mercoledì 4 luglio 2018

Il sacrificio del cervo sacro - Yorgos Lanthimos

non mi convince questo film, Lanthimos è bravo, gli attori sono bravi, la storia è forte, ma ancora non mi convince.
magari sarà per la totale mancanza d'ironia, tutto è troppo geometrico, senza vie d'uscita, senza imprevisti.
siamo nel 21^ secolo, ma il mito, implacabile, vince sempre.
sensi di colpa, passività, rassegnazione, impotenza vincono a mani basse, senza nessuna reazione, Steven aspetta l'ineluttabile.
il film è da vedere, e ognuno capirà se e quanto il film gli è piaciuto - Ismaele



ps1: la scelta dell'attore che impersona Martin (Barry Keoghan, bravissimo e inquietante), già universalmente conosciuto per Dunkirk e per '71 è un po' così, come fa uno di 25 anni a fingere di averne solo 17 anni?

ps2: Yorgos Lanthimos, perché non rispondi ad Arturo Ripstein (ecco il suo El castillo de la pureza)?

(Yorgos Lanthimos non ha mai ammesso di aver preso più di uno spunto da questa pellicola per realizzare il suo incredibile “Dogtooth” (2009), una bugia andata di traverso proprio ad Arturo Ripstein, il quale non si è risparmiato qualche frecciatina sarcastica nei confronti del regista greco (“I hope we’ll win” fu la dichiarazione polemica del messicano quando “Dogtooth”ricevette la candidatura agli Oscar come miglior film straniero). Logico che Lanthimos abbia stravolto molte cose rispetto all’opera originaria, ma è lampante il legame concettuale tra il suo lavoro e questo “El Castillo De La Pureza”... da qui)



…Lanthimos si dimostra ancora una volta cineasta capace di grandi intuizioni di regìa (la sequenza del primo malore del figlio, ripresa dall'alto, è magistrale per tecnica e resa scenica) ma costruisce un film pesante, ripetitivo e vuoto, che punta a sconvolgere gratuitamente lo spettatore senza curarsi di dosare bene gli ingredienti, e dove la genialità della trama (che avevamo apprezzato in The Lobster e nei film precedenti) stavolta è del tutto assente, lasciando il posto a una morbosità di fondo che finisce per stancare più che indignare, esagerando in tutti i sensi. Non ultimo, quello del buon gusto.

…non dovrebbe essere una colpa imputabile a Lanthimos quella di proporre, anche con una rispettabile coerenza, un metodo artistico figlio di uno stile riconoscibile, in fondo ogni grande maestro è passato ai libri di storia per marchi di fabbrica identificabili nella massa cinematografica, ma non sarà mica che l’impostazione autoriale dell’ateniese al di là del primo impatto sia meno solida di quel che appare? Risposta: mi assumo ogni responsabilità nel dire di sì. Prendiamo The Killing of a Sacred Deer, pur non negando un mero coinvolgimento spettatoriale dato da un livello professionale oramai altissimo unito al mantenimento di tic personali (la recitazione alienata; l’ attenzione estetica degli interni), la piena soddisfazione non è raggiunta poiché capiamo di trovarci al cospetto di quello che è più un prodotto da filiera che un manufatto autentico, ovvio, si tratta di un lavoro dalla pregiata confezione e sviante dalle frequenti banalità, ma non intacca più di tanto la nostra coscienza pur essendo estremamente caustico, sopratutto in termini di risoluzione sceneggiaturiale, sicché il problema, a mio modo di sentire, è, appunto, che non si va più in là della sceneggiatura, e non mi riferisco alle scelte che portano all’atto brutale del medico né all’atto in sé, discutibile (dal punto di vista filmico è la chiusura maggiormente fragile dell’intera filmografia) finanche iconicamente derivativo (dài, un bambino incapucciato nel salotto di casa: Haneke, mi ritorni in mente), gli scricchiolii generali provengono a monte, dalla necessità per Lanthimos di affidare il suo pensiero totalmente ed esclusivamente ad una scrittura che sappiamo avere il pilota automatico, se è vero che è meno importante il cosa del come, adesso che conosciamo a menadito il come dell’ellenico non ci divertiamo come una volta a stare al suo gioco…

…Ciò per cui il film delude, tuttavia, almeno parzialmente, è la sostanza di fondo. Le premesse sono assai interessanti; a non convincere è il punto d'arrivo. Si tratta di una pecca in cui Lanthimos incorre non per la prima volta: già "The Lobster" era, a parere di chi scrive, un film dal potenziale considerevole, tradito dall'esito involuto della conclusione cui approdava. Nel caso di questa nuova prova, il problema si avverte con fastidio ancora maggiore. Ed è proprio la pochezza delle conclusioni a gettare un'ombra retrospettiva su tutta l'operazione, che presta il fianco agli strali di chi è pronto a condannare Lanthimos per supponenza e velleità. Noi ci limitiamo a restare perplessi di fronte a quello che appare un ennesimo tentativo di épater le bourgeois, non sostenuto da una persuasiva visione morale. La "morale della storia" che si racconta in questo film - dove un chirurgo subisce la vendetta feroce del figlio di un paziente morto colpevolmente durante un suo intervento - gira attorno alla carenza di senso di responsabilità del protagonista, che per esteso vorrebbe allargarsi all'intera classe sociale di appartenenza.
Abbiamo menzionato Von Trier. Un altro nome che viene subito in mente di fronte a "Il sacrificio del cervo sacro" è quello di Haneke, e forti sono in particolare le analogie con "Funny Games". Con entrambi questi autori, Lanthimos condivide la propensione a provocare lo spettatore. Von Trier, a differenza di Haneke, ha sempre diviso molto perché il regista danese - a differenza del collega austriaco - è spesso e volentieri barocco, rischiando di eccedere e di sconfinare nel cattivo gusto. Haneke tutto il contrario: lavora di sottrazione, il suo cinema è ellittico e asciutto. Ma, quantomeno nelle loro prove migliori (non poche nel caso di Haneke), i due autori hanno da tempo dimostrato lo spessore e la complessità della visione sottesa alle loro "aggressioni al pubblico". Invece, il regista ellenico ci pare non abbia ancora convinto nel dimostrare che la cattiveria e l'acredine del proprio sguardo sia bilanciata da una prospettiva critica altrettanto intensa nei confronti del consesso umano, sociale e familiare che prende di mira.

A stupire se mai è la sontuosità registica di cui dà prova Lanthimos, se solo si pensa ai suoi primi, poveristici film. Qui la macchina da presa si muove vertiginosamente tra canyon urbani, lunghi corridoi, ampi spazi aperti (sarà per questo che tutti, anche molti stranieri, citano a mio parere a sproposito Stanley Kubrick? Ma che c’entra Kubrick con Lanthimos?), e la perizia della messinscena è sbalorditiva. Si pensi alla scena del malore del figlio ripresa dall’alto. Aggiungete un uso della musica come pieno elemento drammaturgico, con il fracasso di un treno che diventa il leitmotiv delle scene più allarmanti. Come tutti quelli che molto osano, anche Lanthimos sfiora il ridicolo e l’imbarazzante. Ma importa il risultato, che è di una potenza inaudita e squassante per il pallido cinema di oggi, e per il mondo anestetizzato in cui viviamo. Lanthimos osa dirci che non siamo al sicuro, non dalle minacce esterne, ma da quello che sta in noi, e che ogni colpa, o peccato, va pagata. Come volete che possa piacere uno così, un film così, nel tempo del narcisismo di massa e della prevalenza dell’Io e della sofferenza narcotizzata?

3 commenti:

  1. D accordo con la tua recensione.. sta perdendo punti ogni film che fa Lanthimos .. peccato era partito bene .. kynodontas e alps li ho adorati

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  2. il film di Arturo Ripstein ti conquisterà :)

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