sabato 31 maggio 2025

Balentes - Giovanni Columbu

intanto il titolo, la parola balentes riprende il significato originario di uomini di valore, che affrontano imprese difficili e rischiose, non per un vantaggio personale, ma per una legge superiore, che non è quella dello stato italiano.

Ventura e Michele, due ragazzi sardi, intorno al 1940, vogliono evitare che i cavalli vadano a morire in guerra, seguono la legge morale che hanno dentro, e scusate se è poco.

il cavallo è un simbolo di libertà e di vita, dappertutto, e non può essere mandato a morire, in guerra o al palio di Siena (bestemmia?). 

il film d'animazione, girato come agli albori del cinema, sulla base di 30000 disegni di Giovanni Columbu, disegni che vengono "animati", da qui nasce il cinema di animazione!

il disegno è spesso "suggerito", tocca allo spettatore "partecipare" alla storia, dando la propria lettura e visione.

in certi momenti sembra un western, i due balentes potrebbero essere dei giovani indiani d'America, che liberano i cavalli dei soldati che uccidono gli indigeni.

anche il treno sembra un treno del far west, come in certi casi sono i treni sardi.

che sia un treno sardo si capisce dal fatto che trasporta le casse da morto degli uccisi, nell'incivile America gli indiani morti li avrebbero lasciati in balia di avvoltoi e lupi.

Giovanni Columbu racconta che per questo film (eccezionale, se non si è capito) ci sono voluti sette anni di lavoro, mica è un cinepanettone.

se vi volete bene cercatelo e soffrite insieme a Ventura e Michele, nessuno se ne pentirà, vedrete un film che resterà nella storia del cinema.

buona (unica) visione - Ismaele

 

 

Columbu, che viene da una prolifica carriera tra arte, televisione e cinema stesso, si mette alla prova in un formato nuovo e sforna un'opera di folgorante originalità stilistica.
Sue sono infatti le migliaia di disegni, su acrilico e carta, che vengono poi animate al rotoscopio per dar vita a immagini di grande dinamismo pittoriale in bianco e nero. Una tecnica che suggerisce gli eventi più che catturarli appieno, e che gioca con le sagome e le ombre sui paesaggi a contrasto.
Benché riempiano spesso lo schermo attraverso lo spazio negativo, tali composizioni non sono mai inerti; grande merito è anche del notevole lavoro sul sonoro, attento ad accompagnare i dialoghi con un tangibile spettro uditivo elevato al medesimo livello: il vento, il crepitio del fuoco, i passi sul terreno e tutti gli altri elementi del luogo radicano le animazioni in un reale che si costruisce passo passo nella mente dello spettatore.

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Ventura e il suo amico Michele corrono, in fuga. Perché il furto di cavalli? Tutto è ammantato di leggenda. I due erano benestanti, non rubavano per il denaro. Forse si trattava di liberare gli animali per salvarli da una brutta fine in guerra, come teme il bambino della famiglia di contadini che ha venduto quei cavalli all’esercito, proprio per poterlo mantenere agli studi, o di rubare ai ricchi per dare ai poveri. Forse proprio per pura “balentia”, la virtù, lo spirito cavalleresco dell’uomo sardo che porta avanti nelle condizioni sociali e ambientali più avverse. Spirito incarnato in questo eroe definito come un “cabaddeddu”, un cavallino, per il suo amore per i cavalli e per il suo portamento. C’è qualcosa di cristologico – ancora per l’autore di Su re – nella morte di Ventura, con le donne velate sarde che lo piangono, intonando gli “attitos”, i pianti funebri. In fondo si tratta ancora di un archetipo declinato nella cultura sarda. La stessa consistenza eterea dei personaggi disegnati prefigura una loro esistenza da fantasmi, o da risorti. I personaggi si muovono in una Sardegna, come il resto dell’Italia, avvolta nelle fosche nubi del fascismo, in una Sardegna interna premoderna attraversata da cavalli e treni a vapore. Per Columbu si tratta anche di un primitivismo dell’immagine in movimento stessa, tra citazioni del Vampyr di Dreyer (la ripresa dal basso del punto di vista di Ventura morto come quella dalla bara di quella pellicola classica, anche riprendendone la musica), tra i cavalli di Muybridge e i treni dei Lumiére, le didascalie, in sardo, da cinema muto, l’iris, le ombre cinesi. Uno scavare fino ad arrivare ai meccanismi primari delle immagini in movimento messi a nudo, righe e cerchi che sono l’intelaiatura grafica dei treni in viaggio. In parallelo con lo scavare nella cultura ancestrale sarda.

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…Basterebbero forse i paesani che, non capendo le intenzioni dei ragazzi, li identificano come «senza testa sulle spalle», pensando al loro atto semplicemente come a una bravata, o al massimo come a un furto per necessità. Eppure, a differenza del loro amico che non parteciperà all’azione, ma che metterà loro la pulce nell’orecchio parlando di come il padre abbia dovuto vendere i propri cavalli all’esercito per pagargli gli studi, i due protagonisti di Balentes non sembrano avere problemi economici di alcun tipo. Il loro atto di coraggio è semplicemente figlio di un eroismo poetico e naïf, utopista, visionario, che il film fa proprio nel narrarli nel suo altrettanto coraggioso, altrettanto lirico e altrettanto visionario mosaico di stili animati, e nel suo prodigioso tappeto di suoni, rumori, voci, passi, crepitii, spari e musiche noise straordinariamente ipnotiche e realistiche, così perfettamente complementari all’impressionismo suggestivo e pittorico delle immagini (im)possibili, dei contrasti, delle trasparenze, della fluidità dei movimenti più e meno dinamici di figure a cui non serve un volto, perché il loro volto siamo tutti noi. E poi delle linee, dei cerchi, delle forme ora stilizzate e ora definite. Dei corpi che emergono dal buio come in un prisma di ricordi e di sogni, o forse semplicemente di storie che, dai loro apparenti margini caliginosi e indistinti, contribuiscono a fare la Storia di una famiglia, di un paese, di un’isola, di un popolo, dell’Italia, dell’Europa, forse dell’intero mondo. Elementi cardine di un film, presentato nella multiforme sezione Harbour dell’International Film Festival Rotterdam dopo il primo passaggio in Alice nella Città all’ultima Festa del Cinema di Roma, che testimonia ancora una volta e pure nell’animazione lo straordinario stato di salute che sta vivendo negli ultimi anni il cinema sardo, con Giovanni Columbu intento a passarsi di volta in volta il testimone con Bonifacio Angius e Salvatore Mereu in una piccola Nouvelle Vague isolana fatta di identità e di inquietudine, di antico e di moderno, di malinconia e di orgogliosa appartenenza a una cultura primigenia e proprio per questo così pura e ancestrale. Un cinema che si identifica nel territorio da cui nasce e che si immerge fino alle sue radici più mistiche e profonde, arroccate, tradizionali, magiche, immutabili come gli spiriti. A salvare dall’oblio una memoria familiare, custode di un’intera civiltà, che sarebbe altrimenti andata perduta, e (letteralmente) con le proprie mani consegnarla all’eterno.

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…Amassing around 30,000 drawings and paintings over the course of production, Columbu invokes the elemental Sardinian landscape as a series of abstract minimalist visas, sometimes using just the sparest of brushstrokes, or even an entirely blank screen. He also incorporates scratches and stains, inky smudges and runic blotches randomly generated during the animation process into the film’s overall aesthetic, creating a looping, flickering, glitchy feel similar to that of degraded vintage celluloid.

The trade-off for all these arty flourishes is that the narrative thread of Balentes sometimes get a little lost in stylistic swerves and loops: dialogue is fragmentary, the timeline diffuse, naturalistic performances reduced to blocky modernist graphics by rotoscoping and other techniques. But Columbu helps ease this problem with sparing use of explanatory inter-titles written in the Sardinian language, a dialect closer to Latin than modern Italian. In another knowing nod to silent-era cinema, the soundtrack also incorporates elements of Wolfgang Zeller’s mournful orchestral score from Carl Theodor Dreyer’s early horror classic Vampyr (1932). The cumulative effect is a melancholy memory palace of a film that feels both antique and modern, strikingly avant-garde yet hauntingly beautiful.

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…La tecnica adottata parte da una ricerca sulle origini dell’animazione, su soluzioni espressive dimenticate o escluse, come i primi esperimenti di fine Ottocento, ma anche dai riferimenti alla pittura iperrealista e all’espressionismo cinematografico. Ogni fotogramma nasce da un’interazione tra gesto impulsivo e forma contenuta, grazie all’uso di mascherature in pellicola plastica che permettono al colore – acrilico – di seguire percorsi imprevisti, restando però nei contorni definiti.

Ne risulta un’animazione rarefatta, dove le figure emergono e scompaiono come fantasmi, attraversando “porte invisibili”, evocando la memoria, la perdita, la persistenza. “L’emozione che si provava allora – racconta Columbu – mi suggeriva che qualcosa non si fosse mai del tutto dissolto”.

Il racconto di Balentes nasce da un ricordo familiare, da un racconto della nonna del regista, che aveva conosciuto uno dei protagonisti: Ventura, detto Cabaddeddu, giovane nuorese dal portamento fiero, appassionato di cavalli. La sua morte, durante la fuga, colpito dai barracelli, è diventata leggenda popolare e oggetto di canti funebri (“attitidos”) che ancora oggi vengono ricordati.

Il film è, al tempo stesso, atto di resistenza artistica e civile: resistenza alla normalizzazione del segno, alla velocità del gesto digitale, ma anche alle narrazioni imposte della Storia. La Sardegna che racconta Columbu è una terra di contrasti – tra tradizione e modernità, natura e meccanizzazione – in cui la memoria non è mai solo evocazione, ma parte viva e politica del presente…

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qui un'interessante intervista a Giovanni Columbu

 

 

venerdì 30 maggio 2025

L’ombra del giorno – Giuseppe Piccioni

ad Ascoli Piceno i fascisti imperversano, Luciano (Riccardo Scamarcio), fascista non militante, assume nel ristorante Anna (Benedetta Porcaioli), un'ebrea in fuga.

lui la protegge dai fascisti in camicia nera, finchè può.

bravi i due protagonisti, Riccardo Scamarcio di più.

buona visione - Ismaele


 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay


  

Un film di impianto classico attraverso il quale Giuseppe Piccioni racconta una pagina tragica della nostra storia e un amore difficile e appassionante, capace però di sovvertire gli ideali più forti e biechi, fronteggiando i più grandi pericoli. Un film nel quale grandi protagonisti sono gli sguardi, le diverse angolazioni della realtà, tra l’apparenza di un regime votato all’ordine e all’armonia, e la realtà delle leggi razziali, dell’intolleranza e della violenza. Tra chi come Luciano guardando attraverso la vetrina del suo ristorante si nasconde e finge di non vedere, e chi come Anna vede chiaramente la realtà piano piano sgretolarsi, il futuro lastricato di sangue e morte. “Chissà perché non vedo le cose che vedete voi”, chiede a Luciano verso il quale capirà subito di provare un sentimento, ricambiata a sua volta…

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Una certa raffinatezza di scrittura cinematografica, elemento di riconoscibilità per  una personalità autoriale toccata talvolta dalla grazia, riscatta alcuni passaggi narrativi più convenzionali e una regia che cede il passo ad un andamento televisivo, con la lunga durata più adatta  a uno sceneggiato che alle esigenze di un Kammerspiel, come lo ha definito il regista (aggiungeremo concentrico e concentrato, visto il passaggio piazza-ristorante-cantina). Ed essendo il cinema di Piccioni fatto anche di parole e di attori, non si possono ignorare le prestazioni di Riccardo Scamarcio, la cui fissità in questo caso rende bene il contrasto con le accelerazioni di quello che accade e scorre davanti agli occhi enormi e spalancati di Luciano, e soprattutto Benedetta Porcaioli: il modo in cui equilibra certi impulsi da eroina battagliera e protofemminista (forse un po’ troppo contaminata da suggestioni e riflessioni contemporanee per essere completamente credibile come ragazza di quel tempo) , con l’ambiguità di una seduzione giocata prima per spirito di sopravvivenza e poi per autentica passione ,  ne fanno un’interprete carismatica e versatile per molti altri sguardi sulle donne, in un cinema italiano asfittico da questo punto di vista e dove proprio Piccioni si è sempre distinto per varietà e complessità…

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Non spegnete lo schermo: appello per il nostro cinema - Roberto Bernabò


In un silenzio quasi assordante, si sta smantellando uno dei luoghi più profondi della nostra identità: il cinema.

Ci sono momenti in cui l’arte non chiede applausi, ma protezione. Questo è uno di quei momenti.

 


Nel 2008, un gruppo di 100 autori lanciava un appello per difendere il cinema italiano da politiche miopi e penalizzanti.

Oggi, nel 2025, siamo purtroppo costretti a farlo di nuovo.

Il Governo ha introdotto modifiche che mettono seriamente a rischio l’intero sistema cinematografico nazionale:

§  tagli al Tax Credit – ovvero il credito d’imposta per il settore – e regole più restrittive che ostacolano le produzioni indipendenti e d’autore;

§  blocco o rallentamento dei fondi automatici e selettivi;

§  un accentramento decisionale che rende i criteri di assegnazione opachi e arbitrari.

Tutto questo sta generando una desertificazione culturale.

Il cinema italiano – che è memoria, lavoro, visione – viene trattato come un costo da contenere, anziché come un asset strategico da valorizzare.

Si dimentica che nonostante le tente difficoltà il nostro cinema rimane quello che ha vinto il maggior numero di Oscar per il miglior film straniero.

E questa è una cosa che andrebbe difesa, sostenuta.

Ma la crisi non è solo nei numeri: è nella visione.

Facciamo un confronto per capirci meglio

Il governo guidato da Giorgia Meloni ha destinato fondi pubblici a Stellantis (ex Fiat/FCA) principalmente attraverso due canali:

§  investimenti diretti350 milioni di euro per la riconversione dello stabilimento di Termoli in una gigafactory per batterie elettriche. Un progetto oggi in discussione a causa delle incertezze nella joint venture con TotalEnergies e Mercedes-Benz.

§  ecoincentivi per l’acquisto di autodei 1,95 miliardi di euro stanziati nel 2024, circa il 40% (quasi 800 milioni) ha beneficiato le auto del gruppo Stellantis, anche se solo la metà è prodotta in Italia.

Sottolineiamo: nessun nuovo prestito o garanzia statale è stata concessa sotto il governo Meloni, a differenza dei 6,3 miliardi garantiti dallo Stato a FCA nel 2020, sotto il governo Conte II.

E il cinema?

Guardiamo alla Francia

Secondo le ultime rilevazioni (fonte: Variety / Cineuropa), i fondi pubblici italiani sono meno della metà di quelli stanziati annualmente dalla Francia.

Eppure Parigi ha capito da tempo che investire nel cinema significa investire nell’identità culturale di un Paese.

In Italia, invece, si preferisce tagliare dove si dovrebbe seminare.

Anche i grandi network televisivi nazionali, pubblici e privati, investono nel cinema molto meno di quanto non facciano nello sport – e nel calcio in particolare.

Un solo minuto di una finale di calcio può valere milioni.

Ma quanto vale una storia che resterà per sempre?

Lo scnario è veramente cambiato?

 

È vero: lo scenario è cambiato.

Sono arrivate le piattafrorme di streaming NetflixPrime VideoDisney+Paramount PlusNow TV, SkyApple TVMediaset Infinity.

Ma anche tutti questi nuovi servizi di streaming – che pure offrono nuove opportunità che paradossalmente ampliano i ricavi dell’industria Cinema rendendo gli investimenti molto più profittevoli – non compensano la disattenzione strutturale dello Stato e dei broadcaster italiani.

Lo dicono i dati: la quota d’investimento in produzioni italiane resta bassa rispetto agli standard europei.

Questo appello non è solo una difesa. È una proposta

Chiediamo:

§  più fondi pubblici, non meno;

§  criteri trasparenti, condivisi, meritocratici, per evitare che le storture esistenti penalizzino le maestranze, gli autori, i produttori, i tecnici e tutti i lavoratori del cinema;

§  un impegno concreto da parte della RAI e dei network privati per sostenere la produzione nazionale, culturale, plurale.

Certo, è vero, e lo ammettiamo con la massima onìestà intellettuale di cui siamo capaci, il sistema non è esente da storture.

Esistono criticità, abusi, meccanismi da rivedere.

Ma tagliare indiscriminatamente i fondi significa colpire tutti – anche chi lavora con serietà, passione e qualità.

Le riforme si fanno con il confronto, non con le forbici. Serve più trasparenza, non meno risorse.

Perché senza cinema, un Paese non ha occhi.

E noi vogliamo continuare a guardarci – e a farci guardare – con dignità.

 

La nostra voce si unisce a quella di tanti altri professionisti che in questi giorni hanno preso posizione.

Come l’attore Elio Germano e l’attrice e conduttrice Geppi Cucciari, che per primi – in occasione dei David di Donatello 2025 – hanno denunciato le difficoltà che l’industria del cinema sta attraversando, contestando le dichiarazioni ritenute eccessivamente ottimistiche del Ministro della Cultura.

In una lettera indirizzata proprio al Ministro Giuli e ai Sottosegretari Borgonzoni e Mazzi, 94 tra attori e registi – da Paolo Sorrentino a Paola Cortellesi, da Pierfrancesco Favino a Toni Servillo – hanno ribadito la gravità della situazione: una crisi che rischia di togliere creatività, autonomia e innovazione a tutto il comparto.

Il decreto correttivo sul Tax Credit rappresenta solo una prima risposta, ancora incompleta e insufficiente.

È urgente che il Ministero apra finalmente un confronto diretto con le associazioni che rappresentano attori, autori e tecnici.

E che si smetta di trasformare ogni critica in polemica.

La cultura vive di confronto, non di intimidazione.

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La cultura vive di confronto, non di intimidazione.

Diffondete questo appello

 


Scaricate e condividete il banner che ho creato per sostenerlo.

Facciamoci vedere. Facciamoci sentire.

NO al taglio del Tax Credit.

SI al cinema d’autore, indipendente, libero.

Difendiamo la cultura, non solo l’intrattenimento.

 

https://www.cinemavistodame.com/2025/05/29/non-spegnete-lo-schermo-appello-per-il-nostro-cinema/


mercoledì 28 maggio 2025

Gli innocenti dalle mani sporche – Claude Chabrol

dice l'avvocato (Jean Rochefort), alla cliente Romy Schneider: "lei è una donna molto bella".

l'avvocato è fatto così, un po' naif, un po' azzeccagarbugli, di sicuro divertente.

e poi ci sono i due poliziotti, archetipi della coppia di poliziotti inventati molti anni dopo da Bruno Dumont in Ptit Quinquin.

e ultima, ma è la prima, una bravissima Romy Schneider, in un film dove tutto è quello che non sembra.

non sarà un capolavoro, ma è un giro sulle montagne russe, astenersi i deboli di cuore.

buona (sainttropeziana) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, in italiano

 

 

La serie stordente dei colpi di scena non inganni. Qui siamo in presenza di uno studio antropologico e le incredibili vicissitudini della trama cessano di esser tali per divenire occasione d'esame d'alcuni tipi umani. Chabrol opera con freddezza entomologica, come testimonia la penultima inquadratura della Schneider a colloquio con l'avvocato, stagliata com'è su un monotono e atonale sfondo verde. Steiger e Romy adeguati, ma è il contorno (ottimo Rochefort) a risultare decisivo per mettere in risalto i vari caratteri sotto la nostra lente.

da qui

 

Dopo i primi 10’, ossia già alla fine dei titoli di testa, tutto sembra avviato su binari consueti: una malmaritata, trovatosi un amante giovane (e, vedendo Romy Schneider in tutto il suo fulgore, ci si stupisce che ci abbia messo tanto tempo a trovarlo), decide di usarlo per far fuori il consorte alcolizzato e impotente. Poi sembra che Chabrol, solitamente lineare nello sviluppare i suoi soggetti, abbia deciso di concentrare qui tutti i colpi di scena della sua carriera: quasi inutile enumerarli (dico solo che i due morti apparenti in realtà sono vivi entrambi, come si capisce abbastanza presto), come è inutile rilevare le inverosimiglianze, a tal punto è chiaro che il regista ha voluto portare all’estremo, al limite della parodia, uno dei suoi tipici intrecci. Si tratta dunque di un divertissement metacinematografico, ed è bene saperlo prima della visione, perché altrimenti si rischia di sentirsi presi in giro; chiarito questo, ci si possono godere anche gli intermezzi quasi comici affidati a due poliziotti che sembrano Gianni e Pinotto e soprattutto all’avvocato buffoncello Jean Rochefort.

da qui

 

Sopraffino davvero, Chabrol sfotte i ricconi della Costa Azzurra e li immerge nelle acque torbide di un noir alla Cain (quello de "Il postino suona sempre due volte") che però è tratto da un romanzo di Richard Neely (chi sarà mai?).
L'intrigo si mischia alla farsa in maniera squisita (valga per tutte la lunga sequenza in cui un grande Rochefort, abbagliato dalla presenza della Schneider, arringa un'appassionata difesa nell'ufficio del giudice, con risultati esilaranti!) anche grazie all'occhio di fine osservatore del regista che si diverte ad offrire un quadro clinico e sottile di varia umanità coinvolta nell'indagine a tinte fosche.
Steiger è un perfetto marito tradito ma Romy, vestita da Yves Saint Laurent, è oltremodo maestosa nella sua suprema bellezza mozzafiato e senza confini, per di più alle prese con un personaggio intrigante come pochi.
Divertissement très chic!

da qui

 

Chabrol, assieme a Truffaut, era tra i più grandi ammiratori di Hitchcock e questa pellicola è un divertito omaggio alla sua poetica: partendo da un romanzo di matrice noir, il regista aggiunge un colpo di scena dopo l'altro, creando un effetto talmente inverosimile da sfociare nella parodia.
In aggiunta, c'è una coppia di poliziotti sui generis, che entra ed esce dalla scena con incredibile nonchalance, un avvocato logorroico (grande Jean Rochefort) che gestisce la causa 'improvvisando' e la bellezza di Romy Schneider, davvero abbagliante.
Forse l'unico neo è la presenza di Rod Steiger, per il suo stile di recitazione troppo 'Actors Studio', che non riesce ad amalgamarsi al resto del cast e allo spirito del film.

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martedì 27 maggio 2025

Sulla giostra – Giorgia Cecere

come un gatto, anche una domestica (da molti anni) è legata alla casa.

e quando gli eredi vogliono liberarsene fa di tutto per ostacolare la vendita della casa.

come Bartleby, anche Ada (Lucia Sardo, bavissima) preferirebbe di no, non andare via da quella casa, che è anche la sua.

un piccolo film che non delude (anche se la fine è troppo melensa e scontata).

buona (domestica) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Il centro di gravità della storia è Ada, e l'interpretazione di Lucia Sardo è semplicemente magnifica: una donna ruvida e allo stesso tempo di animo gentile, sempre indaffarata, mai a mani vuote. Ada è l'esempio di operosità e altruismo femminile che tutti abbiamo almeno una volta nella vita incontrato, e la scrittura di Cecere, che firma la sceneggiatura insieme a Pierpaolo Pirone, non ne fa una vittima ma una donna complessa e piena di spigolosità, mai motivata da egoismo nonostante la reticenza ad "abbandonare il campo", e con un senso alto della propria dignità…

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…Lucia Sardo ci ha regalato dei ritratti di donna del sud indimenticabili, da Felicia Impastato ne I cento passi all’ultima performance in Picciridda di Paolo Licata. Qua lascia da parte la totale drammaticità dei suoi ruoli più famosi e alleggerisce il tutto con un pizzico di perfidia, che la rende irresistibile.

Montato e girato con uno sguardo classico, tutto votato alla storia e alla resa delle atmosfere, oltre che alla valorizzazione del contesto naturale e culturale, Sulla giostra è un film “piccolo”, ma molto ben riuscito. Coerente con il suo messaggio di imprevedibilità e semplicità, sarà una bella sorpresa per il pubblico. Molto azzeccata la scelta del finale, che concentra il punto di svolta in cambiamenti tutti interiori, senza colpi di scena poco credibili e – forse – neanche auspicabili. Se non tutto finisce come in una favola, è perché la vita vera – a volte – dà anche più soddisfazioni.

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Un ritmo sgonfiato, rassicurante, che lascia ai problemi lo giusto spazio, senza lasciarsi sopraffare, nella consapevole certezza di avere delle priorità come l’amicizia, l’amore, le buone maniere, la gentilezza. Non il paradiso perduto, soltanto un rifugio da coltivare, non certo da abbandonare a cuor leggero. Luoghi nei quali ancora è possibile essere riconosciuti per strada ed onorati di un saluto, magari di un poeta o di un vecchio filosofo, piccoli paesi abituati a dare una festa in ogni occasione per non dimenticare quanto è bello stare insieme a ballare e cantare, e non per questo essere provinciali od obsoleti. Realtà transitorie, scandite dalle esigenze biologiche, meno ossessionate dalla velocità, schiave una decadenza lieve bagnata dal nettare dell’abitudine. Sulla giostra sembra proprio una cura. Adatta all’imbarazzo, alle urgenze immaginarie, alle malattie della modernità. Sposta l’orologio sui bisogni primari, rimuove la visibilità momentanea, interessata, in cambio di uno sguardo più lungo. Un’occhiata piena di dolcezza, una carezza anche maliziosa, ma sincera. Sullo schermo scorre un romanzo esistenziale, di formazione sensibile, per arrivare ad un obiettivo nascosto, lontano ed ambizioso, verosimile accordando fiducia alle persone, anche quando quella fiducia è stata tradita mille e mille volte, per non trasformarsi nei mostri che vengono a farci paura.

da qui

 

 

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domenica 25 maggio 2025

La guerra di Cesare - Sergio Scavio

il film è ispirato a La vita agra, di Luciano Bianciardi, racconto della lotta individuale contro il mostro economico dalle mille teste, inafferrabile e invincibile.

un paesetto dipendente per molti anni dalla miniera si trova in difficoltà esistenziale quando la miniera chiude e lascia tutti in miseria.

i due amici Mauro (interpretato da Alessandro Gazale) e Cesare (Fabrizio Ferracane) vengono tenuti al lavoro come guardiani della miniera morta, e poi c'è Francesco (interpretato da Luciano Curreli), il fratello, un po' ritardato, ma molto amato, di Mauro.

intanto c'è una vertenza sindacale con il padrone, il delegato sindacale (disabile, come lo è il sindacato, incapace) riesce a ottenere come buonuscita solo una miseria, e lo comunica ai lavoratori in un'assemblea degli ex minatori.

solo Mauro non si rassegna, s'incazza di brutto, ma è impotente contro il Padrone...

...il resto lo saprà chi avrà la fortuna di vedere il film.

è l'opera prima del regista, con attori tutti bravi e convincenti, con un cuore che batte anche per gli altri.

non sono più tempi di rivoluzione, la forza collettiva, il partito, non ci sono più, il sindacato è solo un patronato, nulla più.

come dice Warren Buffett, è in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classela classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo, parole vere, anche se forse nessuno di quei minatori ha mai sentito parlare di quel riccone. 

curiosa la figura del responsabile per la Sardegna dell'impresa proprietaria della miniera, un po' alcolista, un po' artistoide (un coglioncello della scuola di Elon Musk). 

e come il Tognazzi de La vita agra, nel film diretto da Carlo Lizzani, Cesare e Francesco (con una foto di Cossiga e Pertini) vanno in città per vendicare i morti.

e la città ha il suo fascino e le sue trappole, ma anche questo lo saprà solo chi vedrà il film.

e poi ci sono anche il ballo e gli asini, uniche consolazioni per chi non vedrà nessuna rivoluzione.

ho visto il film in una sala nella quale, alla fine, regista, qualche produttore, qualche attore e attrice, altri elementi della troupe, la responsabile delle luci, mi sembra, e ci hanno raccontato difficoltà, ambizioni, amicizie, collaborazioni, e il film è il risultato di tanti elementi.

un'opera prima convincente, un piccolo film che non delude.

buona (danzante) visione, se ve lo fanno vedere - Ismaele


 

 

Uomini al tramonto, frustrati dal fallimento di una rivoluzione operaia che sembra ormai definitivamente destinata a non realizzarsi, Cesare e Mauro raccontano la fine di un'epoca e dei suoi ideali.
Sebbene il titolo sembri suggerire un unico e solo protagonista della storia narrata, La guerra di Cesare racconta in realtà la ribellione fallita di tre personaggi, con i cui punti di vista il regista decide di giocare fin dalla prima scena. Sergio Scavio sceglie infatti di aprire la sua opera prima con la ripresa di un uomo impacciato intento a guidare un motorino per le vie assolate della Sardegna. Quell'uomo non è Cesare, il citato protagonista del titolo, bensì il fratello del suo migliore amico: si chiama Francesco e presto scopriremo la sua bislacca passione per il suo omonimo e conterraneo Cossiga. Mentre accompagniamo l'incedere incerto di Francesco ci scontriamo con un altro personaggio, che gli si pone improvvisamente davanti: è l'imponente e scorbutico Mauro, guardia giurata nonché fratello di Francesco. Iniziamo così a seguire Mauro nelle sue giornate lavorative; conosciamo la sua storia da ex minatore, le vicende del giacimento in disuso in cui un tempo era impiegato e che ora sta per essere acquisito da una multinazionale cinese, incontriamo il suo collega e migliore amico. Solo a questo punto abbiamo effettivamente raggiunto Cesare, presentato quindi al pubblico, inizialmente, come il collega del fratello dell'uomo in motorino della prima scena…

da qui

 

Cesare alleggerisce il cuore tramite il ballo, e quando incontra una donna che condivide la sua stessa passione, ecco che scocca la scintilla. L’altro che si riversa in te, ti comprende e ti accoglie con tutte le tue particolarità. È quello che avviene tra Lori e Cesare, una coppia apparentemente improbabile ma che regala a Cesare la gioia dell’innamoramento, e anche la tipica futilità degli amori impossibili. Lori è una donna in frantumi, sensuale ma anche inafferrabile, un oggetto di desiderio vitale, ma che sfugge continuamente perché destinata a perire lontana da occhi indiscreti.

Ma la pellicola è anche un racconto infarcito di situazioni grottesche e surreali di morettiana memoria. Scavio orchestra una serie di personaggi nello stesso tempo comici e tragici, drammatici e teneri. Ma non per questo distanti dalla realtà, anzi, tutt’altro, la realtà sembra addirittura troppo stretta per contenerli. Come la follia timida del fratello di Mauro, Francesco, in stato di venerazione nei confronti di Francesco Cossiga. Le sue fragilità e i suoi discorsi strampalati sono una espressione di sincerità e rarità…

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Crollati i sistemi difensivi e di tutela del lavoro, disintegrata quella che si chiamava “coscienza operaia”, sparita da ogni orizzonte una sia pur minima coscienza di classe anche nella politicamente sensibile Sardegna, trasformati i luoghi della politica in improbabili scuole di ballo, non resta che raccontare la desertificazione di tutta quella che era la ribellione operaia e dei lavoratori delle miniere in una favola sospesa tra un surreale molto somigliante ad una realtà sognante e il senso di frustrazione per ciò che mai sarà realizzato.
Ispirato, per dichiarazione dello stesso regista e co-sceneggiatore, a La vita agra, il ribellistico romanzo di Luciano Bianciardi, antesignano di una stagione di lotte sindacali e previgente racconto sulla disintegrazione di ogni ideologia davanti alle prospettive dorate del capitale, La guerra di Cesare ne ricalca la trama sebbene con una propria autonomia e idea di racconto, a suo modo lontano da un realismo stringente e al tempo stesso con un procedere che sa riversare dentro questo presente la presenza smarrita di un personaggio tradito nelle proprie idee radicate negli anni…

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Mauro Chessa (Gazale) guardia giurata infelice e manesca fa il tiro a segno nel nulla e vorrebbe padroni arabi invece che cinesi. Cesare Manca (Ferracane) guardia giurata un po’ surreale ha una moglie infelice e fa danza nel dopolavoro con l’idea che la musica è finita nel 1983. Stanno per perdere il lavoro in una miniera sarda che sarà ceduta. Il sindacalista che dovrebbe difenderli gira con la bombola d’ossigeno (metafora del sindacalismo sfiatato?). A questo punto temi un documentario deprimente sulle realtà lavorative abbandonate dalle multinazionali, e invece, dopo un’inutile fiammata di protesta in cui Mauro salta in aria, ecco che Cesare molla tutto e come l’eroe del Bianciardi della Vita agra va in guerra contro l’azienda che sta per svendere la miniera ai cinesi: porta con sé candelotti di dinamite e il fratello fragile di Mauro, Francesco  (Curreli), svanito e maniaco dell’eleganza che gira con una foto di Cossiga sottobraccio e ne tesse le lodi con aneddoti gustosi. Un on the road sardo tra il demenziale e il surreale, in certi momenti una variante isolana degli eroi di Kaurismaki: affittacamere paralitici (il regista Grimaldi), travestiti che amano danzare, locali disco pieni di segni religiosi,  riferimenti cinefili  e bombaroli (Il bandito delle 11 di Godard, qui in versione originale, Pierrot le Fou). Film discontinuo, malinconico, a volte esilarante, con una metafora tragica: attenti all’asino cieco.

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La guerra di Cesare – continua il regista – è anche un film sull’amicizia e sull’accudimento che l’amicizia richiede. È importante imparare a volersi bene l’un l’altro. Cesare, che all’inizio è un po’ una materia inerte nel film, attraverso alcune relazioni molto assurde e grottesche, come quelle con Mauro e Francesco, i personaggi principali, riesce a trasformarsi e inizia a militare per loro, a lottare per loro, nonostante siano due personaggi fuori dalle righe, due reietti. La vera forza di Cesare è il coraggio, quello che mostra per gli altri, con i quali riesce a creare una relazione di grande generosità”.

“Cesare è un essere umano con tutte le sue debolezze, i suoi dubbi, il suo non sapere come possano andare le cose – aggiunge l’attore protagonista Fabrizio Ferracane – non è un superuomo, come quelli che di solito siamo abituati a vedere, che non sbagliano o non cadono mai; e forse per questo Cesare è il personaggio che mi somiglia di più tra quelli che ho incontrato nel mio lavoro. Con lui sento di avere in comune uno sguardo sulle cose e sulla vita. Questa interpretazione mi ha dato una maggiore consapevolezza sul fatto che le mie tante domande, le mie increspature, le non certezze e i miei errori, in fondo vanno bene così ed è la cosa che mi ha fatto innamorare di Cesare perché è un uomo con dei dubbi e forse i dubbi se li pongono proprio le persone più sensibili e intelligenti”…


 

sabato 24 maggio 2025

Fuori - Mario Martone

prima un invito, leggiamo qualche libro di Goliarda Sapienza.

il film di Mario Martone racconta, mostra, evidenzia la solitudine della protagonista, il rapporto di Goliarda (una straordinaria Valeria Golino) con Roberta (una straordinaria Matilda De Angelis), che poi contribuisce alla creazione dei materiali di partenza per i libri della scrittrice. 

al cinema, appena si spengono le luci, si entra nel film, con lo sguardo di Goliarda Sapienza, ma noi siamo fuori dalla sua mente e dai suoi pensieri.

non ci sono colpi di scena magici e sorprendenti, il ritmo è quello di Sapienza/Golino, solo i suoi sguardi, il suo respiro, i suoi gesti ci fanno intuire qualcosa di una storia davvero fuori dall'ordinario.

un film da non perdere, e aspettare qualche minuto, nei titoli di coda appare una breve intervista di Enzo Biagi a Goliarda Sapienza.

buona (straordinaria) visione - Ismaele

 

 

 

Un plauso a Martone: solo un regista con la sua esperienza poteva muoversi con tale rispetto tra i silenzi, le pause, i pensieri non detti di una donna come Goliarda Sapienza. Brave anche le interpreti, in particolare Valeria Golino, che restituisce con misura e profondità un personaggio torbido e indomabile, sempre in lotta con se stessa e col mondo. Eppure, qualcosa sfugge. Forse perché è difficile davvero raccontare chi vive ai margini anche del racconto stesso, chi è sempre oltre, mai del tutto afferrabile. I personaggi appaiono come figure complesse che, nel poco tempo concesso, restano un po’ chiuse, inaccessibili. Anche noi spettatori, pur toccati, restiamo parzialmente fuori, come a guardare attraverso una porta accostata. La sceneggiatura, pur curata, sembra non affondare del tutto nel magma emotivo che avrebbe potuto sprigionare dalla scrittura di Sapienza, autrice che oggi consideriamo fondamentale ma che ancora si fa fatica ad ascoltare davvero. E tuttavia, Fuori resta un film necessario, un atto politico e culturale, una chiamata alla memoria. Bello il rimando parallelo alla serie L’arte della gioia, e applausi sinceri a Golino, che con discrezione ha fatto da ponte tra quella donna e noi. Per sentirsi fuori e per sentire Fuori, bisogna stare dentro una sala cinematografica e abbandonarsi a quella libertà che solo il cinema sa offrire…

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…Perché tutto questo lavoro formale e narrativo, per Mario Martone, ha senso nella misura in cui si muove al ritmo del sentire di Goliarda Sapienza. Che “vive amori e furori in egual misura”. Che è sempre presente, eppur sempre altrove. Che afferma di aver da fare, ma passa il suo tempo “stronandosi” scrivendo. Che sa di non appartenere più, forse di non di essere mai appartenuta, a quel mondo di intellettuali sterili, “non ne posso più dei salotti. Anzi, loro non ne possono più di me”. E che, perciò, cerca una nuova forma di solidarietà con le sue compagne di cella. Eppure rimane sempre staccata dal piano di realtà, come le rinfaccia, incazzandosi, Roberta, lei sì pienamente immersa nei suoi anni, tra l’eroina e la battaglia politica. Ma, proprio per questo, è Goliarda, solo Goliarda, ad aprire squarci, varchi tra le maglie della storia, delle relazioni, degli sguardi, delle idee.

Ecco. Mario Martone ci regala un film magnifico ed enorme. Grazie alle sue interpreti: Valeria Golino, ovviamente, ormai pienamente dentro l’universo della scrittrice, una stupenda, straordinaria Matilda De Angelis, la sorprendente Elodie. E a tutto il cast di contorno, Daphne Scoccia – James Dean, Sonia Zhou – Suzie Wong, Corrado Fortuna – Angelo Pellegrino. Ma soprattutto grazie al suo sguardo inquieto, inclassificabile, libero. Che diventa straziante nel finale, quando racconta l’ultimo incontro tra Goliarda e Roberta.

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Martone ricostruisce meticolosamente l’atmosfera di quell’epoca, un periodo di transizione e contraddizioni per l’Italia, dove alle tensioni politiche si mescolavano nuove forme di espressione e libertà personale. In questo contesto, il percorso di Goliarda e il suo rapporto con Roberta emergono come una forma di resistenza silenziosa ma potente.

Uno degli aspetti più riusciti di “Fuori” è la rappresentazione del legame tra Goliarda e Roberta, un rapporto che sfugge a facili categorizzazioni. Non è semplicemente amicizia, non è solo attrazione, non è solidarietà: è un’alleanza esistenziale, un riconoscersi reciproco che va oltre le convenzioni sociali.
Martone tratta questa relazione con una delicatezza e una profondità rarissime nel cinema contemporaneo. Ogni sguardo, ogni silenzio, ogni gesto tra le due donne è carico di significato. La complicità che si sviluppa tra loro diventa progressivamente una forma di resistenza contro un mondo che non comprende la loro libertà interiore.

“Fuori” è anche una potente riflessione sul processo creativo e sul potere salvifico della scrittura. Il film mostra come l’incontro con le detenute riaccenda in Goliarda la scintilla della creatività, permettendole di ritrovare la sua voce letteraria. Le scene in cui la vediamo scrivere colpiscono. Martone riesce a rendere visivamente il processo creativo: la scintilla dell’ispirazione, la lotta con le parole, l’urgenza di raccontare. Attraverso questa rappresentazione, il film diventa anche una riflessione sul potere dell’arte di trasformare l’esperienza umana, persino quella più dolorosa, in qualcosa di significativo e universale…

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Valeria Golino, che conosce a fondo la figura di Sapienza anche per averla a lungo studiata in preparazione alla sua regia della serie L'arte della gioia, ne coglie alla perfezione l'elusività e lo straniamento, vagando per il film peripatetico diretto da Mario Martone e da lui scritto insieme a Ippolita di Majo con la sensazione palpabile di una non appartenenza, non alla sua epoca o al suo contesto, ma all'esistenza tutta, e del suo sentirsi molto più affine alle carcerate che ai frequentatori dei salotti dell'intellighenzia. La sua Goliarda ha fame di vita (oltre che tentazioni di morte) e trova in Roberta e Barbara, rumorose, sopra le righe e sfacciate, le portavoce del suo grido inespresso.

Per contro l'interpretazione di Golino è magistrale nel mantenersi sottotono e nel giocare in sottrazione, resistendo alla tentazione facile (cinematograficamente parlando) di mostrarsi istrionica e creare il ritratto di un'artista follia e sregolatezza. Le sue tenerezza e malinconia nel dare voce a Goliarda mostrano un rispetto profondo verso un'autrice che desiderava vedere amato il suo romanzo e non ci è riuscita nel suo tempo di vita: "Quel libro sono io", dirà, con commovente sincerità. Lei e le sue due amiche "sono dentro anche quando sono fuori", e solo quando sono insieme si sentono libere: bellissima la scena in cui cantano fuori da Rebibbia e i detenuti rispondo unendosi al canto…

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…rimanendo in superficie, fuori, potrebbe apparire il semplice racconto di un’amicizia improbabile, con accenni saffici; è solo provando ad entrare realmente dentro che il fuoricampo, il non detto, il non visibile, l'impianto tutto – giocato sul sottilissimo crinale tra realtà e immaginazione, e il continuo disinteresse per un racconto “cronologico” è lì a dimostrarlo –, finiscono per depositarsi nelle coscienze, proprio come accadde un tempo con L’odore del sangue, altro film tra i meno “concilianti” e più “selvaggi” del regista partenopeo. 

Ad emergere con strafottenza quasi selvatica è allora la prova di una struggente Matilda De Angelis: la sua Roberta quasi pasoliniana, eroinomane disperata eppur vitalissima, sorta di immaginifico e carnalissimo angelo custode di corrispondenze corsare che, solo nel finale, capiremo quale futuro assegneranno all’amica Goliarda.

In quel fantasmatico commiato, sulla banchina della stazione Termini, scorrono le possibili e intangibili traiettorie di un abbraccio che fisicamente si era risolto solo qualche minuto poc’anzi e che poco dopo sembra svanire nel nulla ma che in realtà, spiritualmente, sarà lungo per sempre: quello tra una scrittrice aliena alla conformità del mondo che abitava e il grido della vita nella sua forma più ferina e inclassificabile. Che di norma viene invece soffocato, e recluso…

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