domenica 22 dicembre 2024

Una Notte a New York - Christy Hall

Dakota Johnson e Sean Penn sono gli unici personaggi del film, che deriva da un'opera teatrale.

un tassista e una cliente fanno un gioco, quello di dire cose mai dette prima, Sean Penn è un tassista psicologo, che resta senza parole alla fine quando Dakota racconta un storia terribile.

il film è tutto girato all'interno del taxi, con il tassista che inizia a lamentarsi delle app, degli smartphone, della sostituzione del contante con le carte di credito, e la cliente sembra scocciata dalla loquacità del tassista.

e poi il film cresce fino alla fine, senza tregua, sembra un filmetto come tanti, poi gli ultimi 15-20 minuti sono straordinari.

buona visione - Ismaele


 

 

 

…Un film ben realizzato e diretto, interpretato magistralmente dai due attori. Un’opera che colpisce in quanto tocca in maniera non banale temi come l’amore, il sesso, il dolore dei ricordi, i traumi del passato che non si è voluto mai affrontare. Un viaggio che, quando lo “yellow cab” finalmente si ferma di fronte all’abitazione della donna, consente ai due personaggi di salutarsi con un sorriso e una carezza, sapendo che quell’ora e quaranta passata insieme, in quel viaggio che pareva interminabile, ha regalato a entrambi una maggior coscienza di se stessi e, soprattutto, una connessione umana vera, importante per poter affrontare le difficoltà della vita di tutti i giorni.

da qui

 

…Sean Penn è il taxista come te lo aspetti, che sembra uscito da Milano più che da New York, contro Uber, contro i pagamenti elettronici, contro quei telefoni che fagocitano le persone e chissà, probabilmente anche complottista ma si ferma a una certa misoginia tipica di una generazione e di una certa cultura.

Ma riesce ad aprirsi, a confrontarsi, con una donna senza nome e senza età aperta al dialogo e che lo sfida trovando in lui una figura paterna davvero, che sotto la faccia scavata da ore di traffico, è diventato senza saperlo uno psicologo esperto.

Che dispensa consigli su amore e sesso, che indovina passati dolorosi e viene a conoscere presenti ancora freschi, che quei passati dolorosi li condivide a sua volta, con una nostalgia inaspettata anche per lui.

Il film è tutto qui, una notte, una corsa in taxi, due personaggi diversi chiamati a condividere lo spazio e il tempo.

Sono più facili da sbagliare che da indovinare i film così, che si reggono sugli attori, certo, su una regia che si deve muovere in uno spazio ristretto senza ripetersi, ma anche sui raccordi, sulla tensione che monta e che smonta, sulle pause.

Sulla sceneggiatura, dunque, che riprende temi, nomignoli e situazioni, riuscendo a commuovere pure in un finale che rischia il melenso o lo stalking.

In un equilibrio instabile che però resta in piedi.

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…Non bastano due grandi interpreti come Dakota Johnson e Sean Penn, una sceneggiatrice di talento al suo esordio da regista come Christy Hall e una confezione da road movie, per fare dello script di Una notte a New York un film. L’impianto teatrale che caratterizza l’operazione è una gabbia dalla quale il testo nativo non riesce a sfuggire e ci sarà un motivo. Questo perché le tavole del palcoscenico a nostro avvivo erano la cornice più adatta a un testo intimo e personale come questo, basato sulla complicità dei protagonisti e sui fitti e densi scambi dialettici tra di loro. Si è preferito al contrario il grande schermo e la realizzazione di un film del quale probabilmente resteranno solo le vibrazioni sprigionate dalle performance del duo chiamato in causa. Il resto è per citare i Jalisse solo un fiume di parole tra noi.

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venerdì 20 dicembre 2024

La stanza accanto - Pedro Almodóvar

a Venezia nel 2024 leone d'oro come miglior film.

non ricordo film di Almodóvar senza qualche sorriso, anche nei film più "seri".

nell'ultimo film non c'è niente da ridere, la Morte è la protagonista. 

e però, sia pure con "mestiere" e con attori davvero bravi, il film appare freddo, troppo serio e troppo tragico, per lo stile di Almodóvar. 

nel suo primo film in inglese (sia pure girato per metà vicino a Madrid, leggi qui) il regista perde quella virtù che spesso pratica, la leggerezza. 

se gli dessi un voto sarebbe la sufficienza, comunque è un film da vedere, ognuno si farà la sua opinione.

buona (mortale) visione - Ismaele

 

 

 

 

A mancare, rispetto al passato, è il calore tipico dei film di Almodóvar, il quale nelle sue incursioni più serie è sempre riuscito a trovare un giusto equilibrio tra la gravità del dramma e l’ironia del mondano. Ne La stanza accanto, invece, si percepisce spesso una certa disconnessione tra ciò che si vede a schermo e la materia trattata, un lirismo visivo poco ispirato, nonché dialoghi farraginosi, didascalici e spesso ridondanti, tanto che il personaggio interpretato da John Turturro – un ambientalista radicale – sembra inserito solamente per lanciare un tiepido monito extrafilmico. A tratti, sembra quasi di essere di fronte a una versione depotenziata di Julieta. Così, suggestioni di pura poesia, a partire dalla neve rosa sino ad arrivare allo splendido riferimento a I morti di James Joyce (con tanto di richiamo a The Dead di John Huston), si alternano a momenti di grande spessore attoriale che appaiono come eccessivamente autoreferenziali e fini a se stessi. Perché nemmeno le ottime prove di Tilda Swinton e di Julianne Moore possono compensare, a malincuore, il substrato emotivo carente di un film che colpisce solo in superficie, senza mai spingere fino in fondo.

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La stanza accanto non è soltanto un’altra variazione sulla morte ma anche sui sentimenti – la passione, il rancore – e sul tempo perduto. È un’altra dichiarazione d’amore alla ‘magnifica ossessione’ di un cinema che guarda, in modo ancora più evidente che in passato, Fassbinder e Sirk in cui Julianne Moore e Tilda Swinton possono essere le sue reincarnazioni, soprattutto l’attrice londinese, che incarna la morte e la rinascità e dimostra, dopo Suspiria di Guadagnino, che può duplicarsi o, in quel caso, addirittura moltiplicarsi in tre personaggi. Nei fitti dialoghi tra le due protagoniste però qualcosa si blocca, non arriva, resta a metà strada. Certo c’è tutto: abbracci, lacrime, rimpianti. La stanza accanto poteva avere quegli slanci del vertiginoso Zinnemann di Giulia nella sintonia che si era instaurata tra Jane Fonda e Vanessa Redgrave. Il film di Almodóvar si blocca invece al primo livello, quello della rappresentazione dove delle due protagoniste, in cui il metodo, la tecnica, diventano tra gli elementi principali per far apparire questo film struggente quando invece non lo è al contrario del grandissimo film precedente, Madres paralelas. Le cicatrici della ‘storia privata’ restano otturate invece da una ‘personale autocelebrativa’ del proprio cinema. La stanza accanto è come una mostra sul cineasta spagnolo dove in una stanza ci sono i suoi modelli di riferimento: Buster Keaton in tv, i dvd di Lettera da una sconosciuta e The Dead. Gente di Dublino, il poster di Ingrid Bergman per creare un parallelismo con il personaggio interpretato da Julianne Moore (ma no!).

La stanza accanto è funereo ma non come Wilder di Fedora. Quando l’opera del cineasta non è al meglio, si chiude in una forma elegante e artefatta, proprio come la neve rosa che cade su New York. Solo la deviazione dell’interrogatorio in polizia risveglia il film dal suo lungo e compiaciuto grande sonno. Ma forse lì c’è già, o ci poteva essere, un’altra storia…

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Almodovar al suo debutto in un lungometraggio in lingua inglese. Almodovar che prende di petto un tema fra i più spinosi e controversi, quello dell'eutanasia, con una netta presa di posizione politica che ha ispirato anche il suo toccante discorso di ringraziamento a Venezia per il Leone d'oro. Almodovar che dirige due fra le più talentuose ed esigenti attrici del panorama mondiale.

"La stanza accanto" è un melodramma raffreddato, che evita facili sottolineature emotive e tentazioni strappalacrime, è puro Almodovar ma è anche una ricognizione originale in un territorio diverso, un tentativo di raccontare sullo schermo un dolore così straziante da poter essere placato solo con il desiderio della morte…

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E qui Almodóvar compie il primo passo verso la sublimazione. Quando Martha lascia la clinica e torna a casa fermamente decisa a organizzare la propria dipartita, la messa in scena si fa infatti più sintetica e il melodramma viene silenziato, disinnescato. Il passato rocambolesco sparisce dalle immagini, niente più flashback, niente più storie, niente più tortuosità ma un lucido e metodico piano che prende forma circondato dei segni di quella vita dalla quale la donna sta per congedarsi.  Mobili, oggetti, libri, taccuini, film, fotografie, scatole, buste, fogli, tutto nella casa è traccia e sedimento, memoria senza mai nostalgia: la casa è li, accogliente, avvolgente come un abbraccio discreto. Ma non è li che Martha può morire. Ci vuole un’altra casa e una altro passaggio della messa in scena verso un’ulteriore asciuttezza, verso un’ulteriore svuotamento, verso un’ulteriore essenzialità. Così Martha e Ingrid possono abitare insieme solo un nuovo spazio, uno spazio altro dove non c’è memoria, minimale ma non asettico, elegantissimo, ricercatissimo, ma dove nulla è personale o familiare: solo superfici, linee, vetrate, pieni, vuoti, dove i colori possono essere solo pieni, dove non ci sono sfumature, dove le porte possono essere solo aperte o chiuse, definitive. E dove la morte può diventare un magnifico quadro composto con precisa meticolosità al momento giusto.

 

In quegli spazi che mutano, in quella scena che si asciuga, in quelle parole che dicono tutto senza mai pesare, Almodóvar trova il compimento di un vero capolavoro, una lezione di cinema, di regia, di messa in scena, di scrittura. La grande lezione di un maestro per nulla senile, ma capace come nessuno di parlare con umanità e magnificenza della vita e della morte dicendo tanto del mondo strambo in cui viviamo, di dignità e di diritti, di minacce e di speranza, di sofferenza e di bellezza, di amicizia e di condivisone, di responsabilità e di empatia, di rispetto e di autodeterminazione.

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Insulso. Banale. Mortale. Si ma nella noia! Altro che eutanasia. Qui lo spettatore muore da solo. Senza aiuti esterni

Insulso. Banale. Mortale. Si ma nella noia! Altro che eutanasia. Qui lo spettatore muore da solo. Senza aiuti esterni

Alla prova americana non ha retto.

Ma chi glielo doveva dire al Pedro de noialtri di andare a crasharsi a 75 anni nelle produzioni, sistemi, visioni USA, quando il suo è sempre e solo stato un cinema europeo? MAH

I misteri della fede

Bastassero due eccelse attrici a far riflettere su un tema cosi delicato come quello della malattia, il cancro alla cervice e due amiche che non si vedono da trent'anni 

Ma voi davvero uccidereste una che non vedete da secoli?

O le stareste vicino con i problemi che comporta a livello legale, morale e spirituale l'eutanasia? 

Il film non regge, annoia ha in sostanza una brutta energia, non di vita, ma di bieca assoluta e devastante morte !

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"Se vuoi mandare un messaggio, spedisci un telegramma, non fare un film"

Non sembra neanche Almodóvar! Film a tesi pretenzioso e noioso, due ore di dialoghi privi d'interesse, situazioni statiche e una citazione letteraria ripetuta più e più volte nel vano tentativo di commuovere lo spettatore.

Julianne Moore e Tilda Swinton sono brave e ce la mettono tutta ma non riescono a salvare un film in cui le situazioni di potenziale conflitto e le occasioni per far emergere il dilemma etico (ad esempio la perdita e il ritrovamento della busta con la pillola) si risolvono da una scena all'altra come in uno sceneggiato televisivo. E mentre lo spettatore assonnato aspetta il guizzo di regia o di sceneggiatura che giustifichi la spesa del biglietto, Turturro pontifica sul disastro ecologico.

Tutto si svolge ineluttabilmente come da copione. L'unico momento in cui il film si rianima un po' è l'interrogatorio con la guardia bigotta, ma anche questa occasione cade nel vuoto con l'arrivo dell'algida avvocatessa. Quando infine si presenta la figlia della Swinton ci si aspetta una svolta, un sussulto, e invece anche questa possibilità cade nel vuoto e il film si spegne mestamente.

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mercoledì 18 dicembre 2024

Il giorno dell’incontro – Jack Huston

il titolo pare sia un omaggio a un corto di Kubrick da giovane, chissà.

tutto accade in un giorno, Mike chiude i conti con se stesso, cerca la moglie (quando canta Have You Ever Seen The Rain? chi non si emoziona dovrebbe farsi visitare da uno bravo), e la trova, ma non riesce a parlare con la figlia, scommette tutto quello che ha per la sua vittoria con un allibratore di fiducia, incontra il padre malato in una casa di riposo, va in cimitero a chiedere perdono a un bambino (guardando il film capirete perché).

in un bianco e nero d'altri tempi (è un complimento) Mike vive la sua personale via crucis, sotto l'ala protettiva del suo eccezionale allenatore, che la mattina dopo l'incontro passerà a vedere come sta il campione.

pochissime sale, grande film, da non perdere.

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

Fotografato in un bianco e nero elegante che richiama capolavori come Toro scatenato, ma con un approccio registico e recitativo più simile al primo Rocky, Il giorno dell’incontro ci fa muovere per una Brooklin degli anni ’80 al fianco di un protagonista e dei suoi demoni. Un uomo che ha compiuto errori gravissimi e che è cresciuto attraverso di essi ci viene mostrato pronto a compiere il passo finale. Per il suo esordio, il regista si affida a un attore dal grande carisma come Michael Pitt, credibile sia nella struttura fisica che nella capacità di mettere in scena un uomo spezzato, che dopo avere “meritatamente” sofferto, prova a trovare la forza di “lasciare andare”. Straordinaria la sua capacità di trasmettere con lo sguardo una tenerezza a tratti insostenibile, che ben contrasta con la durezza dei suoi muscoli tirati e della sua mascella storta.

Al suo fianco un cast di attori semplicemente spettacolare. Insieme a un Ron Perlman che sembra essere nato per interpretare il ruolo dell’allenatore di boxe, troviamo i piccoli ma significativi ruoli di John Magaro, Steve Buscemi e, soprattutto, di un monumentale Joe Pesci. L’81enne attore premio Oscar è chiamato a interpretare il padre di Mike, evocato per tutto il film come il villain finale da sconfiggere e che poi appare senza quasi pronunciare parola, lasciandoci stupefatti.

Fondamentale anche la scelta musicale, spesso diegetica e che ritorna a livello drammaturgico. Come a sfiorare le corde emotive dei suoi personaggi, archi soffusi e note di piano accompagnano il viaggio di Mike tra i bassifondi della sua New York e, in particolare, nel suo passato. Frequenti flashback, infatti, ricostruiranno la storia dell’uomo e del campione, ciò che ha subito, ciò che ha ottenuto e ciò che ha perso. Alla fine de Il giorno dell’incontro, il duro e fragile Irish Mike non avrà più segreti per noi.

Un film sul pugilato senza pugilato, si direbbe. Un po’ sì, se non fosse per l’ultima, attesissima, sequenza di combattimento, in cui la tensione emotiva accumulata per oltre un’ora si libera un cazzotto dopo l’altro, lasciandoci stesi senza più energie come pugili dopo 12 round. Esanimi, ma scossi nel profondo dall’umanità che ci è stata riversata addosso con tale, splendida, semplicità.

da qui

 

Il giorno dell’incontro non è un’opera prima che cerca il nuovo – anzi cita il classico -, né un museo per i virtuosismi di Jack Huston, né una storia dalla potenza strabordante: ma è un film sincero e sentito, che si nutre di un immaginario (senza per questo sentirsi in dovere autoriale di reinventarlo) che ricalca in modo a tratti greve e che riabilita un enorme Michael Pitt per ricordarci che grande attore sia stato ed è ancora, anche se dopo un po’ di anni di buio.

Doveroso citare anche il massiccio Ron Perlman e i cameo eccezionali di Steve Buscemi e soprattutto Joe Pesci.

Ma soprattutto il film riesce, con semplicità e incoscienza, a restituire la New York degli anni Ottanta, sporca e disperata come non si vedeva da tempo, intensa come la disperazione silenziosa del protagonista del film.

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…Deve fare i conti con il suo doloroso passato fatto di violenze paterne e suicidi materni.

Jack Huston ci rappresenta tutto questo calvario pedinando con la sua cinepresa un Micheal Pitt da Oscar, una faccia e un corpo da macello che ricorda il Mickey Rourke di The Wrestler.

Usando quel bianco e nero tanto caro al mondo della boxe soprattutto da quel capolavoro che è stato Toro Scatenato qui degnamente rappresentata da un Joe Pesci (produttore esecutivo) che parla solo con gli occhi.

Ma è soprattutto la colonna sonora che ci racconta il viaggio all’interno del dolore di Mikey l’irlandese.

L’uso di The Book of Love di Peter Gabriel che accompagna l’incontro tra Micheal Pitt e Nicolette Robinson è di una poesia disarmante. Ci fa capire l’immensità di questo amore anche davanti a una pizza col doppio formaggio.

Anche se il meglio ce lo riserva Have You Ever Seen The Rain? cantata live sulle note di un pianoforte che gronda dolore e la voce di Nicolette Robinson strozzata dalle lacrime per un amore che è stato e che non ritornerà più.

Grazie Jack Huston che ci hai regalato una delle opere prime più belle degli ultimi 10 anni e uno dei personaggi che difficilmente ci toglieremo dalla nostra memoria.

Un personaggio che va incontro al suo destino con una dignità e una tenerezza dilaniante che ci devesta l’anima.

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domenica 15 dicembre 2024

Il generale dorme in piedi - Francesco Massaro

una satira della vita militare e dei militari.

Ugo Tognazzi è il colonnello che non riesce a diventare generale, è un veterinario che diventa il medico/chirurgo nell'esercito, innamorato della moglie (Mariangela Melato) e poi vedova di un generale.

la sua opera d'arte è un libro autobiografico con il quale "ricatta" i suoi superiori, e riesce a diventare generale.

non sarà un capolavoro, ma si vede bene.

buona (antimilitarista) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

 

Commedia militare in cui alcuni ottimi spunti satirici sono a tratti annacquati da un registro farsesco e da alcune dispersioni (i flashback, la sottotrama sentimentale). Tognazzi è comunque formidabile nei panni dell’ufficiale arrivista dal subconscio incontrollato, per di più assistito da un cast estremamente valido in cui emergono in particolare Scaccia (grandioso nella sua monoespressività) e Fabrizi (per una volta nei panni di un personaggio dignitoso). Tutt’altro che disprezzabile la Melato, per quanto relegata nelle scene meno interessanti. Tre stelle(tte).

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Commedia militare un po' grottesca che incrocia spesso la farsa e "promuove" il grande Tognazzi ai massimi gradi d'attore. Vicenda che tratta di guerra e di pace, prendendo in giro chi ama la guerra ma senza addentrarsi, saggiamente, in particolari o introspezioni che potrebbero appesantire lo spettacolo. Una critica attraverso l'ironia, con un impiego discreto di mezzi e di simboli, per un film piacevole da seguire e che non necessita di particolari predisposizioni per la visione.

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Umberto Leone è un colonnello ex veterinario che in guerra si è improvvisato medico per la necessità di operare i feriti. Per ricambiare la sua dedizione sul campo viene nominato direttore della Scuola Superiore di Sanità a Firenze, ma non rinuncia alla sua vera ambizione: diventare generale. Per ottenere la carica inizia a scrivere le sue memorie, raccontando episodi non proprio lusinghieri su alcuni esponenti delle alte gerarchie militari, con il proposito, in seguito, di ricattarli. Ma deve stare attento ad una sua bizzarra peculiarità: mentre dorme tende a raccontare verità scomode, e per questo è costretto a dormire in piedi...

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Commedia non disprezzabile, con un buon Tognazzi ed una base critica - sebbene non molto incisiva - all'esercito e, più in generale, al potere, disposto a qualunque compromesso o bassezza pur di autoconservarsi. La regia è un po' assonnata, la trama ogni tanto sussulta con qualche scena godibile, ma in definitiva si riassume in ben poco. Poche pretese, ma mantenute.

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