mercoledì 25 febbraio 2015

Difret (Difret-il coraggio per cambiare) - Zeresenay Mehari

una storia che sembra di quei primitivi africani, dirà qualcuno, sappia qualcuno che quello che succede nel film era lecito in Italia fino al 1981, Hirut interpreta anche Franca Viola (qui).
nel 1970 Damiano Damiani aveva raccontato quella storia ne "La moglie più bella"
Difret è un po' cinema civile, un po' legal thriller, di sicuro buon cinema.
si racconta di un mondo che era il nostro un paio di generazioni fa, e magari un po' anche adesso, si capisce benissimo.
il film sta in un numero di sale inferiore alle dita di una mano, per cui sarà un miracolo vederlo lì, bisognerà aspettare il dvd.
a me è piaciuto molto e così spero sarà per voi , e poi, avete mai visto un film etiopico? - Ismaele







…Le attrici sono abilissime nei loro ruoli. Meron Getnet, dalla carriera già avviata, in Etiopia è molto conosciuta e ricercata, ma ancora più pregevole è l’interpretazione della giovane Tizita Hagere, che alla sua prima prova recitativa in un ruolo sicuramente non semplice, dimostra di non essere da meno della matura collega. Le due vestono i panni di due donne che per la propria libertà hanno rinunciato a molto, prima di tutto alla famiglia, una per scelta l’altra per obbligo, rompendo con le tradizioni della propria terra.
Ma Difret è anche il coraggio di un giovane etiope, il regista Zeresenay Berhane Mehari, da anni trasferitosi negli Stati Uniti, che si è battuto affinché questo film fosse girato nel suo Paese nonostante l’industria cinematografica nazionale sia ancora poco sviluppata e sia difficile reperire troupe all’altezza e attrezzatura: una determinazione che gli è valsa il Premio del pubblico al Sundance e al Festival di Berlino.
Ma soprattutto è il coraggio dimostrato nel portare in scena in modo assolutamente obiettivo, mai melenso, ma toccante, una battaglia ancora in corso sul raggiungimento dell’uguaglianza dei diritti tra uomo e donna che non può non avvenire se non rompendo con il passato: la storia vera della piccola Hirut e di Meaza Ashenafi (che nel 2003 ha ricevuto il Premio Nobel Africano – The Hunger Projects Prize) è lo specchio di una realtà in lenta trasformazione, di una società in cui il desiderio di cambiare è più forte delle tradizioni.

La sceneggiatura rivela comunque un ottimo equilibrio, nell’evitare uno sguardo giudicante o manicheo, finanche sui membri di quel consiglio tribale che perpetuano pratiche e norme millenarie; pratiche che hanno comunque contribuito a costruire, e cementare, un senso di comunità impossibile da rintracciare nel contesto urbano. Nei rituali della vita del villaggio, capace di condannare a morte e uccidere, ma incapace di lasciar andare via un ospite (sia pure un “nemico”) senza offrirgli del cibo, si coglie anche la sottile nostalgia per un universo al tramonto, contrapposto alla burocrazia un po’ ottusa (e più cinica) delle procure e delle aule di tribunale.
Proprio per questo equilibrio nel racconto, e per una fruibilità, figlia della formazione del regista, che lo accosta a certo cinema statunitense di impegno civile, Difret si fa anche perdonare qualche scelta di montaggio non proprio ottimale (ne è un esempio la prima fuga della protagonista), risultando opera ricca di vigore e sincera. Una genuinità capace anche di culminare in un finale intelligente, che al coinvolgimento emotivo non dimentica di affiancare il necessario elemento della credibilità.

Nella vicenda di Hirut si intrecciano le due tensioni che attraversano, seppur con caratteristiche diverse, più di un Paese del continente africano. Da un lato la progressiva emancipazione delle donne che trova nelle città occasioni per affermarsi e dall'altro un mondo rurale in cui vigono regole imposte dai maschi e la più completa sottomissione della donna all'uomo. Ai tribunali previsti dall'ordinamento statale si sovrappongono le "corti di giustizia" che si riuniscono in un campo sotto un albero e in cui nessuna donna è presente. Hirut ha difeso la propria dignità di essere umano e questo la allontana dalla comunità proiettandola in una realtà aliena, quella della città in cui rumori e stili di vita la disorientano…

No se trata Difret de un filme que nos abrume en el plano estético, puesto que prefiere fundamentarse en los diálogos y en el lenguaje corporal para transmitirnos el avance de este drama social sin ampararse en la facción más lacrimógena de la historia. No hay morbo, no hay heridas, no es necesario mostrarlo todo de forma explícita y sangrante para que el espectador pueda comprender la gravedad y las secuelas de estos hechos para una niña de catorce años. Su mirada plasma, no sólo su tristeza después de todo lo acontecido, también su inquietudes futuras (¿Me expulsarán del pueblo por no llegar virgen al matrimonio? ¿Me condenarán a muerte?); unos factores que provocarán que nosotros también seamos testigos rabiosos de la injusticia. El papel de la abogada es la metáfora del cambio, de la ruptura generacional, de la revolución de valores que muchos ya tienen por bandera. La picapleitos se arriesga a perder muchas cosas por el camino, alza la voz sin importarle el cargo de su otro interlocutor, y representa la figura de una mujer africana moderna, motivada a estudiar, guiada por la independencia y la consciencia total sobre la integridad que merece en cuanto a su propio cuerpo. También alza una reflexión importante sobre racionalizar este tipo de barbaries y combatirlas desde la inteligencia y la reivindicación, no con puños y piedras…

… Il regista, nato e cresciuto ad Addis Abeba ma trasferitosi in America a quindici anni per studiare cinema, ha deciso di raccontare la vicenda di Hirut nel 2005, dopo aver conosciuto Meaza Ashenafi, avvocato che due anni prima era stata insignita dell’Hunger Projects Prize (il Premio Nobel africano) per il suo impegno in difesa dei diritti delle donne in Etiopia. Dopo tre anni di ricerche e interviste, Mehari inaugura un lungo periodo dedicato al reperimento dei fondi necessari alla realizzazione del film e, in questa ricerca, segue strade non sempre convenzionali: con il supporto della società di produzione di materiale etnografico Truth Aid vengono istituite due campagne su Kickstarter che, grazie al contributo di più di duecento finanziatori, fruttano decine di migliaia di euro. Mehari inizia così le riprese insieme a un’equipe formata da professionisti di tutto il mondo e a una troupe di cinquanta etiopi. Per il ruolo di Meaza sceglie Meron Getnet (una delle più note attrici del paese), affida la parte di Hirut all’esordiente Tizita Hagere mentre i numerosi ruoli secondari vengono ricoperti esclusivamente da attori non professionisti etiopi…

Senza interpretazioni memorabili, il film, girato in 35 mm, è dunque un’occasione solo parzialmente colta – perché porta all’attenzione il tema dei diritti delle donne e denuncia la violenza di cui sono vittime – ma è in parte persa, mancando sia l’obiettivo di coinvolgere davvero che quello di restare nella memoria.
da qui

2 commenti:

  1. Un film che si fa apprezzare per quello che racconta e per come lo racconta. Semplicemente, senza voler strafare.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. è un film "semplice", una sua caratteristica e un suo pregio, non vuole dire altro, se non quello che dice.

      Elimina