basta l'arrivo di due sconosciuti per far scoppiare storie di denunce furti e lager.
in un bianco e nero splendido la resa dei conti, soffia un'aria da western.
non perdetevelo, non vi deluderà - Ismaele
…La Shoah vista dalla
parte di chi ha denunciato, tradito, rubato. Un taglio poco praticato finora al
cinema, e tocca a un altro giovane regista ungherese, dopo il Laszlo Nemes
di Il figlio di Saul, riprendere e riscrivere in parte il
paradigma della rappresentazione della Shoah. Anche se qui non siamo al livello
di Nemes. Nella sua prima parte 1945 stenta
parecchio, è confuso e indeciso sulla pista narrativa da imboccare, affolla
disordinatamente troppi personaggi, oltretutto con un montaggio non
impeccabile. Ma è un film perturbante, vivaddio, che osa e sbanda, e però ti
lascia un segno addosso. E quella campagna ungherese percorsa dall’avidità,
dalla rapacità, dalle miserie umane ricorda non solo il più livido e sconsolato
Bela Tarr ma anche, soprattutto, altri film del passato sull’Olocausto e
sull’antisemitismo nell’Europa centrale, film girati nello stesso cupo bianco e
nero, negli stessi paesaggi e ambienti polverosi e soffocati: il cecoslovacco Il negozio al corso (allora c’era la Cecoslovacchia)
e Il processo di Georg Wilhelm Pabst. E quando vedi –
rivedi – i bravi contadini del villaggio raggiungere minacciosi con i forconi i
due misteriosi ebrei pensi ai pogrom, a quell’orrendo rito sacrificale che per
secoli ha infettato quei paesi, e che forse ancora continua. E come i fa a non
pensare all’Ungheria di oggi, di adesso, con i suoi nazionalismi risorti e le
chiusure identitarie e gli aroccamenti, con i suoi rigurgiti antisemiti? Si
pensi solo agli attacchi continui a George Soros, di radici ebraico-magiare.
…La struttura classica del
film conferisce un’aura di solenne tragicità alla narrazione, che procede a
fasi alterne. Alla frenetica situazione vissuta in città fa da contraltare
la ieratica e taciturna processione dei due ebrei. Il
panico scatenato dalla presenza di queste sconosciute figure fa riemergere
segreti e menzogne, mentre si palesa inequivocabilmente la colpa e la complicità degli abitanti nella
deportazione dei propri concittadini. In questo psicologico gioco al massacro
si fanno importanti i dettagli di 1945, ai quali Ferenc Török attribuisce abilmente dei suggestivi
espedienti narrativi. Le posate d’argento nascoste in fretta e furia, i mobili
semplici ma raffinati, la radio che annuncia i giochi di potere dei partiti che
si contendono l’Ungheria. Tutto acquista un valore simbolico, mentre
la tensione sale fino al fatidico incrocio: un
piccolo barlume di speranza per quei pochi personaggi ritenuti meritevoli.
…Sfruttando
ancora una volta i topos del western, Török ci presenta da una parte i ladri
della refurtiva, ovvero gli abitanti del villaggio, e dall’altra gli
appartenenti all’ordine e alla giustizia, coloro che hanno perduto tutto, gli
ebrei. Ma a differenza di un film con John Wayne, questi ultimi non sono
pistoleri che tentano di risolvere i loro problemi adoperando l’arma della
vendetta, bensì essi fungono come da espediente narrativo per dipanare la
matassa di una storia che, come in un thriller, tesse i fili
dell’incertezza e della suspense, verso una lenta e sempre più decisa
risoluzione. Basta il loro incedere sicuro e gravoso, la loro presenza muta e
solenne, a rompere l’equilibrio di un villaggio, a farne fuoriuscire, come da
un inconscio collettivo, gli sbagli ed i sensi di colpa…
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