Jack, un bravissimo Matt Dillon (a volte con un'aria da Jim Carrey) è un serial killer, scientifico e filosofo (come Bob Dylan si avventura in discorsi sintetizzati in fogli successivi, che scorrono nelle sue mani).
il film è pieno di citazioni e la fine è inattesa, una parte importante la interpreta Bruno Ganz, Virgilio dantesco.
Jack uccide sopratutto donne, come quasi tutti i serial killer, e le donne non hanno scampo, purtroppo.
coi morituri e i morti Jack vuole fare delle opere d'arte.
e poi l'inferno.
la casa del titolo è una ripetuta fenice, Jack non sa bene cosa vuole.
comunque la si pensi su Lars von Trier, questo film è da non perdere, promesso - Ismaele
…Lars von Trier ha l’accortezza e l’intelligenza di non
ricorrere mai a ovvietà sociologistiche e psicologistiche per spiegare il suo
protagonista. Semplicemente lo mostra, lasciando che siamo noi a interrogarci
sulla natura dell’umano e del disumano e sull’ineliminabile presenza del male
nel mondo. E, come tornando incosciamente alla questione-ossessione che fu
all’origine della sua cacciata dal paradiso terrestre di Cannes, quella del
nazismo, ci mostra l’albero di Goethe, sotto il quale sostava il grand’uomo
totem della cultura tedesca, devotamente preservato nei pressi del lager di
Buchenwald. Ma sono anche quei cadaveri ammucchiati nella cella, con il freddo
a preservarli dalla corruzione, usati come materiale di costruzione di una
sorta di Arc de Triomphe, a richiamare da una parte i corpi affannati intorno
alla zattera di Géricault (e alla dantesca barca di Delacroix), dall’altra le
montagne di cadaveri ritrovati dagli alleati al loro ingresso nei campi di
sterminio. Poi The House That Jack Built svolta
in un’ultima parte che può sembrare narrativamente incongrua, ma di inaudita
potenza visiva. Con Verge nuovo Virgilio che accompagna Jack (abbigliato in
tunica rossa con cappuccio che lo apparenta all’immagine consegnata di Dante)
letteralmente all’inferno, rappresentato con molti richiami alle tavole di
Gustave Doré. Di più non si può dire, se non che questo viaggio agli inferi è
figurativamente stupefacente, uno dei vertici del cinema di questi ultimi anni…
…Lars
von Trier sta raccontando una storia, e lo fa in modo segmentato come gli è
abbastanza consono e lo fa attingendo senza reticenze ai topos del genere,
componendo un thriller dalle tinte forti costruito attorno a un villain
d’assoluta efficacia (ed è un piacere tornare ad ammirare sul grande schermo
Matt Dillon). Ma sta anche raccontandosi, e sta mettendo in immagini la sua
infinita polemica col tempo che è costretto a vivere, e con la mediocrità
culturale che lo circonda. Il riferimento alla naturale idiozia del femminile è
da inserire in questo quadro complesso, e stratificato. È il riferimento
all’immaginario di Jack poeta/esecutore, e con ogni probabilità all’immaginario
di una parte consistente del mondo maschile che si troverà a guardare il film.
Tutto parte da due parole, si scriveva all’inizio della recensione. La prima è Jack, e la seconda è “sophisticated”, il nome d’arte utilizzato dal protagonista per firmare le sue opere. Perché se jack è un cric, un oggetto rozzo di metallo utile solo in condizioni di difficoltà, la raffinatezza è il punto d’arrivo del percorso del protagonista. Una raffinatezza che, come tutti i gesti “sofisticati” dall’uomo rispetto alla natura non può che nascondere al proprio interno una belluina voglia di distruzione. Più che uccidere Jack lascia macerare, marcire, gli oggetti-umani che si trova a trattare…
Tutto parte da due parole, si scriveva all’inizio della recensione. La prima è Jack, e la seconda è “sophisticated”, il nome d’arte utilizzato dal protagonista per firmare le sue opere. Perché se jack è un cric, un oggetto rozzo di metallo utile solo in condizioni di difficoltà, la raffinatezza è il punto d’arrivo del percorso del protagonista. Una raffinatezza che, come tutti i gesti “sofisticati” dall’uomo rispetto alla natura non può che nascondere al proprio interno una belluina voglia di distruzione. Più che uccidere Jack lascia macerare, marcire, gli oggetti-umani che si trova a trattare…
…Non sapremo mai chi sia realmente il
misterioso interlocutore di Jack. Nell’ultima sezione lo vedremo con il volto e
le membra del sempre gigantesco Bruno Ganz, ma non sapremo mai se si tratti di
un’allucinazione di Jack, della voce della sua coscienza, di un sogno/incubo, o
forse è ancora un ulteriore doppio di Lars Von Trier, quello che si
autointerroga, quello che cerca di capire la propria e altrui natura. Quello
che sappiamo è che il ruolo di ascoltatore di Verge, al termine dei cinque
“incidenti” che condurranno all’Epilogo finale, sarà destinato a tenere fede
alla storpiatura del proprio nome e a trasformarsi in un vero e proprio
Virgilio, guida di Jack verso e nell’inferno, che poi nient’altro è che
l’inferno di contraddizioni e di dolore della natura e dei comportamenti umani,
e il ritorno sotto una luce inquietante degli eventi passati di fronte
all’incertezza, alla chiusura e al vero e proprio terrore nei confronti del
futuro…
…The house that Jack built è un
film complesso, stratificato, metalinguistico, ipnotico, metaculturale, quasi
oracolare nella sua densità, e al contempo dolente, impaurito, nervoso. È un
film che contiene un intero cinema, un intero autore, un intero immaginario, un
intero uomo fatto di doppiezze e ambiguità, fatto di amarezze e di
inquietudini, fatto di nichilismo e di tendenze alla dissoluzione. E
soprattutto fatto di raffinatezza, di sofisticatezza, di necessità ancestrale
dell’atto creativo, e fatto di una ben precisa filosofia, secondo la quale le
regole morali da sempre tarpano la libertà artistica, e piuttosto che accettare
la censura, il compromesso, il passo indietro dalla pura autorialità, è
decisamente meglio scegliere liberamente la dannazione. L’arte è un’arma
potentissima, che può manipolare, far marcire, distruggere, ma anche salvare
l’umanità e il mondo. O per lo meno può salvare un uomo. Il che è già
moltissimo. Hit the road, Jack! Hit the road, Lars! E grazie per questa
definitiva e ineludibile gemma.
…Tutto parte da due parole, si scriveva all’inizio
della recensione. La prima è Jack, e la seconda è “sophisticated”, il nome
d’arte utilizzato dal protagonista per firmare le sue opere. Perché se jack è un cric, un oggetto rozzo di
metallo utile solo in condizioni di difficoltà, la raffinatezza è il punto
d’arrivo del percorso del protagonista. Una raffinatezza che, come tutti i
gesti “sofisticati” dall’uomo rispetto alla natura non può che nascondere al
proprio interno una belluina voglia di distruzione. Più che uccidere Jack
lascia macerare, marcire, gli oggetti-umani che si trova a trattare. Quando
sarà poi a lui trovarsi nella condizione di “pena”, sceglierà il rischio della
dissoluzione totale piuttosto che la conservazione di uno status quo, fosse
anche quello del condannato al supplizio eterno. Lars von Trier è un filosofo,
oltre che un regista, ed è un regista perché filosofo. Il suo
nuovo film è ovviamente anche una riflessione sul proprio ruolo di
creatore/dittatore/omicida: e quei ringraziamenti straordinari ad alcuni tra
attori e attrici dei suoi film acquistano un valore particolare, teorico ma
anche (perché no) sarcastico e perfino sadico. Lars von Trier è un filosofo,
e La casa di Jack ne è solo l’ennesima
dimostrazione, di fronte alla quale in molti sceglieranno di voltarsi
dall’altra parte. Ingegneri o architetti?
Nessun commento:
Posta un commento