martedì 18 febbraio 2025

L'uomo nel bosco (Miséricorde) - Alain Guiraudie

il titolo italiano è completamente diverso dal titolo francese, ma ci siamo abituati. 

non si capisce bene cos'è questo film, d'amore, un thriller, umorismo nero, di gelosia.

quello che è sicuro è che non ci si annoia, bravi attori nelle mani di un bravo regista, colpi di scena continui, apparenze che diventano altro, si inizia con un morto, poi un altro, c'è un prete sorprendente, una vedova che sa il fatto suo, due gendarmi che non riescono a capire cosa succede.

purtroppo si può vedere solo in una decina di sale, anche a questo siamo abituati.

cercatelo e godetene tutti.

buona (difficile da vedere) visione - Ismaele


 

 

 

 

…Al netto della serietà con cui inscena le trame del desiderio, "Miséricorde" è altresì un film infuso di toni da commedia nera, ma più che accentuare le deviazioni grottesche dell’intreccio, sembra intento a cogliere con naturalezza i sintomi della quotidianità cui aderisce. Nell’universo di Guiraudie che si pasteggi coi funghi concimati da un corpo in disfacimento non è fatto più inconsueto di un ateo che confessi un parroco - su richiesta, si badi, del prelato, il quale d’altro canto, come il giovane curato che ne "Le due zittelle" di Landolfi arringava in favore della scimmia sbafatasi un piatto di Ostie consacrate, si premura di dichiarare apertamente le sue posizioni ereticali sul delitto e il castigo in quella che è la scena più esplicita di questa operetta morale. E se le vicissitudini di un cadavere sepolto, dissepolto e ri-sepolto richiamano alla memoria quello che è il film più inglese di Alfred Hitchcock, vale a dire "La congiura degli innocenti", l’implacabile coppia di poliziotti si innesta in un solco tra le stravaganze di Bruno Dumont e una invenzione à la Chabrol, incarnando l'ortodossia del senso comune e della morale tradizionale.
Aderendo al principio di Flaubert, secondo cui il maggior esito nell’arte non consiste nel far ridere o piangere, ma nel saper agire come fa la natura, Guiraudie rifiuta l’enfasi e si mette in ascolto del battito sotterraneo che anima le cose del mondo. Lo spia, per così dire, con una macchina da presa ad altezza d’uomo, per scrutare i corpi, per desiderarli e farli desiderare, con quella casta impudicizia d’adolescente che da sempre informa il suo cinema.

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Perché, dunque, in L’uomo nel bosco Jérémie sembra quasi volersi sostituire alla figura del figlio e al tempo stesso a quella del padre, tornando metaforicamente (ma nemmeno troppo) verso il corpo della madre? E perché, nel suo risalire alle origini della vita incontra la morte, e dunque la colpa, senza assumersene la responsabilità? E chi, allora, lo farà per lui quel gesto di misericordia per cui la salvezza passa per la menzogna, il travestimento, il silenzio?
L’immoralità del cinema di Guiraudie sta nella confusione dei comportamenti e dei valori mostrati; nell’oscenità intesa letteralmente come “fuori scena” e normalmente come offensiva verso il comune senso del pudore, perché tutto nel suo mondo grezzo e istintuale è confuso, stravolto, non conforme, non spiegato (e buffo), eppure stranamente – ed è qui lo scandalo – naturale, istintivo. Naturale perché istintivo…

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C’è anche Jérémie, anche lui corpo mutante. Sotto questo aspetto è incredibile il volto di Félix Kysyl (vittima? carnefice? entrambe le cose?) in un gioco di dipendenza con Catherine Frot che sembra uscita da un film di Chabrol. Diventa quasi l’attore di una calibrata messinscena teatrale dove ha bisogno di interpretare più personaggi; ha addosso infatti i vestiti del fornaio deceduto e vuole mettersi quelli di Walter. Potrebbe fare tutti i ruoli, come Dénis Lavant con Léos Carax. Ma anche scomparire, essere un fantasma, guardare da fuori questa versione nera di Rohmer  – una specie di  ‘conte macabre’ – dove le traiettorie dei protagonisti di “Commedie e proverbi” possono essere anche simili ma a muoversi non sono i corpi umani ma gli zombie. Un film in continuo disequilibrio come gran parte dell’opera di Guiraudie, che cerca di dare forma al mistero tra la gravità delle azioni e la banalità del male. Il titolo originale, Miséricorde, forse ne racchiude parte del senso più profondo. Magistrale.

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Miséricorde si rivela uno spasso per come riesce a districarsi tra malizie, segreti e verità inconfessabili, ardori tra uomini che si rivelano segreti di Pulcinella, e il candore dei sentimenti che giustifica atti e comportamenti impulsivi che gli abitanti del paesello risultano vivere con incosciente ma vitale entusiasmo, e soprattutto slanci erotici incontenibili.

Molto valida la prestazione del protagonista, il giovane ed ambiguo Félix Kysyl, attorniato dalla sempre rassicurante Catherine Frot, vedova chioccia moto meno ingenua di quello che potrebbe apparire a prima vista.

Ma la figura più potente, si potrebbe azzardare di tutto il cinema del 2024, è quella dell'astuto prete, abile nel mettere in atto un proprio sentimento di giustizia e di colpa/espiazione tutto suo.

Un personaggio strepitoso, che si mette letteralmente a nudo esibendo l'erezione più clamorosa degli ultimi anni.

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Les Cahiers du cinéma lo hanno collocato in cima alla classifica dei migliori film del 2024, certo è un film che non lascia indifferenti. Se mai è poco pubblicizzato e, di conseguenza, poco visto. Peccato, L’uomo nel bosco è di notevole sottigliezza ottenuta con gradi successivi e quasi inavvertiti di penetrazione…

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L’uomo nel bosco, il cui titolo originale è Misericordia, è un’opera a dir poco misteriosa. L’estrema cura nel mostrarci i suoi lunghi dialoghi è accompagnata dalla costante sensazione che nessuno stia dicendo tutta la verità, che nessuno sia davvero chi afferma di essere. Molte delle sequenze in cui vediamo i personaggi parlare tra di loro sembrano arrivare allo spettatore come brevi frammenti di conversazioni origliate da dietro una porta, in cui non si conosce bene il contesto del discorso e si può soltanto continuare a ipotizzare. Come la fitta foresta in cui il protagonista si aggira in cerca di funghi nasconde innumerevoli segreti, così anche le stesse parole degli abitanti del paesello celano qualcosa, e non soltanto i posti dove è più facile trovare i porcini.

L’alone di mistero generale è però compensato da una regia estremamente realistica, che rifiuta persino la colonna sonora se non per il segmento iniziale dei titoli di coda. Lo sguardo di Guiraudie sulle vie e casette del paese, ma anche sullo splendido bosco che lo circonda, risulta talvolta molto simile a quello che si può trovare in un dipinto realista di fine Ottocento, ad esempio le opere del nostro connazionale Teofilo Patini. Così anche la visione dei rapporti umani, che risultano ridotti all’osso, scarni, ma allo stesso tempo sembrano nascondere qualcosa di più profondo e viscerale. Il tutto risulta essere in uno stato di ambiguità e di assurdo, di oscillazione tra quello che sappiamo, quello che pensiamo di sapere e quello che bisogna tenere nascosto, come ci ha sempre insegnato la realtà del paesino di provincia. Anche lo stesso Jérémie è parte di questa ambiguità, silenzioso, chiuso e quasi in imbarazzo nelle prime volte in cui compare sullo schermo, finché poco dopo non viene messo letteralmente a nudo davanti ai nostri occhi, sia a livello fisico che soprattutto psicologico.

L’uomo nel bosco è un film che ha come obiettivo quello di confondere, poi intrappolare lo spettatore all’interno della sua storia, e infine lasciarlo lì solo, seduto sulla poltroncina a chiedersi “e adesso?”. È un Possum senza il suo mostro, una visione assurda delle pulsioni e perversioni umane che non possono essere portate a galla. È uno sguardo su qualcosa che traspare soltanto, come fa il sole tra i rami degli alberi in un fitto bosco. E forse proprio per questo merita di essere visto.

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lunedì 17 febbraio 2025

Do Not Expect Too Much from the End of the World (Non aspettarsi troppo dalla fine del mondo) - Radu Jude

Radu Jude non delude mai.

in questo film ci sono tanti fatti piccoli e sorpendenti, diverse storie che si rincorrono e si intersecano nella stessa giornata.

Angela Raducani (che ha girato altri film del regista) è interpretata dall'instancabile Ilinca Manolache, che corre come un criceto, una lavoratrice schiava tuttofare.

sono passati i tempi nei quali i lavoratori erano organizzati e contavano qualcosa, la Romania è in mano alle multinazionali che lasciano il paese sempre più povero, l'unica ribellione di Ilinca è quella di creare un personaggio su TikTok, sboccato e sincero, l'unico spazio di libertà per Ilinca.

il film è pieno di citazioni e, per quanto sembri una stramberia, è un godimento per chi guarda.

peccato che il film sia stato nelle sale poco e male, gli attori sono davvero bravi, cercatelo e godetene tutti.

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

 

…Do not expect too much from the end of the world è un film lungo; un film che condensa tanti generi, e innumerevoli registri cinematografici. Ciononostante, quello diretto da Radu Jade è un film che compie una magia più unica che rara: riesce a raccogliere nello spazio dei propri raccordi tutta l'esasperazione di giovani costretti a ore interminabili di lavoro, e una ricerca di evasione dalla realtà nello schermo di uno smartphone. Un mix esplosivo generante un ritratto della nostra quotidianità, dipinta con caustica e irresistibile ironia, abile nel coinvolgere il proprio pubblico fino a inserirsi nello strato più profondo della sua anima.

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La satira dai toni grotteschi sulla società contemporanea, il gioco degli opposti pieno di citazioni, aforismi, battute e scambi tra registri non può più essere considerato (soltanto) un semplice esercizio di stile. Questo film di superfici, come l’ha definito lo stesso Jude, riassume nell’unità del film-aforisma tutte le suggestioni del suo cinema e analizza con una straordinaria profondità riflessiva le immagini del mondo in cui viviamo. Basta un TikTok per avere contezza di temi come la morte, lo sfruttamento sul lavoro, la gig economy, la guerra in Ucraina? Dramma, in parte commedia, in parte road movie, in parte film di montaggio, in parte film d’archivio (Angela merge mai departe, 1981) che sconfina attraverso i suoi protagonisti (Dorina Lazăr, László Miske) all’interno della pellicola contemporanea di Jude.

Do Not Expect Too Much From the End of the World è un film stratificato, denso, per cui un’unica visione non basta a decifrarne completamente la portata riflessiva. Un ulteriore passo in avanti nella filmografia di uno dei cineasti europei la cui analisi sulla contemporaneità sembra aver raggiunto il suo apice espressivo.

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Nell’estenuante traffico di Bucarest, la satira di Radu Jude viene scandita da nuove nevrosi in bianco e nero, alter ego di TikTok e colori d’archivio. Un ambizioso gioco di registri che culmina nell’apice espressivo del regista romeno, grottesco, esasperato, tragicamente realistico. Le violenze del capitalismo contemporaneo intercettano gli anni di Ceaușescu in uno stratificato ‘film di superfici’ fatto di digressioni, aforismi, antitesi, censure. Nulla è lasciato al caso: tutto opera al servizio di un unico, lucidissimo, grande delirio, molto più grande dello stesso film, che non assomiglia a nulla di già visto.

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Il sottotitolo del nuovo film di Radu Jude, ovvero Do Not Expect Too Much From the End of the World, è “dialogo con un film dal 1981”. È quindi evidente che, come nel caso di The Marshal’s Two Executions (2018) e Tipografic majuscul (2020) ci troviamo ancora una volta davanti a quello che è innanzitutto un sofisticato esercizio di montaggio. Un film di finzione che racchiude in sé spezzoni di un film precedente, quello diretto appunto nel 1981 da Lucian Bratu e intitolato Angela Goes On, utilizzato da Jude come capsula del tempo utile a documentare la Bucarest degli anni Ottanta, quindi dell’era di Ceaușescu, che diventa la base visiva per una serie di evocative giustapposizioni della città di allora e di oggi. Jude richiama così in scena Angela Coman (Dorina Lazăr), la protagonista - oggi anziana - di Angela Goes On (o Angela Moves On, titolo dal significato ambivalente, che al movimento nello spazio ne associa anche uno emotivo), che nel film originale guidava moltissimo per le strade di Bucarest per guadagnarsi da vivere. Il montaggio alternato di Radu Jude invita il pubblico a confrontare la Bucarest mappata dall’immaginaria Angela di Bratu nel suo ruolo di tassista, mentre l’era di Ceaușescu stava appena entrando nel suo ultimo decennio, con la Bucarest attraversata dalla nuova protagonista del suo film, anche lei Angela e anche lei in auto, più di 40 anni dopo. Ci troviamo davanti a una città molto più trafficata, con un numero esponenzialmente più alto di auto a intasare le strade della capitale e a scaricare polveri inquinanti nell’aria, al punto che le immagini provenienti dal passato socialista ci appaiono preferibili e avvolte da un nostalgico romanticismo. Ma ovviamente è tutto un gioco di percezioni, un modo per svelare come il cinema - così ieri, così oggi - possa manipolare la realtà e dare una visione falsata della stessa…

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Lontano da ogni scialba ambizione di perfezione tecnica, Jude è autenticamente rosselliniano (con buona pace dei più rigidi e scandalizzati cultori del magistero del regista di Paisà) per la sua capacità di costruire il reale attraverso il rapporto tra l’uomo e lo spazio, tra l’immediatezza della rappresentazione e l’azzeramento delle distanze, tra la schiettezza delle emozioni e la continua scoperta dei luoghi, tra la forza dell’involucro narrativo e le continue epifanie della realtà che costringono a rimettere ogni scena (e ogni scelta) in discussione.

Non solo, però. L’autore di Sesso sfortunato o follie porno (con cui fu premiato con l’Orso d’oro a Berlino) riprende da Rossellini anche la necessità di superare certe contraddizioni del linguaggio da riunire in un nuovo progetto espressivo, anche se il suo sguardo a volte sembra quello di un moralista ottocentesco e a volte quello di un Voltaire meno incarognito. Così, la semplicità quasi sciatta del webcasting si unisce a una fotografia (di Marius Panduru) – in bianconero per la maggior parte della durata – quasi piatta e volutamente senza profondità, realizzata con mezzi pressoché amatoriali (c’è anche il flickering della luce sui muri) ma di una solidità corrusca e perfino scultorea.

Senza contare che la vicenda di Angela dialoga con quella dell’omonima protagonista del vecchio film di Lucian Bratu Angela merge mai departe (1981, titolo internazionale Angela Moves On), che come lei vaga in auto (qui, per la precisione, si tratta di un taxi) per le strade di Bucarest. Spezzoni di questo film vengono mostrati e integrati alla narrazione non solamente come semplice contrappunto. Con un geniale colpo di scena, infatti, si verrà a scoprire che il personaggio principale (non la sua interprete Dorina Lazar, che pure riprende il ruolo) di Angela Moves On è anche la madre di Ovidiu (Ovidiu Pîrșan), colui che sarà poi scelto per raccontare la sua sfortunata vicenda nello spot-progresso. Ennesima dimostrazione di un’idea di cinema liberissima (e per questo radicale), dove il nichilismo si stempera nella beffa: in fondo conviene «non aspettarsi troppo nemmeno dalla fine del mondo», suggerisce il titolo «rubato» all’aforista polacco Stanisław Jerzy Lec. Come a dire che ogni individuo sembra impossibilitato a costruirsi realmente il proprio futuro senza prima ritagliarsi uno spazio di libertà all’interno di un mondo recalcitrante a essere ridotto ai voleri del singolo.

A fare di Do Not Expect Too Much from the End of the World un capolavoro, però, è la capacità di Jude di condensare il discorso all’interno della sua ricerca stilistica che ha la quieta temperanza del gioco. L’apparente eterogeneità del linguaggio, infatti, serve per dimostrare un assunto apparentemente semplice: al giorno d’oggi ogni immagine può essere messa in comunicazione con qualsiasi altra. Non importano le sue origini, i suoi contorni, il suo formato, la sua destinazione d’uso e il suo significato originario: ogni differenza può essere integrata, senza pregiudizi o gerarchie. Un discorso che, in fondo, si è invitati a traslare dal piano ludico e semiserio del film ad altri e ben più importanti aspetti della realtà e della vita.

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Il caos di Non aspettarti troppo dalla fine del mondo è più simile a quello che si intendeva nelle cosmogonie della Grecia antica: una massa oscura e palpitante, sotto la cui superficie si muovono le cose che saranno, che prima o poi verranno, e chissà, magari sotto la coltre oscura riposano anche le macerie di quello che è stato in un’altra iterazione dell’eternità. Cosa siano, queste cose, al momento non è dato saperlo: angeli che verranno a salvare il cinema? I demoni che lo malediranno? Jude ha detto che il suo prossimo progetto è un film girato tutto con l’iPhone in formato 9:16. Perché? Perché è il formato attraverso il quale la maggior parte delle persone che esistono oggi esperiscono il mondo. Perché da tantissimi è considerata, questa, la forma del brutto. Perché per Jude TikTok e Instagram possono ancora essere strumenti d’arte, inizio di un nuovo cinema vernacolare, e qualcuno deve pur cominciare a mettere le fondamenta di questa Decima arte fatta di schermi verticali e video di 30 secondi al massimo. Magari è così che il cinema si salverà, o forse Radu Jude è l’agente del caos, l’angelo del male, l’araldo dell’apocalisse venuto ad annunciarci che il cinema è morto – e quindi il mondo è finito – e queste sono le ceneri che ne restano, a noi la scelta se chiuderle in una teca e piangere o usarle per concime e sperare che qualcosa nasca. Sempre meglio, però, non aspettarsi troppo dalla fine del mondo.

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venerdì 14 febbraio 2025

The Brutalist - Brady Corbet

la storia di László Toth è quella di tutti gli immigrati poveri negli Stati Uniti d'America (dove tutti sono migranti di prima, di seconda, di n-generazione, gli indigeni sono stati, quasi tutti, sterminati).

i (merdosi) riccastri degli Usa sono corrotti, antisemiti (solo con gli ebrei poveri), a volte sono come Henry Ford, massone di Rito Scozzese al massimo grado e sostenitore dei nazisti e di Hitler.

László (interpretato da Adrien Brody) arriva a Ellis Island e sarà ospitato dal cugino (interpretato da Alessandro Nivola, nipote di Costantino Nivola, muratore e architetto, fra le tante arti che ha esercitato, e Ruth Guggenheim, arrivati a New York dall'Italia nel 1939, per sfuggire alle leggi razziali), poi starà in un dormitorio e infine incrocia, in qualità di architetto, il riccastro Van Buren (interpretato da Guy Pearce), un tipo alla Trump, tutto si può vendere e comprare, e quello che non gli danno se lo prende con la forza. 

il sogno americano è un incubo per quasi tutti, per quelli che non comandano niente.

e poi succedono mille avvenimenti, e riesce ad arrivare, dopo anni, la moglie Erzsébet (interpretata da Felicity Jones).

intanto per una volta, nelle multisale, non ci sono dieci minuti di pausa con le immagini di bibite e popcorn gravemente dannosi per la salute, ma per un quarto d'ora d'intervallo, imposto dal regista, sullo schermo c'è l'immagine fissa della foto del giorno di matrimonio di László e Erzsébet, a Budapest, davanti alla sinagoga.

il film dura tre ore e mezzo, e ogni minuto è necessario, ed è cinema di altissimo livello (forse l'epilogo alla Biennale di Venezia è di troppo, questione di gusti).

ci sono tante idee, citazioni, suggestioni, da Paul Thomas Anderson a Orson Welles (per esempio la processione sul crinale della collina sembra, almeno per me, un omaggio a Welles, da Othello).

insomma, uno dei più bei film dell'anno, da non perdere, se vi volete bene.

buona (prolungata) visione - Ismaele



 

…Il progetto consentirà  a Toth di ricongiungersi finalmente con la moglie Erzsebet (Felicity Jones, nel miglior ruolo della sua carriera), inizialmente rimasta in Ungheria e costretta in sedia a rotelle a causa degli stenti patiti durante la guerra, e con la figlia autistica Zsofia (Raffey Cassidy, sempre più brava e inquietante), ma lo renderà anche completamente succube dei soldi e soprattutto dei capricci di Van Buren, le cui divergenze artistiche sulla costruzione dell'opera mineranno irreversibilmente il fisico e la psiche dell'architetto, spingendolo sull'orlo della pazzia e rendendolo sempre più schiavo dell'oppio e della droga. Il rapporto malato tra i due uomini ha ricordato a molti critici, con ragione, il cinema bigger than life di P.T. Anderson, sia ne Il Petroliere che soprattutto in The Master, prendendolo come pietra di paragone per mostrarci un'America violenta, prevaricatrice, razzista, che sfrutta gli stranieri e gli immigrati per tornaconto personale e li getta via come scarpe vecchie una volta che non gli servono più.

The Brutalist per almeno 3/4 della sua durata è un film strepitoso, ambizioso, perfino eccessivo, e proprio per questo ancora più coraggioso e meritorio. Solo nell'ultima parte si sfalda un po', prendendo (forse volutamente) una piega eccessivamente cupa e arrivando in qualche caso al limite del buon gusto (come nella scena in assoluto più drammatica e sopra le righe, quella girata nelle cave di marmo di Carrara - che non intendo svelarvi - in cui la relazione tossica tra i due protagonisti arriverà al punto di non ritorno) ma che non intacca minimamente l'epicità della storia nè la morale di fondo: di come, cioè, la ricerca di una nuova Patria possa spesso avvenire a scapito dell'esclusione e della sofferenza altrui. Perchè il fine giustifica i mezzi, nella società ultracapitalista. E perchè, come spiega il protagonista a un passo dalla morte, "nella vita conta la méta, non il viaggio".

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In sintesi, "The Brutalist" è il più classico dei "vorrei ma non posso". Malgrado elementi di pregio e sequenze notevoli (le cave di Carrara su tutte), mantiene poco rispetto alle sue smisurate ambizioni. Se l'architettura è, come sosteneva Le Corbusier, "capacità di stabilire attraverso materie inanimate dei rapporti in movimento", Corbet qui fa esattamente il contrario, utilizza i rapporti in movimento tra immagini e suoni ma non riesce mai veramente ad animare i suoi personaggi e la sua storia, troppo impegnato ad aprire parentesi mai chiuse. A visione finita, la lotta immane di Toth per erigere un edificio che non si sa bene se sia una biblioteca, una chiesa o un centro congressi, ricorda anche troppo il rapporto di Corbet con il suo film, una figura immensa che sembra ancora in gran parte prigioniera del marmo. Chissà che la citazione di Goethe che apre il film, "nessuno è più schiavo di chi si crede libero", non si possa leggere anche come una sottile autocritica.

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…The Brutalist vuole ribaltare il mito del sogno americano: non c’è spazio per i momenti di gioia, niente scorre liscio, si entra continuamente in conflitto con la società e il sistema capitalistico per mantenere la propria identità, un puzzle che lentamente cade a pezzi e i tentativi per ricostruirlo non possono avere effetti.

Corbet maneggia la sceneggiatura per creare un’opera ineccepibile dal punto di vista audiovisivo, costruendo una messinscena che nei 215 minuti non risulta essere mai pesante, lasciando lo spettatore di fronte a un lungometraggio, sì, lento, ma martellante…

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Corbet realizza un’opera torrenziale, un affresco, una parabola sui tormenti di un artista, divisa in ouverture, epilogo e intermission. Questo perché Corbet si prende il suo tempo per creare un dramma epico con protagonista uno straordinario Adrian Brody. The Brutalist è un film audace, ambizioso, un film che usa le forme, i colori e il suono per sottolineare l’oppressione a cui è sottoposto Lázsló e i muri in cui si imbatte. László è un uomo a pezzi, troppo generoso per riuscire a sopravvivere in una società capitalista, quella stessa società che, attraverso le mire megalomani ed espansionistiche di van Buren, finisce per risucchiarlo…

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…The Brutalist è un'opera straordinariamente ambiziosa che sfida lo spettatore con la sua densità tematica e la sua durata considerevole. 

Corbet costruisce un film che è al tempo stesso un dramma storico, un ritratto psicologico e una riflessione sul ruolo dell'arte nella società  che rendono questa pellicola un'esperienza cinematografica intensa e indimenticabile.

E’ durata circa dieci anni la gestazione di questo film, vuoi per i soliti problemi di finanziamento (enormi per un film indipendente) vuoi per la pandemia, sta di fatto che The Brutalist possiede le stigmate di quei film che passano alla storia, quelle opere monumentali che sono un palcoscenico maestoso su un racconto carico di emozione e di drammaticità; l’opera di Corbet, che ricordiamolo è il più europeo dei registi americani, possiede la grandezza del Cinema che sa trasportare, il cinema eroico, quello che ti tiene incollato sulla sedia e con gli occhi sullo schermo; non a caso il regista decide di utilizzare il sistema Vista Vision a 70 mm il cui ultimo utilizzo era stato negli anni 50, proprio per rendere il più reale e coinvolgente possibile l’esperienza visiva, alla quale concorre una fotografia ed un bianco e nero elegantissimi e glaciali nella loro bellezza  ed una colonna sonora di Daniel Blumberg sempre ben coerente con lo sviluppo narrativo.

Il cast è eccellente ma le prove di Adrien Brody e Guy Pearce , entrambi candidati all’Oscar, sono al limite della perfezione nella loro perfetta adesione ai rispettivi personaggi.

Ribadiamolo, non è un film per tutti: la sua narrazione frammentata, i suoi toni cupi e la sua lunghezza potrebbero scoraggiare alcuni spettatori. Tuttavia, per chi cerca un cinema che stimoli la riflessione e offra un'esperienza estetica e intellettuale di alto livello, The Brutalist rappresenta un capolavoro contemporaneo che lascia il segno, uno di quei film che entreranno di diritto tra quelli che fra 50 anni verranno ricordati; basterebbe un film come questo, ogni 2-3 anni ,a far sì che il Cinema abbia una ragione di esistere.

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martedì 11 febbraio 2025

The order - Justin Kurzel

Justin Kurzel si "specializza" nei film sui terroristi e lo fa davvero bene.

nella pancia degli Stati Uniti c'è un cancro, terroristi interni, suprematisti bianchi, disposti a tutto.

appare un libro, The Turner Diaries, la bibbia dei suprematisti bianchi; quel libro appare anche nell'attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, il che rende il film quasi un documentario.

Jude Law è bravissimo, è un poliziotto non troppo amato dai superiori, ma sa fare il suo lavoro come pochi, testardo e coraggioso, paziente verso il suo giovane collaboratore inesperto.

un film da non perdere, promesso.

buona visione - Ismaele


  

 

…Il film si presenta, inoltre, quasi come lo studio antropologico di un’America profonda e dimenticata. Il ritratto di quelle comunità fatte di persone senza prospettiva, di ultimi, dove la retorica dell’odio è più facile che trovi terreno fertile e attecchisca. Uomini e donne cui viene offerto un bersaglio, anche in senso fisico, da prendere di mira sin da bambini. Un vero e proprio addestramento all’odio e al risentimento, alla ricerca di un capro espiatorio cui attribuire le colpe del proprio arretramento sociale, della propria marginalità. Una educazione all’odio che parte dalla manipolazione del reale e che è, di fatto, tutta maschile. Il ritorno agli antichi valori cui i protagonisti aspirano, quelli che a loro dire hanno ispirato la nascita di una nazione “fatta di bianchi”, passa evidentemente per una struttura eminentemente patriarcale dove la donna ha valore solamente nella sua funzione riproduttiva e di “angelo del focolare”.

Ma vi sono, importanti, anche i riverberi con la strettissima attualità, in un paese diviso come non mai e alle soglie di decisive elezioni presidenziali. Come infatti esplicitato in coda al film, all’indomani dell’assalto al campidoglio del 6 gennaio 2021, sono state rinvenute copie dei famosi Diari di Turner. Ritrovamento che rende ancor più sinistro l’evento eversivo che ha avuto luogo a Washington, dopo l’elezione a presidente di Joe Biden.

Come già notammo al tempo a proposito di Civil War (2023), diretto da Alex Garland, stupisce il fatto che a parlarne, sia pure in un contesto di fiction, sia un regista che statunitense non è. Che Hollywood stia forse dimostrando una sorta di timidezza e non voglia prendere posizione sui fatti di casa propria? Chissà?

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Nel complesso, The Order non è qualcosa di particolarmente nuovo o originale, ma appare senza ombra di dubbio come un film brillante nel suo cercare di mettere in evidenza un certo tipo di tensione sociopolitica, di immaginario nazi-machista, ritualisticamente perverso nella simbologia e nelle pratiche. Il gruppo The Order, di fatto, ha tutti i connotati tipici di una setta, a partire da alcuni elementi che individuano Bob Mathews come una guida e un santone, nonché le pratiche d’iniziazione, le ossessioni sulla “razza”, le derive antisemitiche e discriminatorie. In tal senso, è sintomatico – e dovrebbe far riflettere a lungo – che un film del genere sia stato realizzato da un regista australiano, con una produzione canadese alle spalle.

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The Order ci porta nelle due fazioni opposte, eppure legate da un fil rouge visivo che perdura per tutto il film, fino alla fine: da un lato la polizia, con le ricerche, le indagini, le perquisizioni e i dubbi sulla matrice delle rapine, dall’altro la cellula criminale che fa di tutto per compiersi, esercitare la propria visione già preconizzata nell’immaginaria insurrezione descritta nei The Turner Diaries, libro che ha ispirato generazioni di nazisti e suprematisti e che descrive momento per momento un ideale piano terroristico per coloro che decidono di muovere guerra al Governo. Libro che ha evidentemente ispirato anche Mathews, e che ha decisamente giocato un ruolo nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, in cui sono stati appesi dei cappi a imitazione dell’immaginaria insurrezione descritta in The Turner Diaries.

The Order è una lotta intestina, violenta, impetuosa, rabbiosa, che osserva con grande intelligenza dove si radica l’odio, dove nasce l’insofferenza, e come si diffonde con facilità laddove c’è abbandono, dove lo Stato è assente. Un’opera che comincia nella natura, in una realtà di provincia, dove abitano operai, proletari, spesso disoccupati, persone che sentono di essere state tradite da chi si doveva occupare di loro. Ed è li che nasce la seduzione per quel terrificante Mein Kampf tutto americano, quel manuale di guerra civile che fornisce una nuova speranza, una nuova prospettiva di rivalsa per chi ha perso tutto, lavoro, dignità, futuro. Ancora una volta ad essere protagonista è il cinema di frontiera, dove c’è opposizione tra le parti, ma anche un certo legame, quasi una seduzione implicita, una caccia al nemico che non può che deflagrare e sublimarsi in un finale imperioso e spietato.

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…Como siempre en el cine de Kurzel sobre sucesos verídicos, la historia está manipulada sin miramientos para exacerbar determinadas facetas y cambiar un montón de detalles aunque en general se conserva todo el núcleo duro de la saga en cuestión, por ello aquí Mathews (Hoult), un polígamo con dos hijos, funda La Orden bajo la sombra de la Alianza Nacional y como un desprendimiento concreto de la Nación Aria de Butler (Victor Slezak), loquito que aboga por una interpretación antisemita y racista del protestantismo, conocida como Identidad Cristiana, y pronto despierta el hartazgo de un Mathews que pretende pasar de las ideas a los hechos, así pone bombas en sinagogas y cines pornográficos y roba bancos y camiones blindados en el Noroeste del Pacífico de Estados Unidos al punto de suscitar la investigación de un agente del FBI que perdió a su parentela por su sustrato workaholic, Terry Husk (Law, asimismo productor), quien de inmediato unifica fuerzas con una colega, Joanne Carney (Jurnee Smollett), y un policía de corta edad, Jamie Bowen (Tye Sheridan), que termina asesinado por estos neonazis al igual que Berg (Marc Maron) y un tal Walter West (Daniel Doheny), miembro de la Nación Aria que estando borracho habla de más con Bowen. La película trabaja muy bien desde el neo noir la profesionalización de La Orden mediante el financiamiento vía asaltos y falsificación de billetes y explora el carácter de “manual de acción” que ya en los años 80 había ganado Los Diarios de Turner, en la praxis cotidiana una invitación al reclutamiento, la recaudación de fondos, la revolución armada, el terrorismo doméstico, los homicidios selectivos y ese genocidio poco sutil contra toda alteridad denominado El Día de la Soga. Martínez en pantalla se llama Tony Torres (Matias Lucas) y es un mexicano que se hace pasar por español para conseguir un trabajo dentro de la organización, cayendo no por dólares truchos sino por ser el encargado de comprar armas para el grupo. Kurzel no sólo se luce señalando lo obvio, la cobardía de estos dementes que culpan a chivos expiatorios por unas miseria e ignorancia que son oligárquicas/ capitalistas, sino que además redondea grandes secuencias de acción, en línea con John Frankenheimer y Michael Mann, y mantiene alta la tensión símil Sidney Lumet combinando Mississippi en Llamas (Mississippi Burning, 1988), de Alan Parker, y Armado hasta los Dientes (Dead Bang, 1989), de Frankenheimer, otras epopeyas sobre milicias del supremacismo blanco.

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The Order è la denuncia in formato filmico dell’australiano Kurzel verso i tempi bui che stiamo vivendo. Tempi fatti – ancora – di complottismi e fake news, di antisemitismo e ideologie fondamentaliste, di politica dell’odio e Potere Bianco. Movimenti sociali di differente etichetta, nome, titolo, ma dalle identiche sfumature problematiche su cui Kurzel punta il dito: «L’unica cosa che avete in comune è che siete troppo inadeguati per stare al mondo e la vostra unica risorsa è cercare di mortificare la gioia degli altri».

Una linea dialogica che parla da sola e che vale da sola la visione di The Order per cui: «L’America è un grande paese ma siamo ancora intrappolati nelle nostre menti». E non è solo la Nazione a stelle e strisce ad esserlo, ma fa certamente più rumore il film di Kurzel se andiamo a vedere chi risiede, oggi – di nuovo -, alla Casa Bianca. Al di là, comunque, di un discorso ideologico che finisce con il potenziarne gli effetti filmici, è di un grande pezzo di cinema che parliamo. Uno small-town-mistery denso dalle immagini evocative armonizzate da transizioni poetiche e dai colori sfumati come sono sfumati i contorni caratteriali chiaroscurali dei suoi agenti scenici, The Order, che regala ai posteri una bel testa a testa interpretativo tra due Law e Hoult allo stato dell’arte…

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