Svitol (Flavio Bucci) torna in Italia dopo alcuni anni di esilio volontario da qualche parte del Sudamerica.
l'Italia è cambiata troppo velocemente per lui, che deve capire cosa è successo.
ha alcune certezze, su cosa è di destra e cosa è di sinistra (come qualche anno dopo canterà Giorgio Gaber),
quasi non riconosce gli amici, chi è diventato un pezzo del potere, chi continua a sognare il sol dell'avvenire, chi riproduce le stesse dinamiche senza senso di anni prima.
Svitol non si ritrova, non capisce, non piace.
il film non sarà un capolavoro, ma fa pensare e discutere, e Flavio Bucci è da premio Oscar, come non (ri)vederlo?
buona (tormentata) visione - Ismaele
Il ’68 pare lontanissimo e il ’77 ha dato il colpo di grazia, nel
lungometraggio di esordio del giovane Marco Tullio Giordana. Maledetti vi amerò è un viaggio ora ironico, ora
cupo nello sfaldamento politico, ideologico e morale della sinistra
italiana colpita al cuore dall’omicidio
di Aldo Moro.
Usando il punto di vista di Riccardo “Svitòl”, appena tornato in
Italia dopo anni in Sud America, Giordana fa emergere con forza un panorama di
resa totale di fronte agli occhi increduli – mantenuti ingenui dalla
lontananza- di Flavio Bucci: una realtà incredibile e incomprensibile, in cui
le ideologie non sono più appiglio né valore, né forza aggregatrice, ma solo
inspiegabili derive o pose ipocrite svuotate di senso. L’inadeguatezza di
Svitòl è nel contrasto con il vecchio gruppo di amici ormai quasi
irriconoscibile, e stride anche dal punto di vista linguistico -gli
“articolini”, gli “oggettini” irrimediabilmente sbagliati con cui Svitòl cerca
di attirare l’attenzione su improbabili possibilità lavorative. Svitòl può solo
tentare di comprendere, dare una qualche forma al caos: arrovellandosi nella
ricostruzione di un mondo in dicotomie, impossibilitato a credere al
trascolorare dell’una e dell’altra parte in un unico magma insidioso e
sfuggente; elaborando tardivamente immagini di morte mediatizzata, che una
volta ridotte a pochi, essenziali segni, si assomigliano tutti; girovagando per
le strade deserte della città, abitate da sparuti gruppetti ormai completamente
travisanti l’idea che fu (i picchiatori comunisti): anch’essi macerie e
fantasmi, come la fabbrica abbandonata in cui lo smarrimento solitario di
Svitòl si fa ancor più chiaramente simbolico. Unici a leggere più lucidamente
la realtà, da un lato il commissario/Biagio Pelligra, che tenta invano di
mettere in guardia Svitòl dai suoi “compagnucci”, dall’altro un David Riondino
militante di Lotta Continua, che dà la sua desolante descrizione del
dopo-Pasolini e dopo-Moro, di una crisi collettiva che si incarna in derive
individuali, personali: come sarà anche quella di Svitòl, tragica risposta ad
una domanda rimbalzata addosso a tanti ma infine caduta nel vuoto
(“classeee..?” chiama nel deserto delle rovine della Fabbrica). Infine, di
tutte le parole con cui il film cerca di sviscerare il contesto, risaltano
quelle messe in bocca a Riondino, che già allora inchiodavano il rovello della
sinistra di tutti gli anni a venire: “loro governano, noi scriviamo e
piangiamo”.
… “Maledetti vi amerò” è
il miglior film sul declino della sinistra storica alla
fine degli anni Settanta. Riccardo “Svitol”, il protagonista (interpretato da
un Flavio Bucci da Palma d’Oro), rientra a Milano dopo una latitanza
di sei anni. L’aria che ritrova è quella della smobilitazione politica e
del disimpegno. Si preparano tempi nuovi.
I nostri. Quelli che viviamo ancor adesso, in putrefazione. Nell’Italia alle
soglie del simbolico 1980 egli
intravede solo ruderi ideologici:
di uomini, pensieri, azioni. Si ritrova solo. I compagni sono in fuga. Chi
è morto, chi si droga, chi si vende. “Svitol” ha il rilievo di un samurai senza
padrone, di un ronin. L’unico
suo contraltare è un altro ronin, un Commissario di Polizia (Biagio Pelligra). Anch’egli senza
patria. Entrambi comprendono d’essere reduci da una partita truccata in
cui chi ha prestato fede è stato sconfitto…
…Sul volto impassibile di un superlativo Flavio Bucci
si disegna la stanca rassegnazione di un mite rivoluzionario, un pò reduce e un
pò esule, che ritorna dalle sue peregrinazioni d'oltreoceano per ritrovare un
paesaggio di macerie industriali e omologazione sociale (classe! - dove sei finita
- urla con teatrale impotenza nella desolata scenografia di una fabbrica
abbandonata) in una ricognizione, tra irridenza e cattiveria, dei bolsi luoghi
comuni di un vuoto ideologismo, tra il mito di una guerra partigiana di 'statue
e bandierine', la prosaica elencazione di una ridicola dicotomia politica ('il
bagno è di destra e la doccia di sinistra'), le farneticazioni anarcoidi e la
paternale indulgenza di un ufficiale di polizia, gruppuscoli di inebetiti
'picchiatori di sinistra', il ridicolo teatrino di una informazione ipocrita e
tendenziosa e la amara constatazione che i morti sono tutti uguali quando sono
morti…
La morte di un ideale, la fine di un periodo della vita, la
decadenza che abbraccia il corpo, la mente e le azioni concrete degli esseri
umani, al lento ed impercettibile ritmo del mutare degli eventi. Il '68 è un
ideale piuttosto che un insieme di essi, è l'idea di un mondo migliore,
un'utopia giovanile, il cui inevitabile crollo è qui descritto con mano leggera
ed ispirata da un Giordana all'esordio, e lo sguardo perplesso, disperato,
inconsolabile di Bucci è la giusta rappresentazione fisica di un sentimento
così palpitante. La droga, il femminismo, le lotte per gli omosessuali, la
disoccupazione, il capitalismo, tutto sembra essere degenerato, ben oltre i
limiti e gli orizzonti che qualche anno prima si erano immaginati (e si era
cercato di impostare). Maledetti vi amerò è l'illustrazione della morte di un
sogno, dell'impossibilità di convivere con esso. "Ne uccide più la
depressione che la repressione", citando lo stesso film. Compare anche un
giovane David Riondino.
…"Maledetti vi amerò" rivelò un regista interessante,
che purtroppo fallì la seconda prova ("La caduta degli angeli
ribelli") e solo in seguito si è dimostrato direttore di solido mestiere.
Non tutti i critici capirono il film (lo stesso Mereghetti gli dà solo due pallini), perché
probabilmente sfuggì loro che la cifra stilistica fondamentale dell'opera prima
di Giordana è l'ironia. Questo film, infatti,
anche grazie all'eccellente prova di Flavio Bucci,
merita di figurare accanto ad un'opera simbolo del periodo del riflusso come
"Ecce bombo" (1978) di Nanni Moretti…
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