lunedì 4 marzo 2019

The House That Jack Built (La casa che Jack ha costruito) - Lars von Trier

Lars von Trier non è tipo da film semplici.
Jack, un bravissimo Matt Dillon (a volte con un'aria da Jim Carrey) è un serial killer, scientifico e filosofo (come Bob Dylan si avventura in discorsi sintetizzati in fogli successivi, che scorrono nelle sue mani).
il film è pieno di citazioni e la fine è inattesa, una parte importante la interpreta Bruno Ganz, Virgilio dantesco.
Jack uccide sopratutto donne, come quasi tutti i serial killer, e le donne non hanno scampo, purtroppo.
coi morituri e i morti Jack vuole fare delle opere d'arte.
e poi l'inferno.
la casa del titolo è una ripetuta fenice, Jack non sa bene cosa vuole.
comunque la si pensi su Lars von Trier, questo film è da non perdere, promesso - Ismaele





Lars von Trier ha l’accortezza e l’intelligenza di non ricorrere mai a ovvietà sociologistiche e psicologistiche per spiegare il suo protagonista. Semplicemente lo mostra, lasciando che siamo noi a interrogarci sulla natura dell’umano e del disumano e sull’ineliminabile presenza del male nel mondo. E, come tornando incosciamente alla questione-ossessione che fu all’origine della sua cacciata dal paradiso terrestre di Cannes, quella del nazismo, ci mostra l’albero di Goethe, sotto il quale sostava il grand’uomo totem della cultura tedesca, devotamente preservato nei pressi del lager di Buchenwald. Ma sono anche quei cadaveri ammucchiati nella cella, con il freddo a preservarli dalla corruzione, usati come materiale di costruzione di una sorta di Arc de Triomphe, a richiamare da una parte i corpi affannati intorno alla zattera di Géricault (e alla dantesca barca di Delacroix), dall’altra le montagne di cadaveri ritrovati dagli alleati al loro ingresso nei campi di sterminio. Poi The House That Jack Built svolta in un’ultima parte che può sembrare narrativamente incongrua, ma di inaudita potenza visiva. Con Verge nuovo Virgilio che accompagna Jack (abbigliato in tunica rossa con cappuccio che lo apparenta all’immagine consegnata di Dante) letteralmente all’inferno, rappresentato con molti richiami alle tavole di Gustave Doré. Di più non si può dire, se non che questo viaggio agli inferi è figurativamente stupefacente, uno dei vertici del cinema di questi ultimi anni…

…Lars von Trier sta raccontando una storia, e lo fa in modo segmentato come gli è abbastanza consono e lo fa attingendo senza reticenze ai topos del genere, componendo un thriller dalle tinte forti costruito attorno a un villain d’assoluta efficacia (ed è un piacere tornare ad ammirare sul grande schermo Matt Dillon). Ma sta anche raccontandosi, e sta mettendo in immagini la sua infinita polemica col tempo che è costretto a vivere, e con la mediocrità culturale che lo circonda. Il riferimento alla naturale idiozia del femminile è da inserire in questo quadro complesso, e stratificato. È il riferimento all’immaginario di Jack poeta/esecutore, e con ogni probabilità all’immaginario di una parte consistente del mondo maschile che si troverà a guardare il film.
Tutto parte da due parole, si scriveva all’inizio della recensione. La prima è Jack, e la seconda è “sophisticated”, il nome d’arte utilizzato dal protagonista per firmare le sue opere. Perché se jack è un cric, un oggetto rozzo di metallo utile solo in condizioni di difficoltà, la raffinatezza è il punto d’arrivo del percorso del protagonista. Una raffinatezza che, come tutti i gesti “sofisticati” dall’uomo rispetto alla natura non può che nascondere al proprio interno una belluina voglia di distruzione. Più che uccidere Jack lascia macerare, marcire, gli oggetti-umani che si trova a trattare…

Non sapremo mai chi sia realmente il misterioso interlocutore di Jack. Nell’ultima sezione lo vedremo con il volto e le membra del sempre gigantesco Bruno Ganz, ma non sapremo mai se si tratti di un’allucinazione di Jack, della voce della sua coscienza, di un sogno/incubo, o forse è ancora un ulteriore doppio di Lars Von Trier, quello che si autointerroga, quello che cerca di capire la propria e altrui natura. Quello che sappiamo è che il ruolo di ascoltatore di Verge, al termine dei cinque “incidenti” che condurranno all’Epilogo finale, sarà destinato a tenere fede alla storpiatura del proprio nome e a trasformarsi in un vero e proprio Virgilio, guida di Jack verso e nell’inferno, che poi nient’altro è che l’inferno di contraddizioni e di dolore della natura e dei comportamenti umani, e il ritorno sotto una luce inquietante degli eventi passati di fronte all’incertezza, alla chiusura e al vero e proprio terrore nei confronti del futuro…
The house that Jack built è un film complesso, stratificato, metalinguistico, ipnotico, metaculturale, quasi oracolare nella sua densità, e al contempo dolente, impaurito, nervoso. È un film che contiene un intero cinema, un intero autore, un intero immaginario, un intero uomo fatto di doppiezze e ambiguità, fatto di amarezze e di inquietudini, fatto di nichilismo e di tendenze alla dissoluzione. E soprattutto fatto di raffinatezza, di sofisticatezza, di necessità ancestrale dell’atto creativo, e fatto di una ben precisa filosofia, secondo la quale le regole morali da sempre tarpano la libertà artistica, e piuttosto che accettare la censura, il compromesso, il passo indietro dalla pura autorialità, è decisamente meglio scegliere liberamente la dannazione. L’arte è un’arma potentissima, che può manipolare, far marcire, distruggere, ma anche salvare l’umanità e il mondo. O per lo meno può salvare un uomo. Il che è già moltissimo. Hit the road, Jack! Hit the road, Lars! E grazie per questa definitiva e ineludibile gemma.

Tutto parte da due parole, si scriveva all’inizio della recensione. La prima è Jack, e la seconda è “sophisticated”, il nome d’arte utilizzato dal protagonista per firmare le sue opere. Perché se jack è un cric, un oggetto rozzo di metallo utile solo in condizioni di difficoltà, la raffinatezza è il punto d’arrivo del percorso del protagonista. Una raffinatezza che, come tutti i gesti “sofisticati” dall’uomo rispetto alla natura non può che nascondere al proprio interno una belluina voglia di distruzione. Più che uccidere Jack lascia macerare, marcire, gli oggetti-umani che si trova a trattare. Quando sarà poi a lui trovarsi nella condizione di “pena”, sceglierà il rischio della dissoluzione totale piuttosto che la conservazione di uno status quo, fosse anche quello del condannato al supplizio eterno. Lars von Trier è un filosofo, oltre che un regista, ed è un regista perché filosofo. Il suo nuovo film è ovviamente anche una riflessione sul proprio ruolo di creatore/dittatore/omicida: e quei ringraziamenti straordinari ad alcuni tra attori e attrici dei suoi film acquistano un valore particolare, teorico ma anche (perché no) sarcastico e perfino sadico. Lars von Trier è un filosofo, e La casa di Jack ne è solo l’ennesima dimostrazione, di fronte alla quale in molti sceglieranno di voltarsi dall’altra parte. Ingegneri o architetti?

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