martedì 23 agosto 2016

Shirin - Abbas Kiarostami

il film non esiste, anzi, meglio, noi vediamo decine di attrici, iraniane e non solo, che starebbero guardando un film che è la storia di Shirin (leggine qui e/o qui per conoscere la storia di Shirin e Khosrow), che ricorda Giulietta e Romeo, 3-4 secoli prima di Shakespeare, e le Mille e una notte.
il film è quindi il racconto delle avventure di Shirin e Khosrow, e non solo, interpretati da ottime voci, vediamo solo le facce che ascoltano, come noi, ma noi immaginiamo, intuiamo, pensiamo, "vediamo" guardando le facce delle attrici.
c'è chi l'ha stroncato senza pietà, per me si avvicina al capolavoro.
pare che Godard abbia detto una volta che "il cinema inizia con Griffith e finisce con Kiarostami", allora solo Kiarostami poteva avere il coraggio e la sana follia per fare questo film.
bisogna vederlo (in lingua originale), poi si capirà qualcosa di quello che ho scritto, forse - Ismaele

ps: mi ha ricordato un corto straordinario di Frank Herz (qui), Ten minutes older.






dice Abbas Kiarostami:
Sono molto felice di parlare di Shirin. I nostri film sono i nostri figli, alcuni di loro, come i nostri figli, hanno più successo, mentre alcuni potrebbero essere più timidi per cui quando qualcuno li nota per noi registi è molto importante. Dopo Shirin ho realizzato altri due film Copia Conforme ed un altro che ho appena finito di girare in Giappone ma credo che Shirin sia un film eccezionale.
Di solito ogni cineasta dice che il suo ultimo film è quello migliore, questo perché si diventa sempre più maturi. Io però non avrò più la possibilità di girare un film come Shirin dove è lo spettatore a comunicare un sentimento verso un film.
Che film stanno guardando?
In realtà nessuna di loro vede nulla, non vedono un film. Queste donne sono di fronte ad una macchina da presa fissa e ad un foglio bianco A4 abbiamo chiesto loro di sedersi e per 6 minuti guardare il foglio ricordando un’emozione vissuta nella loro vita, ripercorrerla e riviverla. Alcune di loro continuavano a recitare, non riuscivano a controllare la recitazione però altre erano talmente sprofondate in questa emozione, in questo ricordo, che la loro reazione diventava vissuta e non recitata ed io alla fine ho raccolto 600 minuti di girato.
Poi ho trovato il racconto di un poeta classico persiano che parla di una storia d’amore molto simile a quella di Romeo e Giulietta, ho scritto una storia d’amore dal racconto ed ho effettuato il montaggio mettendo le riprese delle donne in modo che le loro reazioni fossero compatibili con la storia d’amore che stava accadendo.
Non ho chiesto a nessuna di loro a cosa pensassero ma era facilmente intuibile che pensassero ad una storia d’amore amaramente finita, delusa anche se per me non esiste una storia d’amore delusa perché ogni storia d’amore è come la vita: ha un inizio, una durata ed una fine per cui bisogna considerarla per com'è stata.
Se guardiamo alle reazioni di questi volti riusciamo a ripercorrere la storia d’amore, vediamo quando inizia, quando è al suo apice, quando entra in crisi, quando finisce, tutto ciò solo dalle espressioni del volto e ci rendiamo conto che queste 117 donne avevano tutte ripercorso una storia d’amore, felicemente iniziata e poi finita.
Il motivo principale per cui amo questo film è che in questo caso io non ho fatto il regista. I registi di solito intervengono sulla natura delle persone e la modificano e da qui nasce il cinema e la storia.

…Kiarostami scende nella grotta del mito platonico con le sue attrici-spettatrici di cui registra i movimenti visibili, le reazioni, le microalterazioni e i ritmi emotivi. La macchina da presa del regista iraniano diventa uno strumento per riprendere l'energia intellettuale e affettiva che si sprigiona in sala. Quello che per la scienza sarebbe un'esperienza indeterminabile e difficilmente accertabile diventa per Kiarostami poeticamente possibile. I volti incorniciati in primo piano sono un deposito di sogni nati nel buio della sala e resi esplorabili dall'autore. 
Shirin è un film sul ruolo dello spettatore e sull'importanza del fuori campo. Vicine o lontane allo schermo, incollate alla poltrona o irrequiete sulla poltrona, le spettatrici di Kiarostami sono il principale spettacolo. Lontana dalle sale dei multiplex, che sanno di plastica e pop-corn, la "caverna" messa in scena dal regista iraniano è un luogo sacro in cui chiedere asilo, un abisso in cui gettarsi, l'alcova di un'altra vita. Il film proiettato nel film non esiste se non dentro agli occhi e al calore dei corpi delle sue attrici. L'invisibilità della rappresentazione rappresentata, di cui avvertiamo soltanto il parlato e il sonoro, è la testimonianza eloquente di un mondo nascosto e segreto che preme ai margini dell'inquadratura ma è comunque il visibile il vero centro e senso del film. 
Forse il cinema di cui abbiamo più bisogno è quello che si sottrae all'imperativo del (di)mostrare, quello che suggerisce, allude e lascia filtrare la presenza di un altrove. Kiarostami costruisce un film che è anche (e soprattutto) un saggio teorico sulla natura dello spettatore, sul cinema, lo schermo, la sala e i tempi e riti della visione. Dopo aver filmato il lirismo del quotidiano e dopo aver descritto gli aspetti minimi dell'esistere, l'autore iraniano approccia poeticamente la "passione" dello spettatore e il suo incontro con il film, riflettendo sul senso di elevazione e sul soffio vitale prodotto dalle immagini e trasferito ai corpi riuniti in platea.

Dare un voto a questo film è operazione pressoché inutile e fuorviante. Shirin, di Abbas Kiarostami, è, infatti, un’opera che, per la sua valenza fortemente teorica, si potrebbe accostare all’ultimo cinema di Jean-Luc Godard: opere per cui non può valere una classica “griglia” di giudizio. Il maestro del cinema iraniano, da sempre, non si limita a fare cinema, ma (anche) teoria del cinema. Film come Close-Up o Sotto gli ulivi riescono a contenere magnificamente al loro interno un grande discorso umano ed esistenziale, e una profonda ricerca sull’arte cinematografica. Con Shirin, Kiarostami realizza probabilmente il suo film più audace e sperimentale. Di certo, l’operazione compiuta da Kiarostami non può passare inosservata: per un’ora e mezza, in un cinema, viene proiettato il film «Shirin» – popolare melodramma persiano, accostabile a Romeo e Giulietta -, di cui, però, ci è occultata la visione. Vediamo, infatti, solo i volti delle spettatrici nella sala, e udiamo unicamente il sonoro del film, in fuori campo.
Dunque, un film concettuale, metalinguistico, teorico. Ribaltando questioni cardine nel rapporto tra spettatore e film, tra enunciatore ed enunciatario, Kiarostami “sfonda” la quarta parete dell’illusione filmica, portandoci ad assumere il punto di vista dello schermo cinematografico. Il film, pur prendendo dichiaratamente spunto dalla celebre sequenza di Anna Karina in Questa è la mia vita  - di nuovo Godard -, ne supera lo strutturalismo sincronico. O, per meglio dire, realizza qualcosa di diverso. Kiarostami vuole «ripercorrere la storia d’amore di Shirin attraverso i volti delle spettatrici» [frase estratta da una video-intervista al regista]. Il regista iraniano sceglie 117 donne – attrici professioniste, come nel caso di Juliette Binoche, e non – riprendendone esclusivamente i volti per catturarne le emozioni, i sentimenti. E quelle lacrime, quei sorrisi che scaturiscono dai bellissimi primi piani di Shirin possono davvero riuscire ad emozionare anche lo spettatore. Perché, come diceva John Ford, «cosa c’è di più meraviglioso di un volto umano?».   

Shirin is quite in keeping with Kiarostami’s usual approach to cinema, even if it seems more unorthodox than most of his films. His reflexive examination of illusion and reality is very much in play here, and is approached more subtly than in his controversial conclusion toTaste of Cherry (1997), though Certified Copy truly is the apex of his examination of this subject. Kiarostami also does one completely unique thing with Shirin that I don’t remember experiencing with any other film: he restores the oral tradition that was always associated with the Shâhnâma, in particular, and with epic poetry, in general. We actually get the chance to imagine the story of Shirin through audio cues and the faces of those who are listening as stand-ins for the storyteller who would emote during the recitation. Thus, not only do we get to learn an ancient tale from the classical Persian canon, we also get to time travel to experience it as it might have been experienced in medieval Persia. I, for one, enjoyed the ride.

Attraverso i gesti delle mani, della bocca e nello sguardo viene catturato dalla cinepresa quel momento che gli antichi greci, primo fra tutti Aristotele nella sua "Poetica", chiamavano "Catarsi" (κάθαρσις, purificazione). Queste donne dai volti eleganti partecipano e si compenetrano ai dolori e alle gioie della protagonista, prendendo coscienza di sé attraverso i ricordi e le proprie esperienze, ma allo stesso tempo se ne distaccano superando questo dolore. Da qui il teatro diventa mimesis ossia l’arte diventa e si compenetra nella realtà, ma in questo caso si nota un doppio passaggio, non solo il teatro infatti assume questa funzione, ma anche il cinema. Vi è forse un’omaggio a queste due arti, che possono essere definite madre e figlia, tanto amate dal regista? Quel che certo è che questo pubblico immaginario resta bloccato sulla sedia e al tempo stesso viaggia attraverso la mente e le emozioni in un’atmosfera quasi "crepuscolare", dove il suono si fonde con l’immagine, superando e colmando le lacune dovute all’assenza di scenografia. "Shirin" è come un dipinto che parla nel silenzio al cuore delle persone e a codificarlo vi è il suono, la voce narrante. Ecco che la pellicola diventa il nuovo campo di lavoro e pratica delle teorie di Kiarostami, che continua a giocare con questi due importanti elementi, rendendoli dominanti e protagonisti nelle sue opere.

…We watch them as they absorb the tale, perhaps taking in what it all means, finding some connection from their own lives. Sometimes they adjust their scarves or make themselves more comfortable. Sometimes they're indifferent, and sometimes they cry. As the story gets closer to its climax, the emotion in the crowd builds.
It appears that Kiarostami wishes to say something about the power of women -- especially as the movie moves toward its second half and we begin to see the oppressive faces and beards of men lurking in the backgrounds -- even if his message isn't concretely spelled out. Or perhaps he's saying something about the power of cinema, the singular, emotional power of the screen and the dark.
In any case, Shirin isn't nearly as dull as it sounds; the melodramatic, passionate "Shirin" story drives everything forward, and gazing at the faces of these amazing women can be a compelling experience in itself…

…Well, Kiarostami has created a stylised chamber piece in which the use of professional and well-known actors is arguably the point. They could have been cast in the film they are watching - though they are not, I think, supposed to be playing actors - and have instead been displaced out of the screen, and into the audience. This could be intended to create an eerie laboratory effect, a distilled, foregrounded emotion.
The steady insistence on women's faces recalls Kiarostami's earlier movie Ten, with its locked-off camera continuously showing a woman at the wheel of a car. In fact, showing a face reacting to an invisible speaker is in fact a continuation of a distinctive Kiarostami tic: instead of using the traditional shot-reverse-shot approach to filming a dialogue, he will sometimes keep his camera trained on the original speaker listening to the reply. It is an eccentricity, but one which interestingly repudiates the fiction of cinema being everywhere at once. Like much of his new work, Kiarostami's Shirin has been undertaken in something like a Godardian spirit of research: it is perhaps only for those prepared to approach it in a tolerant, indulgent spirit.


una stroncatura senza pietà:

Minimaliste et vain
Kiarostami, auteur iranien du meilleur (« Ten ») comme du pire (« Au travers des oliviers »), nous livre avec « Shirin » un film conceptuel des plus insupportables. Pendant une heure trente, non seulement vous ne verrez pas le film, conte arménien « Shirin », mais vous aurez droit aux visages de femmes, alignées dans un cinéma aux éclairages improbables (la lumière vient souvent de derrière les sièges !), qui regardent le film dont vous n'aurez que les bruitages et voix.

Un décalage malencontreux dans les sous-titres fait que l'on ne sait plus qui dit quoi. Des visages impassibles pendant de longues minutes, et une récurrence peu évidente à saisir des différentes femmes (plus de 110 au total). Rapidement l'ennui nous guette, malgré une volonté poétique et esthétique évidente. Si le désir de vie et de liberté font surface progressivement, le caractère de révélateur social du film (comme ce pouvait être le cas dans le très réussi « Ten », autre film minimaliste du réalisateur, basé sur dix conversations en voiture), reste bien en retrait, les hommes et femmes étant mélangés dans la salle et la femme arborant un voile souvent à moitié défait. Mais que fait notre Juliette Binoche là dedans ?



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