secondo film della trilogia, continua la storia della banda dei ricercatori.
si può anticipare il rilascio dalle patrie galere con un lavoro in collaborazione con la polizia.
avventure che non dispiacciono, anzi, e tanta azione, Tenet ha copiato da Smetto quando voglio: Masterclass, è sicuro.
gran divertimento e azione, quindi, domani mi guardo il terzo, mutatis mutandis la commedia italiana degli anni '60 ha degli emuli degni.
buona visione - Ismaele
QUI il film completo, su Raiplay
…Smetto Quando Voglio –
Masterclass sceglie sempre di
partire dalla propria idea centrale, il nucleo originale ed unico della serie, cioè
l’unione che è presente in ogni suo personaggio tra una grande preparazione,
una grande intelligenza e una scarsa visione di mondo. Questo contrasto è la
maniera attraverso la quale Smetto Quando Voglio presenta
il proprio universo e racconta ogni scena, anche quelle d’azione, tutto con una
coerenza comica che è la regola nel cinema d’azione e intrattenimento migliore
ma che suona innovativa qui, in un paese in cui l’evoluzione del genere si è
fermata agli anni ‘70.
Non a caso allora questi eroi quotidiani,
così radicati nell’ordinario e nel piccino, ma anche sorprendentemente in grado
di essere protagonisti di una storia avventurosa, con tutto il grottesco dato
dal mantenere parte della loro inadeguatezza, non somigliano ad eroi moderni ma
a quelli del cinema anni ‘80 statunitense…
…vengono ripresi i punti di forza del primo capitolo, in primis
quest’estetica “allucinogena” con una fotografia notturna
e dai filtri invadenti, inquadrature pindariche, mdp libera, montaggio serrato
e musica ad alta gradazione di decibel, poi un’ironia scorretta e battute
demenziali, per sfociare questa volta nei territori dell’action e
del poliziesco, con omaggi dichiarati alle grandi saghe del cinema
d’avventura, da Indiana Jones a Ritorno al futuro.
Ecco allora assalti ai treni, inseguimenti urbani, combattimenti a mani nude,
ma anche accordi tra Stato e malavita: in Masterclass,
infatti, la banda dei ricercatori viene riassemblata e i criminali, in modo
simile a Suicide Squad, stringono un patto con le
istituzioni per ripulire la loro fedina penale e tornare in libertà. Come
già nel primo film, anche in Masterclass si
ride, e molto, ma anche qui la risata non è mai liberatoria e, anzi, porta con
sé un inevitabile disagio. La critica sociale è forse un
po’ più sotterranea, o meglio offuscata dalla maggiore spettacolarità, ma non
per questo meno forte: ecco allora l’istantanea tutt’altro che
retorica sui cervelli in fuga e la loro crisi identitaria (“se
vuoi trasformare un uomo in una nullità non devi far altro che ritenere inutile
il suo lavoro” viene in mente scomodando Dostoevskij), l’inutilità
della passione e del coraggio dei giornalisti free-lance, e
soprattutto l’opportunismo e l’ambiguità delle istituzioni di
giustizia…
…La trama poi non aiuta, perché questo nuovo capitolo (alla fine fatto ad uso
e consumo del terzo che verrà, forse?) non fa altro che giochicchiare senza
nerbo con la dimensione temporale in modo che nemmeno inizia il film e dobbiamo
correre indietro nel tempo a recuperare un blocco narrativo enorme (e chi non
ha visto il primo?). Va bene, capiamo benissimo il meccanismo, però il
risultato è davvero povero. Gli spiantati ricercatori questa volta devono
recuperare, analizzare e registrare per conto della questura 30 nuove smart
drugs legali prima che il ministero le censisca e le cataloghi illegali. Ebbene
per un’ora che accade? Nulla, se non un shakerata continua del blocco
“commissariato di polizia” e di quello “urla dei ricercatori”. Tutto in attesa
dell’inseguimento finale su un treno merci che corre su un binario tra due
strade trafficate. La trovata grottesca del
sidecar e camioncino nazista (i ricercatori rincorrono il
treno e il suo prezioso carico su questi mezzi indossando anche gli elmetti
delle SS) meritava di essere l’apice di un strutturato non sense disseminato
lungo il film e non un’estemporanea trovata simbolico/figurativa. Ma fa niente.
Almeno qui con la sorpresa del nervoso villain che contende la merce ai
ricercatori (non diciamo il nome dell’attore anche se è scritto in ogni
dove) la situazione si rianima un po’, vive un improvviso guizzo di saga alla
supereroi…
…Una delle cose che saltano prima
all’occhio è l’accantonamento della componente di denuncia sociale, di cui il
primo Smetto quando voglio era pregno. Se nel precedente
capitolo ci veniva infatti ricordato ogni due per tre che questa banda era
sostanzialmente obbligata a delinquere, visto che lo status quo li aveva messi
all’angolo, ignorando tutti i loro meriti accademici, di questa cosa in Masterclass quasi
non ce n’è traccia. Tutto è praticamente subordinato allo spettacolo messo a
schermo, che è, va ricordato, di pregevole fattura. Nonostante venga
etichettato da qualcuno come uno dei più classici more of the same, Smetto
quando voglio: Masterclass ha una personalità propria e distinta, che
riprende l’archetipo precedentemente creato per reinventarsi, proponendo un
film fresco e dalla comicità intelligente. La sensazione, che si aveva col film
del 2014, di guardare una sorta di Breaking Bad comico in
salsa italiana, in questo sequel è completamente svanita. A venire a galla è
invece la personalità dei protagonisti; alcuni sì ancora relegati al ruolo di
macchietta, altri realmente riusciti, che anche più di prima riescono a far
venire a galla i propri tratti distintivi, accompagnando e interagendo alla
perfezione con tutte le situazioni tragicomiche che si porranno davanti al loro
percorso.
Insomma, in Smetto quando voglio: Masterclass funziona davvero tutto. Dagli attori alla sceneggiatura, dalla fotografia coloratissima a una regia sempre puntuale e dalla personalità propria. Sì, certo, qualche sbavatura qua e là c’è, ma con questa pellicola, anche più rispetto a quella del 2014, Sydney Sibilia ha dimostrato a tutti, insieme a Matteo Rovere (Veloce come il vento) e Gabriele Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot), che anche in Italia è possibile fare del cinema intelligente.
…sposta la sfida dei protagonisti un po’ più in là e un po’
più verso il racconto supereroistico, corale e
divertente. Smetto quando voglio 2 è in questo senso
una buonissima sintesi tra la tematica sociale, che può esistere solo se si ha
la capacità di guardarsi dentro a livello di scrittura, quindi plauso a Luigi
Di Capua, Francesca Manieri e lo stesso Sibilia che sanno usare la sciabola del
paradosso senza timori e la comicità da blockbuster che
guarda agli Stati Uniti. Solo che nessuno fino a qui in
Italia ha condotto così bene l'esperimento e per due capitoli, saranno tre in
totale, in certi versi simili ma anche in grado di differenziarsi e fare un
passo avanti ulteriore.
Di budget, di tono, di caratterizzazione. E
quando Smetto quando voglio 2 si chiude, lo
spettatore sa che nel prossimo capitolo i ricercatori saranno qualcosa di molto
simile a certi supereroi; come i cugini Marvel ma senza il difetto della
copiatura. Cioè saranno imperfetti, ciascuno con un tic fatale e forse non
proprio pronti a rispondere a una chiamata più grande del proprio tornaconto
personale. Con questo ultimo fim, dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Veloce
come il vento, oltre che il primo capitolo di Smetto
quando voglio, il cinema italiano sta trovando un suo stile e un suo
animo profondo che sa mescolare il racconto della realtà all'azione
adrenalinica. Non siamo solo cinema d'autore e lacrime; e questo va detto
soprattutto nei confronti di chi sostiene che nella nostra libreria culturale
collettiva ci sia posto per un solo libro. O elitario o popolare. Mentre è
chiaro che i due sistemi possono allegramente coesistere. E poi questo gruppo
di Smetto quando voglio ha persino un leader, Pietro
Zinni (Edoardo Leo), che sa davvero fa il suo lavoro di attore
e di capo spirituale della gang.
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