scrive Cecilia Mangini:
Come accade sempre con i lavori che sono stati un’esperienza forte e
una scoperta di valore esistenziale, sono molto legata a Essere donne. L’esperienza è stata la fabbrica, e
nella fabbrica la catena di montaggio, la parcellizzazione, i tempi stretti, la
verifica della lezione gramsciana sul fordismo. La scoperta è stato l’incontro
con le donne ‘agite’ dalla fabbrica, dal lavoro contadino, dalla famiglia, dal
rapporto con la loro condizione negata, nel momento iniziale del loro (e mio)
confuso interrogarsi sulla necessità del cambiamento.
Negli anni Cinquanta e nei Sessanta la fabbrica è stata il tema caldo, a volte anche rovente, al centro dell’interesse, delle diagnosi e delle profezie della cultura di sinistra. Entrare in fabbrica con la beneamata Arryflex era il mio sogno che più sogno non si può, ma anche il più proibito. […] Finalmente, la svolta si verifica nella primavera del 1964: per le elezioni la Unitelefilm chiede ai registi della sinistra italiana non di ‘suonare il piffero’ della propaganda per il Partito Comunista, ma l’approfondimento di un problema sociale, collettivo. Per il tema del lavoro femminile, mi chiamano a Botteghe Oscure. […]
Dovunque, al Sud e al Nord incontro donne convinte che l’indipendenza economica da conquistare le salverà. Lo credo anch’io, anch’io mi cullo in questa convinzione, semplice, lineare, consolatoria, invece la realtà è complessa, contorta, avara di gratificazioni. Il mio “guardati intorno, ascolta, pensa” si incontra per la prima volta con il “guardati intorno, ascolta, pensa” delle altre.
Scopro che le donne sono inquiete, spesso apertamente insoddisfatte del peso esistenziale che le limita, e sottotraccia oscuramente motivate a capire che cosa non funziona, e come rifiutarsi di pagare le penali introiettate nell’infanzia, tutte a scadenza illimitata. Ancora manca la consapevolezza del sistema penalizzante nella sua interezza, nelle sue cause, nelle sue motivazioni. Le donne sono inconsciamente in gestazione del loro essere interamente donne.
Questa situazione magmatica mi riguarda, riguarda tutte, riguarda anche chi si rifiuterà di crescere. Certo è per il senno di poi, e dipende da una lettura attuale di Essere donne se oggi penso che istintivamente sono stata spinta a identificarmi in tutte loro, in Puglia entrando nel filmato come raccoglitrice di olive, al Nord come operaia al controllo dei telai.
Negli anni Cinquanta e nei Sessanta la fabbrica è stata il tema caldo, a volte anche rovente, al centro dell’interesse, delle diagnosi e delle profezie della cultura di sinistra. Entrare in fabbrica con la beneamata Arryflex era il mio sogno che più sogno non si può, ma anche il più proibito. […] Finalmente, la svolta si verifica nella primavera del 1964: per le elezioni la Unitelefilm chiede ai registi della sinistra italiana non di ‘suonare il piffero’ della propaganda per il Partito Comunista, ma l’approfondimento di un problema sociale, collettivo. Per il tema del lavoro femminile, mi chiamano a Botteghe Oscure. […]
Dovunque, al Sud e al Nord incontro donne convinte che l’indipendenza economica da conquistare le salverà. Lo credo anch’io, anch’io mi cullo in questa convinzione, semplice, lineare, consolatoria, invece la realtà è complessa, contorta, avara di gratificazioni. Il mio “guardati intorno, ascolta, pensa” si incontra per la prima volta con il “guardati intorno, ascolta, pensa” delle altre.
Scopro che le donne sono inquiete, spesso apertamente insoddisfatte del peso esistenziale che le limita, e sottotraccia oscuramente motivate a capire che cosa non funziona, e come rifiutarsi di pagare le penali introiettate nell’infanzia, tutte a scadenza illimitata. Ancora manca la consapevolezza del sistema penalizzante nella sua interezza, nelle sue cause, nelle sue motivazioni. Le donne sono inconsciamente in gestazione del loro essere interamente donne.
Questa situazione magmatica mi riguarda, riguarda tutte, riguarda anche chi si rifiuterà di crescere. Certo è per il senno di poi, e dipende da una lettura attuale di Essere donne se oggi penso che istintivamente sono stata spinta a identificarmi in tutte loro, in Puglia entrando nel filmato come raccoglitrice di olive, al Nord come operaia al controllo dei telai.
un articolo di Roberta Errico
Se le donne di oggi hanno la
possibilità di respingere le imposizioni della società lo devono a tutte quelle
donne del passato che hanno rifiutato di essere identificate esclusivamente per
le loro qualità femminili. Nella più o meno recente storia italiana troviamo tante di
queste protagoniste, ma una vera e propria pioniera nel nostro mondo
culturale e politico è stata senz’altro Cecilia Mangini, la prima
documentarista del cinema italiano.
Mangini nasce in Puglia nel 1927,
ma cresce e studia a Firenze, dove si trasferisce con i genitori a cinque
anni. Racconta di
aver ancora impresso nella memoria il ricordo della società fascista: il primo
approccio con la politica infatti per lei fu il giuramento di fedeltà al
regime, il rituale che usava all’epoca, compiuto all’età di sei anni in
occasione dell’inizio della prima elementare.
Ciò che fin da bambina, però, la
liberò dal pensiero unico del regime fu il cinema neorealista.
Il cinema infatti entrò presto e in modo salvifico nella sua vita. “Sono stati
quei film di De Sica e di Rossellini a farci capire che cosa non funzionava nel
fascismo”, ricorda in
una recente intervista a La Repubblica. “Questa
capacità di raccontare quello che avevamo passato noi [bambini] attraverso
altre persone senza sensi di colpa, ma con la necessità di capire”.
Nel 1952, poco più che ventenne,
la giovane Mangini con i soldi che la famiglia le regala per Natale acquista
una macchina fotografica Zeiss, modello Super Ikonta, e capito ben presto che
non avrebbe utilizzato quel prezioso strumento per fotografare le ricorrenze di
famiglia, parte alla volta di Lipari e Panarea, insieme al compagno di vita, il
regista e sceneggiatore Lino del Fra. Lì documenta il dramma
delle condizioni dei minatori delle cave di pomice e delle loro mogli e in quel
momento, come rivelò in
seguito, acquisisce la consapevolezza di poter essere una fotografa di
professione. Tramite la fotografia, Mangini coniuga il suo prorompente
desiderio di indipendenza con la passione politica, una strada che la porta a
Roma, dove si trasferisce e inizia a lavorare alla Federazione italiana dei
circoli del cinema. Tra la fotografia e la regia il passaggio per lei fu naturale,
anche se non lo era affatto per la bigotta società italiana:
“Che le donne facessero cinema, praticamente, almeno in Italia, era
impossibile”.
La vera svolta avvenne quando il
produttore cinematografico Fulvio Lucisano, convinto del suo talento, le
propose di girare un documentario. Così lei gli presentò il soggetto di Ignoti alla città, ispirato
dal romanzo Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale
“vessillo della libertà non democristiana”. Mangini contattò Pasolini per
proporgli di scrivere il testo del documentario, cercandolo semplicemente
sull’elenco telefonico e lui, con sua grande gioia, accettò, dando inizio al
loro sodalizio artistico e a una grande amicizia. Insieme lavorano, infatti, ad
altri due documentari: Stendalì
– Suonano ancora nel 1960, e La
canta delle marane nel 1962, opere incentrate sulla vita
delle persone che vivevano ai margini della società consumistica degli anni
Sessanta. Mentre il resto della società italiana – intellettuali compresi – si
lasciava inebriare dal capitalismo, Cecilia Mangini e Pier Paolo Pasolini hanno
raccontato le vite degli ultimi, tra cui le donne: figure invisibili che si
ritrovano schiacciate tra vecchi retaggi di una società patriarcale e nuovi
meccanismi culturali imposti dal boom economico. “La situazione delle donne era
spaventosa anche se non ce ne rendevamo conto”, racconta Mangini,
“le donne erano sottomesse […] destinate alla castità anche nel matrimonio”.
Nel 1965 la regista aderisce a un
progetto promosso dal Partito Comunista Italiano che prevedeva la realizzazione
di documentari che raccontassero la vita dei lavoratori e delle lavoratrici.
Mangini da qui realizza un reportage innovativo per l’epoca dal titolo
chiaro: Essere donne.
Il documentario risulta essere tra le prime indagini cinematografiche sulla
condizione femminile in Italia, analizzata nei suoi diversi aspetti: economici,
sociali, psicologici e culturali. Una testimone oculare dell’epoca, la giornalista
Bruna Bellonzi, presente a una proiezione privata del documentario, scrisse su Noi
Donne, il 22 maggio 1965, che il film mostrava “Il mondo della donna, le
sue brucianti contraddizioni, il suo impossibile equilibrio fra un modo di
essere vecchio di secoli e aspirazioni nuove”.
Cecilia Mangini voleva denunciare
le contraddizioni e la violenza della sconcertante realtà lavorativa e
familiare delle donne italiane, che non aveva niente a che vedere con
l’immagine edulcorata proposta dall’industria culturale degli anni Sessanta. In
questo modo creò un filone nel giornalismo d’inchiesta che ancora oggi fa
scuola. Il linguaggio della sua narrazione documentaristica è sorprendentemente
moderno, veloce, accattivante, contrapposto alle immagini patinate dei
rotocalchi e delle riviste di moda. Il ritmo diventa frenetico, fino a
risultare disturbante, quando Mangini mostra la vita reale delle donne italiane,
scandita dal lavoro in fabbrica e da quello domestico.
Il documentario però subì un grave
boicottaggio da parte delle autorità, nonostante la critica italiana e
straniera lo avesse considerato un capolavoro. All’epoca della sua uscita,
prima di ogni film proiettato al cinema doveva essere trasmesso per legge un
documentario. Il mediometraggio però venne bocciato dai
produttori e dai registi che facevano parte della Commissione ministeriale che
decideva quali opere potessero accompagnare la programmazione dei film nelle
sale, impedendogli di essere distribuito sul territorio. La Commissione camuffò la
censura denunciando presunte carenze tecnico-artistiche, quando secondo più
commentatori il reale motivo fu l’insopportabile sincerità del documentario. La
regista fiorentina fu vittima della mancanza di rispetto della società
maschilista italiana, che non tollerava la denuncia dei suoi consolidati usi e
costumi, eppure ciononostante è riuscita a donare alle sue contemporanee e alle
donne delle generazioni successive un’opera di inestimabile valore in cui
potersi rispecchiare.
Mangini è stata tra le prime a
descrivere “la realtà complessa, contorta, avara di gratificazioni” delle
donne, come la definì in
un’intervista del 2015. Le donne hanno sempre sopportato il peso della
contraddizione tra le loro aspirazioni e le loro vite, uniformate nella maggior
parte dei casi dal modello comportamentale imposto dalla società, fatto di
condizionamenti culturali travestiti da valori condivisi e solo per questo
ritenuti giusti o accettabili. Con le sue opere, ha contribuito a dare voce ai
dimenticati, ha mostrato le contraddizioni dell’essere donna, ha rivelato la
desolazione che si nascondeva dietro il boom economico e ha documentato
l’avvento della civiltà industriale e dei consumi. È tra le donne italiane che
hanno contribuito a comporre un nuovo tipo di consapevolezza e di sensibilità,
che oggi accompagna le nuove generazioni.
“Le donne sono inconsciamente in
gestazione del loro essere interamente donne,” ha recentemente dichiarato,
“Questa situazione magmatica mi riguarda, riguarda tutte, riguarda anche chi si
rifiuterà di crescere”, a dimostrazione della sua inarrestabile ricerca umana e
artistica. Per questo va riscoperta, per arricchire la riflessione culturale e
politica non solo sulla condizione della donna, ma sull’intera società.
“Essere donne” di Cecilia Mangini.
Storia di un boicottaggio - Zoé Rogez
Il documentario Essere donne (1965), girato da Cecilia Mangini è
stato all'epoca ingiustamente boicottato dagli stessi produttori e registi che
facevano parte della Commissione ministeriale che decideva delle sorti dei
medio e cortometraggi che accompagnavano la programmazione dei film nelle sale.
Non ottenere l'appoggio degli esercenti e neppure il premio di qualità,
significava negare una vita sullo schermo al proprio film. Era un modo
subdolo per censurare indirettamente quei documentari che affrontavano
argomenti scomodi che il governo non desiderava far arrivare al pubblico. La
documentazione conservata nell'Archivio
di Cecilia Mangini e Lino Del Fra aiuta a capire le ragioni
della sua 'bocciatura'.
Il nuovo restauro della Cineteca di
Bologna, riporta finalmente in sala quest'opera alla quale il tempo non ha tolto
la sua forza espressiva, il suo significato. L’obiettivo di Cecilia Mangini di
documentare la realtà sconcertante della condizione lavorativa e familiare
della donna a confronto con l’immagine femminile edulcorata proposta
dall’industria culturale degli anni Sessanta, è una modalità d'inchiesta,
ancora oggi valida.
Con il sostegno di Luciano Lusvardi,
responsabile della sezione Stampa e Propaganda del PCI, Cecilia Mangini, prima
documentarista femminile italiana, gira il paese, dai campi di uliveti pugliesi
alle fabbriche milanesi, per incontrare le donne. La giornalista Bruna
Bellonzi, presente alla proiezione privata del documentario, scrive su Noi Donne, il 22 maggio 1965 che il film mostra “il
mondo della donna, le sue brucianti contraddizioni, il suo impossibile
equilibrio fra un modo di essere vecchio di secoli e aspirazioni nuove”.
All’estero, Essere donne ottiene un grande successo. I
maestri del documentario Joris Ivens, John Grierson e il polacco Jerzy
Toeplitz, dedicano al film di Cecilia Mangini il premio speciale della giuria
al Festival di Lipsia del 1965. Nello stesso anno, Essere donne verrà selezionato dal Festival
Internazionale del cortometraggio e del documentario di Cracovia. Descritto
come un'”inchiesta sincera e onesta” per la verità contenuta nelle immagini e
per la “sobrietà della testimonianza”, la stampa italiana non tarda a esprimere
l'indignazione di fronte all’esclusione di Essere donne dalla
programmazione obbligatoria.
Felice Chilanti – che scrive il
commento off del film con la
collaborazione di Giuliana dal Pozzo – dichiara con fermezza la sua contrarietà
in un telegramma a Cecilia Mangini che recita: “Ti esprimo mia solidale
indignazione contro nuova offesa e violazione diritto dignità della
cultura”. Paese Sera il 31 maggio 1965,
pubblica un articolo dello stesso Chilanti dal titolo Essere donne o essere vampiri?, dove il documentario
viene definito “nobile, fatto bene, ricco di valori poetici e morali”.
Perché un film così apprezzato sia
all’estero che dalla critica nazionale non viene proiettato nelle sale
italiane? La Bellonzi fa luce sul processo di selezione alla programmazione
obbligatoria: “Dapprima li vede una commissione di censura che nega o meno il
visto a seconda che vi riscontri o no elementi offensivi della moralità. Poi il
documentario passa ad una seconda commissione, quella per la programmazione
obbligatoria che deve accertare se l’opera presentata dispone dei requisiti
minimi, artistici e tecnici (ossia se è bello, ben fotografato, ben commentato,
ben musicato) per essere abbinato ad un film e venir così proiettato nei cinema
normali”. In un anno, circa 200 documentari hanno la possibilità di concorrere
al premio di qualità, ma non tutti lo ottengono. L’esclusione rappresenta un
doppio danno; gli esercenti non li noleggiano e dunque non c'è alcun rientro
economico per chi li ha realizzati e perdono l'occasione di concorrere al
premio.
La Commissione ministeriale in questione –
i cui membri sono stati scelti dal Ministero del Lavoro - era composta dal
produttore Ermanno Donati, dal regista Piero Regnoli - tra l’altro ex-critico
cinematografico di l’Osservatore Romano -
dal musicista Franco Ferrara, dall’operatore Sandro d’Eva e infine dal critico
Mario Gallo. La giuria ha espresso, a maggioranza, un giudizio negativo nei
confronti di Essere donne, tanto che
sempre la Bellonzi accusa la Commissione di aver interpretato questo
documentario come un “sottoprodotto di infima qualità”; ponendo l'accento sulle
vere ragioni della censura; “non è piaciuta la sua sincerità che è denuncia” e
afferma inoltre che il giudizio non si è limitato agli aspetti
tecnico-artistici, ma si è esteso al tema stesso, oggetto del documentario.
Essere Donne riceve il sostegno di Sandro d’Eva e del critico
socialista Mario Gallo, ma la loro opinione non avrà voce in capitolo; la
maggioranza pone un veto di carattere ideologico. I principali oppositori
all’inserimento del film della Mangini nella programmazione, sarebbero stati il
regista Piero Regnoli e il produttore Ermanno Donati, accomunati da una lunga
collaborazione nella realizzazione di film cavallereschi e di film erotici
d'ambientazione horror. Nell'articolo sopra citato, Felice Chilanti esprime il
suo stupore di fronte alla loro presenza nella giuria: “Siamo convinti che
produttori, registi e sceneggiatori di film sui vampiri non debbano,
assolutamente, rappresentare lo Stato nel momento di decidere se un film
come Essere donne meriti o non meriti di venire
ammesso alla programmazione”.
Di fronte all'unanime dissenso, il
Ministero dello Spettacolo diffonde un comunicato per smentire che
nell’esclusione del film, siano intervenuti motivi di censura
politico-ideologica, giustificando così la scelta della giuria: “Il comitato,
il quale ha il compito di scegliere i cortometraggi da ammettere alla
programmazione obbligatoria, è composto di rappresentanti delle diverse
categorie della spettacolo, designati dalle rispettive associazioni”.
In relazione al comunicato, il
periodico L’Unità scrive che è
“evidente che qualsiasi comitato ministeriale, comunque composto, può essere
soggetto per sua natura a condizionamenti e pressioni politico-ideologiche, ed
agire di conseguenza” e denuncia la malafede del Ministero dello Spettacolo,
notando che “tra i commissari hanno avuto peso determinante considerazioni di
natura puramente politica”.
Cecilia Mangini non verrà ricompensata con
la gioia di vedere il film sugli schermi italiani. Rimarrà “un pensiero
lontano, irraggiungibile” - espressione usata dalla stessa regista nella
sceneggiatura per definire il senso di frustrazione delle donne intervistate
che sognano una vita diversa, fatta, invece, solo di “fatica e sacrificio e
ancora sacrificio”.
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