mercoledì 27 marzo 2019

1945 - Ferenc Török

a guerra non ancora finita riaffiorano le storie indecenti successe in quel piccolo villaggio.
basta l'arrivo di due sconosciuti per far scoppiare storie di denunce furti e lager.
in un bianco e nero splendido la resa dei conti, soffia un'aria da western.
non perdetevelo, non vi deluderà - Ismaele





 …La fotografia di Elemér Ragályi regala al film una veste raffinata e glaciale, dove il bianco e il nero sono definiti con una decisione che lascia poco spazio alle sfumature. Nelle inquadrature, sempre ben studiate, il regista e il suo entourage non perdono mai il controllo della narrazione che procede scandita sulle lancette dell’orologio. Come in una tragedia greca, si conserva l’unità di azione, tempo e luogo lasciando che sia il coro a raccontare tutto ciò che è avvenuto prima dei titoli di testa.
1945 fa parte di un cinema che non racconta, ma mostra gli effetti di una catastrofe e i segni che lascia sui superstiti. Gli autori Ferenc Török e Gábor T. Szántó si dedicano a uno spaccato di microstoria attraverso cui costruire un’attuale coscienza politica e  lanciano un appello alla presa collettiva di posizione e all’assunzione di responsabilità come patrimonio individuale di ogni cittadino. L’indifferenza è sempre dietro l’angolo, ma film come 1945 sono secchiate d’acqua gelida per chi crede che basti coltivare il proprio orticello per potersi dire brave persone.

La Shoah vista dalla parte di chi ha denunciato, tradito, rubato. Un taglio poco praticato finora al cinema, e tocca a un altro giovane regista ungherese, dopo il Laszlo Nemes di Il figlio di Saul, riprendere e riscrivere in parte il paradigma della rappresentazione della Shoah. Anche se qui non siamo al livello di Nemes. Nella sua prima parte 1945 stenta parecchio, è confuso e indeciso sulla pista narrativa da imboccare, affolla disordinatamente troppi personaggi, oltretutto con un montaggio non impeccabile. Ma è un film perturbante, vivaddio, che osa e sbanda, e però ti lascia un segno addosso. E quella campagna ungherese percorsa dall’avidità, dalla rapacità, dalle miserie umane ricorda non solo il più livido e sconsolato Bela Tarr ma anche, soprattutto, altri film del passato sull’Olocausto e sull’antisemitismo nell’Europa centrale, film girati nello stesso cupo bianco e nero, negli stessi paesaggi e ambienti polverosi e soffocati: il cecoslovacco Il negozio al corso (allora c’era la Cecoslovacchia) e Il processo di Georg Wilhelm Pabst. E quando vedi – rivedi – i bravi contadini del villaggio raggiungere minacciosi con i forconi i due misteriosi ebrei pensi ai pogrom, a quell’orrendo rito sacrificale che per secoli ha infettato quei paesi, e che forse ancora continua. E come i fa a non pensare all’Ungheria di oggi, di adesso, con i suoi nazionalismi risorti e le chiusure identitarie e gli aroccamenti, con i suoi rigurgiti antisemiti? Si pensi solo agli attacchi continui a George Soros, di radici ebraico-magiare.

La struttura classica del film conferisce un’aura di solenne tragicità alla narrazione, che procede a fasi alterne. Alla frenetica situazione vissuta in città fa da contraltare la ieratica e taciturna processione dei due ebrei. Il panico scatenato dalla presenza di queste sconosciute figure fa riemergere segreti e menzogne, mentre si palesa inequivocabilmente la colpa e la complicità degli abitanti nella deportazione dei propri concittadini. In questo psicologico gioco al massacro si fanno importanti i dettagli di 1945, ai quali Ferenc Török attribuisce abilmente dei suggestivi espedienti narrativi. Le posate d’argento nascoste in fretta e furia, i mobili semplici ma raffinati, la radio che annuncia i giochi di potere dei partiti che si contendono l’Ungheria. Tutto acquista un valore simbolico, mentre la tensione sale fino al fatidico incrocio: un piccolo barlume di speranza per quei pochi personaggi ritenuti meritevoli.

Sfruttando ancora una volta i topos del western, Török ci presenta da una parte i ladri della refurtiva, ovvero gli abitanti del villaggio, e dall’altra gli appartenenti all’ordine e alla giustizia, coloro che hanno perduto tutto, gli ebrei. Ma a differenza di un film con John Wayne, questi ultimi non sono pistoleri che tentano di risolvere i loro problemi adoperando l’arma della vendetta, bensì essi fungono come da espediente narrativo per dipanare la matassa di una storia che, come in un thriller, tesse i fili dell’incertezza e della suspense, verso una lenta e sempre più decisa risoluzione. Basta il loro incedere sicuro e gravoso, la loro presenza muta e solenne, a rompere l’equilibrio di un villaggio, a farne fuoriuscire, come da un inconscio collettivo, gli sbagli ed i sensi di colpa…

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