il film è
come un western, ci sono i buoni e i cattivi, e i buoni hanno dei dilemmi
etici, quanto vale una vita innocente, qual'è il ruolo dei militari, e cose del
genere.
tutto
quello che è successo prima, nei secoli, nei decenni, negli anni, non esiste.
nel film
abbiamo un qui e ora.
la guerra
al tempo dei droni.
nella
realtà le cose non sono così come nel film, altrimenti non avremmo
bombardamenti a matrimoni, cortei nuziali, ospedali, e cose del genere.
i buoni
hanno le armi, la tecnologia, il potere, i nemici sono cresciuti in casa dei
buoni (che non se n'erano accorti), i poveri perdono sempre.
detto
questo, il film è davvero una calamita, non ti stacchi più fino all'epilogo,
grazie ad attori bravissimi e a una sceneggiatura come una corsa contro il tempo.
il titolo
in italiano non va troppo bene, ma ci siamo abituati, purtroppo - Ismaele
qui un (bel) libro sul mestiere del pilota di droni
…Eye in the Sky, titolo originale dagli echi
orwelliani, riassume il senso del film: l’occhio nel cielo è il drone che con i
suoi sensori consente la guerra contemporanea. Un occhio freddo, strumentale,
che osserva e uccide senza che mandante ed esecutore materiale corrano mai il
minimo rischio fisico. Eppure dietro quel tasto premuto che sgancia missili c’è
un gran lavoro, decisioni complesse da prendere rapidamente e, soprattutto,
persone.
Per umanizzare la visione di una guerra spesso paragonata a
un videogame, il film mette in scena l’umanità più quotidiana, anche
spiacevole, dei protagonisti: attacchi di dissenteria, insonnia, il debito
universitario da saldare, la moglie dispotica che rivela l’incapacità di
compiere scelte futili di chi ha in mano le sorti del mondo. Una scelta così
originale, quasi spregiudicata, è impiantata da Gavin Hood in una struttura
thriller formalmente classica, in cui per esempio i “cattivi” sono figurine
bidimensionali sulle cui motivazioni non viene mai gettata luce, nonostante il
film si impegni a mostrare i punti di vista di tutti i personaggi verso i quali
chiede empatia allo spettatore. Ultima apparizione per il compianto Alan
Rickman.
...Tutto casca addosso al colonnello dell’esercito britannico
Helen Mirren, che con l’appoggio Usa conduce l’operazione. I cattivi sono stati
localizzati, la regola d’ingaggio impone di prenderli vivi (non sono neppure
tutti kenioti, una terrorista ha abbracciato l’islam e il jihad a Londra,
quando aveva 15 anni). Ma spunta la pistola fumante: un arsenale, cinture
esplosive, la telecamera per girare il video di rivendicazione. Vede tutto una
civetta meccanica telecomandata dalla base locale dell’operazione (lui sì che rischia
la pelle). Una ragazzina si mette di mezzo, piazzando il suo banchetto con le
pagnotte da vendere vicino al bersaglio. Comincia il palleggio delle
responsabilità – prevedibile e un po’ di scuola – mentre i suoi occhioni fanno
da controcanto alle beghe tra politici, militari, analisti. Falsando
l’esperimento: gli spettatori teneri di cuore palpitano, gli altri si sentono
un po’ manipolati.
Violentemente filomilitarista ed antipolitico, ma soprattutto
ipocrita nella rappresentazione di un'organizzazione militare tanto
tecnologicamente perfetta quanto umanamente preoccupata dai possibili effetti
collaterali del proprio, comunque ampiamente giustificato, indispensabile,
intervento, contrapposta ad una classe politica inetta, ridicola ed incapace di
decidere, preoccupata unicamente dalla sussistenza di una copertura legale e
soprattutto dal possibile impatto delle proprie scelte sull'opinione pubblica.
Un brutto film, anche se ben girato ed ancor meglio interpretato, ma al di là
di ciò viene da chiedersi se dietro simili opere ci sia unicamente la volontà
di fare botteghino sfruttando l'emergenza terroristica, o anche quella di
contrapporsi alla barbara retorica mediatica dell'Isis con produzioni tanto
scarsamente credibili quanto più falsamente realistiche (è ormai consolidato
strumento della nuova retorica cinematografica la sottotitolazione costante con
indicazione precisa del luogo e del tempo, in ora rigorosamente locale,
dell'azione, come se ciò fosse condizione necessaria e sufficiente della verità
narrativa). Pessimo il titolo italiano, molto più consono, dovendo, come da
tradizione nostrana modificare l'originale, sarebbe stato "il dovere di
uccidere".
…Eye in the Sky doesn’t sympathize with the terrorists. It’s clear what will
happen if they aren’t stopped. The arguments against killing them have nothing
to do with their guilt. At first, it’s a legal question - whether the drone has
the right to kill American and British citizens, depriving them of due process.
Once that’s resolved, it becomes about collateral damage. The coldly dispassionate
contention (to which Powell and Benson subscribe) is that the greater good
outweighs the immediate and unfortunate consequences. It’s not easy to accept,
however, watching images of the little girl selling the loaves of bread that
provide her family with much needed income. Difficult choices and consequences
- these things lie at the core of Eye
in the Sky’s drama. Nothing is simple or clean-cut. It’s 12 Angry
Men in a different arena.
There’s no “right” or “wrong” - only points and counterpoints…
Cinco, veinte, setenta y seis, ayer murió otro niño
intentando cruzar equis frontera junto a la mitad de su familia, y ya son
quinientos, cinco mil; esta tarde otros treinta iraquíes han muerto en un
atentado en Bagdad, dos menos que ayer, alguien vio la foto, ya van quinientos
mil, quizá menos, seguramente millones. No es que nadie haya realmente parado
de contar, es que ya todos perdimos la cuenta. Son tantos muertos que no
significan gran cosa: se pierden como dígitos en la puntuación del Space invaders. Duele escribirlo, pero los 600 euros que vale hoy el
iPhone nos provocan más indignación que los seiscientos muertos de ayer, si
estos viven/vivían o provienen de tierras más o menos ignotas para el
occidental medio. Y sí, de ahí, justo ahí surge Espías desde el cielo; thriller político cuyo brutal y
desalentador subtexto guiña el ojo a un público más bien sedentario que en su
época decidió cambiar la tensión de la Guerra Fría y sus bailes con agentes
dobles por ese otro valor en alza que representa el personaje, cada vez más
antihéroe, que toma decisiones sin apenas mover el culo de su mullido asiento,
bien sea en Washington o en Londres o en Moscú. Incluso en una base militar a
pocos kilómetros de Las Vegas…
…Así, con todas estas lecturas y reflexiones a propósito
de Espías desde el cielo, también nos preguntamos: ¿qué absurda
realidad sociopolítica y económica ha llevado al hombre moderno a depositar su
confianza en unos tipos que diariamente tiene que elegir entre la muerte de
unos pocos o la de varios muchos? Pues bien, Gavin Hood, que no es precisamente
el más regular de los directores —ha firmado obras tan dispares comoTsotsi y X-Men
orígenes: Lobezno—, recupera algo del crédito perdido con un filme a
primera vista convencional y sin grandes sorpresas en ningún orden, cuyo
administrativo punch alcanza nervio cuando masticas un
sanedrín preñado de incógnitas, nada fáciles de resolver, en las antípodas de
ese fatuo y campanudo ademán tan característico del thriller de espionaje
hollywoodiense. Por ello este barco, un dron muy yanqui, es capitaneado por dos
ilustres del Imperio, también conocidos por los nombres de Helen Mirren y Alan
Rickman. Que cuentan además con algunos secundarios óptimos, a saber: el aún
semidesconocido Barkhad Abdi (Capitán Phillips), quien teledirige a
distancia un escarabajo pelotero espía; el perpetuo tronista escocés
de Khaleesi, aka Iain Glen, interpretando a un secretario de Estado con apuros
gastrointestinales que no le impiden pronunciar la frase-póster de la película
(«las revoluciones se alimentan de vídeos de YouTube»); y junto a todos ellos
el compasivo de mirada vidriosa, siempre a punto de saltar por los aires, Aaron
Paul.
Sobra insistir en que a Hood no le faltaban elementos para
ejercitar la demagogia: resulta que la futurible onda bombástica del misil
podría matar a una niña que vende pan junto a la casa donde se guarecen los
monstruos; una niña, juguetona y servicial a la vez, que resume a la perfección
una tesis con no pocos abonados, según la cual nuestra empatía o sensibilización
momentáneas ante la tragedia es tanto más honda cuanto más biográfica es la
historia expuesta. Porque el impacto de una cifra en primera plana no es ni
remotamente comparable al de una sola muerte con rostro, nombre y apellidos
reconocibles.
… Hood non fa sconti, esibendo cadaveri tra le macerie
senza morbosità, ma con il piglio verista di chi vuole ricostruire con la
massima fedeltà una vicenda esemplare. Sulla guerra che è e sulla guerra che
sarà, soprattutto: a Gavin Hood interessa il dilemma morale. È cinema antico il
suo, che della contemporaneità utilizza la moltiplicazione degli schermi e dei
dispositivi o la prospettiva del drone; il resto è classicità pura, affidata a
due interpreti straordinari. Helen Mirren sceglie il cuore in inverno del
colonnello Powell, consapevole della crudeltà di alcune scelte ma dedita
esclusivamente al raggiungimento del proprio obiettivo. Alan Rickman, invece,
nella sua ultima interpretazione, regala al generale Benson un assaggio della
sua inconfondibile ironia british. Senza negare mai la propria funzione di film
che si presta all'apertura di un dibattito, il regista riesce umilmente a
rinverdire i fasti di una forma di cinema troppo spesso trascurata.
… I missili sono pronti sui droni, basta dare l’ordine ed è fatta. Ma sorge
subito il problema delle possibili (anzi certe) vittime civili, complicato dal
fatto che non si tratta solo di numeri e di statistiche, ma di una bambina che
vende parecchie pagnotte e ci mette ovviamente molto tempo per liberarsi di
tutte. Ecco, tremenda, la tensione. Ogni minuto che passa sempre più
angosciante. Nell’obiettivo preso di mira c’è gente - proprio quei terroristi
tanto temibili e finalmente rintracciati - che potrebbero muoversi e scomparire
di nuovo. Mancano al massimo una decina di minuti, tocca decidere
immediatamente, chi però si prenderà quella drammatica responsabilità? Il
generale che comanda la missione sembrerebbe deciso e così il colonnello che ha
sottomano tutti i comandi operativi, ma ci sono lì anche dei politici che
possono mettersi in contatto a Londra con i più alti rappresentanti del
governo. Intanto però i minuti passano e quelli laggiù potrebbero scomparire di
nuovo!
Erano anni che al cinema non provavo
un’ansia simile, costruita, architettata, sostenuta da tutti i mezzi più
moderni di cui i cineasti oggi dispongono quando debbono mozzare il respiro
agli spettatori. Gavin Hood e i suoi hanno fatto centro. Applaudiamoli e
applaudiamo anche Helen Mirren che dopo essere stata in “The Queen”, la Regina
Elisabetta, ha accettato qui di essere un semplice colonnello; sia pure
responsabile dei comandi operativi.
…una meticolosa ricostruzione dei fatti destinata a
toccare dei nervi - politici, comportamentali, etici - scoperti e a rendere
problematica una presa di posizione chiara che prescinda dalle ragioni
dell'"altra parte". E il fatto che la sensazione di imperdonabile
indecisione di fronte al dubbio morale che attanaglia sia ribaltata dallo
schermo allo spettatore è fortemente voluto. Elementi che, uniti alle
interpretazioni inevitabilmente impeccabili di Rickman e Helen Mirren, elevano Il
diritto di uccidere al di sopra dell'aurea mediocritas in cui
rischia, colpevolmente, di finire relegato. Peccato solo per un epilogo che
mostra ciò che è superfluo mostrare, sbilanciando irreparabilmente l'equilibrio
dialogico fin lì esemplare.
…Más allá
de lo que pueda decirse en torno al planteamiento de la situación, al modo como
se presenta o falsea el uso de la tecnología, a si es o no artificioso y
engañoso el uso del elemento niña-negra-indefensa o a si la resolución del
dilema es un mensaje encriptado de dominación y poder, lo cierto es durante
toda la película el espectador no pestañea un solo momento, inmerso en lo que
está sucediendo en la pantalla. Se lo sienta en la mesa de deliberación y se lo
somete al incómodo pero interesante ejercicio de tener que decidir a sabiendas
del costo humano que entraña esta específica decisión. Por eso, por ese logro
de involucramiento, Enemigo invisible es una película
notable. El contraste de sus ambientaciones, su atrapante ritmo, el
caleidoscopio móvil de los rostros implicados, los discursos justificativos de
cada bando y, especialmente, la invisibilidad apabullante de un enemigo difuso
pero de presencia determinante, hacen de Enemigo Invisible un trabajo
que combina muy bien el envolvente latido de los buenos thrillers con la
inquietud que deja un cuestionamiento bien planteado. Una forma que
sobresale por el fondo que la llena y un fondo que penetra bien por la forma
como se lo expresa.
… Hood deja claro el punto de vista de los
mandamases estadounidenses y la militar británica, pero jamás da una respuesta
sencilla al problema, porque no existe, y
deja que el espectador saque sus propias conclusiones. “Espías desde el cielo”
es tan tensa que la sala donde la vi no hacía más que cuchichear y desesperarse
cuando la trama se complicaba y nadie tomaba una decisión, y un hombre, cuando
llegó el clímax, se puso a comentar en voz alta lo que veía. Eso para mí es la
mejor crítica que puede recibir un director.
… Lo interesante es que la dirección de Hood
es tan precisa, que la tensión de la trama engancha hasta el final, sin tantas
persecuciones ni disparos. Todo pasa en los cuartos de comando en donde las
emociones, la culpa y el deber nos invitan a las reflexiones más profundas
sobre las implicaciones de una burocracia bélica.
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