mercoledì 30 giugno 2021

Netflix & C. verso il World Cinema - Emanuela Anechoum

 

Quando ero piccola guardavo cartoni americani e cartoni giapponesi. I cartoni americani erano per lo più basati su vecchie favole europee, o note leggende dal mondo: dai miti greci alle Mille e una notte, dai fratelli Grimm alla leggenda di Fa Mulan. Ne esploravo le città: Parigi, New York, Londra, Pechino; vedevo la savana, le dune del deserto, la giungla e la campagna francese – li vedevo, questi luoghi, come l’America me li mostrava. I cartoni giapponesi invece erano tutti ambientati in Giappone, c’erano demoni e mostri e combattimenti e misteri, fiori di ciliegio, montagne innevate, malinconia. Questo è ciò che sapevo dei luoghi che avevo visto, basandomi su ciò che avevo visto: gli animali, quando non li guardiamo, sono umani. Guardarsi sempre e comunque dalle tigri. In ogni dove non ci sono madri, solo matrigne. In Giappone esiste ogni sorta di magia, i bambini sono adulti e vivono sempre con i nonni. 

 

Crescendo, la televisione ha ristretto di molto il mio immaginario, piuttosto che ampliarlo. Le serie televisive, forse anche per questioni di budget, non viaggiavano con la fantasia – restavano sempre lì, nella lontana vicina America. Ho quindi scoperto che la provincia americana è un luogo da cui fuggire e che in California è sempre estate – che i chirurghi a Seattle hanno vite sentimentali complicate e che nel Connecticut esistono villaggi tutti bianchi in cui il bullo della città è l’unico che legge libri e non indossa camicie di flanella, mentre gli altri abitanti si riuniscono regolarmente per discutere della circonferenza delle zucche e della tradizionale asta dei cestini da pic-nic. Aerei che si sfracellano su isole deserte, mafiosi che vanno in terapia. Adolescenti disperate a Twin Peaks. 

 

Se non avessi avuto anche da leggere, la mia visione del mondo sarebbe stata piuttosto riduttiva. I prodotti televisivi che ho consumato negli ultimi vent’anni sono tutti dipesi da ciò che l’America voleva fare vedere al mondo, basandosi ovviamente su ciò che l’America voleva vedere e mostrare di sé. Noialtri non avevamo molta voce in capitolo, e per chi è cresciuto negli anni ‘90, alienato dalla commedia all’italiana e ancora troppo acerbo per le opere di Almodóvar e le retrospettive di Kusturica, l’America era tutto. Era la musica, la moda, i gadget, il cinema, e soprattutto: era la televisione. 

 

Poi è arrivato Netflix, e da allora qualcosa si è spezzato. Originariamente un’attività di noleggio DVD, la società nel 2013 ha prodotto la sua prima serie: House of Cards. A quei tempi lo streaming illegale era per la mia generazione la fonte primaria di intrattenimento. Lo zapping televisivo non esisteva più – nessuno si sognava di accendere la televisione, molte case di studenti neppure la possedevano (per evitare di pagare il canone). Esistevano invece show da scaricare e guardare ossessivamente sul computer, da commentare poi su Facebook, Twitter e Tumblr. 

 

Nell’era post-globale la cultura vive e muore attraverso uno schermo, su cui la si seleziona, consuma, commenta, critica, cambia – in questa cornice, i confini tra i paesi sono sempre più labili, e al contempo, per contrasto, sempre più evidenti.  

Netflix ha più di 200 milioni di iscritti in tutto il mondo. Il suo pubblico va ben oltre l’America: tra il 2019 e il 2020, gli utenti ‘internazionali’ (ovvero non anglofoni) sono aumentati di 98 milioni, rappresentando una crescita del 33%. Nonostante siamo tutti sempre più simili, rimangono delle imprescindibili specificità regionali che un utente ricerca nei prodotti culturali che consuma. Non ci si può aspettare che importare prodotti hollywoodiani sia sufficiente a fidelizzare un numero così alto di iscritti, che presumibilmente vivono in condizioni completamente diverse da chi fa film in America: parlano lingue diverse, credono in valori diversi, si rifanno a influenze culturali specifiche, locali. Fare in modo che il messaggio (o meglio, il prodotto, seppur culturale) venga recepito e che abbia eco con un’audience specifica, significa necessariamente dover tenere conto della lingua e delle convenzioni sociali, della storia, delle abitudini, delle credenze di un dato paese. 

 

Si capisce: Netflix vuole che tutti amino Netflix. E così negli anni ha aperto sedi nei Paesi Bassi, in Brasile, in India, in Giappone, in Corea del Sud, in Spagna, Francia, Germania e in Italia. Non solo la produzione di opere locali ha il potere di fidelizzare l’audience, ma i costi di produzione fuori dall’America sono bassissimi. E in paesi con un’identità culturale particolarmente forte, come l’India, il Giappone, la Turchia, la Corea, la strategia ha dato subito i suoi frutti: nel 2019 i titoli più popolari in quei paesi erano tutto originali Netflix prodotti localmente.

 

Anche qui in Italia non siamo estranei a questa dinamica, nel momento in cui il prodotto è qualitativamente comparabile alle produzioni americane: il successo di titoli come GomorraSuburraL’amica genialeSkam, ma anche di format come LOL, Chi ride è fuori, è un chiaro segno che un prodotto regionale di buona qualità attirerà la sua audience quanto se non più di un titolo di importazione americana, di cui noi non siamo il target primario. 

 

La localizzazione ha alla base anche la delicata questione di chi ha il diritto di parlare di cosa: con un dibattito fuori e dentro i social sempre più attivo, consapevole e dinamico sulle questioni dell’appropriazione culturale, dell’oppressione e della discriminazione razziale, di una revisione critica dell’imperialismo e di come l’occidente è diventato la potenza che conosciamo, vien difficile mandare giù un’interpretazione della propria realtà ‘vista da fuori’. Non si fanno più sconti a tentativi grossolani di stereotipizzazione, neppure quando la cultura in questione viene romanticizzata oltremisura: un esempio fra tutti la serie Emily in Paris, dai creatori di Sex & The City, considerata profondamente offensiva dai parigini e dalla critica per la sua rappresentazione superficiale e banalizzante di una Parigi presentata come un guazzabuglio provinciale infiocchettato di uomini attraenti ma maleducati, appartamenti senza acqua, romanticismo spicciolo, sesso rumoroso e francesi che (giustamente) si rifiutano di parlare inglese con l’americana Lily Collins, giunta in città piena di quel tronfio senso di superiorità squisitamente americano che tuttavia, ormai, non sembra più sortire nel pubblico l’effetto di un tempo. D’altronde, la narrazione americana della realtà altrui è sempre stata una proiezione dell’America stessa e di come voleva essere percepita, e raramente si mostrava alla base un reale interesse per l’altro in quanto altro pari a sé – al contrario si nota una certa fascinazione per l’eroe, il martire, l’altrui salvatore (tra i tanti: Balla coi lupi, L’ultimo samurai, 7 anni in Tibet).

 

Oggi sono le stesse leggi del libero mercato a porre fine a questo genere di narrazione. La domanda resta la stessa: ‘cosa vuole il pubblico?’ Ma da quando il pubblico è tutto il mondo, la risposta, finalmente, contiene moltitudini e complessità.  

Il pubblico vuole Unorthodox, fortunata miniserie tedesca e statunitense, fra le più viste durante il primo lockdown – la prima serie Netflix quasi interamente recitata in yiddish; Ethos, raffinata serie turca che svela le contraddizioni e tensioni interne a una società incastrata tra rigore religioso e spinte culturali occidentali; Midnight Diner, delicata antologia di storie notturne giapponesi; The Kingdom, psichedelica serie apocalittica coreana, ambientata nel periodo medievale Joseon; SanPa, docu-serie dedicata alla figura di Vincenzo Muccioli e alla comunità per tossicodipendenti di San Patrignano. Il potenziale di questa tendenza è infinito: permettere all’eccellenza creativa locale di raccontare la propria realtà, e poi renderla disponibile a più di 200 milioni di spettatori, significa di fatto creare una ragnatela di connessioni, influenze, ispirazioni reciproche che farà forse assomigliare la realtà creativa delle serie tv a quella delle produzioni letterarie – allo stesso modo in cui un autore italiano può essere influenzato da un autore russo, sembra si stia andando in una direzione in cui il dialogo artistico sulle serie televisive non è più unidirezionale, ma polisinfonico e poliglotta. 

Le vere sorprese infatti giungono quando queste produzioni locali superano i confini linguistici e regionali, e diventano imprevedibili successi globali; esplosioni che avvengono online, dove le mappe non esistono e viviamo tutti indistintamente nel selvaggio etere.

 

Questo fenomeno è diventato davvero evidente, forse per la prima volta, nel 2017 con La casa de papel – una serie ideata e girata a Madrid da Álex Pina, trasmessa inizialmente dall'emittente spagnola Antena 3. Visto il successo in Spagna, Netflix la acquisisce per distribuirla sul mercato internazionale e produrne le stagioni successive. Nel giro di pochi mesi, la serie diventa il prodotto più guardato – non in America, non in Inghilterra, ma in Spagna, Francia, Italia, Argentina e Brasile. La terza stagione viene seguita da 34 milioni di utenti nella sua prima settimana di uscita. Negli anni successivi la maschera di Dalì viene utilizzata in proteste reali in giro per il mondo – e ci sarebbe molto da dire sul comeback della canzone partigiana Bella ciao in questo nuovo contesto – ovvero quello di un gruppo di criminali che decidono di occupare la Fábrica Nacional de Moneda y Timbre di Madrid, stampare una quantità ridicola di soldi e poi scappare. La semplicistica ma efficace ‘critica al sistema’ inserita in una storia d’azione estremamente pop, piena di intrecci e colpi di scena più o meno sensati, ha fatto breccia da subito; ma il fenomeno resta circoscritto al vecchio continente, e ancora nel 2019 il Regno Unito era uno dei pochi paesi in cui lo show non appariva nelle top 10 dei più visti.  

Nonostante ciò, La casa de papel è il quarto prodotto più visto su Netflix nel primo mese di programmazione, con 65 milioni di utenti – è preceduto solo da BridgertonThe Witcher e, altro caso interessante, Lupin, serie televisiva francese prodotta da Gaumont, che incidentalmente è lo studio cinematografico più vecchio del mondo. 

 

Alcuni prodotti trascendono la specificità culturale. Una storia semplice, con un messaggio digeribile, universale (chi non vorrebbe arricchirsi con l’astuzia senza uscirne come il cattivo?) diventa velocemente un fenomeno globale – un altro esempio è appunto Lupin, la serie tv ispirata al noto ladro gentiluomo, ambientata in una Parigi brutale e ticchettante di tensioni razziali, che ha ben poco a che vedere con quella di Emily. 

Con un Omar Sy amatissimo dagli europei dai tempi di Quasi Amici (Intouchables, 2011), una trama ricca di colpi di scena sulle orme dello Sherlock Holmes francese, l’indimenticabile protagonista dei romanzi di Maurice Leblanc, e un certo eco della fortunata serie di manga e anime del fumettista Kazuhiko Kato, che aveva narrato le avventure del nipote Lupin III, gli elementi perché questo prodotto esplodesse non solo in Francia, ma in generale in Europa, erano facilmente prevedibili. 

 

Ancora una volta però questi elementi sono specificatamente europei, e non hanno avuto lo stesso effetto oltreoceano: in America la figura di Lupin è pressoché sconosciuta, gli anime giapponesi non sono popolari, e Quasi Amici lo hanno visto nella versione americana, Sempre amici (The upside, 2018) con Kevin Heart nel ruolo che era stato di Omar Sy, e Bryan Cranston al posto di François Cluzet. Questo perché, è risaputo, in America il pubblico detesta i sottotitoli e tendenzialmente non guarda film che non siano in inglese.  

Certo, è innegabile che sia in La casa de papel che in Lupin ci siano influenze della Hollywood più squisitamente pop, da Ocean’s Eleven Mission Impossible: ed è forse anche questo il motivo per cui questi prodotti ci sembrano così facilmente consumabili, così familiari – eppure c’è una freschezza nel cambio di setting, di lingua, in riferimenti culturali nuovi, diversi, sconosciuti, altri. 

 

Questo fenomeno influenza chiaramente l'establishment, che da un lato cerca di adeguarsi, di far spazio, dall’altro di guadagnare terreno su un’audience sempre più esigente, sempre più facilmente distratta. Sono ormai un paio di anni che si osserva la perdita di peso delle cerimonie di premiazione, dagli Emmy agli Academy Award. Questi ultimi, con l’aggiunta di più di 800 nuovi membri alla giuria dell’Academy, ultimamente hanno subito un vero e proprio scossone internazionale. 

 

Parlo ad esempio di Roma (Messico, 2019), diretto da Alfonso Cuarón e presentato alla 75ª edizione della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Uno dei rari film a essere nominati agli Oscar sia nella categoria di Miglior film sia in quella di Miglior film straniero. Prima di lui vi erano stati Amour (Francia, 2012), La tigre e il dragone (Cina, 2000) e l’orgoglio nazionale La vita è bella nel 1999, con l’epica vittoria di Benigni nella categoria Miglior attore, ben 22 anni fa. 

Nel 2020 vediamo il trionfo leggendario di Parasite (Corea, 2020), premiato per la prima volta nella storia degli Oscar sia della statuetta per Miglior film che di quella per Miglior film straniero, ma anche del premio alla migliore sceneggiatura. L’unico altro straniero a vincere in questa categoria era stato Pedro Almodóvar con Hable con ella, nel lontano 2002. Con il successo di Parasite a fare da apripista, abbiamo poi visto nel 2021 la nomination a Miglior Film di un’altra opera in lingua coreana, Minari di Lee Isaac Chung. 

 

Ricordo anche, fra tanti, il successo di Ritratto della giovane in fiamme, pellicola francese scritta e diretta da Céline Sciamma, nominata nel 2020 ai Golden Globe come Miglior film straniero e acclamata da critica e pubblico internazionali – ma anche The Farewell, scritto e diretto da Lulu Wang in mandarino e in inglese, per cui Awkwafina vinse il Golden Globe come Miglior attrice, e il documentario macedone Honeyland, nominato agli Oscar 2020 sia nella categoria Miglior film straniero che in quella Miglior documentario. 

 

Appare sempre più evidente che le produzioni non anglofone si sentono strette nella striminzita categoria del Miglior film straniero, che tra l’altro presenta degli aspetti problematici; l’esclusione a priori di film in lingua inglese prodotti altrove ignora il fatto che paesi come la Nigeria, l’India, il Sud Africa, parlano comunemente la lingua dei loro antichi colonizzatori. I prodotti di questi paesi, quindi, non hanno accesso all’unica categoria concessa ai film stranieri, ma ovviamente rimangono esclusi anche dalle altre. E d’altronde abbiamo visto come le categorie di Miglior attore e Miglior attrice non sono impermeabili alle spinte che vengono dall’esterno, ma fanno comunque resistenza. Anche per questo, forse, l’audience internazionale sembra interessarsi ai premi americani sempre meno, seguendo più ciò che viene giudicato di qualità dal democratico popolo di Internet, dai trend sui social, dalle percentuali di Rotten Tomatoes. 

 

Verrebbe da chiedersi se, nel tentativo di rimanere rilevanti, Emmy, Golden Globe e Oscar non apriranno definitivamente le proprie categorie a tutti i prodotti che lo meritano, senza porre limiti spaziali, debellando lo scarto fra film anglofoni e film stranieri – cedendo simbolicamente il trono di esportatori di cultura a… tutti gli altri. Con un’audience internazionale e giurie più inclusive, vien da chiedersi: straniero rispetto a chi? Tra l’era del trumpismo, l’assalto a Capitol Hill, la Brexit e le recenti polemiche sul border control in Inghilterra, l’influenza anglo-americana a livello socioculturale risulta ultimamente sfilacciata, incerta, mentre la pandemia ha creato in molti una necessità di recuperare un legame con le proprie radici, con il concetto di casa. Vedremo come tutte queste diverse spinte si rispecchieranno nel complesso mondo dell’entertainment globalizzato – ma una cosa è certa: il talento espressivo e artistico non è prerogativa di una sola nazione o lingua. E questa semplice consapevolezza, che per troppo tempo abbiamo trascurato, può portare a una concezione della cultura davvero globale, interconnessa, stratificata – potenzialmente, una cultura collettiva, che senza rinunciare alla propria tradizione si apre al mondo: una narrazione di tutte le realtà, raccontate da tutti, a tutti.

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martedì 29 giugno 2021

Una sull'altra - Lucio Fulci

grande musica di Riz Ortolani, per un film sorprendente, erotismo, giallo, autopsia della pena di morte, attori che fanno bene la loro parte, anche il doppio, e un Lucio Fulci che dirige un grande concerto, con tante anime, sempre in movimento.

una sorpresa, un film che non delude, promesso - Ismaele


 

 


E’ da ricordare anche la presenza nel film di Riccardo Cucciolla, apprezzato attore italiano maggiormente ricordato per aver interpretato Nicola Sacco in Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, attivo inoltre anche nel doppiaggio (sua la voce di John Cazale nei primi due film de Il padrino nei panni di Fredo Corleone e di Bruno Ganz ne Il cielo sopra Berlino), che con il suo breve ma incisivo ruolo dona al comparto recitativo del film un prezioso contributo.

Le musiche sono composte dal Maestro Riz Ortolani in vena di jazz.

Il quale svolge un lavoro egregio in grado di spaziare dallo scanzonato nelle scene di transizione, al malizioso nelle scene di sesso, al macabro nelle scene ambientate nella camera a gas, fino a richiamare in alcuni momenti delle musicalità tipicamente morriconiane.

Un film dalla fattura visibilmente grezza, a causa delle ristrettezze economiche che funestarono le produzioni di Fulci attraverso tutta la sua carriera, ma che non gli impedirono mai di girare con caparbietà film il cui valore artistico negli anni a seguire sarebbe stato riconosciuto in tutta la sua grandezza. Il suo giallo d’esordio non fa eccezione: trattasi di un’opera rivoluzionaria sotto molteplici aspetti, invecchiata benissimo e in grado di offrire una massiccia dose di suspense anche allo spettatore odierno. Come già accennato, non è disponibile in tutte le videoteche ed entrarne in possesso richiede uno sforzo leggermente maggiore, ma se siete fan di Fulci questo è un titolo che non può assolutamente mancare alla vostra collezione.

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Una sull’altra” è infatti molto più che un giallo piuttosto spinto: è un film studiatissimo e sui generis, con un’incredibile rivelazione al suo interno ed almeno un paio di azzardi a livello di messa in scena. C’è addirittura qualche richiamo all’horror, con il gusto della narrazione macabra firmata Fulci, oltre ad un’ulteriore idea geniale – ed inaspettata – nel finale: quest’ultima riesce a catturare lo spettatore, tenendolo inchiodato alla poltrona durante tutti gli interminabili minuti conclusivi. Un film che lascerà spiazzati in positivo i fan del regista, uno di quelli che ne esalta forse maggiormente lo spirito “terroristico” di genere. Guardare per credere.

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…L’introduzione di un elemento macabro e inquietante come la sedia elettrica (senza nulla togliere al finale del film!) per Fulci rappresentava il suo modo di criticare il sistema capitalistico americano, quella stessa patria delle libertà individuali che condannò a morte i coniugi Rosenberg solo perché accusati di essere comunisti. E anche con la prima inquadratura dall’alto, remota, sullo sfondo dei titoli di testa, Fulci si fa beffe dell’America e del suo mito incrollabile.

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Lucio Fulci, dopo aver realizzato numerose commedie, con “Una sull’altra” firma il suo primo thriller al quale seguiranno, come sua massima espressione, le personalissime pellicole gore che lo hanno reso un’icona tra gli appassionati di genere.

Regista virtuoso delle inquadrature, colma la pellicola con primi piani sugli occhi, a lui tanto cari, con qualche campo lungo,  con sequenze dall’alto (vedi panoramiche città), dal basso ponendosi sotto le lenzuola generando un effetto a luci rosse od anche al di sotto della rampa delle scale, dall’interno (armadietto dei medicinali, cassetta di sicurezza).

Due le scene cult del film: lo spogliarello hot a bordo di una Custom dell’attrice Marisa Mell nelle “vesti” di Monica Weston, e gli ammiccamenti e le carezze dal carattere lesbo tra la stessa attrice e la Martinelli, momento per il quale la pellicola subì la censura…

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Fulci, in una delle sue poche concessioni al giallo, e pur non lesinando sui morti a lui tanto cari (le scene all'obitorio), trova una fantastica soluzione visiva negli split screen che accompagnano qua e là il prosieguo della pellicola; è solo uno dei tanti leitmotiv ricorrenti (prettamente visivi). L'altro, il più evidente, è quello degli specchi e dei riflessi rubati, a testimoniare una ricerca espressiva che possa supportare una vicenda ingarbugliata e interamente basata sulla questione dell'identità, dell'essere, del fingere. Grande colonna sonora di Riz Ortolani, tra le altre cose, ma soprattutto non si può che sottolineare nuovamente la compiutezza della trama, compatta, coerente, inflessibile, infallibile; unica concessione al giallo vero, al disastroso giallo vero (e lo dico con il massimo rispetto possibile), il finalone, compiaciuto, compiacente, e incredibilmente complicato, al limite dell'impossibile.

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Cette profusion d'effets tend cependant à trop surcharger le film et la mise en scène, continuellement convoquée pour créer du surplus de sens, échoue à engendrer de véritables climax. Mais l'ensemble demeure toutefois de très bonne tenue, Fulci s'avérant inventif et précis malgré le trop-plein. L'interprétation est également un atout. Elsa Martinelli et Marisa Mell sont toutes deux inquiétantes à souhait, la première jouant sur un côté feutré tandis que la seconde se fait sulfureuse. Deux interprétations qui se complètent parfaitement et qui ceinturent un Jean Sorel opaque comme il faut, son manque d'expressivité servant parfaitement son rôle de bourgeois vaniteux et vide, prisonnier des conventions. Les rôles secondaires sont soignés et l'on est particulièrement heureux de retrouver l'habitué du film noir John Ireland. Il faut également souligner la qualité de la composition très Hollywood Classic de Riz Ortolani, une partition qui se fait plus jazz et psychédélique lorsque le film nous conduit dans l'underground, la musique nous faisant passer des vues d'un San Francisco de carte postale aux peep-show et au monde de la nuit. Sans être un chef-d'oeuvre du genre, ce Perversion Story dégage un charme indéniable et le soin qu'apporte Fulci à sa mise en scène annonce ses grandes réussites à venir.

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domenica 27 giugno 2021

sabato 26 giugno 2021

Minari - Lee Isaac Chung

gli Usa sono un paese fuori dalla storia. 

in gara per gli Oscar, concorrente per la statuetta come miglior film straniero, c'era Minari.

il punto è che il regista è nato negli Usa, sia pure da genitori emigrati dalla Corea. 

ed è anche un film sull'American Dream.

bisognerebbe chiudere quelli dell'Oscar nella clinica di McMurphy (qui) e vedere se rinsaviscono.

Minari è una storia di emigrati nel paese dove tutti, o quasi, hanno un antenato non Usa, ed è una storia edificante, nella quale pur tra mille difficoltà, quella famiglia ce la farà.

buon film, ma troppo sopravvalutato.

buona visione - Ismaele


 

 

 

 

Minari aspira a saldare durante il suo stesso svolgimento le fratture che presenta: toglie continuamente ai suoi personaggi – l’ictus della nonna, la fine del matrimonio, l’incendio della fattoria – per fargli comprendere la necessità dell’abbandono al fluviale flusso del divenire senza arroccamenti di sorta (le lacrime della madre per le acciughe mangiate dopo tanto tempo, il soffio al cuore di David trattato come una malattia invalidante).
Questa specie di fenomenologia finale basata sul principio causa-effetto disperde i tanti spunti disseminati nel corso del film che, a netto di qualche escursione nel folklore religioso – il personaggio di Paul – aveva saputo entrare con dolcezza nel cuore di una famiglia d’emigrati. I semi del minari sono stati piantati biologicamente ma purtroppo raccolti industrialmente.

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Chung rappresenta con grande empatia le contraddizioni interiori e le emozioni represse che animano i personaggi, a cominciare dai due coniugi, interpretati in modo superlativo da Han Ye-ri e Steven Yeun (già notevole in Burning di Lee Chang-dong, e primo attore asioamericano a ottenere una candidatura all’Oscar per il miglior attore). Se Monica si sforza di contenere la rabbia e l’impulso di tornare coi figli in California, covando il dubbio che il marito abbia anteposto le proprie aspirazioni al bene della famiglia, Jacob patisce un conflitto che lo stesso Yeun ha paragonato alla biblica lotta di Giacobbe con l’angelo: di fronte a una realtà che fatica a piegare ai suoi desideri, il suo sogno imprenditoriale assume presto i caratteri dell’ossessione, ma è alimentato anche dal senso del dovere che l’uomo avverte su di sé in quanto pater familias, convinto che i figli debbano vederlo avere successo in qualcosa per avere stima di lui. All’etica individualistica del padre, interessato soprattutto a una realizzazione da ottenere attraverso l’indipendenza, nonostante i rischi della precarietà, si contrappone così la visione materna, maggiormente orientata alla condivisione di affetti stabili, in un dissidio che si ripercuote anche sull’educazione dei figli…

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…A esacerbare ancora di più la situazione è l’arrivo della nonna, personaggio anomalo, scardinato dal suo luogo natio per poter supportare la figlia e avvicinarsi un po’ di più ai nipoti. Le difficoltà più grandi si verificano con il piccolo David: la distanza culturale che sussiste tra la nonna e David è in qualche modo emblematica. Appartengono a due mondi diversi, due luoghi diversi, due concezioni di vita diverse. David è più attratto dall’idea esistenziale del padre ma, con il tempo, impara a comprendere la nonna e il suo modo un po’ rozzo di affrontare la quotidianità statunitense e diventa quindi la sintesi attraverso cui costruire un futuro insieme. Ecco la che la sfera intima e privata diventano l’assunto su cui si poggia l’intero film che, alla fine, è un’analisi sulle dinamiche complesse di integrazione nei fenomeni migratori e delle possibili soluzioni a tali problematiche. Perché oltre a una riflessione sulla perversa corsa al successo di reaganiana memoria e oltre a raccontare il modo in cui una famiglia, in un contesto difficile, prova a rimanere compatta, Minari è un film sul complesso processo migratorio e di integrazione. Da questo punto di vista, il film di Lee Isaac Chung raccoglie la sfida tutta contemporanea di affrontare un tema caldo, soprattutto per gli USA post-Trump, approcciandolo in maniera differente rispetto al solito, mutando il punto di vista e la prospettiva…

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giovedì 24 giugno 2021

La ragazza con la pistola – Mario Monicelli

una storia che nasce in Sicilia e arriva fino in Gran Bretagna.

una storia d'amore che amore non è, Monica Vitti  (straordinaria) è la ragazza che viene rapita e perde la verginità e la sua è una ricerca comica per (ri) avere l'uomo che l'aveva rapita.

e la ricerca la porta in capo al mondo, non è tipa da lasciare a quello lì l'ultima parola.

alla sceneggiatura c'è anche Rodolfo Sonego, un grandissimo sceneggiatore del grande cinema italiano di quegli anni irripetibili.

bravissimi anche Carlo Giuffrè e Stanley Baker (protagonista l'anno precedente di un gran bel film inglese).

non perdetevi questo gioiellino, non ve ne pentirete, promesso.

buona visione - Ismaele

 


QUI il film completo

 

  

Due culture si confrontano in questa divertente commedia di Monicelli. Da una parte una Sicilia stereotipata, socialmente ed economicamente arretrata, dall’altra la swinging London, la cultura moderna, allegra e spensierata di una Gran Bretagna in pieno boom economico. Un viaggio tra due mondi distanti, incomunicabili, che in quegli anni era fatto da migliaia di immigrati italiani in fuga dalla povertà e dall’arretratezza. Assunta Patanè (Monica Vitti) non lascia la Sicilia a causa della povertà, la lascia per riprendersi l’onore perduto a causa di una notte trascorsa con Vincenzo Macaluso (Carlo Giuffrè) che scappa per non sposarla. E lei è costretta ad inseguirlo per riportarlo con sé o per ammazzarlo. Così, con l’immancabile valigia di cartone, l’immagine di san Giovanni e una pistola abbandona l’assolata Sicilia. La ragazza bigotta, ingenua, ma dalla grande forza trasforma quello che doveva essere un brevissimo viaggio in una scelta di vita definitiva. Si lascerà alle spalle le stradine sterrate del suo paesino sul mare, i vestiti neri, la famiglia, la vergogna del disonore. Sono proprio questi stereotipi che Monicelli deride portandoli ad un tale eccesso da renderli ridicoli.

da qui

 

Di questo capolavoro del maestro Mario Monicelli non se ne parla mai abbastanza. Se è vero che forse l’ambientazione, e soprattutto le musiche e i costumi, sono strettamente legati agli anni in cui venne girato, la sceneggiatura, l’interpretazione dei protagonisti e la mano graffiante del regista sono ancora poderosamente attuali.

Scritto da Rodolfo Sonego e Luigi Magni, con la mano ovviamente di Monicelli, questa pellicola consacra definitivamente Monica Vitti fra le più grandi attrici comiche e brillanti della storia del cinema. Una grande attrice comica di una bellezza luminosa e seducente, con delle gambe e uno sguardo che ancora incantano…

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mercoledì 23 giugno 2021

Era lui, sì, sì! - Marino Girolami, Marcello Marchesi, Vittorio Metz

 


un film divertente, con un Walter Chiari davvero bravo (un po' Jerry Lewis), in una storia a incastro, dove la psicanalisi ha la sua parte (importante).

la versione italiana ha 10 minuti in meno della versione per la Francia, ecco qui cosa ci siamo persi.

buona visione - Ismaele

lunedì 21 giugno 2021

Il tuffo - Massimo Martella

un piccolo film per un regista che ha fatto quasi solo televisione.

attori alle prime armi, sarebbero diventati famosi.

la storia è piccolissima, ma non per i personaggi del film.

una ragazza e un ragazzo, rimandati in fisica, vanno a lezione da un laureato ancora senza lavoro.

in quelle poche settimane i tre imparano a conoscersi e a volersi anche bene.

un film sincero, onesto, delicato, sull'adolescenza, che per qualcuno non era mai passata.

merita, merita - Ismaele

 

 

 

 

QUI il film completo

 

 

Discreta prova d'esordio di Massimo Martella. Ha vinto un premio al Festival d'Annecy. Matteo, un giovane sulla trentina, dà ripetizioni a Elsa e a Giulio che frequentano il liceo. È in un momento di crisi esistenziale e la sua vita è pronta per un cambiamento. Un party in pieno agosto lo aiuta a riflettere sui suoi dilemmi.

da qui

 

Un film di ottima fattura ma che purtroppo non ebbe alcun successo. Martella riesce ad evitare quasi tutte le ovvie trappole dell'irritante cinema intimista all'italiana, donando vita vera ai suoi personaggi e rifuggendo da simbolismi fastidiosi. Soprattutto crea un'atmosfera che rende espliciti i sentimenti dei suoi 3 attori protagonisti, anche con qualche silenzio di troppo; è un'opera da riscoprire, a mio avviso. Salemme misuratissimo.

da qui

 

ho rivisto il film dopo tanto tempo e devo dire che l'impressione altamente positiva che mi fece allora si e' ripetuta. la cosa che mi lascia perplesso e' il silenzio di critica ,di media ma soprattutto dallo stesso salemme che nelle sue interviste non ha mai parlato del "tuffo" unico vero film degno di nota di cui e' stato protagonista.il film, secondo me, fotografa perfettamente la fase adolescenziale collocata nell'ambiente scolastico dove spesso puo' essere coinvolto anche chi quel tempo lo ha passato da un po'in questo caso un professore giovane. ottima l'ambientazione la fotografia e la regia in generale rimane il mistero di un film quasi mai trasmesso in tv e di cui non si parla mai. strano.

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Nel film, comunque, c'è un'indubbia freschezza, di piglio, di intenzioni, e qualche speranza per l'avvenire dei suoi autori consente di formularla; non fosse altro per il modo felice con cui si tende a rappresentarne l'intensità di quei confronti tra adolescenti. Nel panni di Elsa c'è Carlotta Natoli, figlia del regista Piero e già con dei film seri alle spalle ('Gli assassini vanno in coppia', 'Le amiche del cuore'): anche qui mostra di saper unire la sensibilità alla disinvoltura; spesso con garbo. Matteo è Vincenzo Salemme, Giulio è Arturo Paglia; entrambi con modi attenti". (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 25 aprile 1994) "Il film segna il debutto di Massimo Martella, regista tarantino che mostra un buon talento nell'innestare in un tema arcinoto - la solitudine adolescenziale, sia quella dei teen-ager propriamente detti sia quella dei trentenni che hanno sprecato l'età felice - echi che sfuggono all'inevitabile banalità del soggetto per scavare più a fondo nella psiche dei personaggi. (...) Al di là dei troppi stereotipi e di qualche scena pretenziosa nel voler risultare simbolica ad ogni costo, 'Il tuffo' gode di felici intuizioni quali il parallelo tra le leggi della fisica e gli stadi del comportamento umano (inerzia, trasmissione del calore, moto perpetuo e campi magnetici, ovvero l'attrazione dell'amore) o l'ombrosità del ragazzo che si traduce in una costante telecronaca interiore. Suggestivo il finale tronco." (Alessio Guzzano, 'L'Indipendente', 5 maggio 1994)

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domenica 20 giugno 2021

La nostra storia (El olvido que seremos)– Fernando Trueba

tratto da un gran romanzo dHéctor Abad Faciolince, il film racconta la storia del padre, interpretato da un grande Javier Camara.

musica di Zbigniew Preisner (musicista delle colonne sonore di Krzysztof Kieślowski )

è la stessa Colombia di Gabriel Garcia Marquez, da troppi anni nelle mani prima dei ricchi e poi dei criminali.

la (nostra) storia è quella di un un uomo buono che cerca sempre di comportarsi nel modo giusto, secondo coscienza, e questo si paga carissimo, quasi dappertutto.

se qualcuno mi chiede se è un film agiografico rispondo di sì, senza dubbio, ma questo niente toglie alla bellezza del film.

buona visione - Ismaele


 

 


 

 

 

El título de la novela y película viene de un soneto de Borges que, en su reconocimiento de la provisionalidad que invade todo, otorga cierto bálsamo. Lo reproducimos completo porque la referencia a él hace que Abad Faciolince otorga a su texto un valor universal e intemporal: “Ya somos el olvido que seremos. / El polvo elemental que nos ignora / y que fue el rojo Adán y que es ahora / todos los hombres, y que no veremos. // Ya somos en la tumba las dos fechas / del principio y del término, la caja, / la obscena corrupción y la mortaja, / los ritos de la muerte y las endechas. // No soy el insensato que se aferra / al mágico sonido de su nombre; / pienso con esperanza en aquel hombre // que no sabrá que fui sobre la tierra. / Bajo el indiferente azul del cielo / esta meditación es un consuelo”…

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El olvido que seremos asombra por su atrevida dirección y la actuación de Javier Cámara, es una película con una estructura muy sólida y una temática de gran interés y entretenimiento. El discurso final de Héctor Abad Gómez marcará al espectador, que al salir de la sala reflexionará sobre los actos de bondad que ha realizado a lo largo de su vida.

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Opera di fattura classica, solida e onesta, La nostra storia è tuttavia la dimostrazione che la virtù, come sosteneva Kirk Douglas, "non è fotogenica". Non sempre almeno. La regia come l'interpretazione di Javier Cámara, attore almodovariano per eccellenza, dimorano ridondanti, traducendo con sentenze traboccanti ed espressività affettata la dignità di un eroe umile.

Fernando Trueba ha senza dubbio il merito di porsi la questione della bontà che qualche volta può irritare i 'cattivi' e paralizzare i 'buoni', come accade a Héctor Abad Jr. Una pista interessante esplorata a metà che dona al film i momenti più veri. Del resto non è facile mettere in scena un sentimento così assoluto, restituirlo attraverso le immagini e le parole, darle una fisionomia con la performance.

Abad era un uomo buono nella Colombia ultra violenta degli anni Ottanta, un umanista in una megalopoli disumanizzata. Il suo destino come il film che lo svolge ruota intorno a un verso attribuito a Borges ("noi siamo già l'oblio che saremo..."), la 'sentenza' lirica di una morte annunciata. Quella di un uomo militante che nulla ha piegato, né le minacce dei guerriglieri della FARC, né l'esilio nelle Filippine, né i narcotrafficanti. Niente lo ha distolto dal suo dovere di professore, di medico, di padre.

Titolare della cattedra di salute pubblica dell'università di Antioquia e predicatore della prevenzione, amava la filosofia dell'illuminismo, la musica classica e le rose, di cui coltivava appassionato la bellezza. Al cinema gli eroi sono ovunque e quasi sempre super. Fuori dal campo fantastico del blockbuster, sembra invece preferire i personaggi ambigui, tormentati e complessi.

Fernando Trueba illustra la vita di un uomo onesto, rompendo lo schema trito di un Paese raccontato attraverso il prisma dei narcotrafficanti o degli squadroni della morte. Ma non trova la misura giusta per dire il mistero di un pensatore libero che guardava e riguardava "Morte a Venezia", elevando la vita all'altezza di un piano di Visconti.

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La Nostra Storia però rimane comunque un film gradevole nel complesso, in virtù di un buon cast, di una seconda parte molto più ispirata, ma soprattutto di Javier Càmara che si conferma attore non solo carismatico ma anche in grado di mettere in mostra una notevole espressività, di lavorare con maestria sotto le righe.

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…‘El olvido que seremos’ es un poético título que la película hereda de la novela en la que se basa. Trata sobre un hombre bondadoso, entregado a su familia, a sus alumnos y a los ciudadanos que le rodean. Ese retrato se hace de un modo fino, pulcro y puntualmente panfletario. Y digo esto en el buen sentido pues la película transmite unas sensaciones increíbles, nos abraza con candidez, nos da comedia y drama del mismo modo que películas como ‘La vida es bella’ o ‘Patch Adams’.

Cuando lo violento e ilógico se enfrenta a la razón y el afecto. El contraste entre cualquier conflicto armado frente a momentos costumbristas y felices siempre funciona si se encuentra el equilibrio. Esta película biográfica que nos muestra una dichosa infancia en color y una convulsa adultez en blanco y negro se entrega al espectador con un abanico de sentimientos bien contemporizados, en una de las mejores películas de Fernando Trueba. La Colombia de los sicarios y los grupos paramilitares aparece en ‘El olvido que seremos’ como un lugar con muchas oportunidades de mejora, sin hacer de este un relato negro, sino luminoso y esperanzador.

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La nostra storia è un film semplice, sincero e come unica pretesa quella di raccontare la storia di un uomo diviso tra la sua famiglia e il suo lavoro. Regia e sceneggiatura sono volutamente invisibili per lasciare spazio ai personaggi della storia e al contesto politico e culturale in cui si trovano. Il film riesce a restituire benissimo l’atmosfera della famiglia di Héctor e dei suoi rapporti interni, emerge l’amore di una moglie che si è fatta da parte per permettere al marito di seguire il suo obiettivo, emerge il fortissimo legame tra i sei figli e la loro evoluzione durante gli anni, ma ciò su cui si concentra maggiormente è il particolare rapporto padre-figlio (gli unici uomini della famiglia) e la figura privata e pubblica di Héctor Abad Gómez.

L’intento dell’opera di Fernando Trueba è proprio quello di mostrare la vita di un uomo come tanti, che non si è accontentato di un lavoro fisso e l’amore di una famiglia calorosa, ma che ha sacrificato i suoi affetti e la sua felicità per cambiare gli equilibri, per rompere uno status quo pieno di violenza, sofferenza e omertà assoluta da parte di chi dovrebbe essere in prima linea per il bene della Colombia.

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sabato 19 giugno 2021

Giornata nera per l'ariete – Luigi Bazzoni

il terzo film di Luigi Bazzoni che vedo, ne parlano come di un'opera minore, ce ne fossero di opere minori così.

attori bravi (grande Franco Nero), regia come si deve, fotografia di serie A, un film che non delude.

non sappiate niente della storia, non mancheranno le sorprese.

buona visione - Ismaele


 

 

 

 

girato veramente da dio, sin dalla telefonata di Helene al figlio, con rumori, voci, tempi perfetti; il suo apice è l'eccezionale inseguimento, le lampade appese traballanti, il vento, i blu e la macchina che si muove ed entra ed esce dalle finestre, i vetri che si rompono, la cattura. E poi tutto svanisce, il cinema diventa semplice racconto, ma quegli attimi, sì, quei minuti, wow, la purezza di uno sguardo, il lavoro di un regista, la naturalezza, in questo, di Luigi Bazzoni.

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…Se si vuole essere pignoli e sottoporre il film ad accurata revisione da lente d’ingrandimento allora non pochi sarebbero i difetti da sottolineare: troppi personaggi non ben delineati, omicidi spesso risolti frettolosamente senza motivazioni credibili, troppo poco peso allo spessore psicologico dell’assassino nella soluzione finale (se il movente è tanto bizzarro da avere radici nell’astrologia forse un approfondimento sul suo background non avrebbe nuociuto…). Ma Giornata nera per l’ariete non merita di essere archiviato così. Al di là delle manchevolezze del plot, ha comunque meriti che gli consentono di essere annoverato tra quei titoli emblema del film di genere italiano. Dove manca la sceneggiatura interviene la bellissima e sinistra fotografia di Vittorio Storaro e dove il film si fa prevedibile è la macchina da presa a offrire soluzioni non banali.

Bazzoni predilige primi piani per drammatizzare i dialoghi ed è il grandangolo a intervenire creando senso di spaesamento; non il solito zoom sul volto del protagonista ma spazi aperti, sinistri e stranianti. Insomma, non perfetto, ma un piccolo gioiello del giallo all’italiana. Giornata nera per l’ariete è stato spesso accusato di essere tutto stile e niente sostanza, «di essere buono per tagliare il brodo». Chi ha detto che avere stile è cosa da poco? E se lo stile riesce a plasmare una sequenza inquietante e ricca di suspense come quella dell’aggressione al bambino sul finale allora non è detto che una cosa escluda l’altra. Se poi puntare alla sostanza significa avere a che fare con certi film di oggi, ben venga lo stile.

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venerdì 18 giugno 2021

Old Boy - Park Chan-wook

torna al cinema, dopo 18 anni, un film impossibile da perdere.

è un film pieno di sangue e di violenza, ma tutto è assolutamente funzionale e necessario a una storia che si svela sotto i nostri occhi.

sembra un film di vendetta, e lo è, sembra di vedere tanti film, tante storie, tante traiettorie, e lo sono, avanti e indietro nel tempo, e nello spazio, come in un dipinto di Escher,  all'inizio è strano, poi ha la sua perfezione, ogni cosa sarà illuminata.

beato chi non sa niente del film, il regno della felicità lo aspetta, e beato anche chi l'ha già visto, suo è il regno del Cinema, che lo accoglie ancora una volta.

buona, imperdibile, visione, al cinema è meglio - Ismaele


 

 

 

Uomini che 15 anni di prigionia hanno fatto diventare belve affamate: di vendetta, di violenza, di conoscenza. Perchè mi liberi Woo Jin? Perchè vuoi che vada, che torni al mondo? Cosa devo capire? Quale segreto?

Drammi famigliari. Inumani, terribili, drammi famigliari. Sei padre Oh dae-soo, non dimenticarlo mai.

Denti staccati, lingua tagliate, anime dilaniate.

E il ricordo. Il ricordo radicato, terribile di Woo Jin. Il ricordo che non c'è, lontano, irraggiungibile di Oh dae-soo. Cerca di ricordare vecchio ragazzo, cerca di ricordare.

L'emozione della musica, l'emozione di una mano che, mortalmente, lascia l'altra, l'emozione di un regalo arrivato troppo tardi, l'emozione di aver visto qualcosa di straordinario, violentemente poetico.

L' orrore della scoperta, della verità. Sangue del mio sangue…

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Lo stile di ripresa e montaggio accentuano il senso di angoscia claustrofobica e asfissiante provata da un protagonista che, tornato libero, si rende conto di essere ancora prigioniero, solo in una stanza più grande. La sua fuga di uomo braccato, spiato e controllato non può che esplodere in una memorabile rissa in piano sequenza, in cui Dae-su affronta da solo, a calci, pugni e martellate, un fitto branco di aggressori. Ma l'incubo non è finito, i colpi di scena sono dietro l'angolo e mozzano il fiato.

L'unica concessione al colore, e alla vita, è quel rosso finale nel bianco della neve, simbolo di speranza e forse anche di riscatto, ma non di una nuova purezza, impossibile da raggiungere nel mondo sporco di Chan-wook Park. Autore di un cinema che si conficca nella pelle e nell'anima dei suoi protagonisti, come dei suoi spettatori.

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Oldboy è davvero, letteralmente, un film fondamentale del cinema contemporaneo. Uno di quei film che le decadi non appannano, che si fa ripercorrere con immutata fascinazione e pathos e che lascia stupefacenti dettagli (apparentemente) infinitesimali ancora lì da scoprire.

La sua versione 4K, che impatta tremendamente non solo sulle pupille ma anche sui timpani (la colonna sonora di stampo classico ed operistico beneficia forse più di tutti del restauro), martellante come l’arma simbolo del film, è il modo perfetto e definitivo per farlo. Di corsa.

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