di violenza e tensione senza limiti.
…Si
potrebbe parlare, come hanno fatto in molti, dell'influenza dei modelli western
oppure delle tantissime citazioni disseminate nel testo (tra tutte: il regista
firma il montaggio con lo pseudonimo di John T. Chance, che è il nome del
personaggio di John Wayne nel film di Hawks), sebbene si finirebbe col
tralasciare l'importanza di un film realmente seminale, che ha segnato la
nascita di un mood cinematografico in bilico tra il poliziesco, il carcerario e
l'avventuroso con infiltrazioni fantastiche. Una metropoli ai limiti del
collasso, l'eroe negativo e già vinto (il condannato a morte Napoleone Wilson è
protagonista come e anche più del tenente Bishop), la mancanza di qualsiasi
forma di eroismo come la giusta carica di romanticismo perdente (l'intesa tra Wilson
e la segretaria Leigh), non a caso, saranno gli ingredienti fondamentali di
molti thriller urbani a venire. Con il suo carico di violenza prima
iperrealista, l'esecuzione della bambina suscitò le ire della stampa americana,
e poi sempre più rarefatta fino a raggiungere l'astrazione, la pellicola denota
l'insolita capacità del regista di dare vita a situazioni che, pure al limite
con l'allucinazione, riescono a mantenere uno stretto legame con la realtà. E
forse sta proprio in quest'aspetto la sua carica più innovativa.
...Dopo la
fantascienza bizzarra e minimalista di DARK STAR, Carpenter cambia
completamente registro e si cimenta in quello che molti considerano il suo vero
esordio dietro la macchina da presa, nonché il suo capolavoro. Traendo spunto
dal classico di Howard Hawks UN DOLLARO D'ONORE (uno dei film preferiti di
Carpenter) e non senza scomodare l'horror-cult di Romero LA NOTTE DEI MORTI
VIVENTI, Carpenter gira un violento western metropolitano in cui e' già
racchiusa tutta l'essenza del suo cinema: analisi e critica sociale, atmosfere
claustofobiche e notturne, la figura dell'anti-eroe, colonna sonora
elettronica. Il tutto condito da una spruzzatina di horror. Un vero preludio a
quel 1997: FUGA DA NEW YORK che vedrà la luce cinque anni dopo. Bassissimo
budget e cast di attori sconosciuti di cui si sentirà parlare molto poco in
seguito, sono alcune delle ragioni che spesso DISTRETTO 13 viene inserito nel
filone del cinema di exploitation, anche per via della disturbante scena
dell'omicidio a sangue freddo della bambina da parte di Frank Doubleday, il
Romero di 1997: FUGA DA NEW YORK. Uno script (un gruppo di persone assediate
all'interno di una struttura) che diverrà una costante nei film di Carpenter e
che ispirerà anche il francese Florent Emilio-Siri per il suo bel NIDO DI
VESPE, nonché una gustosa parodia nella serie televisiva dell'ispettore
Coliandro. Per qualcuno un film che oggigiorno potrebbe risultare datato. Per
me invece e' come certi vini rossi, invecchiando migliora.
A partire dalle note gravi e coinvolgenti della splendida colonna
sonora, lo spettatore è coinvolto in questo magnifico pezzo di cinema che, come
già detto ed evidenziato dallo stesso regista, è un grande omaggio a Un dollaro d'onore, uno dei più celebri film
western del grande Howard Hawks ed interpretato da John Wayne. L'omaggio è
talmente esplicito che Carpenter anzichè indicare se stesso come responsabile
del montaggio ha citato il nome di John T. Chance, lo
sceriffointerpretato in quel film da Wayne. Del film di Hawks rimangono
altrettanti elementi: da evidenziare la sottile ironia che accompagna l'intera
vicenda, le schermaglie tra i vari personaggi ed il profondo senso del dovere
del protagonista (di fronte all'impiegata che propone di
"sacrificare" l'uomo che ha condotto attorno alla caserma la banda di
delinquenti, il Tenente Bishop non ha esitazioni circa l'indispensabilità di
doversi ergere a paladino della legge senza scendere a compromessi, anche se
questo dovesse costare la vita a tutti), il ruolo sempre più preponderante
della componente femminile del gruppo, così come la bella Feathers era divenuta parte integrante del gruppo
del film western, così Leight si dimostra combattiva ed indipendente. Inoltre è
da evidenziare che così come la forza morale di Wayne in Un dollaro d'onore, fa da contr'altare e soprattutto
"contagia" le debolezze dovute all'alcol per Dude (il personaggio interpretato da Dean Martin),
anche in questo film, la figura di Napoleone viene in un certo senso attratta
dal senso del dovere del tenente Bishop.
Oltre a tutte queste similitudini non si può non elogiare uno
sviluppo della trama estremamente appassionante ed inquietante: a partire
dall'agghiacciante scena dell'omicidio della bambina (ancora oggi un pugno
nello stomaco), si passa ad un'ambientazione notturna, senza vie di fuga e di
totale isolamento nonostante la grande metropoli sia tutt'intorno. Uno dei film
più riusciti di Carpenter.
…Chi ucciderà Charley Varrick? è infatti il noir perfetto, con sequenze
magistrali (la rapina è tra le migliori della storia del cinema, succede di
tutto senza dover ricorrere ai ralenti, di cui Siegel non ha mai avuto bisogno
per essere epico o lirico), dialoghi pazzeschi (anche il doppiaggio italiano,
con le sue libertà, non è male) e personaggi tutti memorabili: il paralitico
ricettatore/informatore, la fotografa della mala, lo sceriffo, il mafioso
cinese, l’entraîneuse e il direttore di banca istigato al suicidio dalle parole di
Vernon in una formidabile scena tra le vacche di un recinto in aperta campagna.
Musiche al solito eccezionali di Lalo Schifrin alla quarta collaborazione con
Siegel (ce ne sarà una quinta, Telefon, nel 1977).
Un piccolo classico questo film di Siegel. C'è un po'tutto il
suo universo: l'ironia feroce, l'amicizia virile, l'uso della violenza visto
come necessario quando non basta il solo cervello, una poco agevole distinzione
tra buoni e cattivi(o meglio qui sono tutti cattivi ma qualcuno lo è piu' degli
altri).Su tutti si staglia la figura di Charley Varrick alias Walter Matthau
una volta tanto svincolato dai ruoli comici che divora letteralmente il film. La
rapina iniziale in banca è un capolavoro di precisione il finale in cui Charley
gabba tutti(polizia e mafia che cercava i soldi)un capolavoro di perfidia…
Uno dei migliori film realizzati da Don Siegel, un noir teso e
violento che non lascia mai tregua e respiro allo spettatore. La vicenda è un
noir a venature thriller, di una cupezza degna di Fritz Lang. In Chi ucciderà Charley Varrick? notiamo, infatti,
un'umanità speduta e senza speranza. I cosiddetti 'buoni' sono dei rapinatori
che non si sono fatti scrupolo ad uccidere ma, dall'altro, troviamo una società
corrotta e dominata dalla malavita in cui pare non possa esserci spazio per la
giustizia e per la redenzione; una società in cui le forze dell'ordine sono
poco più che comprimari in uno spettacolo in cui a farla da padrone è la mafia.
Matthau, che dà in prestito la sua abituale maschera
spiritosa ad un thriller, è strepitoso nell'interpretare la figura di Charley
Varrick, un criminale freddo e calcolatore dal cervello finissimo ma che è
ancora in grado di provare dei sentimenti, ma spicca anche Joe Don Baker nel
ruolo del sicario rozzo, razzista e violento che è l'incarnazione del male
assoluto. Siegel dirige il tutto col suo solito straordinario talento, dando
alla storia un piglio frenetico e violento.
Credo si possa dire un film perfetto,
che non ha una smagliatura durante tutta la sua durata. Tutto, dalla regia alle
interpretazioni, è di alto livello. A conti fatti, poi, è uno dei film più
ottimisti di Don Siegel, nonostante il suo pessimismo abbia comunque uno spazio
notevole. Il microcosmo della piccola banca di provincia ne è un esempio:
trasferimenti di ingenti somme in nero provenienti dalla malavita, complicità
politiche, un direttore che, oltre che manutengolo dei criminali, è un inetto e
un vigliacco. Il personaggio più
negativo è forse quello del gorilla,
una specie di robot senza cuore e senza ombra di umanità. Lo stesso complice
del protagonista è anch'egli un esempio di uomo senza scrupoli, dalla pistola
facile, e interessato solo al denaro. In ogni caso non ho trovato quel
pessimismo nero e quella crudeltà disperata che ho riscontrato in
"Contratto per uccidere". La sceneggiatura parla vagamente di una vita
precedente del personaggio di Matthau assieme alla moglie, una vita che appare
abbastanza felice e forse fuori dalla criminalità. Non viene chiarito il come
siano giunti a mettere in piedi una rapina ad una banca, ma talune
indeterminatezze sono pregi in seno a certi film. La prima volta che lo vidi,
diversi anni fa, non capii l'episodio finale dell'incontro presso lo
sfasciacarrozze, perché è proprio un guizzo di intelligenza e di
improvvisazione da parte del protagonista. Walter Matthau dà forse l'interpretazione migliore
della sua carriera: momenti memorabili sono l'addio alla moglie morta, la gomma
da masticare messa in bocca alla fine, e la sua espressione di quando la
macchina va finalmente in moto (dove c'è persino una punta di umorismo). Come dicevo, è un film perfetto, ma non ha per me
quel fascino e non mi suscita quella profonda partecipazione di altre
pellicole. I meriti oggettivi di un'opera, comunque, vanno sempre riconosciuti.
Una storia comune, all'assalto della terra e della vita ci sono i soliti estrattivisti/(nuovi) colonialisti, rubano tutto quello che si può rubare, le leggi spesso le scrivono loro, di sicuro non vengono scritte contro di loro.
Loro sono le mafie e i fondi che investono miliardi di miliardi, con un solo obiettivo, il tasso di profitto, a qualunque costo.
E poi ci sono gli espropriati, soli, abbandonati, che cercano di resistere, a volte finiscono ammazzati, sopratutto a sud degli Usa, da noi ci sono i soldi, e i sicari del Capitale.
Anna è una donna che resiste, con tutte le difficoltà da affrontare, perché donna e perché sola.
La ragnatela che la deve umiliare ed espropriare sta per chiudersi, ma Anna non ci sta, un piccolo avvocato prova ad aiutarla.
il film non è perfetto, come tanti, ma riesce a farsi ricordare e a farci solidarizzare con Anna.
il film è solo in una ventina di sale, se le trovate :(
buona (resistente) visione - Ismaele
ps: 1 - questi mesi in Sardegna c'è l'assalto delle pale eoliche, una storia di rapina e distruzione di suolo e paesaggio. Dietro ci sono le mafie e i fondi che investono miliardi di miliardi, con un solo obiettivo, il tasso di profitto, a qualunque costo.
2 - qualche mese fa As bestas, un grande film spagnolo, raccontava una storia non troppo diversa, sui rapporti in una comunità dopo che intervengono i soliti estrattivisti/(nuovi) colonialisti.
…È un film drammatico dal respiro
ampio di utopia, questo Anna, che incanta, conquista e convince,
facendosi perdonare picchi di eccessivo pathos (su tutte, la rabbia legittima
della protagonista esplode in troppe scene madri, più misura avrebbe giovato).
Una storia di resistenza contro il potere, insieme capitalistico e maschilista,
che solo una donna è in grado di combattere.
La performance di Rose Aste, scelta dopo numerosi
provini, è generosa e la regia è ben attenta a riprenderne ed esaltarne la
bellezza della vita che si è scelta, a stretto contatto con la sua terra, il
suo mare e i suoi animali. Un contatto simbiotico, ancestrale, che nessuna
multinazionale potrebbe mai comprare.
Funziona la scelta di mantenere il dialetto sardo nella prevalenza dei
dialoghi, per dare un'ulteriore spessore di autenticità al racconto. Racconto
scritto dallo stesso regista, insieme ad Anna Mittone e Niccolò Stazzi, che si
fa al contempo denuncia implicita dell'industrializzazione pesante, dell'allodola
del turismo di lusso come ricatto occupazionale, del capitalismo spregiudicato
che compra l'anima dei luoghi e spesso di chi vi abita da sempre…
…in quella presa di posizione, resa da Amenta nella forme di una
battaglia postmoderna degna dei biblici Davide e Golia, intrisa di poesia e
dolore nelle sue immagini ruvide, senza filtri, stringenti e camera a mano, non
c’è solo il controllo della terra, la dicotomia tradizione-innovazione e la
modernità che avanza contro il tempo che si ferma, c’è il difendere i propri
ideali, il lottare per ciò per cui si crede al prezzo (caro) di sangue, sudore
e urla, lo spingersi fino al limite ultimo umano e possibile e il non lasciare
che in nessun modo alcuno, la propria anima possa essere sporcata – corrotta –
dall’agire cieco e vile.
Ma soprattutto c’è la storia e con
essa il rispetto di vincoli figli di un altro tempo storico, fatti solo di
onore, fotografie e strette di mano. Un’opera, Anna,
che come solo il grande cinema sa fare, trasla il particolare della propria,
piccola, narrazione, all’universalità della vita e del mondo, scaldando il
cuore degli spettatori. Una lezione di vita, un monito per tempi altri: un’esperienza
cinematografica da non perdere!
…L'intrigue s'inscrit à la croisée des chemins entre une mise en scène
néoréaliste à saisir les enjeux sociopolitiques contemporains et la force
combative d'une femme seule contre une organisation mondiale néocoloniale
délétère, entre le cinéma de Roberto Rossellini et celui de Ken Loach. Si
l'intrigue n'a rien de révolutionnaire et l'on devine très vite le dénouement
attendu, la singularité du film repose sur la singularité du personnage féminin
aussi rude que sauvage pour affirmer une énergie qui repousse l'étiquette de la
femme victime. L'actrice Rose Aste dans l'un de ses premiers rôles conséquents
dans un film au cinéma est particulièrement convaincante à partager les enjeux
de ses luttes sans jamais pour autant tomber dans les facilités psychologiques…
… In Anna, la fascinazione nei confronti
della protagonista è totalizzante. Rose Aste è costantemente al centro della
scena. L'obiettivo le si incolla addosso e la segue mentre, scatenata e
sensuale, balla in discoteca, si apparta con uno sconosciuto o governa le sue
capre. Tra grida rabbiose e ostinati silenzi, il ritratto di una donna fuori
dai canoni, in lotta per affermare se stessa contro
tutto e tutti, ha la meglio sugli altri ingredienti. Di conseguenza, il film è
costruito a sua immagine e somiglianza, con una fotografia
chiaroscurale e una macchina da presa che si muove costantemente
nel tentativo di catturare ogni frammento del suo oggetto del desiderio
attraverso lunghi e scarmigliati piani sequenza. L'assenza di colonna sonora
extradiegetica ribadisce il tentativo di creare un ritratto in
purezza, liberandosi di orpelli e costrutti per arrivare a sbirciare
l'anima di Anna. Il tutto anche a costo di sacrificare la sceneggiatura
mettendone in luce, a tratti, i limiti.
…Paul Schrader è un demiurgo che non nasconde il proprio risentimento
per un'umanità sconfitta e senza cuore. Wade è uomo piccino, sacrificabile, che
nelle mani del dio vendicatore può fungere da monito e restituirgli figli
dediti all'alcool, alla droga, alle liti e alla sterile e un po' arcaica
osservanza dei dogmi di una religione vuota.
Mascherato dal giallo di un'indagine poliziesca a cui Wade partecipa
senza diritto ma con gran passione, il colore di "Affliction" è il
bianco di una società che non ha nulla del candore dell'Eden, un bianco
macchiato dal fumo acre di un falò purificatore, dal sangue degli omicidi e dal
colore della pazzia se quest'ultima ne avesse effettivamente uno.
Paul Schrader, cinquantunenne e combattivo, non ha ancora perdonato i
suoi simili e non concede loro alternativa alla perdita, alla solitudine, al
rimorso. L'umanità in fondo non se lo merita e la vecchiaia, che attenua il
dolore e la rabbia, è ancora abbastanza lontana perché il grande autore
conceda, finalmente, ai suoi uomini l'assoluzione dalle colpe.
Affliction è il capolavoro
di Paul Schrader. Uno dei film più belli e importanti non solo nella carriera
di questo grande autore, ma anche nell’intero ambito cinematografico americano
degli anni Novanta. Schrader adatta il romanzo “Tempesta” di Russell Banks, e
caratterizza alla perfezione l’ennesimo personaggio maschile della sua
filmografia. Wade Whitehouse (Nolte) è lo sceriffo di una piccola comunità,
divorziato e con una figlia piccola che non lo ama. Disilluso, stanco e
tormentato da un padre (Coburn) violento e alcolizzato che continua a vessarlo
come faceva quando era piccolo. Quando un sindacalista rimane accidentalmente
ucciso durante una battuta di caccia, Wade, su suggerimento del fratello Rolfe
(Dafoe, narratore della storia) comincia a credere che non si tratti di un
incidente ma di un omicidio, ma le cose andranno male. Affliction è quasi una tragedia greca con elementi
da thriller, un film dove gli eventi si susseguono implacabili verso una
spirale di autodistruzione che appare inevitabile. Il bianco candido della neve
del New Hampshire, sempre costante, fa da contraltare ad una storia cupa e
senza speranza. Tra tutti i personaggi di Schrader, Wade è il più tragico di
tutti. Perché a differenza degli altri, per lui non ci sarà redenzione, non ci
sarà salvezza. L’interpretazione di Nick Nolte è monumentale, ai limiti del
sovrumano, in un ruolo di dolente sofferenza. Gli fa da spalla un altrettanto
strepitoso James Coburn (giustamente premiato con l’Oscar) nella parte del
vecchio e patriarcale genitore. Grandissimo film, senza se e senza ma.
…En Días
de Furia el suceso potencialmente criminal termina en un segundo
plano ante el desarrollo de personajes y sobre todo la relación del
protagonista con su padre alcohólico y tiránico, Glen (James Coburn), una
persona con nula sensibilidad afectiva que golpeaba a sus hijos y su esposa,
Sally (Joanna Noyes), a la cual Wade encuentra muerta de hipotermia ya que el
marido no hizo reparar la caldera del hogar de este matrimonio de ancianos. Si
en pantalla la crueldad se nos aparece como una enfermedad del vínculo cercano
pero distante, siempre proclive a sabotear los pocos chispazos de felicidad, la
familiaridad bucólica toma la forma de un sinónimo de abusos, arbitrariedades,
impunidad, claustrofobia, vigilancia, sadismo, codicia, desconfianza, arcanos,
compulsiones y una más que evidente locura que suele barrerse debajo de la
alfombra y en otras ocasiones se exhibe a la vista de todos sin que haya
mayores consecuencias al respecto, naturalización grotesca mediante. Utilizando
el blanco y negro para las especulaciones detectivescas del oficial de policía
truncado, el video granulado símil Super-8 para los flashbacks en torno a la
niñez pesadillesca de los hermanos Whitehouse y el color tradicional para la
pesquisa en el presente y el drama de la convivencia de Wade consigo mismo, por
un lado, y con Margie y Glen, por el otro lado, Schrader obtiene actuaciones
magníficas de Nolte y Coburn, dos bestias sagradas del cine norteamericano, y
juega a sus anchas con dos de sus latiguillos temáticos preferidos, esa
automutilación representada en el calvario de la muela, pieza dental que el
esbirro de la ley termina sacándose con una pinza, y el deseo irrevocable en
pos de reconstruir su identidad mancillada desde la parentela, por ello lucha
por obtener la custodia de su hija y le propone casamiento a Fogg en plan de
darle una “segunda oportunidad” al amor bajo un régimen de coexistencia. La
propuesta, ubicada entre el neo film noir y la tragedia griega, es una de las
más amargas del cineasta porque priva de refugio a nuestro adalid de las causas
perdidas…
un film ricco di dettagli non trascurati, con ottimi attori, e un grande regista, gira pochi film, e tutti memorabili.
uno di quei film che se non lo vedi non sai cosa perdi, un gioiellino da non trascurare, con una sceneggiatura perfetta.
buona, anzi ottima, visione - Ismaele
Quasi perfetto, questo film. Il tempo è volato nel gustare
l'atmosfera creata dal regista. Poca la musica, anche quella ottima, ma sono le
scene ferme ad emozionare di più. Le battute tra i due scafati poliziotti, gli
appostamenti, il toast sgranocchiato nel silenzio dell'abitacolo , le
magnifiche pause che ci/li fanno pensare. I riferimenti alla società di oggi
sono semplicemente obiettivi, non c'entrano i razzismi, i fascismi. Una
rapina. A che cosa servono quei soldi? A curare mia moglie. A cambiare casa
e scappare da quel rione di merda. A conquistare la donna che amo. A giocare
con la Playstation. Magari in un loft superlusso.
Una madre. Perchè tornare a lavorare dopo i tre mesi di congedo per
maternità? Non voglio, non voglio andarci. Spostare i soldi dei ricchi da
una parte all'altra del mondo. Che mi frega? Voglio stare con il mio bambino.
Ma vai, dice il marito, tu guadagni più di me. Vai a lavorare, cara.
E ci va, in quella banca. Accolta dai colleghi stronzi, che bello, ci
sei mancata.
Stringe con la mano, nella tasca della giacca, la scarpina di
lana del suo cucciolo, quella povera madre confusa, quella scarpina che
ha tolto mezz'ora prima da quel tenero piedino rosa, morbido, liscio,
cicciottello, che profuma di latte e amore, di futuro eterno, di fede.
Ci va, in banca. Poteva starsene a casa. E mandare a fanculo il
suo uomo.
Amo questo regista per questo filmone e lo devo seguire a tutti i
costi. La scelta di Gibson e Vaughn è stata vincente.
…Dragged Across Concrete si muove disinvoltamente fra generi e sottogeneri, spaziando dal buddy cop movie al più classico crime,
per poi passare al caper movie prima di sfociare nell’ultimo cruento atto, che
vede degenerare nel modo più brutale possibile tutte le vicende personali
introdotte in precedenza. Fra fiumi di sangue, viscere in bella vista, arti
mozzati e crani spappolati c’è tutto il necessario per fare fuggire a gambe
levate gli spettatori più impressionabili, ma Zahler riesce a nel
difficile compito di conferire costantemente al film un tocco sorprendentemente
umano, sia nel rapporto fra i due poliziotti sia in quello nato strada facendo
fra lo stesso Ridgeman e il personaggio dell’ottimo Tory Kittles,
basato sulla necessità di cooperare e al tempo stesso sulla reciproca sfiducia.
In un crescendo di emozioni e di svolte
inattese, Dragged Across Concrete si congeda con il
più nichilista dei possibili finali, che completa perfettamente il tema portato
avanti da Zahler per tutto il film, ovvero la lotta per la vita di un gruppo di
predatori a caccia dello stesso boccone fatto di lingotti d’oro, costellata da
pessime decisioni, tragiche fatalità e la totale assenza di etica e giustizia.
La cupa e avvolgente fotografia di Benji
Bakshi e la colonna sonora curata prevalentemente dallo stesso
Zahler, che a differenza delle precedenti pellicole lascia che la musica faccia
da accompagnamento emotivo al racconto, donano profondità e intensità al film,
facendo di Dragged Across Concrete un instant cult per
stomaci forti da recuperare al più presto, nella speranza di un’accettabile
distribuzione nelle sale italiane. La conferma del talento visivo e narrativo
di un cineasta poliedrico e con una propria personale e
inconfondibile impronta, destinato a emozionarci e sconvolgerci ancora
per molti anni a venire.
…Una sfida che S. Craig Zahler gioca
in casa. Infatti, seguendo il motto secondo il quale squadra che vince non si cambia, conferma il cast di
fedelissimi della pellicola precedente (Vince Vaughn presente
come coprotagonista, Jennifer Carpenter in
un ruolo da comprimaria, Udo Kier e Don Johnson in cammei), allargandosi mediante
la collocazione di una ciliegina sulla torta, ovvero Mel Gibson in versione tutto d’un pezzo,
nuovamente poliziotto come ai (bei) tempi di Arma letale, con la differenza tra i ruoli che
risulta direttamente proporzionale al punto della sua carriera in cui sono
capitati.
Un gruppo affiatato, che S. Craig Zahler gestisce
al pari della pellicola stessa - tra regia, sceneggiatura e anche la colonna
sonora di stampo jazz - continuando a stupire. Una volta di più, dimostra la
sua ecletticità, la predisposizione per girare e fondere materiale diverso -
questa volta tra noir, poliziesco e heist movie, senza
tralasciare altre contaminazioni – attuando anche dei depistaggi di gran
classe, così come poi lo è la struttura circolare, crudele e onesta per come
suddivide i partecipanti tra vincitori e vinti.
Coriaceo e tosto, letteralmente trascinato sul cemento.
…A Zahler piace di gran lunga stupire. Dragged Across Concrete è un’opera a tutto tondo,
che difficilmente si riesce a catalogare in un genere predefinito. Chi si
aspetta lo splatter, ad esempio, rimarrà deluso. Lo stesso valga per chi pensa
a un film d’azione, a un heist movie in
piena regola, a una commedia grottesca o a un dramma a sfondo sociale. Il film
è tutto ciò dal momento che attinge a piene mani da modelli eccellenti: gli
echi di Il principe della città, Nashville, Quel pomeriggio di un giorno da
cani, Piombo rovente, Hana Bi, Taxi Driver, Il mucchio selvaggio e persino Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante si
sentono frame dopo frame. Sequenza dopo
sequenza, quello del regista appare come un continuo gioco di rimandi e
citazioni che trasforma il suo lavoro minuto dopo minuto. Non mancano le
battute sagaci o le situazioni al limite dell’assurdo ma più che alla risata si
punta al pastiche e al guilty pleasure. Il
western sembra essere la linea di fondo seguita: rapina in banca nel selvaggio
West di una grande metropoli, i banditi armati, i fuorilegge dal cuore d’oro,
gli sceriffi corrotti e l’oro, tanto oro su cui mettere le mani. Non mancano
nemmeno le tre sepolture, ad avvalorare la tesi. È possibile però anche pensare
a un continuo rimando al mondo del videogioco ma si tratta di una sorta di
illusione provocata proprio dalla presenza dei videogiochi nella sottotrama
inerente al personaggio di Henry.
Ma cosa muove gli scalmanati protagonisti? La famiglia, come nella
più tradizionale messa in scena scorsesiana. Brett desidera proteggere la sua
dai nuovi nemici (i neri che popolano il suo quartiere) e garantire serenità
alla moglie Melanie, malata gravemente. Anthony vuole sposarsi con la fidanzata
e ripagare quell’anello che ha comprato. Henry anela a un futuro migliore per
la madre prostituta ed eroinomane (l’amore per la figura materna si evince
anche nell’ultima conversazione con l’amico Biscuit) e il fratello paralitico.
Vecchi sentimenti dunque che si mescolano alle chimere dell’epoca moderna, in
cui il ricatto e l’umiliazione passano per un video virale o in cui il nemico è
l’altro: non basta la parola per fidarsi, occorrono i fatti. Le promesse non
sono più tali e ogni prospettiva si rovescia: chi avrebbe dovuto difendere
attacca e chi avrebbe dovuto attaccare difende. Diversi, poi, i riferimenti
critici agli Stati Uniti dell’epoca Trump, le battute scorrette nei confronti
degli immigrati (italiani compresi) e una sana e consapevole disillusione.
Grazie a protagonisti in parte (Dio salvi Mel Gibson) e a comprimari d’eccezione
(da Udo Kier losco commerciante a Don Johnson tenente fino a Jennifer Carpenter
impiegata di banca), Dragged Across Concrete si
rivela un vero divertissement autoriale da
non prendere sottogamba.
…El más que admirable y meticuloso
desempeño de Zahler pasa por su paciencia narrativa, el desarrollo de
personajes frustrados a nivel existencial, el cariño por esos resortes clásicos
del cine de género, un genial soundtrack soulero y jazzero y una bienvenida
crueldad que no deja nada en pie -como en la realidad- porque el trasfondo
ético no es tan importante como los objetivos de cada protagonista, logrando la
proeza de construir intercambios entre seres de carne y hueso
multidimensionales que se enfrentan contra verdaderas máquinas de matar -allí
recae sobre todo el amor por los componentes más extremos del horror y el
suspenso- cuya efervescencia constituye un verdadero soplo de aire fresco en
las tristes comarcas mainstream e indie de la actualidad a escala global. De
hecho, llama mucho la atención el nivel de autonomía y/ o libertad del que goza
el cineasta, un autor con todas las letras que se da el enorme lujo de
articular el desarrollo principal -en un metraje tan extenso como necesario y
gratificante- con excelentes detalles paralelos como la presencia de esos
cómplices amorales de Vogelmann (Primo Allon y Matthew MacCaull) que roban
supermercados y a tontos varios para pagar el camión blindado del robo o esa
empleada bancaria llamada Kelly Summer (Jennifer Carpenter) que termina
asesinada de una manera espantosa justo el día en que regresa a su trabajo
después de una licencia por maternidad.
Al igual que como ocurría en Bone
Tomahawk y Brawl in Cell Block 99, el realizador
en Dragged Across Concrete va atizando el fuego retórico
para el nerviosismo, la algarabía homicida y el desconcierto todo terreno de un
desenlace que hoy por hoy llega a posteriori de un largo y fascinante acecho a
la distancia por parte de Brett y Anthony, quienes siguen a sus antagonistas en
un automóvil con el propósito de mexicanearlos en la coyuntura más oportuna
posible, desembocando en unos 50 minutos finales que rankean en punta entre lo
mejor y más enérgico que haya dado en mucho tiempo el séptimo arte en lo que a
policiales hardcore se refiere, en términos prácticos una andanada de
enfrentamientos -en sintonía con los duelos del Lejano Oeste y muy lejos del
fetiche contemporáneo con la dialéctica semi documentalista- entre todas las
partes involucradas alrededor de un único escenario en donde Zahler logra
edificar una constante sensación de claustrofobia a partir de espacios abiertos
que no lo son porque cada uno de los tiradores está preso de su propia ambición
y voracidad, en las que la desesperación social/ económica/ profesional de
fondo una y otra vez se traduce en la osadía de continuar avanzando hacia el
botín -o por el contrario, jamás soltarlo- vía un juego de intereses opuestos
sobre un mismo tesoro que los embarra más y más en el fango del “no retorno” y
los va eliminando uno a uno en consonancia con su ego.
Más allá de la eficacia en lo que
respecta al andamiaje concreto del cine de género, el opus de Zahler asimismo
resulta exitoso en materia del jugoso entramado político gracias a que destroza
en simultáneo a los fascistas, denunciando la autovictimización patética de la
derecha y su adopción del discurso satírico y nihilista de la izquierda del
pasado, y a los seudo progresistas de nuestros días, una serie de infradotados
que la van de comprometidos a nivel comunal sin embargo a decir verdad son tan
inofensivos, cobardes y cándidos en su presuntuosa seguridad que cada vez que
hablan ponen en evidencia su ignorancia y su táctica no asumida de repetir
fórmulas y latiguillos reduccionistas en vez de tomarse el trabajo de pensar
por cuenta propia. El director no sólo reincide de maravillas -en lo que atañe
a su trabajo previo- con Vince Vaughn, Don Johnson y Jennifer Carpenter, sino
que se planta como alguien que por fin entiende y aprovecha lo que puede
ofrecer -y lo que significa- Mel Gibson, en la vida real un tremendo demente
racista aunque en pantalla una figura con un magnetismo derechoso innegable que
calza perfecto como adalid de una furia intra/ extra institucional que no se
siente cómoda rodeada del fariseísmo omnipresente del Estado y la industria
cultural, leyendo lo ocurrido y sus acciones en términos de porcentajes
improvisados en torno a la probabilidad de salir con vida de esta gran jungla
de cemento…