Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
venerdì 30 giugno 2017
giovedì 29 giugno 2017
A Somewhat Gentle Man (En ganske snill mann) - Hans Petter Moland
Ulrik (il sempre bravo Stellan Skarsgard) esce di galera, e tutto è come prima, ma con dieci anni di differenza, un figlio è cresciuto, gli amici delinquesti sono sempre gli stessi, e si danno da fare per reintegrarsi nella società.
Ulrik in fondo è un uomo gentile e cerca di dimostrarlo sempre, sia con la padrona della cantina dove dorme, sia con gli altri, essere un delinquente non è la sua specialità.
non male, ma In ordine di sparizione è superiore, secondo me, anche se qui Stellan Skarsgard non riesce a fare del male a una mosca - Ismaele
Ulrik in fondo è un uomo gentile e cerca di dimostrarlo sempre, sia con la padrona della cantina dove dorme, sia con gli altri, essere un delinquente non è la sua specialità.
non male, ma In ordine di sparizione è superiore, secondo me, anche se qui Stellan Skarsgard non riesce a fare del male a una mosca - Ismaele
La capacidad del ser humano para reírse ante las
desgracias ajenas es inmensa. Ya sea como mecanismo de defensa, por sadismo o
por simple mala leche, lo cierto es que, si vemos a alguien que se pega una
torta o sufre algún tipo de deficiencia, física o psíquica, a menudo nos cuesta
contener la risa cuando deberían brotar las lágrimas, o al menos dibujársenos
una mueca de malestar y compasión. Esta paradoja encuentra su sofisticación en
el llamado humor negro, peculiar subgénero que combina la cómico o al menos
alegre de la palabra “humor”, con lo deprimente y penumbroso de la palabra
“negro”. A veces domina el humor y otras veces toma la delantera la negrura,
pero en cualquier caso este afortunado oxímoron suele ser simplemente, como se
ha dicho, una especie de subgénero, que acompaña al género principal de una
película, o que al menos se deriva de una trama con contenido propio. Pues
bien, el caso de A Somewhat Gentle
Man parece ser una excepción, ya que toma el humor negro como su
razón de ser. Efectivamente, casi toda la fuerza de esta cinta trae causa de un
exagerado énfasis en la mencionada contraposición, que acaba reduciendo el
interés de la película a una sucesión de sketches caracterizados por la gracia
y el mal rollo…
S’il
n’y avait qu’un mot pour définir Un Chic Type, ce serait « poétique ».
Pourtant, d’une certaine manière, le ton de ce film est réaliste. Pas de
paillettes, de mondes féériques ou de sublimes paysages. Il se situe d’ailleurs
dans un milieu difficile, puisque le protagoniste principal vient de sortir de
prison et doit encore se venger. Seuls décors donc: la ville, une chambre
pratiquement insalubre ou encore un garage. La poésie est pourtant bel et bien
ici. Ici, dans le regard du réalisateur porté sur ces personnages…
…Il film è interamente misurato su
Skarsgård e la sceneggiatura finisce con l'essere più un buon lavoro di
"sartoria" condotto sul suo sguardo freddo ma stralunato, sulla sua
corporatura grossa ma gioviale, sul suo modo di fare gentile e assieme rozzo,
che una raffinata operazione di scrittura. L'assunto iniziale è curioso: la
provincia di Oslo è un pianeta sporco e freddo apparentemente disabitato, dove
gli unici esempi di uomini sono dei gangster cialtroni, dei meccanici verbosi,
dei mariti violenti o dei lapponi che trafficano in armi. E dove anche quelli
più apparentemente perfetti si trovano a pesca nel vero momento del bisogno.
Solo Ulrik pare essere l'uomo giusto al momento giusto, quello in gradi
soddisfare le esigenze e i problemi delle signore, e la sua uscita di galera
pare l'unico evento concepibile all'interno di un tale tipo di contesto.
A volersi divertire a fare della sociologia spicciola, si potrebbe provare a indagare in sottotesto gli ideali di una società fortemente paritaria come quella scandinava, dove quella che ancora ci ostiniamo a chiamare "crisi del maschio" non è vissuta come un problema, e dove l'uomo "che non deve chiedere mai" degli spot commerciali ha da tempo abdicato all'uomo "che non deve rifiutarsi mai". Ma si darebbe troppa importanza ad un film che non si vergogna a giocare con un umorismo grottesco piuttosto facile e schematico, ben coordinato ma facilmente caricaturale. Avere un grande protagonista è già da sé un grande valore aggiunto. Per tutto il resto, basta cucirgli addosso l'abito adatto a risolvere ogni situazione e a trovare il lieto fine senza spendere troppo.
A volersi divertire a fare della sociologia spicciola, si potrebbe provare a indagare in sottotesto gli ideali di una società fortemente paritaria come quella scandinava, dove quella che ancora ci ostiniamo a chiamare "crisi del maschio" non è vissuta come un problema, e dove l'uomo "che non deve chiedere mai" degli spot commerciali ha da tempo abdicato all'uomo "che non deve rifiutarsi mai". Ma si darebbe troppa importanza ad un film che non si vergogna a giocare con un umorismo grottesco piuttosto facile e schematico, ben coordinato ma facilmente caricaturale. Avere un grande protagonista è già da sé un grande valore aggiunto. Per tutto il resto, basta cucirgli addosso l'abito adatto a risolvere ogni situazione e a trovare il lieto fine senza spendere troppo.
mercoledì 28 giugno 2017
Civiltà perduta (The lost city of Z) - James Gray
Percy Fawcett non è un'esploratore che vuole conquistare, vincere, uccidere, vuole solo trovare una città dimenticata nella giungla.
è un esploratore "buono", non vuole esportare il suo british way of life, non è un disperato senza famiglia, che si butta nella foresta per dimenticare.
e non è neanche fortunato, la città, forse, non la trova, o forse sì, ma noi non lo sapremo.
e però nella sua ricerca è felice, è la sua ragione di vita, ha un nome da riabilitare, una famiglia che gli vuole bene, una moglie straordinaria e paziente, erede di Penelope.
il film è una sorpresa, James Gray ne fa pochi e buoni.
e come resistere a un viaggio nella foresta amazzonica, senza le zanzare, seduti in una sala climatizzata?
buona visione - Ismaele
…Le
armi e le potenzialità del cinema allora per Gray sopravvivono davvero come
interruzione, digressione, lato oscuro della luna (matter of fact it’s all dark),
isola non trovata ma bella più di tutte,
che aumenta familiarità e riconoscibilità proprio rimettendo in circolo canoni,
immaginari, stili e riferimenti (d’accordo
Coppola, ma l’apertura è innegabilmente ciminiana, e in ogni caso la
cocciutaggine del progetto, totalmente impossibile da veicolare sul mercato,
ancora una volta accomuna Gray a questi due autori-suicida di film che non
sembrano volersi mai chiudere, assumere una forma definitiva: anche di Civiltà perduta percepisci in
ogni istante la possibilità di mille montaggi alternativi, director’s cut con scene diverse, tagliate aggiunte o
allungate…). Con l’intento lucidissimo di riaffermare “siamo giàstati qui”, qualcuno ci è già passato.
Amare il cinema di James Gray significa perciò condividere con lui e con i suoi personaggi la luce incommensurabile e indescrivibile che ti colpisce ogni volta che ti rendi di nuovo conto che l’entrata per un giro alla ricerca della Citta’ di Z è sempre aperta, ancora li, davanti (e dentro) ai nostri occhi. Farsi divorare dal sogno, per essere liberati dalla condanna.
Amare il cinema di James Gray significa perciò condividere con lui e con i suoi personaggi la luce incommensurabile e indescrivibile che ti colpisce ogni volta che ti rendi di nuovo conto che l’entrata per un giro alla ricerca della Citta’ di Z è sempre aperta, ancora li, davanti (e dentro) ai nostri occhi. Farsi divorare dal sogno, per essere liberati dalla condanna.
Lo strano caso di James Gray. Che, dopo i primi quattro
(bellissimi) film molto contemporanei e un filo autobiografici su immigrati
ebrei (e irlandesi) negli States, con C’era una volta a New York ha
cambiato radicalmente cinema, occupandosi ancora di immigrazione, ma in forma
di period movie e melodramma. Adesso un altro film nel e sul passato, con
sontuosità di scenografia e costumi e neanche più il tema dell’emigrazione a
collegarlo ai suoi precedenti. Un’altra cosa, un altro film, davvero un altro
cinema. Anche parecchio convenzionale, con militari in alta uniforme ai
ricevimenti, cottage anzi castelli nel countryside, interni maestosi di
ministeri e altre reali istituzioni tra Otto e Novecento inglese. Che non lo si
riconosce più, il rigoroso Gray delle tormentate famiglie askenazite. Ma perché
mai avrà accettato di girare questo The Lost City of Z -
tale il titolo originale -, certo
tratto da una biografia diventata bestseller, certo prodotto dalla Plan B di
Brad Pitt, ma così inesorabilmente medio-mainstream? Un’avventura amazzonica
con delirio del suo protagonista, che sarebbe anche di molto fascino se non ci
fossero già certi indimenticabili Herzog, intendo Aguirre e Fitzcarraldo. Un
paio di anni fa s’è poi visto ai festival e anche in qualche sala nostra il
notevole El Abrazo de la Serpiente, di cui
par di rivedere molti passaggi in Civiltà perduta. E
dal confronto Gray esce stritolato…
…James
Gray riempie la sua opera, il parallelo tra la sua perseveranza
e la missione di una vita di Fawcett è quanto mai prossima, dall’inizio alla
fine.
Scandendo un processo a fasi, tra andate e ritorni, addii e
ricongiungimenti, cavalca ellissi necessarie (non occorre ogni volta
ripresentare i pezzi precedenti, i vari viaggi è come se fossero un tutt’uno),
rendendo vivo lo spirito di esplorazione, mentre il fascino della (possibile)
scoperta è quanto mai scardinante.
Tra uomo e natura, progresso e civiltà perdute, o meglio
sconosciute, la composta eleganza delle vita occidentale e culture tutte da
scoprire, l’arroganza dettata dal principio di superiorità insito nell’uomo
bianco, verso i selvaggi ma anche le donne, Civiltà perduta trabocca, rendendo piena
giustizia alla macchina dei sogni che è (dovrebbe essere) il cinema, oggigiorno
sempre più ancorata in un porto sicuro, che è sinonimo di ripetitività.
Così, James Gray apre una vorticosa finestra sul passato e
portali verso un futuro, di finzione e reale (un cinema che punta ad allargare
i propri confini e un mondo che guarda avanti per la gioia di apprendere), che
rimane una chimera.
Difatti, le tematiche presenti colmano oceani di vuoto e
vengono chiarite senza eccessi, tra il (secondario) prestigio, le difficoltà
fisiche e mentali che servono per arrivare al traguardo, la necessità di
conoscenza che sopravanza il desiderio di conquista, lasciando alle spalle la
sicurezza per trovare chissà cosa (con pericoli insediati ovunque), con il
conseguente gusto di vedere qualcosa di immacolato, un avvicinamento alla morte
per vedere meglio la vita, tutto questo sempre facendo ricorso a una dialettica
che dosa le parole, rimanendo comunque chiarificatrice (non c’è niente di
oscuro, mentre tanto è primordiale e qualcosa mistico)…
…Gray si fa coinvolgere e coinvolge lo
spettatore nella 'folle' ricerca di un uomo che riesce a convincere altri ad
accompagnarlo trasformando anche una profonda ostilità che gli proviene
dall'ambito familiare. Questo non significa per lui sottrarsi ai doveri imposti
dalla Storia. Così la scena più significativa del film finisce con il divenire
quella in cui lo si vede al comando di un plotone nelle trincee della Prima
Guerra Mondiale. Dinanzi alla follia devastatrice del conflitto la sua ricerca
si fa rileggere come la razionalità di chi vuole riportare alla luce ciò che
un'antica civiltà ha voluto non distruggere ma costruire.
…Il cuore del film non è tanto il sogno di gloria (o di
riabilitazione del proprio nome) del protagonista, ma quanto tale realizzazione
possa pesare sul rapporto con la moglie e i figli, i quali hanno dovuto fare i
conti con un marito e un padre che li ha spesso abbandonati per le sue
esplorazioni (in particolare la moglie Nina e il figlio maggiore Jack esternano
il loro dissenso, la moglie pur non facendo venir mai meno il suo appoggio, il
giovanotto esprimendo così anche la sua opposizione a questo padre al tempo
stesso impegnativo e sfuggente). Ancora una volta la figura centrale nel cinema
di Gray è divisa fra gli affetti e le proprie ambizioni e se nelle precedenti
pellicole erano queste ultime spesso a doverne fare le spese, stavolta forse
c'è una variazione positiva, visto che la famiglia Fawcett comprende quanto
importanti siano i viaggi e le ricerche per il proprio caro e si comporta di
conseguenza; nei film di Gray i protagonisti normalmente scelgono di optare per
la risoluzione dei contrasti, però stavolta il tutto avviene senza che il personaggio
principale debba rinunciare ai propri obiettivi (rinuncia, sì, alla felicità
domestica ma ovviamente questa per lui sarebbe stata comunque una scelta
sacrificata, come si capisce dalla scena in cui un mesto Fawcett dichiara ad un
giornalista americano di apprezzare la vita domestica). In questo la decisione
di Jack di unirsi al padre nel suo ultimo viaggio, lo struggente ma asciutto
addio fra Percy e il secondogenito Brian e il bellissimo finale, fra sogno e
realtà, in cui Nina idealmente raggiunge i propri cari nella giungla (mi è
stato fatto notare come in effetti il bravo Gray diventi grande nel concludere
i propri film) sono i tre momenti chiave di "Civiltà perduta", dai
quali si può capire come, nonostante il triste destino dei protagonisti, l'opera
sia meno negativa dei precedenti film del regista (perché neanche la
risoluzione dolce-amara di Two Lovers
faceva eccezione fino in fondo)…
…Civiltà perduta è un blockbuster
d’altri tempi. Due ore e venti minuti, ma sarebbero potute essere tre, anche
quattro. Non ci stupirebbe una director’s cut. Un’altra follia. La giungla, i
confini inesplorati, perdersi nuovamente. Civiltà perduta è una storia
infinita, un eterno ritorno. Ce lo dice la macrosequenza a cavallo tra la
guerra e il nuovo viaggio, quasi una fase di stanca, una impasse. Impossibile
stare lontani dalla giungla, impossibile non tornare. Anche con la mente: alla
giungla, alla fotografia di Darius Khondji, a questo cinema anche imperfetto,
forse incompleto, ma dannatamente vivo. Il cuore è nella giungla.
martedì 27 giugno 2017
lunedì 26 giugno 2017
In ordine di sparizione (Kraftidioten) - Hans Petter Moland
un film
di vendetta che cresce fino a cambiare il traffico di droga della capitale.
personaggi
caricaturali come il boss della droga vegano, ma tutti sono azzeccati, e sopra
tutti Stellan Skarsgard, semplicemente
strepitoso.
non sarà un capolavoro, ma si fa vedere davvero bene, non
privatevene - Ismaele
…quello che troviamo vincente è la macchina registica e
autoriale di Hans Petter Moland e del suo sceneggiatore, che dimostrano grande
maestria e una bella originalità da thriller tarantiniano di serie A, offrendo
ai loro due straordinari interpreti la possibilità di costruire personaggi
indimenticabili. Da non perdere.
Bellissimo! Un thrillerone condito da un filo di humour nero,
che da un po' di nuova linfa vitale al cinema in generale. Scommetto che
diverrà ben presto un cult negli anni a venire. Secondo me, il cinema
scandinavo sarebbe un ottimo punto di ripartenza per la settima arte, visto che
diverse pellicole di questa zona, sono quelle che hanno avuto più successo
negli ultimi anni. Questo film, si avvale molto dell'influenza di vari artisti,
quali Tarantino, vedi la violenza pulp o dialoghi molto ironici, ed anche i
Cohen, per via della storia violenta con alla base la vendetta e, anche in
questo caso, i dialoghi graffianti. La vicenda si svolge in luogo meraviglioso,
una delle ambientazioni cinematografiche più belle di sempre, e viene
tramandato proprio il messaggio che fa intendere che anche nella neve più
candida e soffice si nasconde sempre il marcio e il male, dove tu non
penseresti mai. Ora in realtà questo messaggio l'ho intuito io, non so se c'era
veramente, ma ad ogni modo è di forte impatto. La regia, si capisce subito che
non è americana, non c'è esattamente un perchè, si capisce e basta. E che
regia! Bella solida, dettagliata, riprese pazzesche ed altrettanto pazzesche le
diverse scene di violenza nella neve. Poi c'è suspance, il ritmo è scorrevole,
la storia si fa fin da subito avvincente e non ha mai fasi di stallo o
quant'altro. Poi ho trovato una magistrale direzione degli attori, incredibile,
e poi anche una grandissima caratterizzazione dei personaggi. Ambientazione
valorizzata al massimo, è una parte fondamentale. Si alterna benissimo
l'elemento thriller con la commedia nera, stile "Le Iene" e
"Pulp Fiction". Ottima la narrazione della storia, lavoro
eccezionale, non c'è che dire. Ah, la fotografia è anch'essa fantastica, molto
suggestiva. Si sposa perfettamente col bianco della neve. Gran colonna sonora e
montaggio davvero forte e originale. Alla sceneggiatura manca qualcosa invece,
delle cose vengono un po' tralasciate per strada. In compenso però i dialoghi
sono epici. Il finale è stupendo anche se un tantino americano, mentre
l'ultimissima scena è di una genialità unica. Il cast è eccezionale: Skarsgard
è pazzesco, mentre Ganz e Hagen fanno a chi a gara a chi è più bravo. Ma
Skarsgard è un'altra cosa. In fin dei conti è un rape & revenge, ma non è
il solito film di questo filone. Ultima cosa, da notare l'evolversi della trama
che all'inizio sembra molto semplice, mentre dopo è molto più intricata.
…Kraftidioten si muove su una linea di confine portata
all’estremo: riprese insistite, che durano troppo rispetto alla necessità
narrativa, innesti fuori luogo, svolte improbabili (il bambino che si avvicina
al rapitore, saturazione del vuoto paterno: «La conosci la sindrome di
Stoccolma?»), elementi dissonanti che mettono il senso in discussione. Non solo
grottesco, dunque: c’è un dubbio perenne fra due poli, un equilibrio tra farsa
e dramma, con la prima che sembra prevalere salvo poi deviare all’improvviso e
mostrare sofferenza vera.
Il gioco si esaurisce presto, la successione degli eventi è elementare fin quasi all’offensivo, tra mafie incrociate e rese dei conti, il meccanismo di genere viene meramente applicato senza intervento del “demiurgo”. Anche così - però - grazie alla prova ambigua di tutti gli attori (un bifronte Skarsgård, ma anche la dimessa violenza di Bruno Ganz) resta parzialmente dislocante, senza etichetta, in bilico fra registri come ragione del suo essere.
Il gioco si esaurisce presto, la successione degli eventi è elementare fin quasi all’offensivo, tra mafie incrociate e rese dei conti, il meccanismo di genere viene meramente applicato senza intervento del “demiurgo”. Anche così - però - grazie alla prova ambigua di tutti gli attori (un bifronte Skarsgård, ma anche la dimessa violenza di Bruno Ganz) resta parzialmente dislocante, senza etichetta, in bilico fra registri come ragione del suo essere.
…Con tutto il bene che vogliamo a Dickman, alla sua eroica
vendetta, bisogna però riconoscere che la parte spassosa del film la giocano i
cattivi. La sceneggiatura alterna la sofferenza di Nils all'ironia e comicità
delle due bande criminali, con dialoghi e battute memorabili. Particolare
attenzione al dialogo fra due scagnozzi del Conte che discutono di welfare e
tirano in ballo anche l'Italia. Tra le tante battute ben riuscite - e ben
dosate - cito quella con cui Il Conte congeda il killer che gli ha appena
riferito il nome del mandante in cambio di una somma di denaro: "Sei stato
pagato da un cittadino norvegese". E questo basta e avanza per toglierlo
di mezzo (Il Conte sarebbe un ottimo testimonial dell'agenzia delle entrate).
Dickman, come detto, è il padre violato, l'uomo comune che
diventa eroe. Non c'è spazio per scherzare, ma ci sono tutti i presupposti per
dissetarsi di pulp ed epos, e amalgamarli in una favola moderna. Al posto della
neve il sangue schizza sul vetro della camera, mentre un dente si ferma poco
prima. Si fronteggiano il fuoristrada e lo spazzaneve nuovo fiammante di ultima
generazione, una specie di mostro alla "Brivido" di King, da cui Nils
salta fuori al rallentatore atterrando con un tonfo sulla neve fresca. Sullo
sfondo s'intravede persino la luna. Ma niente in confronto alla
sparatoria "salmoni-western" in giacca e cravatta (a eccezione del
buon Dickman, sempre in tiro coi soliti pantaloni da lavoro catarifrangenti)
che chiude definitivamente il conto fra norvegesi e serbi. Proprio un
gran finale con tutti i crismi, che non si priva nemmeno del "codino"
catartico e nonsense: che piaccia oppure no, ha il merito di troncare sul
nascere eventuali trascendenti voli interpretativi.
…Guardando apertamente al cinema dei
fratelli Coen (da Fargo a Burn After
Reading) Moland unisce con coerenza la commedia demenziale al nero più
sanguinoso, divertendosi a caratterizzare una folle e violenta serie di
personaggi, tra cui spiccano un tradizionalista boss serbo (un Bruno Ganz in
forma) e il vanesio e vegano kingpin della criminalità norvegese. Dello stesso stile derivativo è
anche l'attenta scrittura, riuscita sia per sviluppo narrativo (semplice ed
efficace) sia per dialoghi (le riflessioni sugli stupidi "alias" dei
gangster), dimostrando anche un'attenzione ammirevole per la narrazione. Forse
Moland si fa prendere troppo spesso la mano con esagerazioni e ripetizioni un
po’ ridondanti. Sono i rischi del mestiere quando si cerca di essere spietati
senza mai prendersi sul serio.
domenica 25 giugno 2017
sabato 24 giugno 2017
I’m not your negro - Raoul Peck
peccato che il film non sia passato nelle sale, o magari solo un giorno, e allora ho comprato il dvd.
la spesa è stata ricompensata abbondantemente dalla visione del film, un tuffo in quegli anni straordinari, nei quali James Baldwin è stato un protagonista.
se mi chiedono di trovare uno come James Baldwin in Italia mi viene in mente Pier Paolo Pasolini, una specie di grillo parlante nella terra degli ignoranti, dei ciechi e dei farisei.
è difficile capire bene tutto quello che ha detto James Baldwin se uno non è mai stato nelle scarpe e nella pelle di un nero, razzismo, segregazione, violenza erano, e sono, incubi della vita di tutti i giorni, nel paese più ricco e potente del mondo.
guardati questo film, e poi non potrai non voler bene a James Baldwin; se non succedesse hai qualche problema, sappilo - Ismaele
la spesa è stata ricompensata abbondantemente dalla visione del film, un tuffo in quegli anni straordinari, nei quali James Baldwin è stato un protagonista.
se mi chiedono di trovare uno come James Baldwin in Italia mi viene in mente Pier Paolo Pasolini, una specie di grillo parlante nella terra degli ignoranti, dei ciechi e dei farisei.
è difficile capire bene tutto quello che ha detto James Baldwin se uno non è mai stato nelle scarpe e nella pelle di un nero, razzismo, segregazione, violenza erano, e sono, incubi della vita di tutti i giorni, nel paese più ricco e potente del mondo.
guardati questo film, e poi non potrai non voler bene a James Baldwin; se non succedesse hai qualche problema, sappilo - Ismaele
…I am not your Negro riesce
quindi ad imbarazzare anche noi, abitanti di un Vecchio Continente sempre più
acciaccato e in preda ad ancestrali paure, che non sa fare i conti con il suo
retaggio, che dipende da un’economia impazzita e che non si decide a diventare
grande. I am not your Negro non è un banale documentario, non è
un manifesto, non è un noioso collage di vecchi filmini. E’ la lucida
radiografia di una cultura incline all’emarginazione e al razzismo, è
un piccolo gioiello che stimola il senso critico degli spettatori come non si
vedeva da molto – molto – tempo. Baldwin è da leggere. Il film
di Peck da vedere e rivedere.
…Partendo dalle apparizioni dello stesso Baldwin
in diversi tv show americani e in alcune lezioni universitarie, il materiale
selezionato e montato dal regista si arricchisce di un collage di sequenze
cinematografiche estratte da i film che - nel bene o nel male - hanno forgiato
l'immaginario collettivo dell'identità dei "blacks", anzi, dei
"negri" ricordando la radice etimologica del termine "nero"
riferita alle tenebre, alla morte. "Io stesso fin da piccolo - ricorda
Baldwin letto da S. L. Jackson -
ero talmente invaso da immagini di bianchi che uccidono gli indiani nei Western
da rendermi conto che come 'nigger' ero l'indiano della situazione, il diverso,
il nemico".
Inedita quanto importantissima, la quest di Raoul Peck ereditata dal suo mentore è proprio relativa all'identità dell'essere nero, travisata dalla Storia raccontata dai vincitori. Già, perché, ricorda sempre Baldwin, "Il mondo non è bianco, né lo é mai stato. Bianco è solo il colore del potere". Lo spunto storico dei ragionamenti contenuti in "Remember this House" furono le vite e le morti (per omicidio) dei tre grandi leader della battaglia per la parità dei neri, diversamente manifestata in Medgar Evers, Malcom X, e Martin Luther King. Le tre figure emblematiche servono da fili conduttori cronografici ma anche emblematici di un agire differente rispetto a cause pressoché uguali.
Inedita quanto importantissima, la quest di Raoul Peck ereditata dal suo mentore è proprio relativa all'identità dell'essere nero, travisata dalla Storia raccontata dai vincitori. Già, perché, ricorda sempre Baldwin, "Il mondo non è bianco, né lo é mai stato. Bianco è solo il colore del potere". Lo spunto storico dei ragionamenti contenuti in "Remember this House" furono le vite e le morti (per omicidio) dei tre grandi leader della battaglia per la parità dei neri, diversamente manifestata in Medgar Evers, Malcom X, e Martin Luther King. Le tre figure emblematiche servono da fili conduttori cronografici ma anche emblematici di un agire differente rispetto a cause pressoché uguali.
…Este
documental está escrito por el propio Baldwin, dado que la integridad del texto
narrado impecablemente por Samuel L. Jackson pertenece a una ambiciosa obra
inacabada. ¿La temática? La premisa narrativa-discursiva es, como dice el
poema, “muy compleja y muy sencilla”: el racismo en Estados Unidos; tal
ambición, estructurada en tres partes, asoma sin la grandilocuencia del tratado
histórico, sin la trivialidad del reportaje de investigación televisivo ni,
mucho menos, algo parecido al biopic. La metodología de lo fílmico aúna dos
propuestas a priori contradictorias: El montaje, por una parte —y ya desde los
títulos de crédito, donde ni siquiera la tipografía escogida es accidental— irrumpe
como una piedra contra un ventanal, con la contundencia que merece la seriedad
de la denuncia. Un planteamiento muy dinámico, directo y conciso, reforzado con
la inclusión de fotografías de archivo y fragmentos de videos de una violencia
tan explícita como real y cotidiana. Cuesta enormemente observar su crudeza,
pues esto supone mirarse al espejo y hacer una suerte de reconfiguración.
Recuérdese que nosotros, los occidentales, somos en cierta medida un producto
más de la influencia sociocultural de los Estados Unidos. Empero, por otra
parte, la suavidad con la voz de Jackson y, sobre todo, por el contenido de sus
palabras: el lirismo arrollador, palabras de una sobrecogedora belleza que
tiñen todo el conjunto de una melancolía y una rabia tremendas…
…la
Academia y el Arte continúan siendo trincheras desde donde la militancia se puede
ejercer sin tanto riesgo, veladamente incluso. Para la mayoría de nosotros,
quienes vemos y escribimos sobre películas, vivir es todavía una opción. Pero
el tiempo se agota y la seguridad tal vez degenere en complicidad. Baldwin/Peck
pueden ser testigos, pero no hay que olvidar que un testigo, etimológicamente,
es también un mártir. De lo contrario, sólo somos espectadores. Y de
espectadores están llenas las salas de cine que, sobra decirlo, son cada vez
más cómodas.
…Sarebbe un’occasione persa
se non arrivassimo a capire che il messaggio di Baldwin riguarda da vicino
anche noi italiani e italiane, non solo perché lo scrittore nel film cita
l’Italia coloniale e l’invasione da parte dell’Italia fascista dell’Etiopia nel
1936, ma soprattutto perché in una frase chiave del film solleva il problema
dei rapporti fra lo Stato e alcuni strati della società, ai quali vengono
tuttora negati diritti fondamentali. Baldwin dice: «È un grande trauma scoprire
che il Paese in cui si è nati, a cui si devono la vita e la propria identità,
non abbia creato un posto per noi nel suo sistema di realtà». Sarebbe bello se
ognuno degli spettatori e delle spettatrici uscisse dalla fine del film
adottando una frase di Baldwin, chiedendosi come usarla per capire e
contribuire a cambiare l’Italia di oggi, e lo scrivo senza scorciatoie, perché
so benissimo che l’Italia non sono gli Stati Uniti e ogni operazione del genere
presuppone un processo di traduzione culturale. Come non sentire questa frase
molto vicina ad almeno un milione di ragazzi, italiane e italiani senza
cittadinanza, che aspettano da oltre un anno e mezzo l’approvazione di una
legge di riforma della cittadinanza, approvata alla Camera nell’ottobre 2015 e
ferma per oltre ottomila emendamenti della Lega e un atteggiamento tiepido
della maggioranza. Non è più tempo di alibi. Questo paese e il suo parlamento è
chiamato a dire oggi, una volta per tutte, se nel suo sistema di realtà vuole
creare un posto per italiane e italiani nati e cresciuti qui ma di origine
straniera oppure no…
venerdì 23 giugno 2017
giovedì 22 giugno 2017
Gesù Cristo (monologo completo) - Klaus Kinski
mercoledì 21 giugno 2017
martedì 20 giugno 2017
lunedì 19 giugno 2017
La santa – Cosimo Alemà
le rapine e i furti andati male sono sempre affascinanti;
fra i film italiani di un po' di tempo fa mi vengono in mente La lingua del santo, di Mazzacurati, e il semisconosciuto, ma bellissimo, Qui non è il paradiso, di Tavarelli (con un eccezionale Fabrizio Gifuni), entrambi del 2000.
a Specchia, paesino dov'è girato il film, un posto da consigliare ai peggiori nemici, si apre la caccia, degna dei peggiori incubi e abissi dell'animo umano.
un colpo da niente, sicuro, fa scattare una trappola, e la scena dei lenzuoli è davvero terribile.
molte scene sono straordinarie, una su tutte la lezione del bandito con la pistola alle ragazze, una lezione di libertà che le ragazze non dimenticheranno mai più, ne sono sicuro.
non sarà un capolavoro, ma è un film davvero grande, ti affezioni ai ladri, forse fra gli ultimi umani.
non fatevelo scappare, si può vedere qui - Ismaele
fra i film italiani di un po' di tempo fa mi vengono in mente La lingua del santo, di Mazzacurati, e il semisconosciuto, ma bellissimo, Qui non è il paradiso, di Tavarelli (con un eccezionale Fabrizio Gifuni), entrambi del 2000.
a Specchia, paesino dov'è girato il film, un posto da consigliare ai peggiori nemici, si apre la caccia, degna dei peggiori incubi e abissi dell'animo umano.
un colpo da niente, sicuro, fa scattare una trappola, e la scena dei lenzuoli è davvero terribile.
molte scene sono straordinarie, una su tutte la lezione del bandito con la pistola alle ragazze, una lezione di libertà che le ragazze non dimenticheranno mai più, ne sono sicuro.
non sarà un capolavoro, ma è un film davvero grande, ti affezioni ai ladri, forse fra gli ultimi umani.
non fatevelo scappare, si può vedere qui - Ismaele
…C'è qualcosa di Calvaire in questo piccolo bellissimo film, più di
qualcosa di Padroni di casa, tantissimo dello splendido La Zona.
Ma le riflessioni di Alemà sulla piccola comunità non si fermano qua.
Perchè è forse ancora più forte il pensiero sulla religiosità ottundente,
quella che fa vedere il semplice furto di una statua come un motivo per
uccidere ("non uccidere" sarebbe un comandamento, ricordiamolo),
quella per cui l'ubriacatura religiosa, il conoscere soltanto quella realtà,
può portare delle ragazze a privarsi persino di conoscere il proprio corpo, le
proprie pulsioni.
Ma che bella la scena in chiesa, che bella.
In questa cornice di devastante ristrettezza mentale i 4 ladri si ritrovano
ad esser braccati.
Del resto anche At the end of the day parlava di una caccia.
Non si può uscire da quel paese, come il giovane ragazzo non poteva uscire
dalla Zona.
Non resta che dividersi e sperare in non so cosa.
Comincia così un film a 4 personaggi distaccati, ognuno con la propria fuga,
le proprie vicende.
E Alemà ne approfitta per colorare il suo film (girato benissimo, recitato
perfettamente e con un uso degli spazi e dei luoghi mirabile) di mille cose
diverse.
Ogni scena una sfumatura diversa, adesso una fuga, adesso la tensione del
nascondersi, adesso spruzzate di vita pugliese al limite del divertente, come
tutte le scene nella casa della carnosissima ragazza (con quella radio che
inneggia al trovare i colpevoli del furto) o quella del panettiere.
Alemà unisce il folklore, il crime, l'analisi sociale e, incredibilmente,
riesce persino, in solo un'ora e venti, a date una tridimensionalità ai suoi
personaggi quasi miracolosa.
Tutti e 4 i banditi diventano personaggi a tutto tondo, complessi,
empatici, fatti e finiti.
Specialmente il fratello piccolo risulta quasi tragico, lui con la sua
scarsa intelligenza, la sua bontà, la sua paura, anche sessuale.
Quel palpare quegli immensi seni alla donna svenuta non è scena comica,
tutt'altro.
Sarò esagerato, ma c'è tenerezza, c'è profondità nei personaggi di Alemà.
Intendiamoci, a livello di plot c'è da storcere il naso più volte. La
storia delle due donne che si mischia alla loro non sarebbe nemmeno quotata dai
bookmakers, quello che i paesani fanno per vendicarsi è qualcosa che non
potrebbe mai accadere, alcune fughe son gestite male (come quella, bellissima,
tra gli olivi, prima venti persone dietro poi più nessuno).
Ma questo è uno di quei film che non vuole avere meccanismi perfetti perchè
racconta di cose al di là del plot.
…Avevo voglia di vedere un bel film come questo, me ne
sono accorta nel momento che lo vedevo. Avevo dato per scontato certe emozioni
soltanto rivedendo i vecchi film di Bava (“Cani arrabbiati” rimane per me il
capolavoro capostipite di un certo genere), ma oggi con questo “La santa” ho
avuto una rivelazione, terrò d'occhio Cosimo Alemà, questo è il cinema italiano
che piace a me, che spero di vedere sempre più spesso, che consiglio a tutti.
Note personali: ho visto il film casualmente, mi ispirava, “mi ha chiamato” e io ci credo a queste combinazioni. Mentre lo vedevo pregavo che non peggiorasse, che non avesse dato tutto nella prima mezz'ora (e già si sarebbe beccato un 4 pallucce lo stesso), mi sono ritrovata alla fine in piedi, davanti allo schermo, con le mani al petto che dicevo “che spettacolo”, questa opinione mi era necessaria per far uscire tutta questa emozione arrivata così inaspettatamente.
Note personali: ho visto il film casualmente, mi ispirava, “mi ha chiamato” e io ci credo a queste combinazioni. Mentre lo vedevo pregavo che non peggiorasse, che non avesse dato tutto nella prima mezz'ora (e già si sarebbe beccato un 4 pallucce lo stesso), mi sono ritrovata alla fine in piedi, davanti allo schermo, con le mani al petto che dicevo “che spettacolo”, questa opinione mi era necessaria per far uscire tutta questa emozione arrivata così inaspettatamente.
…La santa merita il nostro tempo, specie se siamo
tra coloro che si lamentano della mancanza di varietà sul mercato nazionale o
dell’ingenuità di buona parte delle produzioni indipendenti. Quindi se tu,
spettatore, rifiuti di cercare, vedere e diffondere un lavoro valido come il
film di Alemà, non hai più diritto di addossare le colpe di tutto a produttori
e registi, perché sarà per gente come te se io un giorno dovrò recensire Amici di Maria De Filippi - Il film.
domenica 18 giugno 2017
Loreak (Flores) - Jose Mari Goenaga, Jon Garaño
vite di persone sole che si incrociano, a volte, o almeno se ne ha l'impressione.
non succedono molte cose, ma ci sono diversi colpi di scena, passa il tempo, piccoli spostamenti delle anime, è la vita, che dura poco, e si spreca molto, ma non lo si pensa, prima.
un piccolo film basco che tutti possono capire (coi sottotitoli adatti, naturalmente), un gioiellino non adatto per chi vuole evadere e ridere.
merita davvero - Ismaele
non succedono molte cose, ma ci sono diversi colpi di scena, passa il tempo, piccoli spostamenti delle anime, è la vita, che dura poco, e si spreca molto, ma non lo si pensa, prima.
un piccolo film basco che tutti possono capire (coi sottotitoli adatti, naturalmente), un gioiellino non adatto per chi vuole evadere e ridere.
merita davvero - Ismaele
'Loreak
(Flores)' son mujeres con dudas, con necesidades, con anhelos y penas, cuyos
caminos se entrecruzan por la ausencia de un hombre que ninguna de las tres
conocía realmente. Unas mujeres que buscaran en su interior para crecer con el
agua de sus lágrimas y hacerse fuertes en el invierno de sus vidas. La
película, sin embargo, se queda a medio camino de sus intenciones y una
excesiva frialdad escénica hace que la emoción no traspase la pantalla.
…Crónica
de unas existencias anodinas, rutinarias, sin horizonte, pero que tienen un
misterio que las convierte en relevantes por un instante. El azar, el cuchillo
de la muerte, como el de la sala de autopsia o la de disección, acaba por
apagar sentimientos y recuerdos que el destino había sacado de la monotonía
cotidiana. La misma Ane, la esposa burlada o la suegra gruñona acaban por borrar
de su conciencia lo que fue un accidente, tan sólo un accidente… ¿o no? De
cualquier modo, el olvido es la muerte segunda y definitiva. Al final, todo es
efímero y acaba en el desván de la indiferencia.
La
realización de este tándem, Garaño y Goenaga, es de una rara, rica y –en
apariencia, sólo en apariencia– modesta delicadeza. Se conjugan una gran
variedad de recursos estilísticos, desde cadenciosos trávelins hasta fundidos
encadenados (con una propiedad que casi no se ve hoy), desde encuadres rotundos
hasta planos enfáticos. Utilizan símbolos sencillos (flores, oveja…) a los que
se carga, a la vez, de significado y misterio, como debe ser. También el tiempo
narrativo está cuidado con tino. La música de Pascal Gaigne, extraordinaria,
contribuye decisivamente a crear esa atmósfera, al mismo tiempo, fatalista y
mágica, que ayuda a comprender el drama del amor no correspondido y del desamor
que lo corroe todo, de la felicidad quebradiza o nunca encontrada, del fúnebre
montón de cenizas en que acaba todo…
…Loreak è film di atmosfere, privo di qualsiasi
groviglio narrativo, storia che scruta la reazione alla morte e all’abbandono
da parte di chi è privato di una presenza più o meno tangibile: sotto questo
aspetto la pellicola funziona bene, il senso di morte e di separazione e la
forza della memoria aleggiano costantemente, il sottile gioco che si crea
intorno ai personaggi, seppur semplice, riesce a tenere insieme il racconto
evitando derive pericolose thrilleristiche o funerarie e i personaggi , sebbene
lasciati a se stessi, hanno la giusta profondità.
da quisabato 17 giugno 2017
Men of Crisis: The Harvey Wallinger Story - Woody Allen
fai clic su CC per attivare i sottotitoli in italiano
Killer of Sheep – Charles Burnett
film di fine corso della scuola di cinema di Charles Burnett è un film neorealista, girato a Los Angeles, quartiere di Watts, nel 1986.
Stan, lavoratore dei più umili, al mattatoio (da qui il titolo), vive una vita difficile, la moglie che gli sta affianco, attenta e stanca, i figli da tirare su, qualche lavoretto a casa, o fuori, qualche conoscente che lo vuole per una rapina, tutto in un bianco e nero bellissimo, il difficile mestiere di vivere di Stan e della famiglia.
film amato da Roger Ebert, e non solo, anch'io mi aggiungo alla folta schiera degli estimatori.
appena lo vedrete vi aggiungerete anche voi, sono sicuro.
buona visione - Ismaele
Stan, lavoratore dei più umili, al mattatoio (da qui il titolo), vive una vita difficile, la moglie che gli sta affianco, attenta e stanca, i figli da tirare su, qualche lavoretto a casa, o fuori, qualche conoscente che lo vuole per una rapina, tutto in un bianco e nero bellissimo, il difficile mestiere di vivere di Stan e della famiglia.
film amato da Roger Ebert, e non solo, anch'io mi aggiungo alla folta schiera degli estimatori.
appena lo vedrete vi aggiungerete anche voi, sono sicuro.
buona visione - Ismaele
…You have to be prepared to see a film
like this, or able to relax and allow it to unfold. It doesn't come, as most
films do, with built-in instructions about how to view it. One scene follows
another with no apparent pattern, reflecting how the lives of its family
combine endless routine with the interruptions of random events. The day they
all pile into a car to go to the races, for example, a lesser film would have
had them winning or losing. In this film, they have a flat tire, and no spare.
Thus does poverty become your companion on every journey.
The lives of the adults are intercut with
shots of the children at play. One brilliant sequence shows a kid's head
darting out from behind a plywood shield -- once, twice, six times. The camera
pulls back to show that two groups of kids are playing at war in a
rubbish-strewn wasteland, throwing rocks at one another from behind barriers. A
boy gets hit and bleeds and cries. The others forget war and gather around.
He's not too badly hurt, and so they idly drift over to railroad tracks and
throw rocks at a passing train. All of the scenes of children at play were
unrehearsed; Burnett just filmed them…
…What he
captures above all in "Killer of Sheep" is the deadening ennui of
hot, empty summer days, the dusty passage of time when windows and screen doors
stood open, and the way the breathless day crawls past. And he pays attention
to the heroic efforts of this man and wife to make a good home for their
children. Poverty in the ghetto is not the guns and drugs we see on TV. It is
more often like life in this movie: Good, honest, hard-working people trying to
get by, keep up their hopes, love their children and get a little sleep.
…It won the Critics' Award at the Berlin
Festival in 1981, and in 1990 it was placed on the Library of Congress'
National Film Registry. If it reminds one of Italian neo-realism films, it
should be of the ones that are more akin to films shot with conviction like
Visconti's Rocco and His Brothers than to De Sica's more conventional and faux
take on poverty in The Bicycle Thief. Burnett shows that the hard life sucks
the hope out of both the adults and the children in the blighted community that
is filled with stretches of bombed-out homes and despair, which makes it a much
tougher challenge to survive here than in many other parts of America--as
Burnett implies that such a hard life is not to be merely ennobled (which he
does) but to be understood as unacceptable.
…La
forme mosaïque du récit est aussi celle d'une bande originale qui compte un
nombre impressionnant de morceaux racontant, à leur manière, l'histoire des
Afro-Américains. On va ainsi de Louis Armstrong à Earth, Wind and Fire, en
passant par Howlin' Wolf ou encore Scott Joplin ou Gershwin, ce qui n'a pas été
sans poser quelques problèmes pour la distribution, les seuls droits des
morceaux coûtant plus de dix fois le coût du film (150 000 dollars pour 10 000
de budget !). « Killer of Sheep » reste ainsi longtemps dans les cartons avant
que l'UCLA ne paye officiellement les droits. Ce petit film d'études tourné en
16mm et en noir et blanc fera finalement partie des cinquante films conservés à
la Bibliothèque du Congrès et il est, à ce titre, considéré comme trésor
national. Étrange et heureux destin qui en dit long sur l'importance historique
de ce film, de sa place à part dans le paysage du cinéma américain. A découvrir
absolument.
I'd heard many great things about Killer Of Sheep before I finally managed to see it
(the film has been effectively out of circulation for a couple of decades). and
while I don't think it's any great masterpiece, I can see why it's regarded as
a major landmark in American cinema. Burnett used the format of the "art
movie" to chronicle everyday life among the poor, black residents of a Los
Angeles ghetto – concentrating on one particular family and their acquaintances
– with results that are often powerful and poetic, if at times a little
self-conscious and over-oblique in their experimentalism…
…Dans une terre déshumanisée, cette
banlieue US baigne dans les non-dits et l’absence flagrante de communication,
de rapports humains. Stan ne se défend plus quand les autres l’assaillent mais
sa femme vient à la rescousse. Ce soutien fort et indéfectible est la seule
chose qui les garde immergés. Le couple sombre lentement mais s’accroche à ses
sentiments. Une simple scène de danse brille de par une beauté simple. Un air
lancinant où les deux amoureux se tiennent tendrement comme un aparté
salvateur.
Encore une fois les enfants se retrouvent dans une situation similaire à leurs ainés. Il y a un désœuvrement total dans la famille mais l’amour – plus fort – perce de temps à autre donnant lieu à un massage en apparence simple mais tellement important.
Que ce soit par son budget ou par ses prétentions, Burnett joue la carte de la simplicité et les acteurs amateurs – pas tous parfaits – font de leur mieux pour faire transpirer un message simple, celui du dernier rempart contre le désespoir, les proches. Ceux-ci et leur amour sont les clés qui donnent un maigre espoir à ces quartiers.
Encore une fois les enfants se retrouvent dans une situation similaire à leurs ainés. Il y a un désœuvrement total dans la famille mais l’amour – plus fort – perce de temps à autre donnant lieu à un massage en apparence simple mais tellement important.
Que ce soit par son budget ou par ses prétentions, Burnett joue la carte de la simplicité et les acteurs amateurs – pas tous parfaits – font de leur mieux pour faire transpirer un message simple, celui du dernier rempart contre le désespoir, les proches. Ceux-ci et leur amour sont les clés qui donnent un maigre espoir à ces quartiers.
…La película de Burnett, en un blanco y negro
impresionante, mira detrás de los estereotipos raciales y nos muestra a
personas. Y lo hace modestamente, sin grandes fastos, sin hacer ruido, sin
querer abrumar con imágenes impactantes, giros inesperados o dramas
lacrimógenos. La cámara es un testigo, y da la impresión de que lo que se ha
rodado es la vida cotidiana de una familia, a través de la pared de su casa, y
que en cualquier momento la cámara podría saltar a la casa de al lado, habitada
por blancos o por negros, y las cosas serían más o menos similares. Tras ver
esta película, y por si hubiera alguna duda, uno se da cuenta de lo estúpidos
que son quienes minusvaloran a otros por detalles tan absurdos como el color de
la piel o cualquier otro rasgo físico.
La historia de esta película, sin embargo, es más larga.
A pesar de deslumbrar a los críticos, su circuito de distribución jamás pasó de
los cines de arte y ensayo y nunca llegó al gran público. Aquí se reproduce un
artículo de Bárbara Celis, del diario El
País, publicado el 8 de abril, en el que habla de los años que han
transcurrido hasta poder estrenar comercialmente la película. Tengo que
agraceder a nuestra querida nómada Marta que me hiciera llegar esta noticia que
es el colofón de oro a una película cuyo visionado tendría que formar parte de
los planes de estudios de las escuelas norteamericanas (y de las españolas). Y
tiene su mérito que me lo haya cedido, tratando la película sobre un señor que
trabaja en un matadero de animales…
venerdì 16 giugno 2017
giovedì 15 giugno 2017
The girlfriend experience – Steven Soderbergh
Steven Soderbergh riesce a fare un film su una puttana (sorry, escort), con un'attrice che arriva dal porno, e non si vede neanche una donna nuda.
ma non ce n'è bisogno, a Chelsea le si vuole bene, è una ragazzina (in)sicura, che tutti usano e vogliono sfruttare sempre più.
e però è fragile, come un pezzo di sughero nel mare, resta a galla, ma come.
un gran bel film, piccolo e tormentato, buona visione - Ismaele
ma non ce n'è bisogno, a Chelsea le si vuole bene, è una ragazzina (in)sicura, che tutti usano e vogliono sfruttare sempre più.
e però è fragile, come un pezzo di sughero nel mare, resta a galla, ma come.
un gran bel film, piccolo e tormentato, buona visione - Ismaele
… Soderbergh con "The girlfriend
experience" sembra aver tentato di scattare l'istantanea di questi anni.
Chelsea (Sasha Grey) è una squillo newyorkese d’alto bordo, che ha un fidanzato
(Chris Santos) che la ama e la sostiene e la incoraggia incondizionatamente
(non un protettore, ma un vero compagno di vita che ne accetta la professione).
Lei fa di tutto per imporsi sul mercato, in particolare attraverso il suo sito
internet. I clienti di Chelsea sono uomini d'affari americani di oggi
ossessionati dalla crisi economica: tutti le parlano di crolli di azioni,
mercati internazionali, stimulation
package (che forse nasconde
qualche doppio senso), eccetera. E questi businessmen moderni si pongono anche loro come il
ritratto dell'America contemporanea, sembrano parenti di quello che Michael
Douglas è stato in "Wall street" per gli anni ottanta, o sono sulla
lunghezza d'onda di "Nella società degli uomini" e
"Americani" per gli anni novanta. I tempi sono più che mai attuali,
perché il film è ambientato durante la campagna per la presidenza americana tra
Obama e McCain. Perfino il ragazzo di Chelsea tenta di intraprendere un proprio business (non ha a che fare col sesso), e si
sente ripetere la stessa cosa: tempi di crisi. Mancano i soldi, dunque, anche
se non mancano per il sesso…
…Esteriorità, apparenza, perfezione. Ma
poi oltre a tutto ciò cosa rimane? Forse
un senso di insoddisfazione e di inadeguatezza, una sensazione di inappagata
frustrante incompletezza che ti fa sentire sporco e usato, logoro e abusato.
Soderberg racconta, rappresenta, esplicita stati d'animo sempre in modo piuttosto asciutto e quasi asettico, come se le emozioni stentassero ad emergere, come se l'indifferenza rendesse ancor più dolorosa questa presa di coscienza della effimera provvisorietà del successo di ognuno di noi, un lampo forse anche potente, ma che può svanire di colpo da un momento all'altro immergendoti in un buio fitto in cui si torna, dopo esser stati spremuti ed utilizzati a dovere, nella massa incognita, grigia e senza distinzione.
Soderberg racconta, rappresenta, esplicita stati d'animo sempre in modo piuttosto asciutto e quasi asettico, come se le emozioni stentassero ad emergere, come se l'indifferenza rendesse ancor più dolorosa questa presa di coscienza della effimera provvisorietà del successo di ognuno di noi, un lampo forse anche potente, ma che può svanire di colpo da un momento all'altro immergendoti in un buio fitto in cui si torna, dopo esser stati spremuti ed utilizzati a dovere, nella massa incognita, grigia e senza distinzione.
…Grey wasn't hired because of her
willingness to have sex onscreen; there's no explicit sex in the movie and only
fleeting nudity. I suspect Soderbergh cast her because of her mercenary
approach to sex -- and her acting talent, which may not be ready for
Steppenwolf but is right for this film. She owns her own agency and Web site,
manages other actresses, has a disconnect between herself and what she does for
a living. So does Chelsea.
The film is intent on her face. It often
looks over the shoulder of her clients. She projects precise amounts of
interest and curiosity, but conceals real feelings. It is a transaction, and
she is holding up her end. Notice the very small nods and shakes of her head.
Observe her word choices as she sidesteps questions without refusing to answer
them. When her roommate/boyfriend insists on knowing the name of one of her
clients, she is adroit in her reply.
Once she allows her mask to slip: a
surprising moment when she reveals what she may feel. Grey perfectly conveys
both her hope and her disappointment, keeping both within boundaries. You
wonder how a person could look another in the eye and conceal everything about
themselves. But the financial traders who are her clients do it every day.
Their business is not money, but making their clients feel better about
themselves.
… En The
Girlfriend Experience, cuanto más habla un personaje, más comprobamos que
apenas tiene vida interior.
Ni los clientes de la prostituta, quienes no buscan tanto sexo
como una ocasión para hablar, ni la propia meretriz, quien escribe un diario
tan frío como el del American
Psycho Pat Bateman,
albergan nada similar a pasiones o ideas interesantes.
Toda la charla de estos tipos, en especial la que pretende ser más
inteligente y profunda, no es más que cháchara o, como se diría en inglés, bullshit.
No despierta mucha simpatía ninguno de los personajes, que no son
más que una panda de idiotas pagados de sí mismos y, en el fondo, gente
asustada con corazas caras. Incluso la protagonista, interpretada por Sasha
Grey –la más bella actriz del cine porno, la más nauseabunda en sus películas X
y una intérprete más que solvente–, demuestra ser una persona carente de
empatía, que no se interesa en nada que no vaya más allá de su cotizado
ombligo.
Por esas tristes razones, The
Girlfriend Experience es
un retrato muy acertado del mundo actual. Y si lo que se muestra no gusta o
enfada, eso es síntoma de salud…
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