lunedì 30 maggio 2016

La pazza gioia - Paolo Virzì

si corre tutto il film, Beatrice trascina Donatella con le parole e poi si va nel mondo.
basta poco per essere felici, prima di tutto dimenticarsi di non esserlo, e finché dura funziona.
poi la realtà prende il sopravvento, entrambe non ci stanno con la testa, e però l’importante è lottare, contro i mulini a vento o i mostri che si agitano dentro.
parafrasando Paco Ignacio Taibo II, Beatrice e Donatella non potranno più conquistare il mondo, solo provano a sopravvivere e a continuare a dare fastidio.
Beatrice, la contessa, è stata archiviata e dimenticata da tutti, dopo averle rubato tutto, Donatella non ha niente, ha solo un ricordo, e quello la tiene in vita.
belli anche i personaggi di che le cura e le cerca.
il film magari non è perfetto, ma non ti lascia indifferente, questo è sicuro - Ismaele





questo è un film che parla di malattia mentale ed è ambientato nel 2014, quando gli ospedali psichiatrici giudiziari erano ancora aperti. Quindi tocca temi molto delicati, che prevedono automaticamente il rischio di scivolare nel pietismo o nello schema consolatorio dell’antipsichiatria, ma non ha mai nemmeno un tentennamento. Invece è onesto, sentimentale e generoso: onesto nel mostrare la malattia e la sua gestione quotidiana, sentimentale nella relazione con i personaggi e le loro manie, generoso nello slancio con cui gestisce tutto questo materiale umano senza avere paura di nessun tema…

… Virzì, lo aveva già dimostrato in tutti gli altri suoi film: non parte da una prospettiva ideologica ma compassionevole,  come chi sa che l’essere angelo e demonio allo stesso tempo è esattamente la cifra (scrivo così perché fa fine, ma avrei detto caratteristica) dell’essere umano.
La differenza tra operatori e pazienti si confonde, alcuni curanti starebbero meglio dall’altra parte, mentre la relazione terapeutica più bella e salvifica è quella che una protagonista instaura con l’altra protagonista, la più matta di tutta la compagnia.
Se non mi vergognassi della banalità della frase dopo una vita di studio direi che, alla fine, il vero ingrediente indispensabile per la cura è la relazione terapeutica, dove sperimentare un amore compassionevole in cui il curante riconosce nell’altro le sue stesse fragilità e meschinità e vi fa pace, rimandando ad altri il compito impossibile e logorante della perfezione.
Il film è intessuto di queste relazioni terapeutiche, poco tecniche ma molto calde, trasversali tra i personaggi anche più marginali e, a prima vista, abietti. Ognuno visto più da vicino ha le sue ragioni e, come diceva De Andrè: ‘Se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo‘.
Non vorrei aver dato l’impressione che si tratta di un film serioso a cui far seguire il temuto dibattito.
Si sta molto in apprensione. Si tifa ora per l’uno e poi anche per il suo avversario e soprattutto, non si ride di qualcuno, ma si ride perché quella pazza gioia è contagiosa.

…Come spesso gli capita Virzì dimostra il meglio di sé quando riesce a dare slancio alla propria spontaneità registica, scardinando un racconto troppo prevedibile e slabbrato, disperso in una vicenda picaresca che accumula situazioni e incontri non sempre convincenti. Rispetto ad alcuni dei titoli principali della sua carriera (Ovosodo, Baci e abbracci,Tutta la vita davanti, Il capitale umano) La pazza gioia perde in più di un’occasione la dimensione di insieme, sfaldandosi in piccoli bozzetti e arcipelaghi emotivi altalenanti, ma riesce a trovare un riscatto in poche, mirabili sequenze: il primo incontro tra le due donne, quello tra la Ramazzotti e il padre (un Marco Messeri dimesso al punto giusto). Gli aspetti più prevedibili e banali – anche la scelta della colonna sonora si dimostra “facile”, sia per quel che riguarda il tormentone Senza fine di Gino Paoli, motore anche narrativo, che la preghiera laica Ave Maria di Fabrizio De André – trovano così una pur parziale compensazione, e La pazza gioia riesce persino a commuovere, senza troppi ricatti sentimentali.

…A dispetto di alcuni momenti irrisolti, "La pazza gioia" è un film da amare quanto le sue splendide protagoniste, specie per quei vuoti che aprono il racconto, per quell'assurda fuga senza meta, in cui gli eventi sono slegati, costretti a consumarsi nell'attimo e quel che accade obbedisce a una logica che è del sogno - e a chi lamenti una mancanza di coesione, chiediamo: come potrebbe esserci?
Siamo, allora, al centro del film, nel suo sviluppo più libero e felice, quello in cui i personaggi, sciolte le briglie della drammaturgia, realizzano se stessi, si impongono ai nostri occhi e ci catturano. Non potevamo chiedere di meglio.

Il meglio sta nella prima parte, nel personaggio di Beatrice, perfettamente scritto e interpretato. Ed è parecchio interessante lo sguardo dal di dentro sulla comunità terapeutica. Fa capire parecchio di cosa sia oggi la follia, di come sia socialmente vista e trattata. Sparite le gabbie e le camicie di forza dei manicomi, i pazienti sono tenuti sotto controllo e regolati attraverso la somministrazione di psicofarmaci. La lodevole intenzione di togliere ogni stigma alla malattia mentale finisce col risolversi spesso in condiscendenza, in un correttismo politico che abolisce la cosa e si vergogna perfino a nominarla, ma che non può eluderla. I confini della villa-ricovero sembrano elastici, espandersi o restringersi a seconda del tasso di tolleranza o di controllo esercitato al momento dai responsabili. E se qualche volte quei confini sembrano sparire trattasi di illusione ottica, i confini non spariscono davvero mai. Chissà cosa scriverebbe oggi della malattia mentale e del suo trattamento in Occidente il Michel Foucault di Sorvegliare e punire. Di culto, come sempre, il cameo di Marisa Borini, vera mamma di Valeria Bruni Tedeschi (e di Carla Bruni) già vista in film diretti dalla figlia come Un castello in Italia, e che qui fa benissimo la contessa-madre di Beatrice Morandini Valdirana. Paolo Virzì si conferma il vero erede, forse l’unico, della commedia all’italiana dei Monicelli, Risi, Scola. Solo con meno perfidia e più sentimentalismo.

Paolo Virzì da sempre fa cinema italiano classico, porta sulle sue spalle un’eredità pesantissima e la mette in scena ogni volta cercando contemporaneamente di guardare avanti, a modo proprio cerca di portare avanti un’idea di cinema che lo precede. Non è nè un merito nè un difetto ma una scelta che lo caratterizza. Come potrebbe quindi un film così classico far compiere alle proprie protagoniste l’atto che nemmeno Umberto D. aveva il coraggio di compiere? Il risultato è che attraverso l’ostinata resistenza di questi esseri umani al desiderio di porre fine a tutto si manifesta un’umanità così caratteristica dello spirito nazionale per come lo ha sempre messo in scena il cinema, che commuove. C’è una coerenza così invidiabile tra l’ostinazione a tenere duro e la contaminazione tra dramma e commedia (qui tesa fino agli estremi) che è invidiabile. In un paese in cui non si raccontano finali suicidi ma personaggi che “andranno avanti”, anche se non si sa come, le commedie non possono che essere contaminate di dramma e le tragedie non possono che far anche ridere. La Pazza Gioia in ultima analisi mette in scena questo: la nostra ostinazione a non contemplare il nichilismo quando raccontiamo il mondo. Ed è inebriante vederlo accadere sullo schermo…

…Ottime, ribadisco, le prove delle due protagoniste: a Valeria Bruni Tedeschi è affidata, a sorpresa, la parte comica e sopra le righe della pellicola, superando l'esame a pieni voti. Ma la vera sorpresa arriva dalla signora Virzì, ovvero Micaela Ramazzotti, quasi muta, paralizzata dal dolore e "spalla" paziente per 3/4 del film per poi "esplodere" nel finale, stritolando letteralmente i nostri cuori con un monologo di grande intensità: ammetto di non averla mai troppo amata, nè come attrice nè come persona, ma sarei intellettualmente disonesto se non le riconoscessi i giusti meriti e i suoi grandi progressi professionali.La pazza gioia non raggiunge la perfezione stilistica e l'impegno civile de Il capitale umano:è un film che prende più al cuore che alla testa, facendo leva sui sentimenti. La prima parte è un po' stiracchiata, non esente da evitabili banalità (vedasi la scontatissima e inflazionata scena della fuga dal ristorante) tuttavia man mano che ci si avvicina all'epilogo la comicità lascia spazio alle emozioni e al desiderio di giustizia, di umanità, di riscatto morale e materiale. E' un film che coinvolge e si fa amare, e che conferma Virzì come autore a tutto tondo, capace di mettere nelle sue opere la giusta dose di leggerezza e denuncia sociale, invitandoti a riflettere senza mai appesantire. Degno erede di una tradizione di "commedia all'italiana" che nulla ha a che vedere con innumerevoli filmetti che, purtroppo, troppe volte ingolfano le nostre sale.

…sono le due classiche perdenti di successo, che hanno la sola colpa agli occhi della società di essere “nate tristi”. E che si prendono semplicemente una rivincitaverso l’istituzione, sovvertendo l’ordine costituito, per poi farvi diligentemente ritorno. SeValeria Bruni Tedeschi qui, va detto, in una prova maiuscola, fa sostanzialmente se stessa (con una punta di snobistica civetteria e di temperato macchiettismo), laRamazzotti studia il suo personaggio in levare, trattenendo il dolore per lasciarlo scorrere dentro di sé come un dolce veleno, ma pronto a trasformarsi in amore.
Ovvio che sono loro due a tenere su tutta la vicenda che Virzì, tutto sommato, regge bene tenendosi equidistante dall’estetica dei “matti da slegare” ma anche dalle tentazioni spettacolari alla Qualcuno volò sul nido del cuculo. Viaggia a velocità diverse accelerando o rallentando, pigiando ora più sul pedale della commedia, ora su quello del dramma. Senza alzare la voce, oltretutto, butta anche lì qualche discorso sull’istituzione psichiatrica anche mescolando nel cast attori e veri pazienti dei centri che ha visitato per documentarsi. Cameo per il cantautore livornese Bobo Rondelli nella parte del truzzissimo ex amante di Beatrice che fa pipì, dal terrazzo di casa sua, in testa a Valeria Bruni Tedeschi: e anche questo è Paolo Virzì.


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