Due camici
bianchi, di spalle, osservano, chinati, dei documenti lisi dal tempo. Nella
penombra di questa piccola stanza del quartiere Comico Mermoz di Dakar, intrisa
di riverberi rosati e verdastri e abbagliata da un unico neon acceso, le mani
di Tiziana e Marco sollevano delicatamente il foglio ruvido e ingiallito
del Programme des spectacles du premier festival mondial des arts
nègres, 1966.
Sul foglio
ingiallito dal tempo spiccano nomi celebri: Miriam Makeba Recital, Teatro
Sorano, 6 aprile, Duke Ellington, Séances populaire de jazz, 5 aprile. Stampati
sulla squama impalpabile della carta, un numero impressionante di incontri,
esibizioni e assemblee, un intrattenimento fittissimo denso di storia: quella
degli anni immediatamente successivi alla decolonizzazione, quando un
continente intero si mostrava libero al mondo e parlava orgogliosamente
della négritude.
La voce di
Ndiaga Thiombane, responsabile del patrimonio della cineteca, irrompe
nell’indagine del documento. «Qui est cette femme?» chiede l’uomo. «Oui, Ursula
Andress… une actrice célèbre, la première Bond Girl» risponde Marco.
Dal novembre
del 2019, Tiziana Manfredi, regista e videoartista, e Marco Lena, storico e
restauratore audiovisivo, lavorano con dedizione al recupero, riorganizzazione
e digitalizzazione dell’archivio storico della cineteca senegalese. Era il 2009
quando i due ricercatori si imbatterono per caso in questo tesoro perduto.
Nel vecchio
ministero della comunicazione, stoccato all’interno di un locale fatiscente e
impregnato di umidità e passato, un enorme archivio audiovisivo composto da
6mila bobine di film, documentari e cinegiornali e oltre 100mila negativi
fotografici, risale a un periodo che va dalla fine degli anni ‘50 fino agli
anni ‘80. Fino ad oggi, del grande archivio sono state salvate solo circa 400
bobine, mentre per molte altre il tentativo è stato vano perché ormai colpite
dalla “sindrome acetica”, una reazione che riduce la celluloide in poltiglia se
mal conservata.
«Fu
emozionante come un ritrovamento archeologico. Ci interessammo immediatamente
al restauro perché amiamo il cinema e la storia africana» spiega Tiziana
intenta a catalogare delle buste di negativi. Dopo un percorso di tre anni di
stesura del progetto assieme alla collaborazione con Hugues Diaz, l’ex
direttore de la cinématographie du Sénégal, l’archivio è stato finalmente
trasferito «in questo piccolo laboratorio che attualmente rappresenta la rinata
cineteca nazionale».
«Lo scopo di
questo progetto è tramandare la storia, questa operazione potrebbe essere il
primo passo per poter ri-scrivere attraverso le immagini una storia completa,
fino ad oggi per lo più raccontata con un approccio eurocentrico. L’idea di
poter mettere a disposizione del mondo intero questa sorta di archeologia
visuale del Senegal indipendente per noi è fondamentale». Dalle parole di Marco
traspare la voglia di far conoscere il Senegal dopo anni di silenzio, un
entusiasmo che opera in un ambiente dinamico ma non privo di difficoltà per
l’ancora lunga attesa di fondi.
La parte di
archivio recuperata è formata principalmente dalle Actualitées
sénégalaises, cinegiornali prodotti nell’epoca post indipendenza, destinati
ad essere proiettati nei cinema per mostrare al pubblico il paese in piena
rinascita. Scivolando con lo sguardo su queste materie plastiche, ci si immerge
nel passato. Si può ammirare una Dakar anni ’60, ormai scomparsa, ricca di
verde, connubio fra architetture di stampo coloniale francese e un linguaggio
stilistico islamico.
Immagini di
incontri istituzionali che riunivano le più importanti personalità dell’epoca
postcoloniale e del panafricanismo, invitate dall’allora presidente Leopold
Sedar Senghor. Ci sono opere prime di giovani registi precursori come Paulin
Soumanou Vieyra, pioniere del cinema sub sahariano, realizzatore nel 1955
assieme a Jacques Melo Kane, Robert Caristan e Mamadou Sarr di Afrique
sur Seine, primo film realizzato da registi del continente, e del quale è
stato ritrovato un film considerato perso.
Blaise
Senghor, un altro antesignano del cinema senegalese, all’epoca addetto alla
cultura e quindi ideatore di tutti i reportage culturali. Tidjane Aw, cineasta
del periodo e successivamente direttore della cineteca nazionale, di cui Marco
e Tiziana hanno recuperato il primo film da lui girato nel ’69, presentato al
festival di Mannheim e riguardante un rito di esorcismo della tradizione Lebou,
prima etnia ad aver occupato la penisola dove è sorta la capitale. Ma non è un
caso isolato.
Impilate
sugli scaffali, come rotelle di liquirizia, decine di “pizze” ossidate dalle
sigle enigmatiche: Doc. Casamance, Le million le monde, Magal
Touba ‘61. Si tratta di primi esempi di documentario realizzati da un punto
di vista nero che raffigurano cerimonie popolari senza la visione trasversale
del narratore bianco, come potevano essere le divulgazioni alla Jean Rouch.
«Ci siamo
resi conto che molte delle personalità positive della storia del continente non
sono conosciute, soprattutto per la difficoltà di recuperare materiale visivo
su di esse. Ma che faccia hanno i padri fondatori d’Africa?» Marco si siede
davanti alla tavola passafilm, strumento da lui costruito in modo artigianale e
importato dall’Italia che permette il primo visionnage delle
bobine e la riparazione manuale delle perforazioni. Le mani inguantate del
ricercatore passano con meticolosità un vecchio nastro su un riquadro di luce
dorata che si rifrange un muro tappezzato di etichette e appunti siglati.
Dall’altra
parte della stanza Tiziana sta visionando una fotografia che ritrae un gruppo
di personalità politiche dell’epoca su una decappottabile, tra cui il primo
ministro senegalese Mamadou Dia, durante il Festival des artes negres.
Fra gli altri personaggi celebri che compaiono nelle istantanee d’epoca, vi
sono Elisabetta II d’Inghilterra in visita nel paese in quegli anni e i Jackson
Five, venuti ad esibirsi nel 1974. Immagini silenziose ed evocative.
«Potrebbero
esserci centinaia di tesori perduti come questo sparsi nel paese e nell’intera
regione. Sarebbe un sogno avere i mezzi per poterli visionare e restaurare».
Gli occhi verdi di Tiziana brillano al solo pensiero. «Abbiamo ora instaurato
un dialogo fecondo con il nuovo direttore entrante, monsieur Germain Coly e nel
mese di dicembre 2020 il progetto è stato presentato formalmente con un ciclo
di proiezioni di estratti di filmati digitalizzati, grazie alla cineteca di
Toulouse».
L’iniziativa
ha attratto un gran numero di persone dakarois e non. Un
successo probabilmente dovuto allo sforzo di riconsiderare il concetto di
memoria e patrimonio, molto caro ai senegalesi. «L’obbiettivo è spostare
l’archivio nella Citè du cinéma, oggi in costruzione, che ospiterà
i nuovi locali della cineteca e il laboratorio di restauro, dov è prevista la
formazione di tecnici specializzati, grazie al probabile supporto della
Cineteca di Bologna», afferma Tiziana.
La vita
culturale e cinematografica del continente ha vissuto il suo momento d’oro nel
ventennio che va dagli ’60 agli anni ’80, per poi subire un declino
vertiginoso. Da qualche anno, il mercato cinematografico “saheliano” ha
osservato una rinascita grazie alla creatività fervente e al vigore di giovani
cineasti emergenti. Numerose le partecipazioni di film senegalesi a festival
nazionali, come il Fespaco, il Marrakech international film festival, il
tunisino Carthage film festival e internazionali come Cannes e Locarno. Molte
anche le produzioni estere che hanno deciso di investire e di credere nelle
maestranze locali.
I sempre più
numerosi corsi di formazione sulle professioni audiovisive stanno partorendo
una generazione di autori e tecnici competenti. Nonostante il paese stia
vivendo un nuovo impulso artistico, le difficoltà non mancano: dai
finanziamenti insufficienti per attrezzature e case di produzione, fino alla
penuria di film per il grande pubblico.
I prodotti
televisivi in generale, come le serie e i TV movies, sembrano potenziare il
mercato e renderlo sostenibile. Dai cinque lungometraggi prodotti in media durante
l’anno, la direzione si propone di raddoppiarli nel prossimo triennio. «Nel
silenzio di un archivio», come dice Marco, solo le pellicole in 16mm parlano.
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