lunedì 31 maggio 2021

ACAB - Stefano Sollima

opera prima di Stefano Sollima, con attori bravissimi, per una storia vista con gli occhi dei celerini.

hanno l'illusione del potere e dell'impunità, ma non sempre va a finire bene,

sono spesso fascisti, ma questo non risolve problemi, spesso ne apre.

erano quelli della scuola Diaz, e qualcuno capisce che sono usati, per motivi al di là della loro comprensione.

ma servono al Potere.

bel film, anche se essere d'accordo, a volte, con dei fascisti, spaventa un po', poi capisci che sotto la divisa sono poveri diavoli, come tanti.

buona visione - Ismaele


 

 

 

Dentro set e costumi (di ordine pubblico) che non si 'sentono' mai, incoraggiando la visione e la convinzione di quello a cui si assiste, i protagonisti in blu, azzurro e cremisi abitano una società violenta che 'sfratta' il superfluo, il brutto, il debole e chiede loro di esserne gli esecutori tutt'altro che immuni. Perché non tutti i poliziotti sono violenti e dediti alla repressione ma allo stesso modo sono scarsi gli anticorpi capaci di fronteggiare deviazioni sempre possibili in una professione delicata e irascibile come quella dei reparti mobili. La macchina da presa testimonia silenziosa le tensioni e lo stress che gli attori 'agenti' vivono in molte, troppe situazioni, trattenuti da quadri legislativi sempre ambigui in un originario modello di braccio armato del potere e impediti dai governi, nessuno escluso, a infilare la direzione di organo statuale garante dei diritti.
Sollima, senza dimenticare o scontare la mentalità nera di quella struttura operativa, che ha radici sprofondate in una giovane Repubblica costretta a fare i conti con una continuità pressoché integrale della polizia fascista, mette in piazza uomini biasimati e disapprovati, malpagati, male addestrati e nulla equipaggiati, che devono agire immediatamente, privilegiando l'efficacia ai valori democratici. Là fuori il controllo gerarchico si allenta e gli uomini restano soli con la paura di un 'nemico interno' e la libertà d'azione di fare il male, di fare male, di farsi male.

https://www.mymovies.it/film/2011/acab/

 

 

ACAB è tutto ciò che il cinema italiano non è mai riuscito ad essere di recente, ma è anche qualcosa che raramente si è visto in passato, e che solo il dimenticato (e dal titolo antifrastico) Io ho paura (1977) di Damiano Damiani era riuscito a mettere in scena con rischio, coraggio e abnegazione. ACAB, infatti, è il ritratto dal basso di un corpo di servitori dello stato che non rispetta le regole, che non accetta la legge che dovrebbe fare rispettare, che non crede nella politica e che si auto-divora in un conflitto ideologico che si consuma tutto all’interno della Destra. Né amici né nemici solo uomini, maschi, duri, spietati, e soli con la loro rabbia e frustrazione: lo stato non c’è, non è al loro fianco, ma si serve di loro usandoli come “spazzini sociali”. Gli ordini dei superiori vengono eseguiti a denti stretti, vomitando addosso ad essi tutta una serie di improperi, costruendosi lungo il servizio un modo personalissimo di agire e di comportarsi, perché quello che conta è solo il fine, il mezzo è secondario e diventa preminente solo nel momento in cui uno dei “fratelli” mette a repentaglio la propria carriera per una cazzata o quando uno dei “fratelli” tradisce (che qui vuol dire fare l’onesto, denunciare gli abusi e le violenze dei colleghi). È l’onesto che abbandona il gruppo, perché lui non rispetta le regole non scritte, non sottoscrive il grottesco “codice d’onore” di un corpo dello Stato che agisce, non dentro lo Stato, ma solo a fianco dello Stato…

https://www.rapportoconfidenziale.org/?p=18606

 

I tre uomini su cui si concentra la narrazione (interpretati da Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro e Marco Giallini, tutti in stato di assoluta grazia) sono soli, incapaci di uscire da un circolo vizioso che li costringe alla reiterazione coatta dello scontro: quando si riuniscono, anche dopo essersi allontanati, non è per reale senso di corpo, per automatica empatia, ma solo perché non hanno vie di fuga alternative, non le cercano, non le sanno trovare. A suo modo anche il percorso di formazione del giovane Adriano (molto bravo anche Domenico Diele) non può che concludersi, nonostante tutto, con la sua trasformazione in bastardo: un’accezione ribaltata stavolta dall’ottica dei celerini, ma sempre valida. Ambientato in una Roma nera come la pece, inospitale e vorace come non mai, ACAB è il film che mancava alla nostra cinematografia da troppo tempo: seguendo le movenze di un film di genere tout-court, trova la forza per fotografare la realtà, e ha il coraggio di non abbellirla, ma di sprofondarvi fin dentro le viscere.
Come i protagonisti della pellicola, anche gli spettatori non hanno la possibilità di uscire indenni dalla visione di un’opera così pulsante e furibonda, e Sollima li costringe a confrontarsi con la loro integrità morale: una sequenza come quella della “vendetta” sul gruppo di rumeni al parco è anche una sfida lanciata al pubblico sul significato della parola “giustizia”. Nel suo delirio intriso di nostalgia fascista, Cobra si riempie la bocca di termini quali onore, giustizia, fratellanza, rispetto, al punto di credere davvero di rispettarne il senso fino in fondo. Forse non ha buoni né cattivi, ACAB – All Cops Are Bastards, ma sicuramente non ha vincitori: anche dovesse sparire dalla scena il trio di amici, magari in una battaglia di fronte allo stadio in un’atmosfera surreale e quasi onirica, si troverebbe subito qualcuno in grado di sostituirli, perché dopotutto anche allo Stato conviene averli lì, in prima linea, a prendere sputi e calci e a elargire manganellate.
In fin dei conti, si sa, tutti i poliziotti sono bastardi. E c’è sempre qualcuno pronto a canticchiare “celerino figlio di puttana”.

http://quinlan.it/2012/01/15/a-c-a-b-all-cops-are-bastards/

 

…A suo agio tanto nelle inquadrature d'insieme, quando la telecamera allarga il suo sguardo al mondo circostante, che in quelle ravvicinate, dove l'indagine si sofferma su un battito di ciglia, Sollima si avvale di una fotografia dai colori lividi, desaturati quanto basta per raffreddare una materia di per sé incandescente, e di un dp che, nell'alternare lo stile modaiolo della musica da classifica a quella acida e distorta realizzata dai Mokadelic sottolinea di volta in volta la successione emotiva. Un plauso speciale lo meritano però la direzione attoriale e le performance che da Favino a Giallini, passando per Domenico Diele e Filippo Nigro sono il punto di forza di un'opera che non ha paura di essere quello che è: un prodotto di genere, senza infingimenti e con molto mestiere.

http://www.ondacinema.it/film/recensione/acab.html

 

Se però l’aspetto puramente cinematografico di A.C.A.B. è lodevole, e se il ritratto di una società al suo grado zero è forte, riuscito e necessario, non possiamo non sottolineare come il film di Sollima nasca da una contraddizione di fondo che ne ipoteca anche le qualità.
Perché quello che sulla pagina scritta di un libro inchiesta è sconvolgente ma neutro nella sua proposizione, dato l’approccio documentario e oggettivizzante, quando viene tradotto in materiale narrativo, in un film che nelle dichiarazioni del suo stesso autore vuole essere un prodotto di genere, ecco che i problemi si moltiplicano e le ombre si allungano.
Non tanto perché la natura stessa della narrazione impone un’adesione soggettiva a personaggi negativi, faccenda a volte perfino necessaria, ma perché troppe delle azioni violente che vengono rappresentate, dei mantra filo-fascisti e razzisti che vengono incessantemente pronunciati, delle implicite “giustificazioni” fornite ai protagonisti del film - e perfino ai loro antagonisti - dalla situazione di degrado generale e diffuso in cui si trovano ad operare, rischiano di essere letti come legittimi e inevitabili.
E questi rischi finiscono con l'essere esaltati dalla sorprendente faciloneria con la quale il film tira in ballo i fatti di Genova per poi metterli velocemente sotto il tappeto per non affrontarli (salvo ri-citarli implicitamente e non solo nel finale di Piazzale Maresciallo Diaz), e per la facile scappatoia rappresentata dalla rottura del circolo della violenza privata e dell’omertà da parte della giovane recluta.
A.C.A.B. quindi si addossa la responsabilità di (poter) essere letto come un inno apologetico - e a tratti spettacolarmente compiaciuto - a quella violenza, a quel razzismo e a quel fascismo che invece vorrebbe condannare attraverso la loro rappresentazione.
Una responsabilità che, con i tempi che corrono, non ci saremmo sentiti di affrontare.

https://www.comingsoon.it/film/a-c-a-b/48790/recensione/

 

È un peccato che nell’aria aleggi la voglia di rifarsi a scelte di racconto molto prevedibili, come l’ingresso dell’ultimo arrivato o lo spirito di squadra, perché la confezione è al contrario quella giusta: sporca senza essere sciatta, ben fotografata e con un’ottima scelta dei colori. Da tempo non si vedeva un film italiano di questo stampo, ma se la direzione stilistica può anche essere giusta, è una certa ambiguità nei contenuti che lascia perplessi. Perché non mostrare l’incontro con il ministro, limitandosi al classico politichino che non mantiene le promesse? Perché insistere così tanto sui drammi personali necessariamente banalissimi? Ma soprattutto, perché fingere di avercela con tutti, se poi si va a cercare un finale consolatorio con un nemico che si vuole dipingere quasi sovrannaturale?

http://www.cinefile.biz/acab-di-stefano-sollima

 

Nessuno ha inneggiato al film, e nessuno lo ha accusato di eccessiva violenza. Questo dovrebbe far pensare. Perché, in realtà, alcune scene sono di una forza, di un eccesso, di una prepotenza, che nessuno dovrebbe essere in grado di sostenere. E tutti, celerini e gente di strada, avevano solo una cosa in comune: quel sentimento irrefrenabile di rancore, di odio, di intolleranza nei confronti delle istituzioni. Politici, Parlamento, Stato, tutti vengono presi di mira, come il nemico numero uno, perché – dal film si evince – i casi della vita portano a concludere questo. Ora, così, si spiega anche perché ieri, durante il minuto di silenzio sul campo dell’Olimpico, prima della partita, per la morte di Oscar Luigi Scalfaro, la curva abbia fischiato tutto il tempo.

Ma le domande sono queste: perché il limite entro il quale questi poliziotti usano la violenza è così poco decifrabile? Perché tutti si ricostruiscono un senso dello Stato del tutto personale? Chi guarderà il film? Da dove nasce, allo stadio, questo rancore antico nei confronti delle forze dell’ordine: voglio dire, prima dei casi sopracitati, anni Sessanta e Settanta, era lo stesso così?

https://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/30/acab-non-e-un-film/187615/


venerdì 28 maggio 2021

Dolci inganni - Alberto Lattuada

chissà se la censura ha stalkerato il film.

la storia è quella di una giornata di Francesca, una ragazza di 16-17 anni, e dei suoi incontri, a scuola, e poi con un amico di famiglia, con una modista madre di una compagna di scuola, con un ragazzo con la macchina, e poi ancora con Enrico, quell'amico di famiglia.

lei è molto sveglia e capisce molto, ma non tutto, sa cosa vuole, ma non è sicura, le piace amare ed essere amata, ma quando ha quello che le sembrava un sogno impossibile, e quando il sogno si avvera ecco che si sgonfia come una bolla di sapone, per sempre.

il film è un gioiellino, e Catherine Spaak è bravissima, non perdetevelo - Ismaele


 

 

 

 

…Si riflette su quanto sia bello e necessario avere intorno a sé il silenzio per poter accogliere la verità di un’emozione caduca ma preziosa, cosa che conferisce al film la precisione di un trattato psicologico sugli sviluppi di un turbamento senza lacerazioni e che nel suo esprimersi stringe un accordo insperato con i propri nuovi sentimenti, dalla cui esperienza non si esce né felici né infelici, curiosi e svincolati dal possesso che non regala nessuna ulteriore profondità, il tutto reso senza l’opacità del moralismo o la pigra meccanicità della trasgressione…

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,,, Lattuada è bravissimo a raccontare i turbamenti adolescenziali di una ragazzina che diventa donna. La Spaak è giovanissima – ha appena 16 anni – e presta il volto a un carattere femminile da adolescente irrequieta, da lolita spregiudicata innamorata della vita. Le prime sequenze sono molto erotiche per i tempi, perché il regista insiste sul risveglio della ragazzina tra le lenzuola, vuol far capire che è turbata da un sogno erotico, riprende il volto espressivo e le lunghe gambe nude. Il regista analizza il rapporto tra la ragazza e il fratello, la vita scolastica e i sogni delle adolescenti che immaginano un amore romantico. “Ogni volta che parlo d’amore mi sembra di avere fame”, dice Francesca sorridendo. Enrico è un uomo maturo, irretito dal fascino ambiguo di una lolita dai grandi occhi scuri, alta, dal seno piccolo e dai fianchi stretti. Francesca è innamorata di un uomo che conosce da sempre, uno che da piccola la teneva sulle ginocchia, ma forse è soltanto innamorata dell’amore, perché a rapporto consumato, persa la verginità, torna a casa e non vuole più saperne di lui. La giornata della ragazza è raccontata con naturalezza ricorrendo a brevi episodi e lunghi piani sequenza: l’incontro con una vecchia contessa spilorcia, un’amica innamorata, una compagna che non la comprende più, un gigolò che si fa mantenere da una nobildonna, una gita a Frascati e finalmente l’incontro con l’amante nella villa di Marino. Prima del rapporto sessuale assistiamo a un momento voyeuristico con Francesca che osserva nascosta tra le tende gli amoreggiamenti della nobildonna con il gigolò. Il tono della pellicola è sentimentale, ma siamo ben lontani dal frivolo neorealismo rosa, questa è vera commedia psicologica. Il rapporto sessuale tra Francesca ed Enrico si intuisce soltanto dalle carezze conclusive, così come si comprende che la ragazzina è rimasta delusa dalla realtà e che avrebbe preferito continuare a vivere un sogno. Il finale insiste sul primo piano del volto di Catherine Spaak che immortala la ragazzina diventata donna. La colonna sonora di Piero Piccioni è stupenda e accompagna immagini girate in un suggestivo bianco e nero.

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…un Film medio, dove diciamolo che Lattuada ha fatto di meglio, ma rimane un percorso giovanile interessante, nel punto di vista femminile, e che il regista vuole fare un Film sull'amore spaziando dalla Commedia, al drammatico, sentimentale, arrivando all'esistenziale per uno spaccato d'epoca degli anni '60 e con protagonista una ragazza un po’ confusa soprattutto sentimentalmente, incentrandolo tutto alla bellezza acerba della Spaak, futura Star.

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Malgré quelques élans sensuels fonctionnant plus sur l’imagerie que les véritables actions des personnages, Guendalina était un film sur l’éveil amoureux, l’abandon définitif de l’enfance pour l’adolescence et ses premiers émois sentimentaux. Les Adolescentes a une ambition différente pour Lattuada, celle de capturer l’éveil et l’assouvissement charnel chez l’adolescente, ou plus précisément les atermoiements d’avant l’acte puis la perte de repères d’après. La scène d’introduction dévoile brillamment cette idée. Nous y observons la jeune Francesca (Catherine Spaak) endormie, sa chemise de nuit épousant les formes de sa poitrine soulevée par une respiration inégale, tandis que son visage poupin s’agite étrangement. Un mouvement de caméra nous la révèle dans une pose lascive qui nous dévoile ses jambes, avant qu’elle se réveille en sursaut, les traits troublés. Elle adopte alors une posture typiquement enfantine en remontant ses genoux sur son visage, ne laissant voir que ses yeux perdus dans la confusion de ses pensées. Les mots sont inutiles pour comprendre que Francesca vient de faire un rêve érotique, et par la seule image Lattuada explicite tout le questionnement du film quant à l’expression inconsciente de ce désir : l’assouvir ? l’étouffer ?...

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Alberto Lattuada slips under the radar for many among the pantheon of Italian greats, and yet his body of work is second to only probably Antonioni in Italian cinema; for me, he is the Eric Rohmer of Italian cinema, and that is a difficult achievement. Of course, Lattuada is making Italian films, and Rohmer French ones: the two different countries' societies differ vastly from each other, and hence inevitably the films also do. Thus, while Rohmer's films center a lot on conversations and philosophizing, more on the apparent, Lattuada's are more about emotions, the guessed-at internal state. In Dolci inganni (US title: Sweet Deceptions), Lattuada focuses on the adolescent cravings of a girl crossing into youth: the seductively young Catherine Spaak as Francesca. In a lovely way, the film is not simply about those cravings: but about the organic whole. The film devotes a lot of time to establish the world of Francesca, the life she inhabits: that's the middle chapters of the film, punctuated with some lovely comedy as well. This also offers a slight feeling of ennui to everyone and everything: Francesca struggling with her desires, the audience, the sunny citscape and its people all part of never-ending games, and life itself. It is like a much less bitter version of Antonioni…

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Bref, c’est Alice au pays des merveilles… Elle arrivera à ses fins lascives, mais la grande réussite du film, comme souvent chez Lattuada traitant pourtant souvent des mêmes thèmes liés à la sexualité, c’est l’absence totale de vulgarité. La sexualité peut être un sujet à la fois sérieux et plaisant, sans qu’on en fasse une histoire obscène. Vu du côté des femmes d’ailleurs, ça reste toujours une histoire compliquée, donc follement intéressante à raconter…

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Le scénario semble bâti pour répondre à une question essentielle : à quoi rêvent les jeunes filles ? Si le titre français généralise, c’est bien à partir d’une adolescente, Francesca, que Lattuada explore d’une caméra indiscrète un parcours unique et universel, qui a certains traits du road movie, mais surtout se fonde sur une initiation sentimentale et sexuelle. Dès le très beau plan-séquence inaugural, l’éveil de Francesca, entre rêverie érotique et repli enfantin, Les Adolescentes joue sur l’hésitation. Car, au fond, si la jeune fille se pense amoureuse d’un architecte, la journée qu’elle vit la confronte à une réalité fuyante où le monde adulte semble régi par des lois sordides auxquelles sa pureté (le mot est répété) se heurte et qui, au lieu de lui apporter des réponses, la renvoie à son questionnement, jusqu’au regard-caméra final, qui évoque aussi bien les 400 coups de Truffaut que Monika de Bergman. C’est un peu comme si, au terme de ce trajet insolite, Francesca demandait au spectateur son avis ou défiait son jugement…

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giovedì 27 maggio 2021

Afrika - Alberto Cavallone

un film strano, per i tempi di oggi.

c'è una cornice, all'inizio e alla fine del film, che mostra dove è ambientato il film, in un paese africano, Etiopia, credo, dove la violenza e gli omicidi sono continui e spietati.

il film riguarda un bianco, che si innamora di un ragazzo etiope, Frank, l'incontro avviene a causa di Rimbaud.

e questo amore viene visto molto male dalla moglie del professore e dalla sorella del ragazzo.

merita la visione, se si trova - Ismaele



…I personaggi sono quasi tutti sgradevoli, la sola vera vittima è Frank, il ragazzino innamorato, incapace di sopportare il peso della sua diversità. Tra i personaggi di contorno c’è anche una moglie etiope di un colonnello italiano diventato cieco che viene tradito dalla donna in maniera sfacciata. Il giudizio morale del  pubblico anni Settanta è ben rappresentato dal commissario etiope: “Chiudiamo questa storia squallida come suicidio di una donna abbandonata. Non facciamo parola di tutto il resto”. Stupendi i paesaggi africani, una fotografia perfetta tratteggia alcune usanze etiopi, inquadra le iene mentre si cibano di pezzi di carogne, riproduce tramonti sul fiume e spaccati di savana.

Un film pasoliniano che risente di influenze jacopettiane, ma corretto secondo lo stile personale di un regista trasgressivo, che ama stupire. Un melodramma erotico versione gay con un pizzico di giallo, con personaggi che sembrano usciti da un film di Polselli, ma ben tratteggiati, al punto che riescono a far affezionare lo spettatore. La musica è triste e monocorde, ideale per il tipo di pellicola. Il montaggio è lento, compassato, ma il tono lirico della sceneggiatura e dei dialoghi lo prevede.

Cavallone confida a Nocturno Cinema: “Volevo parlare di Africa e di omosessualità. Mi interessava esplorare il problema, cercare di far capire questo tipo di rapporto, che era visto allora come un rapporto tabù. E soprattutto mi interessava fare una storia africana in cui l’Africa potesse essere uno sfondo per mettere più vicini i personaggi. I bianchi in un’Africa che si era ormai decolonizzata erano i soldati del generale Custer…”. Il pubblico con comprese, anche se negli anni Ottanta Afrika si è visto molto – a notte fonda – sugli schermi delle peggiori televisioni private. Consigliato.

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Afrika, terra di popoli tormentati e di personaggi tormentati. Da un lato il film di Cavallone sembra ripercorrere alcune tematiche, specialmente all'inizio, già affrontate ne Le salamandre per poi confluire verso il dramma intimo dei personaggi, costretti ad indossare maschere per nascondere le loro angosce a se stessi ed agli altri. Vorrebbero essere felici, ma non possono. Quelle maschere che nascondono un bisogno d'amore inappagato. Pur non essendo una pellicola pienamente riuscita dal punto di vista tecnico e non nascondendo difetti di sceneggiatura, Cavallone riesce tuttavia a fare un ritratto decadente di uomini e donne già condannati che neanche gli ampi spazi africani concedono loro respiro e libertà. Lucido e pessimista che lascia l'amaro in bocca.

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D'obbligo vederlo integrale. Sono 20 minuti in più. Partendo dall'interrogatorio dei due testimoni ne vien fuori una storia di drammi molto intensi, ottimamente rappresentati da situazioni, sguardi ed espressioni molto emblematiche. Giù il cappello alla coerenza inossidabile di tutti i personaggi, che pagano fino in fondo e con dignità le conseguenze delle loro scelte. Un gran film!

MEMORABILE: Sublime all'inizio la risposta del tenente: "Non si chieda il perché di quello che vede".

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mercoledì 26 maggio 2021

La mia classe - Daniele Gaglianone

Valerio Mastandrea insegna in un corso serale per stranieri, di sera.

il film è un po' finzione un po' documentario, gli studenti sono tutti veri immigrati e Valerio Mastandrea si immedesima nell'insegnante in modo naturale, è un insegnante.

insegnare l'italiano non è una cosa astratta, più che in una scuola per italiani, tutti hanno una vira prima, curante e dopo, è quella vita non può mai essere messa da parte, è impossibile.

la storia raccontata da Valerio Mastandrea, alla fine del film, è inquietante e fa male.

non perdete il film, merita molto - Ismaele

 

 

 

 

 

 

QUI il film completo, su Raiplay

 

 

 

…Gli stimoli che il film smuove sono sicuramente interessanti, ma il limite dell’esperimento è nella mancanza di sincerità nei confronti dello spettatore, che non ha mai modo di capire quanto di ciò che vede sia autentico, simulato o indotto. Che senso ha far recitare un attore in un contesto vero? Cosa aggiunge, inoltre, far fingere ai ragazzi il loro disagio (molto spesso i non attori sono chiamati a ripetere alcune scene)? Non sarebbe sufficiente, e più onesto, captarlo, comunicarlo, imprimerlo nei fotogrammi, scegliendo chiaramente quale strada percorrere? Altrimenti la sensazione è che l’evolversi delle situazioni sia frutto di una mistificazione. Così come la lunga parte centrale, in cui ogni studente racconta la sua triste storia, sembra figlia della tv del dolore, in cui si cerca di pungolare l’emotività dello spettatore attraverso vicende strappalacrime a cui è impossibile resistere…

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Nel momento in cui avviene il passaggio dalla fase pedagogica a quella psicologica, il film subisce un vero contraccolpo e ne cambia completamente lo stile di regia. L’intera troupe si mette a nudo, regista compreso, e collabora nel rendere la realtà filmabile, quasi fosse una finzione. L’espediente di un permesso di soggiorno scaduto provoca la vera collisione, e la messa in scena diventa una vera e propria storia corale, dove un sentimento di solidarietà e condivisione diventa protagonista di questa nuova forma metalinguistica. Assistenti alla regia si fanno protagonisti quasi quanto i ragazzi della classe, Mastandrea si spoglia dalla veste di attore e diventa amico, addirittura ci si pone il quesito davanti la macchina da presa se valga ancora la pena portare avanti il progetto o meno. Insomma è l’esempio pratico di work in progress, nel quale si giunge a una soluzione stilistica, per cui resta difficile trovare il limite definitivo tra realtà e finzione, entrambe le dimensioni confluiscono l’una nell’altra creando questa sorta di documentario emozionale su come si svolge il lavoro su un set cinematografico e su come, a volte e non sempre, si riesca a costruire una vera famiglia anche tra semi-sconosciuti…

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Non è fiction, e non è nemmeno documentario. Creatura vagante, non catalogabile, progettata in divenire, sembra voler assomigliare il più possibile ai corpi degli studenti protagonisti, migranti veri provenienti da tutti i Terzomondi possibili, che vogliono imparare la lingua italiana per guadagnarsi il diritto all’esistenza. Metacinema  solo fino ad un certo punto, La Mia Classe è film politico fino in fondo, grondante militanza, schierato dicotomicamente dalla parte giusta contro la parte sbagliata…

 

…Nel contesto avantrealistico dell’opera, brilla come al solito Valerio Mastandrea, che recita il ruolo di maestro di Italiano. La sua è una prova di umanità ineccepibile e recitazione misurata, e si inserisce in maniera naturale nella (volutamente) incerta materia filmica realizzata da Gaglianone.

L’aspetto frustrante per noi spettatori consapevoli riguarda l’amara certezza che questo film sarà apprezzato da un numero bassissimo di persone, e si tratterà esclusivamente di persone GIA’ sensibili alla materia. Tutti gli altri si addormenteranno, perchè manca il racconto, e così la storia non riesce a diventare Storia.

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Va tuttavia riconosciuto, pur nei limiti e nelle imperfezioni del progetto, il coraggio di Gaglianone nel proporre un soggetto così battuto dal nostro cinema (i drammi sociali, e specie quelli sull'immigrazione, si sono moltiplicati negli ultimi anni) inserendovi un punto di vista nuovo, almeno per i nostri standard: quello di un cinema che si interroga sui suoi stessi meccanismi, sul confine tra realtà e finzione, tra racconto e ricostruzione, tra vita colta nel suo dispiegarsi e la sua (ri)organizzazione cinematografica. Se è vero che l'amalgama non sempre funziona al meglio, e il materiale a tratti sfugge di mano al regista, gli intenti, e parte della resa, vanno comunque premiati.

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martedì 25 maggio 2021

dice Bob Dylan

Quando vado a vedere un film mi aspetto di venire commosso. Non vado al cinema solo per passare il tempo o perchè il film mi mostri qualcosa che non conosco. Voglio essere commosso, perche' questo è il senso dell'arte e anche il senso di tutti i grandi teologi. L'arte deve trascinarti via dalla tua sedia. Il suo compito è trasportarti da una dimensione all'altra.

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lunedì 24 maggio 2021

Nomadland - Chloé Zhao

prima di tutto bisogna dire che Frances McDormand non interpreta Fern, lo è. 

non sono molte le attrici (e gli attori) che vestono non (solo) i panni del personaggio, ma ci entrano dentro, anima e carne, e non sai più chi è chi, Frances McDormand è di questa schiera.

la storia, per chi non la sa, è verissima, milioni di cittadini degli Usa hanno perso la casa (crisi dei mutui subprime, nella seconda parte del primo decennio di questo secolo, ricordate?), anche in Europa, ma in misura meno devastante.

cosa fanno gli ex proprietari?

mettono quello che si può in un camper, e via, insieme a tanto come loro, a vivere per strada, in campeggi per loro (non troppo diversi dai campi nomadi)

quello che succede nella vita di Fern, e di quelle e quelli come lei non ve lo racconto, lo vedrete voi, in questo film un po' documentaristico girato da una bravissima Chloé Zhao.

nel film appare (nelle parole della sorella di Fern), e anche in molte recensioni, anche italiane, il concetto che questi infelici sarebbero come i pionieri, come nomadi in cerca di qualcosa; secondo me è assolutamente rivoltante pensare che questi scarti umani, a causa del sistema economico prevalente (capitalismo finanziario, potremmo chiamarlo), amino la vita di merda che sono costretti a fare.

certo, poi cercano di tirare fuori qualcosa di buono, se e quando c'è, il punto è che a quella vita on the road (sembra figo, detto così, in realtà la traduzione è scarti umani del sistema economico e sociale costretti a vivere in strada) è una maledizione.

agli entusiasti, anche da noi, di questa vita avventurosa suggerirei di provare a farsi sfrattare, o a farsi sbattere fuori di casa (dalle banche alle quali non riuscissero a pagare le rate di mutuo), dormire in macchina, fare qualche lavoretto precario malpagato e godere della vita che gli sorride, che ne godano a sazietà.

guardate questo grande film, al cinema, non ve ne pentirete - Ismaele

 

  

 

 

scrive Gianni Canova:

Ci vogliono quasi due ore per vederla piangere. Prima, persa nel vuoto cosmico del paesaggio americano, nomade per scelta e non per necessità, Fern nasconde tormenti e sentimenti dietro l’apparente impassibilità del volto dell’attrice che le dà vita, la grandissima Frances McDormand. Volto enigmatico, volto laconico, volto sfingeo. Segnato da increspature, da piccole rughe, da deboli e quasi impercettibili sorrisi, ma quasi sempre indecifrabile. Perché Fern pratica la dissimulazione dei sentimenti e fa della conquista dell’anaffettività la condizione necessaria (anche se non sempre sufficiente) per sopravvivere in un mondo e in un tempo che ai sentimenti e agli affetti sembrano non riconoscere il diritto di cittadinanza. Dopo che la fabbrica in cui lavorava a Empire, nel Nevada, ha chiuso i battenti, dopo che suo marito Bob è morto, dopo che lo stato ha cancellato perfino il CAP della località in cui viveva da trent’anni, Fern ha preso le sue poche cose ed è andata via: ora è una houseless, ma non una homeless, non ha una casa ma non è una senzatetto. Il suo camper è la sua casa, la strada la sua patria. Quando incontra qualcuno e avverte la possibilità di un legame, di un affetto, di un’amicizia, subito si allontana. Lo fa con Swankie, con Linda, con Dave. Gira nelle lande desolate. Abita albe livide e tramonti di fuoco. Si perde nel vuoto di pianure innevate e di deserti pietrosi. Si fa paesaggio. Nessun’altra attrice avrebbe saputo fondersi con il paesaggio americano, ed entrare in simbiosi con esso, come sa fare Frances McDormand in questo film. Giù giù, in fondo a inquadrature che la sovrastano, Fern si abbandona alla vertigine di campi lunghissimi in cui si mimetizza…

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"Noi non solo accettiamo la tirannide del dollaro e la tirannide del mercato: noi l'abbracciamo. Ci assoggettiamo volentieri al giogo, alla tirannia del dollaro che ci accompagna per tutta la vita…”

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…Una delle principali forze di Nomadland è proprio la sontuosa regia di Chloé Zhao. L'autrice già acclamata per The Rider è in grado di chiuderci con Fern dentro le comode sbarre del suo furgoncino e in un attimo farci respirare l'ampiezza dei paesaggi, lande enormi ricolme di niente. La delicatezza delle inquadrature strette deflagra nei campi larghissimi dove è splendido perdersi, esattamente come il popolo nomade vuole e deve fare.
Chloé Zhao non perde mai di vista i cocci della sua regia, dando a Fern il compito di rimetterli assieme, l'ossimoro continuo di una tranquilla lotta forsennata contro la vita.
Ed è in questa crepa tra atomi di stelle nel palmo della mano e scogliere assalite dal maremoto che ci posiamo noi, complici di un viaggio continuo senza una meta apparente, una fuga di persone che non hanno motivo per restare ferme, oppure che continuano a muoversi perché altrimenti morirebbero.

Strade unite

Ma allora qual è il conflitto? Cosa cerca di raschiare Nomadland dalla ruggine dei nostri occhi? Una delle piccole grandi lezioni della vita: lasciare andare. Fern deve rompere il suo eterno ritorno per fare quel vero passo avanti che ancora le manca, deve tornare e chiudere con un passato gelido che rischia di seppellirla sotto continui strati di polvere. Sa che è l'unico lancinante modo per darsi una possibilità.
E Chloé Zhao non la abbandona mai, si infila sotto le coperte, la stringe al dito come un anello, la schiaccia contro paesaggi sterminati e si accoccola con lei attorno al fuoco, tirando pietre dentro un braciere…

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Chloé Zhao si affida a Frances McDormand che produce anche il film e che interpreta una Fren strepitosa. Ogni sua ruga, ogni sua espressione è dedicata ad una donna che sembra conoscere e capire intimamente, un ruolo che non fa altro che confermare la delicatezza di un’interprete che negli ultimi anni ha dato prova di migliorare film dopo film, performance dopo performance, nonostante partisse già da livelli altissimi. Ma oltre McDormand, i volti che restano davvero impressi nella mente sono quelli di Linda May, Swankie, Bob Wells, nomadi veri, persone autentiche.

L’occhio di Zhao mostra e racconta con una compassione e una delicatezza rara, costruisce il film passo dopo passo così come i suoi protagonisti un pezzo alla volta ricostruiscono la loro vita, sempre proiettati lungo la strada come fossero carovane di pionieri senza però nulla da scoprire. La ricerca malinconica e disillusa di un nuovo posto in cui stare si rivela presto essere solo una scusa per continuare ad andare avanti, nel ricordo di persone e posti che non torneranno, ma che, proprio perché ricordati, non moriranno mai…

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…Guardare la faccia di Frances McDormand in Nomadland e riconoscervi la vita di una persona. E’ una sensazione questa  che si rinnova ad ogni nuovo incontro, il che,  in generale, fa  pensare che per un attrice come lei  stare davanti alla mdp con così tanta credibilità non sia solo una questione di talento ma dipenda anche dalla coerenza delle sue scelte, a cominciare da quelle relative ai ruoli da interpretare e soprattutto a quelli da rifiutare. A ben vedere la Fern di Nomaland potrebbe essere parente stretta della  Mildred Hayes di Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri, il che è tutt’altro che casuale.

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Il film comincia come una sorta di elaborazione del lutto e diventa un percorso personale di rinascita, dove la strada intrapresa non è detto sia per forza quella più comoda, ma finisce per essere l’unica possibile. Almeno per la protagonista e il suo personale vissuto.

Un viaggio che ci conduce insieme a Fern nell’America rurale, nella crisi economica, nel sentire di un singolo che diventa ritratto di una collettività silenziosa, sulle note malinconiche di Ludovico Einaudi a cui è affidata la colonna sonora. 

Un piccolo grande film che forse i tanti riconoscimenti che sta raccogliendo (dal Leone d’Oro a Venezia agli Oscar che sicuramente vincerà) caricheranno di eccessive aspettative, mentre è nella dimensione intima che trova il suo spazio, la sua poesia, ed è lì che bisogna gustarlo per comprenderlo appieno senza sciuparlo.

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Pur non romanticizzando la vita in strada, per la regista è impossibile nascondere che è la gioia, non la sofferenza, a descriverli: la gioia di trovare un nuovo modo di stare al mondo, di creare comunità basate sulla condivisione, come essere indipendenti e essere lieti di ciò che si ha. Una parte importante dell’evoluzione del personaggio di Fern si può osservare quando lei comprende, con lucidità, perché non può accettare l’aiuto degli altri, soprattutto da parte di chi le offre la propria ospitalità. Per lei è difficile ricostruire quel che circonda il concetto di casa, per lei è impossibile rinnovare quel sentimento che cinge l’idea di una dimora, quando quella possibilità è inscritta nelle regole e nelle condizioni di altri individui. Questa è la sua definizione di libertà e di orgoglio. Riscrivere le regole con cui si sta al mondo.

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domenica 23 maggio 2021

Un altro giro (Druk) - Thomas Vinterberg

attori bravissimi, Mads Mikkelsen anche di più, nel film premio Oscar 2021 per il miglior film straniero.

a un certo punto quattro amici, poco felici nella vita, insegnanti nello stesso istituto, decidono di applicare sulla loro pelle una teoria che afferma che se sei mediamente ubriaco, la vita ti sorriderà, amore, lavoro, tutto sarà un successo.

tutto questo succede a persone in contatto costante con i giovani, che potranno essere tutto, loro quattro ormai non potranno essere diversi da come sono diventati.

il loro esperimento è anche quello di sentirsi sempre al massimo e ridiventare forever young, ma, come capita troppo spesso agli umani, non si sa mai quando è arrivato il momento di fermarsi.

film poco adatto a chi sta cercando di disintossicarsi dall'alcol (o da qualcos'altro), ma per tutti gli altri, forse la maggioranza, chissà,  superconsigliato.

non perdetevelo, al cinema, naturalmente - Ismaele



 

 

 

Provocatorio, ma affatto superficiale, Un altro giro è un film che celebra la sete di vita e indica una strada possibile, mediamente alterata, senza per questo negare le conseguenze nefaste dell'abuso di alcolici. Vinterberg parla dunque, prima di tutto, alla propria gente, bloccata in una contraddizione perpetua tra retorica puritana e consumo elevato, ma fornisce anche un più generale invito a scegliere come vivere, ad assumersene la responsabilità, nel bene o nel male.

Il risultato è un film libero anche nella forma e nell'andamento, in cui un pool di attori in stato di grazia collettivo dà vita ad una serie di scene tra Ferreri e Cassavetes, per lasciare l'assolo finale a Mikkelsen e ad un memorabile inno del corpo liberato.

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Saranno i lunghi mesi della pandemia, o magari i codici estetizzanti delle produzioni contemporanee, ma l’autenticità del cinema di Vinterberg resta un dato incontrovertibile, capace di colpire lo spettatore come un’esperienza cinematografica d’intensità incomparabile rispetto a qualunque film visto in streaming in questi mesi.

Non è semplicemente la stranezza di questa parabola senza morale, l’onestà del punto di vista, o magari l’eccezionale interpretazione di Mads Mikkelsen e dei suoi compagni di bevute. Vinterberg sa avvicinare la realtà degli uomini, delle emozioni e della vita con un linguaggio straordinariamente diretto. Un linguaggio minimale, spogliato di qualunque regola su trama e intreccio.

E il risultato è Un altro giro, un film che non risponde a nessuna definizione di genere. Resta perfino riduttivo ricorrere alla categoria americana della dramedy, già che il regista sceglie deliberatamente di rifiutare il genere. Si muove infatti fuori dalle regole, gli schemi che tradizionalmente definiscono la commedia, il dramma, la tragedia.

Queste tre storiche categorie si presenteranno tutte a fasi alterne all’interno del film, insieme all’intera gamma delle relative emozioni. Eppure, il regista cerca strenuamente la verità della vita vissuta fuori dalle dinamiche del climax, dei plot-twist, i monologhi, le scene madri e tutti quegli artifici che sperimentiamo normalmente nella rappresentazione cinematografica…

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Il confronto non semplice tra le due generazioni che popolano la scuola così come l’ambiente domestico non è narrato nella sua più banale venatura conflittuale, ma piuttosto come terreno desolato, impacciato, ancora in definizione. I giovani non sono altro che la restituzione in personaggio di quella sensazione di distanza dal mondo che pervade il protagonista. La costrizione che è alla base della vita adulta da una parte, la libertà e la spensieratezza dell’infanzia dall’altra, arrivano a rispecchiare l’antitesi tra civiltà e natura, istinto. Non è un caso se nel film il paesaggio naturale è quasi sempre separato dai protagonisti, rinchiuso nel reframe delle finestre, oppure affrescato sulle pareti di un ristorante. 

Alla fine, si troverà il modo di ballare persino della morte, nello spazio interstiziale tra mare aperto e città. Ognuno si muoverà col suo ritmo, seguirà la sua traiettoria, nella massa indistinta di anime in festa, giovani e meno giovani, tutti insieme. Durante la sequenza finale, la casualità della ripresa mossa e l’affollamento visuale sembrano celebrare la contraddizione dell’esistenza umana e ricordano le forme ruvide di Dogma 95. Come se Un altro giro, oltre che raccontare l’uomo moderno e il suo scollamento sociale, parlasse anche del cinema e di quella purezza artistico-espressiva ancora possibile, oltre le forme più istituzionalizzate. In ogni caso, Vinterberg è riuscito a ritrovare, dopo alcuni lavori impersonali, uno sguardo d’autore su una vicenda che parte dal dato teorico, tocca il qui e ora di un uomo e si estende a metafora sociale e politica, in un racconto che parla di crisi, di illusione e della possibilità di andare oltre.

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Thomas Vinterberg inneggia all’alterazione di sé, realizzando una pellicola provocatoria ma per niente superficiale. Non vengono mai negate le conseguenze degli abusi; anzi, vengono mostrate sulla pelle dei quattro amici e colleghi che si sottopongono a questo esperimento (fin troppo) audace. Il regista prova a suggerire come vivere, assumendosi le proprie responsabilità, nel bene e nel male. Probabilmente un gruppo di studenti potrà trovare il proprio professore noioso, “vecchio” o poco stimolante, ma la versione “allegra” non sarà capace di fornire gli stessi strumenti di apprendimento. È una questione di scelta. Infatti, la parola chiave del film è proprio la libertà: di fallire, di rischiare, di mettersi in gioco, di vivere senza irrazionalità rifiutando le regole, rimettendo in discussione le cose senza obbedire passivamente. Vinterberg ci porta nella patria di Kierkegaard (la Danimarca), mostrandoci come una “semplice crisi di mezza età” possa avere risvolti così imprevedibili. Probabilmente, c’è un’ebbrezza eccessiva, a tratti disturbante, ma necessaria a rendere il film libero anche nella forma e nell’andamento. “Druk” ci mostra inizialmente la confusione e il senso di frastornamento dei quattro protagonisti, poi la completa dissoluzione. Non si vince con l’alcolismo. Non è possibile diventare “amici” e abbandonarlo quando poi abbiamo trovato il modo di tornare ad essere brillanti come prima. Il punto è capire qual è il vero fallimento. Si fallisce accettando la vecchiaia? Si fallisce reagendo alla vecchiaia? O, ancora, si reagisce provando ad apprezzare quello che la vecchiaia può dare?...

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…"Vogliamo che sia un omaggio all'alcol, ma è ovvio che vogliamo anche dipingere un quadro sfumato" , ha spiegato il cineasta. 

Incorporato nel nostro esame dell'essenza dell'alcol si trova il risvolto della medaglia: sappiamo bene che le persone muoiono e vengono distrutte dal bere eccessivo e dall'alcolismo.

Un'esistenza con l'alcol genera la vita, ma può anche uccidere".

Thomas Vinterberg ha poi aggiunto 

"Un altro giro vuole essere una storia sfaccettata che allo stesso tempo provoca e diverte, ci fa pensare, piangere e ridere per tutta la durata del film.

E si spera che lasci spunti di riflessione e di dibattito per un pubblico che vive in un mondo che, in misura crescente, è definito esteriormente dalla retorica puritana, ma di fatto ha un consumo di alcol piuttosto elevato anche da persone con un'età relativamente giovane".

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venerdì 21 maggio 2021

Musikanten - Franco Battiato

recupero un film di Battiato, e dopo averlo visto mi vengono in mente i primi versi di una sua canzone:

Parlami dell′esistenza di mondi lontanissimi

Di civiltà sepolte, di continenti alla deriva

Parlami dell'amore che si fa in mezzo agli uomini

Di viaggiatori anomali in territori mistici, di più

anche nel film c'è un viaggio nello spazio e nel tempo, per un progetto televisivo che, forse, sfugge di mano ai suoi autori.

non so bene se mi è piaciuto, ma forse questo verbo è anomalo, per questo film.

sotto avete il link al film, buona visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo

 

Dal linguaggio (la televisione e il modo di fare informazione) ai corpi ed alle forma di vita (Beethoven e la sua geniale anormalità) fino alla politica (la sequenza finale con l'annuncio del colpo di stato): Musikanten è un grido anarchico che scompagina la forma e le norme di ogni possibile schema visivo per giungere al cuore pulsante della vita, a quel gesto vitale che solo può resistere al potere di una politica omologante e normalizzante. Un'opera pieni di allusioni (ma la filosofia, quella vera, non è, come ricorda Deleuze, una gigantesca "arte dell'allusione"?), ricamata lungo continui interstizi spaziali e temporali, nicchie e angoli dove i corpi seguono nuove e possibili linee di fuga intrecciando la musica, il cinema, il video e la filosofia. Un film pieno di gesti e atti, stracolmo di volti straordinari (da quello di Juri Camisasca ad Antonio Rezza passando per lo stesso Sgalambro e per uno bravissimo Alejandro Jodorowski) che oppongono la loro giocosa e gioiosa "ecceità" ad una realtà sempre più leggibile e codificata. E forse proprio questo gesto formale e vitale avvicina il cinema di Battiato e Sgalambro a quello di Pier Paolo Pasolini: tutti "scrittori di cinema", "musicanti di immagini" sempre pronti ad avventarsi contro i limiti del linguaggio inventando nuove forme di vita,  altri modi di stare davanti e dietro ad una macchina da presa. Piccole urla di creatività, di scherzosa "rabbia" cinematografica lanciate contro l'omologazione di un'industria culturale sempre più ottusa e sorda al genio del singolo. Ad ogni festosa "ecceità".

da qui

 

Un film che lascia senza parole e non perché si abbandoni solo alla musica, ma perché la prima reazione che suscita, per chi non abbia avuto la furbizia di fuggire dopo la prima mezz'ora, è il silenzio. Un silenzio pregno però di domande, prima fra tutte: come è possibile che un film del genere sia stato prodotto? Ancora: come hanno potuto artisti del livello di Alejandro Jodorowsky, ma anche un Fabrizio Gifuni e una Sonia Bergamasco, parteciparvi come attori? Ma soprattutto come pensare di farlo uscire nelle sale cinematografiche

da qui

 

…non si è davanti a delle buone interpretazioni, ad una buona messa in scena. Jodorowsky è istrionico nella sua interpretazione, ma cade nell’esagerato e nell’odioso. Per non parlare delle battute “ultrafilosofiche e mistiche” che lasciano spazio a delle spontanee risate, che all’inizio fanno pensare a della buona autoironia, ma che in realtà sono considerazioni che appesantiscono inverosimilmente i dialoghi.

La particolarità di Battiato può risultare indecifrabile. Ma come accenna il direttore di rete della emittente del film “tutto è comunicazione, e il messaggio deve arrivare facilmente al pubblico”. Battiato rimandato.

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una stroncatura totale:

Imbarazzante. Non ci sono altre parole per descrivere l'opera seconda del musicista Franco Battiato. Attraverso una narrazione dalle pretese oniriche si passa dai giorni nostri all'Ottocento e si ha modo di entrare in contatto con le ultime giornate di, nientepopodimeno che, Ludvig van Beethoven. Ma veniamo ai difetti. La pretenziosità prima di tutto, subito evidente negli improvvisi inserti in digitale sporco che sembrano più derivare dal caso che da una precisa scelta stilistica; così come non si percepisce alcuna direzione degli attori, che vagano senza controllo ripetendo a pappagallo, e con falsissima convinzione, frasi di cui sembrano ignorare il significato. In particolare, davvero imbarazzanti Sonia Bergamasco in abiti maschili e boccoloni nei panni del principe Lichnowsky, amico e mecenate di Beethoven, e Fabrizio Gifuni con capello lungo e sorriso costante stampato sul viso. Per tacere del grande regista Alejandro Jodorowsky. Si butta con mimica eccessiva nel ruolo rischioso di Beethoven e non esibisce alcun carisma (certo, il doppiaggio gracchiante e fuori sincrono non lo aiuta). Ma proprio tutti gli elementi cinematografici risultano insalvabili: il montaggio sbaglia i tempi, i costumi paiono raccattati dove capita, la scenografia è di una povertà che non ha nulla di rigoroso, la fotografia appare sbiadita. Anche la musica, ricercata per evitare scelte banali, non arriva. Ma il peggio del peggio è nelle pretese intellettuali della sceneggiatura (dello stesso Battiato con il filosofo Manlio Sgalambro) che sfida, perdendo, il ridicolo, costruisce sequenze dall'imponderabile valore aggiunto e azzarda dialoghi di sublime vacuità ("esporre l'esoterico a chiunque non va bene", "prenda contatto con l'alluce destro", "le auguro la migliore delle cacate, senza difficoltà, in questo meraviglioso cesso!").
Ed ora passiamo ai pregi: non pervenuti.

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