…«Per capire il neorealismo italiano, rendersi conto che Cesare
Zavattini è uno dei più grandi uomini di questo secolo, è necessario vedere un
pranzo da poveri a Venezia. I poveri portano due libbre di pasta al Lido e si
mangiano due libbre di maccheroni. Ma non sono le stesse che si sono portati:
sono due libbre fatte con le due libbre di ognuno dei vicini. Quando apre il
proprio pacco, la mamma di qui dà un po' di maccheroni alla mamma di là. E
quest'ultima dà a quell'altra un altro po' dei suoi maccheroni. E così, mentre
i pacchi si aprono, c'è uno scambio generale di maccheroni e pezzi di pane.
Alla fine, tutti hanno mangiato bene. Ma nessuno ha mangiato i propri
maccheroni, bensì quelli del vicino. È una caratteristica degli italiani: nei
treni, ma solo nei vagoni di terza classe, è facile che ti vada di traverso
quel poco di cibo che ti danno tutti gli altri».
A SCUOLA DI NEOREALISMO
Nella capitale — dove si era iscritto al corso di regia del Centro
sperimentale di cinematografia — non scrisse nessun libro, ma il cinema fece da
semenzaio al suo immaginario e al suo sguardo. Molti anni più tardi, avrebbe
dichiarato: «Non sono venuto a Roma per studiare cinema, ma per imparare il
Neorealismo ». Nel 1950 di Ladri di Biciclette di De Sica aveva scritto: «Gli
italiani stanno facendo cinema per strada, senza teatri di posa, trucchi di
scena, com'è la vita stessa». Di Miracolo a Milano , nel 1954: «È tutta una
favola, solo che realizzata in un ambiente insolito e mescolata in modo
geniale, fantasia e realtà, fino al punto estremo che in molti casi non è
possibile sapere dove cominci l'una e dove finisca l'altra». In un'intervista a
Gianni Minà in Messico, nel 1992, disse chiaramente: «Nessuno ha mai pensato
che Miracolo a Milano è la radice più probabile del romanzo latinoamericano?».
E ancora: «Oggi non potete immaginare che cos'ha voluto dire per la nostra
generazione il Neorealismo. È stato come inventare di nuovo il cinema. Noi
vedevamo film di guerra o di Marcel Carné e di quei francesi che si imponevano
per norma artistica e poi, all'improvviso, arriva il neorealismo dall'Italia,
con film fatti con pellicole di scarto, con attori che, si diceva, non avevano
mai visto una telecamera in vita loro. Tuttavia era un cinema perfetto ».
LA LEZIONE DI ZAVATTINI
Grazie al cineasta argentino Fernando Birri incontrò Zavattini. «Era una
macchina, i pensieri gli uscivano a fiotti, quasi contro la sua volontà —
annota Márquez — E con tanta fretta, che sempre gli mancava l'aiuto di qualcuno
per pensarli a voce alta o prenderli al volo. Conservava le idee in biglietti
ordinati per temi, attaccati sul muro con delle puntine, e ne aveva così tanti
che occupavano un angolo di casa sua». Il maestro italiano aveva 53 anni, era
un cineasta celebre e non poteva immaginare l'impatto culturale che la sua
creatura artistica, il Neorealismo, avrebbe generato sull'allievo venuto dal
Nuovo mondo. Nel discorso pronunciato all'Avana per l'inaugurazione della
scuola di cinema da lui fondata e intitolata a Cesare Zavattini, il 4 dicembre
1986, riassume così l'esperienza romana: «Già da allora parlavamo quasi tanto
come adesso del cinema che bisognava fare in Sudamerica e di come bisognava
farlo, e i nostri pensieri erano ispirati al Neorealismo italiano, che è — come
dovrebbe essere il nostro — il cinema con meno risorse e il più umano che sia
mai stato fatto…
Zavattini... lo penso anch'io, da sempre (Miracolo a Milano, chi ha più scritto un film così?). I pensieri tristi arrivano quando vedo i suoi film trasmessi in quel modo, spezzettati, con scritte nell'angolo che magnificano quel che viene dopo (adesso state guardando una m., ma stasera!!!), con scritte che passano sotto, col logo della tv più grande della faccia dei protagonisti del film, eccetera eccetera eccetera. Il disprezzo totale verso il lavoro degli altri, compresi i più grandi: ecco che cos'è l'editoria dal 1985 in qua. Meno male che Zavattini non ha visto queste cose.
RispondiEliminaci sta toccando vivere 1984 e Fahrenheit 451, tutto molto soft, ma senza fare prigionieri, temo
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