venerdì 3 settembre 2021

Maledetti vi amerò - Marco Tullio Giordana

Svitol (Flavio Bucci) torna in Italia dopo alcuni anni di esilio volontario da qualche parte del Sudamerica.

l'Italia è cambiata troppo velocemente per lui, che deve capire cosa è successo. 

ha alcune certezze, su cosa è di destra e cosa è di sinistra (come qualche anno dopo canterà Giorgio Gaber),

quasi non riconosce gli amici, chi è diventato un pezzo del potere, chi continua a sognare il sol dell'avvenire, chi riproduce le stesse dinamiche senza senso di anni prima.

Svitol non si ritrova, non capisce, non piace.

il film non sarà un capolavoro, ma fa pensare e discutere, e  Flavio Bucci è da premio Oscar, come non (ri)vederlo?

buona (tormentata) visione - Ismaele



 

Il ’68 pare lontanissimo e il ’77 ha dato il colpo di grazia, nel lungometraggio di esordio del giovane Marco Tullio Giordana. Maledetti vi amerò è un viaggio ora ironico, ora cupo nello sfaldamento politico, ideologico e morale della sinistra italiana colpita al cuore dall’omicidio di Aldo Moro.

Usando il punto di vista di Riccardo “Svitòl”, appena tornato in Italia dopo anni in Sud America, Giordana fa emergere con forza un panorama di resa totale di fronte agli occhi increduli – mantenuti ingenui dalla lontananza- di Flavio Bucci: una realtà incredibile e incomprensibile, in cui le ideologie non sono più appiglio né valore, né forza aggregatrice, ma solo inspiegabili derive o pose ipocrite svuotate di senso. L’inadeguatezza di Svitòl è nel contrasto con il vecchio gruppo di amici ormai quasi irriconoscibile, e stride anche dal punto di vista linguistico -gli “articolini”, gli “oggettini” irrimediabilmente sbagliati con cui Svitòl cerca di attirare l’attenzione su improbabili possibilità lavorative. Svitòl può solo tentare di comprendere, dare una qualche forma al caos: arrovellandosi nella ricostruzione di un mondo in dicotomie, impossibilitato a credere al trascolorare dell’una e dell’altra parte in un unico magma insidioso e sfuggente; elaborando tardivamente immagini di morte mediatizzata, che una volta ridotte a pochi, essenziali segni, si assomigliano tutti; girovagando per le strade deserte della città, abitate da sparuti gruppetti ormai completamente travisanti l’idea che fu (i picchiatori comunisti): anch’essi macerie e fantasmi, come la fabbrica abbandonata in cui lo smarrimento solitario di Svitòl si fa ancor più chiaramente simbolico. Unici a leggere più lucidamente la realtà, da un lato il commissario/Biagio Pelligra, che tenta invano di mettere in guardia Svitòl dai suoi “compagnucci”, dall’altro un David Riondino militante di Lotta Continua, che dà la sua desolante descrizione del dopo-Pasolini e dopo-Moro, di una crisi collettiva che si incarna in derive individuali, personali: come sarà anche quella di Svitòl, tragica risposta ad una domanda rimbalzata addosso a tanti ma infine caduta nel vuoto (“classeee..?” chiama nel deserto delle rovine della Fabbrica). Infine, di tutte le parole con cui il film cerca di sviscerare il contesto, risaltano quelle messe in bocca a Riondino, che già allora inchiodavano il rovello della sinistra di tutti gli anni a venire: “loro governano, noi scriviamo e piangiamo”.

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 “Maledetti vi amerò” è il miglior film sul declino della sinistra storica alla fine degli anni Settanta. Riccardo “Svitol”, il protagonista (interpretato da un Flavio Bucci da Palma d’Oro), rientra a Milano dopo una latitanza di sei anni. L’aria che ritrova è quella della smobilitazione politica e del disimpegno. Si preparano tempi nuovi. I nostri. Quelli che viviamo ancor adesso, in putrefazione. Nell’Italia alle soglie del simbolico 1980 egli intravede solo ruderi ideologici: di uomini, pensieri, azioni. Si ritrova solo. I compagni sono in fuga. Chi è morto, chi si droga, chi si vende. Svitol” ha il rilievo di un samurai senza padrone, di un ronin. L’unico suo contraltare è un altro ronin, un Commissario di Polizia (Biagio Pelligra). Anch’egli senza patria. Entrambi comprendono d’essere reduci da una partita truccata in cui chi ha prestato fede è stato sconfitto…

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Sul volto impassibile di un superlativo Flavio Bucci si disegna la stanca rassegnazione di un mite rivoluzionario, un pò reduce e un pò esule, che ritorna dalle sue peregrinazioni d'oltreoceano per ritrovare un paesaggio di macerie industriali e omologazione sociale (classe! - dove sei finita -  urla con teatrale impotenza nella desolata scenografia di una fabbrica abbandonata) in una ricognizione, tra irridenza e cattiveria, dei bolsi luoghi comuni di un vuoto ideologismo, tra il mito di una guerra partigiana di 'statue e bandierine', la prosaica elencazione di una ridicola dicotomia politica ('il bagno è di destra e la doccia di sinistra'), le farneticazioni anarcoidi e la paternale indulgenza di un ufficiale di polizia, gruppuscoli di inebetiti 'picchiatori di sinistra', il ridicolo teatrino di una informazione ipocrita e tendenziosa e la amara constatazione che i morti sono tutti uguali quando sono morti…

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La morte di un ideale, la fine di un periodo della vita, la decadenza che abbraccia il corpo, la mente e le azioni concrete degli esseri umani, al lento ed impercettibile ritmo del mutare degli eventi. Il '68 è un ideale piuttosto che un insieme di essi, è l'idea di un mondo migliore, un'utopia giovanile, il cui inevitabile crollo è qui descritto con mano leggera ed ispirata da un Giordana all'esordio, e lo sguardo perplesso, disperato, inconsolabile di Bucci è la giusta rappresentazione fisica di un sentimento così palpitante. La droga, il femminismo, le lotte per gli omosessuali, la disoccupazione, il capitalismo, tutto sembra essere degenerato, ben oltre i limiti e gli orizzonti che qualche anno prima si erano immaginati (e si era cercato di impostare). Maledetti vi amerò è l'illustrazione della morte di un sogno, dell'impossibilità di convivere con esso. "Ne uccide più la depressione che la repressione", citando lo stesso film. Compare anche un giovane David Riondino.

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"Maledetti vi amerò" rivelò un regista interessante, che purtroppo fallì la seconda prova ("La caduta degli angeli ribelli") e solo in seguito si è dimostrato direttore di solido mestiere. Non tutti i critici capirono il film (lo stesso Mereghetti gli dà solo due pallini), perché probabilmente sfuggì loro che la cifra stilistica fondamentale dell'opera prima di Giordana è l'ironia. Questo film, infatti, anche grazie all'eccellente prova di Flavio Bucci, merita di figurare accanto ad un'opera simbolo del periodo del riflusso come "Ecce bombo" (1978) di Nanni Moretti

da qui


 



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