Quando ero piccola guardavo cartoni americani e cartoni giapponesi. I cartoni americani erano per lo più basati su vecchie favole europee, o note leggende dal mondo: dai miti greci alle Mille e una notte, dai fratelli Grimm alla leggenda di Fa Mulan. Ne esploravo le città: Parigi, New York, Londra, Pechino; vedevo la savana, le dune del deserto, la giungla e la campagna francese – li vedevo, questi luoghi, come l’America me li mostrava. I cartoni giapponesi invece erano tutti ambientati in Giappone, c’erano demoni e mostri e combattimenti e misteri, fiori di ciliegio, montagne innevate, malinconia. Questo è ciò che sapevo dei luoghi che avevo visto, basandomi su ciò che avevo visto: gli animali, quando non li guardiamo, sono umani. Guardarsi sempre e comunque dalle tigri. In ogni dove non ci sono madri, solo matrigne. In Giappone esiste ogni sorta di magia, i bambini sono adulti e vivono sempre con i nonni.
Crescendo,
la televisione ha ristretto di molto il mio immaginario, piuttosto che
ampliarlo. Le serie televisive, forse anche per questioni di budget, non
viaggiavano con la fantasia – restavano sempre lì, nella lontana vicina
America. Ho quindi scoperto che la provincia americana è un luogo da cui
fuggire e che in California è sempre estate – che i chirurghi a Seattle hanno
vite sentimentali complicate e che nel Connecticut esistono villaggi tutti
bianchi in cui il bullo della città è l’unico che legge libri e non indossa
camicie di flanella, mentre gli altri abitanti si riuniscono regolarmente per
discutere della circonferenza delle zucche e della tradizionale asta dei
cestini da pic-nic. Aerei che si sfracellano su isole deserte, mafiosi che
vanno in terapia. Adolescenti disperate a Twin Peaks.
Se non
avessi avuto anche da leggere, la mia visione del mondo sarebbe stata piuttosto
riduttiva. I prodotti televisivi che ho consumato negli ultimi vent’anni sono
tutti dipesi da ciò che l’America voleva fare vedere al mondo, basandosi
ovviamente su ciò che l’America voleva vedere e mostrare di sé. Noialtri non
avevamo molta voce in capitolo, e per chi è cresciuto negli anni ‘90, alienato
dalla commedia all’italiana e ancora troppo acerbo per le opere di Almodóvar e
le retrospettive di Kusturica, l’America era tutto. Era la musica, la moda, i
gadget, il cinema, e soprattutto: era la televisione.
Poi è
arrivato Netflix, e da allora qualcosa si è spezzato. Originariamente
un’attività di noleggio DVD, la società nel 2013 ha prodotto la sua prima
serie: House of Cards. A quei tempi lo streaming illegale
era per la mia generazione la fonte primaria di intrattenimento. Lo zapping
televisivo non esisteva più – nessuno si sognava di accendere la televisione,
molte case di studenti neppure la possedevano (per evitare di pagare il
canone). Esistevano invece show da scaricare e guardare ossessivamente sul
computer, da commentare poi su Facebook, Twitter e Tumblr.
Nell’era
post-globale la cultura vive e muore attraverso uno schermo, su cui la si
seleziona, consuma, commenta, critica, cambia – in questa cornice, i
confini tra i paesi sono sempre più labili, e al contempo, per contrasto,
sempre più evidenti.
Netflix ha
più di 200 milioni di iscritti in tutto il mondo. Il suo pubblico va ben oltre
l’America: tra il 2019 e il 2020, gli utenti ‘internazionali’ (ovvero non
anglofoni) sono aumentati di 98 milioni, rappresentando una crescita del 33%.
Nonostante siamo tutti sempre più simili, rimangono delle imprescindibili
specificità regionali che un utente ricerca nei prodotti culturali che consuma.
Non ci si può aspettare che importare prodotti hollywoodiani sia sufficiente a
fidelizzare un numero così alto di iscritti, che presumibilmente vivono in
condizioni completamente diverse da chi fa film in America: parlano lingue
diverse, credono in valori diversi, si rifanno a influenze culturali
specifiche, locali. Fare in modo che il messaggio (o meglio, il prodotto,
seppur culturale) venga recepito e che abbia eco con un’audience specifica,
significa necessariamente dover tenere conto della lingua e delle convenzioni
sociali, della storia, delle abitudini, delle credenze di un dato paese.
Si capisce:
Netflix vuole che tutti amino Netflix. E così negli anni ha aperto sedi
nei Paesi Bassi, in Brasile, in India, in Giappone, in Corea del Sud, in
Spagna, Francia, Germania e in Italia. Non solo la produzione di opere locali
ha il potere di fidelizzare l’audience, ma i costi di produzione fuori
dall’America sono bassissimi. E in paesi con un’identità culturale
particolarmente forte, come l’India, il Giappone, la Turchia, la Corea, la
strategia ha dato subito i suoi frutti: nel 2019 i titoli più popolari in quei
paesi erano tutto originali Netflix prodotti localmente.
Anche qui in Italia non siamo estranei a questa dinamica, nel momento in cui il prodotto è qualitativamente comparabile alle produzioni americane: il successo di titoli come Gomorra, Suburra, L’amica geniale, Skam, ma anche di format come LOL, Chi ride è fuori, è un chiaro segno che un prodotto regionale di buona qualità attirerà la sua audience quanto se non più di un titolo di importazione americana, di cui noi non siamo il target primario.
La localizzazione
ha alla base anche la delicata questione di chi ha il diritto di parlare di
cosa: con un dibattito fuori e dentro i social sempre più attivo,
consapevole e dinamico sulle questioni dell’appropriazione culturale,
dell’oppressione e della discriminazione razziale, di una revisione critica
dell’imperialismo e di come l’occidente è diventato la potenza che conosciamo,
vien difficile mandare giù un’interpretazione della propria realtà ‘vista da
fuori’. Non si fanno più sconti a tentativi grossolani di stereotipizzazione,
neppure quando la cultura in questione viene romanticizzata oltremisura: un
esempio fra tutti la serie Emily in Paris, dai creatori di Sex
& The City, considerata profondamente offensiva dai parigini e dalla
critica per la sua rappresentazione superficiale e banalizzante di una Parigi
presentata come un guazzabuglio provinciale infiocchettato di uomini attraenti
ma maleducati, appartamenti senza acqua, romanticismo spicciolo, sesso rumoroso
e francesi che (giustamente) si rifiutano di parlare inglese con l’americana
Lily Collins, giunta in città piena di quel tronfio senso di superiorità
squisitamente americano che tuttavia, ormai, non sembra più sortire nel
pubblico l’effetto di un tempo. D’altronde, la narrazione americana della
realtà altrui è sempre stata una proiezione dell’America stessa e di come
voleva essere percepita, e raramente si mostrava alla base un reale interesse
per l’altro in quanto altro pari a sé – al contrario si nota una certa
fascinazione per l’eroe, il martire, l’altrui salvatore (tra i tanti: Balla
coi lupi, L’ultimo samurai, 7 anni in Tibet).
Oggi sono le
stesse leggi del libero mercato a porre fine a questo genere di narrazione. La
domanda resta la stessa: ‘cosa vuole il pubblico?’ Ma da quando il pubblico è
tutto il mondo, la risposta, finalmente, contiene moltitudini e complessità.
Il pubblico
vuole Unorthodox,
fortunata miniserie tedesca e statunitense, fra le più viste durante il primo
lockdown – la prima serie Netflix quasi interamente recitata in yiddish; Ethos,
raffinata serie turca che svela le contraddizioni e tensioni interne a una
società incastrata tra rigore religioso e spinte culturali occidentali; Midnight
Diner, delicata antologia di storie notturne giapponesi; The
Kingdom, psichedelica serie apocalittica coreana, ambientata nel periodo
medievale Joseon; SanPa,
docu-serie dedicata alla figura di Vincenzo Muccioli e alla comunità per
tossicodipendenti di San Patrignano. Il potenziale di questa tendenza è
infinito: permettere all’eccellenza creativa locale di raccontare la propria
realtà, e poi renderla disponibile a più di 200 milioni di spettatori,
significa di fatto creare una ragnatela di connessioni, influenze, ispirazioni
reciproche che farà forse assomigliare la realtà creativa delle serie tv a
quella delle produzioni letterarie – allo stesso modo in cui un autore italiano
può essere influenzato da un autore russo, sembra si stia andando in una
direzione in cui il dialogo artistico sulle serie televisive non è più
unidirezionale, ma polisinfonico e poliglotta.
Le vere
sorprese infatti giungono quando queste produzioni locali superano i confini linguistici
e regionali, e diventano imprevedibili successi globali; esplosioni che
avvengono online, dove le mappe non esistono e viviamo tutti indistintamente
nel selvaggio etere.
Questo
fenomeno è diventato davvero evidente, forse per la prima volta, nel 2017 con La
casa de papel – una serie ideata e girata a Madrid da Álex Pina,
trasmessa inizialmente dall'emittente spagnola Antena 3. Visto il successo in
Spagna, Netflix la acquisisce per distribuirla sul mercato internazionale e
produrne le stagioni successive. Nel giro di pochi mesi, la serie diventa il
prodotto più guardato – non in America, non in Inghilterra, ma in Spagna,
Francia, Italia, Argentina e Brasile. La terza stagione viene seguita da 34
milioni di utenti nella sua prima settimana di uscita. Negli anni successivi la
maschera di Dalì viene utilizzata in proteste reali in giro per il mondo – e ci
sarebbe molto da dire sul comeback della canzone
partigiana Bella ciao in questo nuovo contesto – ovvero quello
di un gruppo di criminali che decidono di occupare la Fábrica Nacional de
Moneda y Timbre di Madrid, stampare una quantità ridicola di soldi e poi
scappare. La semplicistica ma efficace ‘critica al sistema’ inserita in una
storia d’azione estremamente pop, piena di intrecci e colpi di scena più o meno
sensati, ha fatto breccia da subito; ma il fenomeno resta circoscritto al
vecchio continente, e ancora nel 2019 il Regno Unito era uno dei pochi paesi in
cui lo show non appariva nelle top 10 dei più visti.
Nonostante
ciò, La casa de papel è il quarto prodotto più visto su
Netflix nel primo mese di programmazione, con 65 milioni di utenti – è
preceduto solo da Bridgerton, The
Witcher e, altro caso interessante, Lupin, serie
televisiva francese prodotta da Gaumont, che incidentalmente è lo studio
cinematografico più vecchio del mondo.
Alcuni
prodotti trascendono la specificità culturale. Una storia semplice, con un
messaggio digeribile, universale (chi non vorrebbe arricchirsi con l’astuzia
senza uscirne come il cattivo?) diventa velocemente un fenomeno globale – un
altro esempio è appunto Lupin, la serie tv ispirata al noto ladro
gentiluomo, ambientata in una Parigi brutale e ticchettante di tensioni razziali,
che ha ben poco a che vedere con quella di Emily.
Con un Omar
Sy amatissimo dagli europei dai tempi di Quasi Amici (Intouchables,
2011), una trama ricca di colpi di scena sulle orme dello Sherlock Holmes
francese, l’indimenticabile protagonista dei romanzi di Maurice Leblanc, e un
certo eco della fortunata serie di manga e anime del fumettista Kazuhiko Kato,
che aveva narrato le avventure del nipote Lupin III, gli elementi perché questo
prodotto esplodesse non solo in Francia, ma in generale in Europa, erano
facilmente prevedibili.
Ancora una
volta però questi elementi sono specificatamente europei, e non hanno avuto lo
stesso effetto oltreoceano: in America la figura di Lupin è pressoché
sconosciuta, gli anime giapponesi non sono popolari, e Quasi Amici lo
hanno visto nella versione americana, Sempre amici (The
upside, 2018) con Kevin Heart nel ruolo che era stato di Omar Sy, e Bryan
Cranston al posto di François Cluzet. Questo perché, è risaputo, in America il
pubblico detesta i sottotitoli e tendenzialmente non guarda film che non siano
in inglese.
Certo, è
innegabile che sia in La casa de papel che in Lupin ci
siano influenze della Hollywood più squisitamente pop, da Ocean’s
Eleven a Mission Impossible: ed è forse anche questo il
motivo per cui questi prodotti ci sembrano così facilmente consumabili, così
familiari – eppure c’è una freschezza nel cambio di setting, di lingua, in
riferimenti culturali nuovi, diversi, sconosciuti, altri.
Questo
fenomeno influenza chiaramente l'establishment, che da un lato cerca di
adeguarsi, di far spazio, dall’altro di guadagnare terreno su un’audience
sempre più esigente, sempre più facilmente distratta. Sono ormai un paio di
anni che si osserva la perdita di peso delle cerimonie di premiazione, dagli
Emmy agli Academy Award. Questi ultimi, con l’aggiunta di più di 800 nuovi
membri alla giuria dell’Academy, ultimamente hanno subito un vero e proprio
scossone internazionale.
Parlo ad
esempio di Roma (Messico, 2019), diretto da
Alfonso Cuarón e presentato alla 75ª edizione della Mostra internazionale
d'arte cinematografica di Venezia. Uno dei rari film a essere nominati agli
Oscar sia nella categoria di Miglior film sia in quella di Miglior film
straniero. Prima di lui vi erano stati Amour (Francia,
2012), La tigre e il dragone (Cina, 2000) e l’orgoglio
nazionale La vita è bella nel 1999, con l’epica vittoria di
Benigni nella categoria Miglior attore, ben 22 anni fa.
Nel 2020
vediamo il trionfo leggendario di Parasite (Corea,
2020), premiato per la prima volta nella storia degli Oscar sia della statuetta
per Miglior film che di quella per Miglior film straniero, ma anche del premio
alla migliore sceneggiatura. L’unico altro straniero a vincere in questa
categoria era stato Pedro Almodóvar con Hable con ella, nel lontano
2002. Con il successo di Parasite a fare da apripista, abbiamo
poi visto nel 2021 la nomination a Miglior Film di un’altra opera in lingua
coreana, Minari di Lee Isaac Chung.
Ricordo
anche, fra tanti, il successo di Ritratto della giovane in fiamme, pellicola francese scritta e
diretta da Céline Sciamma, nominata nel 2020 ai Golden Globe come Miglior film
straniero e acclamata da critica e pubblico internazionali – ma anche The
Farewell, scritto e diretto da Lulu Wang in mandarino e in inglese, per cui
Awkwafina vinse il Golden Globe come Miglior attrice, e il documentario
macedone Honeyland, nominato agli Oscar 2020 sia nella categoria
Miglior film straniero che in quella Miglior documentario.
Appare
sempre più evidente che le produzioni non anglofone si sentono strette nella
striminzita categoria del Miglior film straniero, che tra l’altro presenta
degli aspetti problematici; l’esclusione a priori di film in lingua inglese
prodotti altrove ignora il fatto che paesi come la Nigeria, l’India, il Sud
Africa, parlano comunemente la lingua dei loro antichi colonizzatori. I
prodotti di questi paesi, quindi, non hanno accesso all’unica categoria
concessa ai film stranieri, ma ovviamente rimangono esclusi anche dalle altre.
E d’altronde abbiamo visto come le categorie di Miglior attore e Miglior
attrice non sono impermeabili alle spinte che vengono dall’esterno, ma fanno
comunque resistenza. Anche per questo, forse, l’audience internazionale sembra
interessarsi ai premi americani sempre meno, seguendo più ciò che viene
giudicato di qualità dal democratico popolo di Internet, dai trend sui social,
dalle percentuali di Rotten Tomatoes.
Verrebbe da
chiedersi se, nel tentativo di rimanere rilevanti, Emmy, Golden Globe e Oscar
non apriranno definitivamente le proprie categorie a tutti i prodotti che lo
meritano, senza porre limiti spaziali, debellando lo scarto fra film anglofoni
e film stranieri – cedendo simbolicamente il trono di esportatori di cultura a…
tutti gli altri. Con un’audience internazionale e giurie più inclusive, vien da
chiedersi: straniero rispetto a chi? Tra l’era del trumpismo, l’assalto a
Capitol Hill, la Brexit e le recenti polemiche sul border control in
Inghilterra, l’influenza anglo-americana a livello socioculturale risulta
ultimamente sfilacciata, incerta, mentre la pandemia ha creato in molti una
necessità di recuperare un legame con le proprie radici, con il concetto di
casa. Vedremo come tutte queste diverse spinte si rispecchieranno nel complesso
mondo dell’entertainment globalizzato – ma una cosa è certa: il talento
espressivo e artistico non è prerogativa di una sola nazione o lingua. E questa
semplice consapevolezza, che per troppo tempo abbiamo trascurato, può portare a
una concezione della cultura davvero globale, interconnessa,
stratificata – potenzialmente, una cultura collettiva, che senza rinunciare
alla propria tradizione si apre al mondo: una narrazione di tutte le realtà,
raccontate da tutti, a tutti.