domenica 31 luglio 2022

Marlina, omicida in quattro atti - Mouly Surya

Mouly Surya gira un film di vendetta e speranza, le donne vincono, gli uomini sono quasi sempre gente di merda.

Marlina viene presa come ostaggio e rapinata di tutto, dai maschioni delinquenti del paese, ma poi i torti si pagano, non lo sapevano con chi avevano a che fare.

non è un film per maschilisti, questo è sicuro.

buona (resistente) visione - Ismaele



 

 

Una giustizia che, come nella migliore tradizione cinematografica delle storie di vendetta è fin troppo timida quando garantita dalle forze di polizia, mentre è efficace e catartica se conquistata con le proprie mani. La denuncia ufficiale di Marlina è rallentata dalla burocrazia e resa difficile dall’atteggiamento degli agenti uomini, che sembrano più interessati a sapere il numero esatto di assalitori piuttosto che mostrare solidarietà alla vittima, la quale tra l’altro non può dimostrare la violenza prima di essere visitata da un medico. La sua parola non conta nulla. È chiaro che la storia individuale di Marlina, se si considera l’attuale condizione sociale della donna nello Stato indonesiano, assume le forme di un importante grido di denuncia dall’ampio respiro. La regista trentasettenne Mouly Surya imposta dunque un film tutto incentrato sulla forza della sua protagonista, una figura forte e ostinata «ispirata dall’immagine delle donne che ho incontrato sull’isola di Sumba» ha raccontato la regista e che riassume in sé caratteri tradizionalmente virili. Da un punto di vista cinematografico, ecco allora giustificata l’attribuzione dell’etichetta di western per questo Marlina, omicida in quattro atti: virilità, sangue freddo e storie di vendetta sono elementi topici di questo genere, riformulati in questa pellicola al fine di far emergere un personaggio femminile forte, protagonista di una quotidiana sfida contro quella discriminazione tra sessi che è ancora molto sentita nel paese della regista. I suggestivi paesaggi dell’isola di Sumba fanno da scenario ad un racconto di sangue e violenza che dichiara attraverso le immagini i propri modelli cinematografici: Marlina procede a cavallo lungo strade deserte come gli anti-eroi solitari di Leone e Eastwood, mentre la testa mozzata non può non rievocare quella di Alfredo Garcia presente nel film di un altro grande regista di western, Sam Peckinpah. Se i riferimenti cinematografici si lasciano apprezzare per il modo in cui vengono trasposti,  il film manca forse del giusto ritmo, caratteristica che sembra in effetti non desumere dalla tradizione alla quale fa riferimento. La suddivisione in quattro atti (La rapina, Il viaggio, La confessione, Il parto) introduce una scansione narrativa tipica del racconto pulp, tra romanzo e fumetto, che qui perde di efficacia perché non supportato da un intreccio sufficientemente accattivante…

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…Per il suo racconto Mouly Surya sceglie canoni e situazioni tipicamente occidentali: i richiami a Tarantino, come detto, ma anche al cinema western sono chiarissimi; Marlina che gira a cavallo e con la immancabile spada forgiata a scimitarra ( la spada tipica che portano con sè gli uomini nei villaggi) portata a tracolla ricorda molto quelle eroine western e ancor più la Sposa di tarantiniana memoria che non si separava mai dalla sua katana.

Pensare però al lavoro della Surya come ad un semplice riferimento citazionista sarebbe errore grave: pur presentando infatti qualche momento che non convince al massimo, nel suo insieme la storia di Marlina mostra una forza notevole, grazie ad una figura di grande impatto che va incontro in pochi fotogrammi ad una trasformazione da umile femmina sottomessa a feroce giustiziera.

Seppur venato di momenti di violenza tutt'altro che banali, la pellicola ha però la sua leggerezza narrativa che trova non solo nel bel ritratto della protagonista il suo fulcro, ma anche nel personaggio della compagna di viaggio di Marlina; a questo si aggiunge una fotografia spettacolare in cui i toni caldi del giallo delle campagne arse , la polvere che offusca l'immagine e la luce naturale abbacinante costituiscono un palcoscenico naturale autentico e bellissimo.

La eccellente prova di Marsha Timothy nel ruolo dell'eroina del racconto è un ulteriore fattore che gioca in favore del film, interpretazione che è valsa all'attrice il premio come migliore attrice al Festival di Sitges nel 2017.

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Tout se passe sur l’île indonésienne de Sumba, autant dire pour nous, européens, le bout du monde et surtout un endroit où la culture traditionnelle ne peut que paraître surréaliste. Et le moins que l’on puisse dire, c’est qu’au niveau exotique et étrange, le spectateur de MARLINA, THE MURDERER IN FOUR ACTS est servi: le mari momifié, les hommes du voisinage qui viennent piller la ferme de la veuve et qui viennent également profiter (sans son consentement) de ses charmes!

Et ce n’est pas fini car Marlina n’est pas femme à se laisser faire et harcèlement et viol ne lui font pas peur. Sa réaction aussi violente qu’efficace ne sera que le prélude à une dénonciation des actes de ces hommes à la ville la plus proche.

Mélange de road movie, de “survival”, de film de revanche, MARLINA, THE MURDERER IN FOUR ACTS est un film entre conte et réalisme avec une mise en scène simple mais efficace. Si le film est lent, c’est plus pour suivre le rythme de vie indonésien de l’île de Sumba qu’un manque de rythme.

Les images somptueuses et la musique très “western” font de cette co-production franco-indo-thai-malaisienne un véritable petit bijou non seulement exotique mais aussi très révélateur de comment les femmes d’un pays majoritairement musulman savent prendre leur destin en main. Une leçon à méditer, sans aucun doute…

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Com uma promessa de estilização, bem característica em narrativas pensadas e organizadas em capítulos, “Marlina, Assassina em Quatro Atos” se mostra até mesmo contido neste aspecto. As decapitações estão bem distantes dos barris de sangue de um “Kill Bill” e a música instrumental excelente da dupla Yudhi Arfani e Zeke Khaseli tem como função apenas enfatizar a tensão em determinados enfrentamentos com o risco. Somente os toques de humor soam um tanto deslocados da proposta central.

É válida também o interesse da diretora Mouly Surya, que também coassina o roteiro, em levar para o centro uma personagem secundária, Novi (Dea Panendra). Grávida que demora a dar a luz, ela também é vista em um contexto de abuso, constantemente humilhada por um marido que a acusa de infidelidade com insultos. Duas amigas que, unidas, enfrentam com os recursos em mãos a sobrevivência em um território sem lei.

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sabato 30 luglio 2022

Kaili blues – Bi Gan

la prima volta che lo vedi, questo film non ti dice molto, se non nella seconda parte del film.

e allora subito dopo ti viene voglia di rivederlo.

e quel piano sequenza nella seconda parte, che ti fa entrare dentro quella storia, è bellissimo.

mi ha ricordato quel capolavoro di Bo Hu, siamo dalle stesse parti.

un piccolo grande film da scoprire e riscoprire.

buona (immersiva) visione - Ismaele


 

In realtà Kaili Blues è un film apparentemente facilissimo.

E' un film che dipende TOTALMENTE dallo spettatore. Se volete limitarvi alla superficie non troverete praticamente niente, se non un'opera fortemente realista (anche se con un paio di inserti strani e surreali) e dalla trama monotona e banale.

Se invece avrete voglia di andare oltre, se avrete voglia di concentrarvi in ogni nome che viene detto, in ogni gesto compiuto, in ogni oggetto che ricompare e in ogni tragitto fatto dai personaggi, beh, allora vi troverete davanti un gioiello…

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Apparentemente semplice, si rivela in realtà molto complesso se si hanno occhio e pazienza (magari rivedendolo una seconda volta) nell'interpretare anche i più piccoli particolari che si riveleranno fondamentali nel prosieguo della visione. Si pensi ad elementi ricorrenti che sembrano di poco conto: orologi, sfere stroboscopiche, treni, racconti sugli uomini delle caverne. E poi c'è il tema del tempo e i personaggi che forse non sono sempre quello che sono. Criptico, onirico, enigmatico, affascinante, spiazzante, lynchiano, tarkovskiano. Ma anche lentissimo. Per spettatori pazienti.

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Si inizia da un luogo avvolto dalla nebbia: è Kaili, cittadina immobile, in cui due medici svolgono il proprio lavoro all’interno di una fantasmatica clinica. Servono pochi tratti appena abbozzati per descrivere i protagonisti, che sembrano sbucati da un film di Jia Zhang-ke, precisamente da quel Still Life che per primo ha stabilito in modo incontrovertibile i canoni di un nuovo cinema rurale e metaforico, verosimile e filosofico, capace di sabotare dall’interno le regole di controllo con cui il regime decide cosa è bene e cosa è male. Perché l’Arte in Cina non può disturbare né “scuotere” il popolo, perdendo completamente la sua funzione primaria. Il giovane regista Gan Bi (giustamente premiato a Locarno 2016 come Miglior Regista Emergente) sceglie la via della poesia: il protagonista Chen Sheng, per chiudere i conti col proprio passato e confrontarsi con le incognite del presente, intraprende un viaggio verso Zhenyuan. Ma non è quell’approdo ad interessarci, quanto la sosta “da sogno” – o da incubo, come dicevamo prima – a Dang Mai, un luogo semi-distrutto attraversato da un fiume. Se la precedente Kaili (luogo di nascita del giovane filmmaker) è uno dei simboli del baratro, Dang Mai – con le sue case diroccate, con il suo scenario sconnesso e post-apocalittico – è il baratro. Eppure a Dang Mai (ed è questo il colpo di teatro più interessante dell’intera pellicola) il tempo si ferma. Anzi, qualcosa di più: in questo paese fluttuante che genera spavento e insieme attrazione (in cui ancora vive l’antica cultura hmong, primo popolo ad essersi stabilito nel territorio dell’attuale Cina) il tempo non è lineare e le vite delle persone si completano a vicenda. Lo capiamo grazie al sontuoso piano sequenza di 41 minuti con cui Kaili Blues ci accompagna per i vicoletti, i negozietti abbarbicati sul nulla, i corsi e ricorsi sonori (il suono del treno in lontananza) e fisici (i personaggi che escono e rientrano in scena da angolazioni inaspettate). L’opera di Gan Bi non ha confini e non ha identità, blocca il tempo e lo lascia fluire. E, nonostante si rischi di apprezzare di più il virtuosismo rispetto alla sua reale efficacia narrativa, sembra spiegarci in modo univoco cosa sia la Repubblica Popolare Cinese oggi: un enorme Paese senza confini e senza identità, in perenne “falso movimento” verso il futuro.

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Kaili Blues, qui est également un hommage passionné à la région de Kaili, est un film d’une rare beauté, car la poésie dont il est chargé ne plane pas au-dessus, mais jaillit de l’intérieur d’une réalité racontée à partir de l’intime du quotidien. C’est aussi l’occasion de pénétrer dans la chair de la province chinoise sans la distance du jugement, à travers un trip sincère, car poétique. Chan, médecin qu’on découvre malade déjà au début du film, trouve finalement sa cure en abandonnant ses remèdes. Les montres sont toujours à régler, on n’y arrivera pas. Il n’y a pas des médicaments pour le temps. Au temps, on ne peut que s’abandonner. C’est seulement là qu’on entendra la musique : Kaili Blues.

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venerdì 29 luglio 2022

The Woman Who Left (Ang Babaeng Humayo) – Lav Diaz

una storia di vendetta, Horacia fa, innocente, trent'anni di prigione, dove faceva la maestra per le sue colleghe.

una volta uscita di galera cerca la figlia, che non vedeva da quando era bambina, scopre che il figlio non si trova, e parte per la sua vendetta, riuscendo a trovare una pistola da un venditore ambulante di cibo che diventa suo amico.

riesce a trovare il suo aguzzino, ma conosce anche altre persone, e piano piano diventa un'altra persona, sopratutto a causa di Hollanda, il trans odiato da tutti, che lei accudisce come un figlio, senza niente in cambio.

e dopo che succede tutto, Horacia riparte alla ricerca del figlio.

la protagonista è di una bravura enorme, ma tutti sono bravi, nelle mani di Lav Diaz.

un film di vendetta, amore, rimpianti, amicizia, da non perdere.

buona visione - Ismaele




 

 

…Questa potente opera, evidentemente adatta solo a spettatori particolarmente preparati e motivati, rilegge il racconto di Tolstoj Dio vede la verità ma non la rivela subito e lo attualizza nella corrotta realtà delle Filippine degli anni ’90, facendone un film d’autore meditativo e intimo ma anche un inesorabile ‘revenge movie’ sui generis dai ritmi dilatati ma in continuo climax crescente. Un’opera difficilmente incasellabile per lo spettatore occidentale, nella quale l’esotismo di una cinematografia periferica riesce a dar vita a un lavoro che colpisce per la sua originalità, affrontando turbamenti psicologici, denuncia sociale e una complessa macchina narrativa.

Il nome di Lav Diaz non è certo di quelli che godono di preclara fama, ma i cinefili sanno bene quanto il filippino sia amato dai festival di tutto il mondo – tanto da aver concorso a Cannes e da aver vinto a Venezia, Berlino e Locarno – e quanto sia a suo modo una garanzia. Considerato che The Woman Who Left – La Donna Che Se Ne È Andata rappresenta senza alcun dubbio uno dei suoi film più importanti, non vi rimane che andare che acquistare un DVD che non può mancare nella vostra collezione…

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…Ispirandosi a un racconto di Tolstoj (Dio vede quasi tutto, ma aspetta) declinato a partire da vicende di cronaca della sua terra, Diaz scrive un potente saggio sulla natura umana, scandagliando sentimenti viscerali e assoluti, toccando argomenti dolorosi tra cui la perdita, il perdono e l’espiazione. Come spesso accade nella produzione dell’autore, il dipanarsi degli avvenimenti è subordinato all’esigenza di dover dar forma e concretezza alle emozioni, superando il concetto stesso di durata nell’ottica di fornire allo spettatore un punto di vista quasi in presa diretta sulla vita dei personaggi. Ecco perché sembra diventi possibile seguire l’evoluzione dei protagonisti, accompagnandoli nel loro percorso con un coinvolgimento a tratti totale.
The Woman Who Left (Ang babaeng humayo) è anche un film sulla ricerca e l’accettazione, sul bisogno di dare un senso agli eventi tragici dell’esistenza, attraversando difficoltà e cambiamenti sia fisici che psicologici. Emblematica è in tal senso la continua trasformazione di Horacia, i cui effetti (anche esteriori) sono addirittura spiazzanti per il pubblico. Diaz aumenta poi il senso di indeterminazione sfumando alcuni passaggi e sfruttando l’ambiente in maniera impeccabile, dilatando i tempi fino a sospendere l’idea stessa di finzione.
Tecnicamente la pellicola rinuncia ad alcuni stilemi tipici (come i lunghi piani sequenza), rielaborando il gusto per i lunghi stacchi di inquadratura. Diaz (curatore anche della fotografia e del montaggio) alterna sequenze frammentate a veri e propri tableaux vivants in cui l’elemento umano è quasi sovrastato dal contesto circostante. I personaggi non appaiono praticamente mai in primo piano (quasi a rispettarne la fragilità), spesso nascosti fra le ombre plastiche che sembrano inghiottirli. Ed è proprio la componente visiva a esibire una grande potenza espressiva, attraverso un sontuoso bianco e nero incredibilmente dettagliato in cui le immagini sono studiate con maniacale rigore. Eppure nella regia impeccabile non emerge mai un senso di artificiosità o costruzione estetica fine a se stessa, come se lo spettatore spiasse con discrezione i luoghi della vicenda osservando in disparte.
Pregevole l’interpretazione della protagonista femminile, supportata da una serie di attori di contorno che conferiscono autenticità e spessore ai rispettivi ruoli.

The Woman Who Left è un esempio prezioso di cinema fortemente evocativo, mai consolatorio e privo di retorica. Un cinema che, a dispetto di chi ne critica la difficile fruizione, si schiera paradossalmente dalla parte del pubblico, stupendo ogni volta senza scendere a compromessi, perché come scriveva Goethe: “Il più grande riguardo che un autore può avere per il suo pubblico è di non dare mai ciò che esso si aspetta, ma ciò che lui stesso, ogni volta secondo il grado di maturità propria e altrui, ritiene giusto e utile.”

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Ricerca e transfert sono i movimenti che alimentano il cammino della donna attraverso una narrazione apparentemente semplificata rispetto al tempo ipnotico e rituale che spezza ogni cronologia tradizionale nel cinema del regista filippino, apparentemente perché è come se la complessa polifonia di opere come From What is Before, capaci di sovrapporre simbolo, rito, Storia e vita quotidiana, venisse assorbita dalla caratterizzazione di alcuni personaggi, assimilati per trasmissione da quello di Horacia; sospesa tra grazia e violenza, aderenza e distacco, partecipazione e trasformazione, la donna è insediata da numerose possibilità Diaz continua ad esplorare con un’intensità rarissima la relazione tra uomo e natura in quello spazio di transito che mantiene le cicatrici del tempo, quelle del passaggio coatto verso l’urbanizzazione, mentre la natura lascia ancora tracce e scandisce l’inesorabilità del tempo. La dimensione rituale prende vita attraverso i corpi del venditore di balot e di Hollanda, ma anche nell’incontro di Horacia con una comunità che emerge dalla strada e dall’ombra. Nel costante e rigoroso lavoro sul suono, volutamente e vitalmente impreciso, Diaz è forse l’unico cineasta al mondo capace di realizzare un cinema aptico, tangibile e che stabilisce un rapporto tridimensionale tra suono e immagine, con una modalità del tutto dimenticata anche dal cinema indipendente, sopratutto quando tende alla perfezione del contenitore, sbarazzandosi di tutte le slabbrature. Diaz le conserva tutte e sopratutto in questo ultimo lavoro, punta molto sulla voce dei personaggi e sulla prossimità della stessa alla posizione empirica dello spettatore.

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L'illuminazione delle scene è, ancora una volta, pura filosofia della luce, la composizione delle inquadrature mette al centro (o ai margini, se serve alla narrazione) i corpi (o i loro frammenti) che si incarnano lungo il cammino di Horacia e che diventano figure archetipali, all'interno di scene che non diventano mai scenografie. In un bianco e nero fortemente contrastato Diaz segue le stazioni della sua misericordiosa (e mariana) protagonista attraverso le sue consuete riprese interminabili per restituire allo spettatore il privilegio di un tempo sconfinato e l'ebbrezza di una libertà assoluta (anche) dalle convenzioni cinematografiche.
Quella di Horacia, e di tutti coloro che la circondano, è una storia di redenzione e trascendenza che ha al suo centro una figura femminile generosa e paziente, conscia del fatto che non esistono risposte assolute alla mancanza di spiegazioni che la vita ci offre. La prigionia reale alla quale è miracolosamente sfuggita non è peggiore di quella delle figure che incontra e la sua epopea minima (ma gigantesca per portato morale) si snoda all'interno di una struttura a metà fra il melodramma e la commedia umana.
Il cinema di Lav Diaz è materia organica vivente e pulsante, visivamente incantevole, tentacolare nel suo snodarsi attraverso lo spaziotempo espanso che il regista le concede, abbandonandosi al flusso interiore della narrazione e confidando nel potere magico dell'attesa. Un cinema che si dilata sullo schermo alla velocità del nostro sguardo più profondo (non un attimo prima) e non subisce imposizioni ma risponde solo alle sue leggi, etiche ed estetiche.

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giovedì 28 luglio 2022

Per avere più spettatori il cinema deve reinventarsi - Andrea Segre

 

La crisi delle sale cinematografiche in Italia è gravissima: 70 per cento di presenze in meno rispetto al 2019, molto più che in altri paesi europei, dove in alcuni casi è addirittura aumentato, come in Francia e nel Regno Unito. Le istituzioni e le imprese legate al settore invocano una rivoluzione per riportare le persone al cinema. Ma sui modi e i contenuti di questa rivoluzione il dibattito è aperto.

Da più di dieci anni accompagno i miei film nelle sale, non solo per incontrare il pubblico, ma anche per trascorrere del tempo con gli esercenti e capire come sta cambiando il loro lavoro. Quelli che conosco meglio proiettano soprattutto film indipendenti, d’autore, di ricerca. Gestiscono una piccola parte degli schermi, ma danno spazio a sperimentazioni e avanguardie che potrebbero fornire indicazioni preziose sulla strada da seguire in questo momento. Come dice Giuliana Fantoni del cinema Edera di Treviso, “per andare al cinema oggi ne deve valere davvero la pena, deve esserci un intreccio di più motivi: la qualità del film, il piacere della sala in sé, la possibilità dell’incontro, l’occasione della partecipazione”. Perché “nell’era del cinema portato a casa, chi gestisce una sala deve imparare a trasformarla in un luogo collettivo”, afferma Valerio Carocci del Troisi di Roma.

Costruire comunità

Molti di questi piccoli gestori hanno continuato a costruire comunità anche durante la pandemia, attraverso eventi online. Internet è sia un’alleata sia una potenziale nemica: la concentrazione di potere nelle mani di pochi gruppi editoriali offusca la sua grande potenzialità come strumento di partecipazione democratica. Nel cinema il dibattito su come gestire l’uscita dei film in sala e la loro distribuzione ­online è ancora aperto. La finestra temporale tra le due distribuzioni negli ultimi anni è stata erosa dalla crescita dei servizi di streaming: spesso anche film importanti si possono vedere al cinema per pochi giorni e sono subito disponibili in streaming. In certi casi nelle sale non arrivano nemmeno.

Qualcuno pensa che difendere in questo modo le sale sia inutile. “Non saranno le finestre a salvarci dallo ­streaming”, provoca Paola Coltri, che insieme a Monica Naldi gestisce il Beltrade di Milano. “Siamo noi che dobbiamo essere più brave delle piattaforme”. Non è una dichiarazione di guerra, ma una linea d’azione ben chiara. “Sta a noi”, insiste Coltri, “dire al pubblico che solo nelle sale può stupirsi, emozionarsi, rinnovarsi.”.

Nell’era dei film portati a casa, chi gestisce una sala deve trasformarla in un luogo collettivo

La soddisfazione di riempire le sale con film molto lontani dai grandi successi commerciali è a volte un traino più forte della rendita economica. “La cosa più interessante e inquietante”, racconta Daniele Terzoli del cinema Ariston di Trieste, “è la nuova imprevedibilità del pubblico. Si è sviluppata una capacità di scelta che fa volare film che non ti aspetti e ne affossa altri sulla carta più forti. Il nostro compito è riuscire ad ascoltare questa imprevedibilità”. Ma non sempre gli esercenti sono liberi di farlo. Molti non sanno che spesso le sale devono tenere o cambiare la programmazione per rispettare degli accordi con i distributori, il cui principale obiettivo è garantire ai loro film un certo numero di spettatori e di proiezioni in un determinato lasso di tempo. Questo, naturalmente, distorce il rapporto con il pubblico.

La centralità dell’esercente, lì dove ha il coraggio di reinventarsi e di liberarsi, è condizione essenziale per far ripartire le sale cinematografiche. Un cambiamento reale può avvenire solo facendo crescere una nuova generazione di operatori culturali, che sappiano trasformare i cinema in centri di innovazione artistica e di cooperazione culturale. Come ha fatto Valentina Guglielmo, che dopo aver studiato a Berlino è tornata a Rovigo per riaprire con degli amici il cinema Duomo, una sala da quattrocento posti: “Ogni città, ogni quartiere ha le sue abitudini, dobbiamo imparare a interagire con il territorio provocandolo con nuovi sguardi”. Radicamento e provocazione sono due strade solo apparentemente opposte. “I ragazzi stanno tornando per vedere i film cult restaurati”, racconta Alberto Fassina del MultiAstra di Padova. “Aiutiamoli: facciamo un abbonamento a prezzo ridotto solo per loro!”. “Sarebbe fondamentale lavorare in modo continuativo con le scuole”, afferma Elena Rizzo del cinema Rouge et noir di Palermo. “Non singole proiezioni, ma progetti, laboratori, percorsi”. A questo dovrebbero servire i fondi del bando Cinema per la scuola del ministero della cultura.

Un’arma a doppio taglio

Il ruolo dei fondi pubblici è ancora fondamentale. “Bisogna evitare però di adagiarsi sugli aiuti”, sottolinea Monica Naldi del cinema Beltrade, “e usarli invece per inventare nuove strategie”. Il sostegno pubblico oggi rischia di essere un’arma a doppio taglio: da una parte permette di non chiudere, dall’altra può rendere passivi gli esercenti più sconfortati e quelli meno liberi o meno coraggiosi. “Molti nostri colleghi europei”, spiega Manuele Sangalli del cinema Italia di Belluno, “hanno avuto meno aiuti pubblici, ma hanno potuto tenere le sale aperte, con minori restrizioni e per più tempo. Non critico le scelte sanitarie, ma l’interruzione del rapporto con il pubblico ha reso il lavoro molto più difficile”.

Lo sforzo va sostenuto con finanziamenti collegati a progetti di rinnovamento, che forniscano alle sale nuovi strumenti per non subire la diffusione dello streaming. Servono regole precise, idee, coraggio e la partecipazione di tutti. Anche di noi registi, che dovremmo – insieme agli attori – frequentare di più le sale, per aiutarle a ripartire e per capire cosa sta succedendo alla nostra arte.

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Fawlty Towers - John Cleese, Connie Booth

fra il 1975 e il 1979 sono stati trasmessi 12 episodi di Fawlty Towers, dove tutto è perfetto, i tempi comici, i testi, gli attori, tutti bravissimi, Basil e Sybil, i proprietari dell'hotel, la factotum Polly e l'apprendista spagnolo Manuel (assomiglia a Benito Urgu da giovane), che nell'edizione spagnola diventa italiano, per non offendere il pubblico spagnolo.

gli stupidi hanno visto del razzismo, scemenze, naturalmente, ma gli stupidi sono legione.

comicità allo stato puro, da non perdere assolutamente.

vogliatevi bene, cercatelo e guardatevelo, senza dimenticare di ridere, è tempo guadagnato - Ismaele

 

 

 

John Cleese dai Monty Python alla sitcom

Ormai quasi quindici anni fa, nel 2000, il British Film Institute ha stilato una classifica dei 100 programmi televisivi britannici migliori di sempre, e al primo posto assoluto figurava Fawlty Towers, la sitcom con la quale, cronologicamente, abbiamo deciso di aprire la nostra cinquina.

Un onore raro, se si pensa anche che la serie è composta in tutto da appena dodici episodi da circa 30 minuti l’uno, pochissimi rispetto agli standard dei telefilm attuali.

I motivi di un così clamoroso successo di critica sono molti: in primo luogo la sceneggiatura, che ha in un certo senso stabilito gli standard della moderna sitcom presentando una famiglia disfunzionale che avrebbe poi influenzato, a detta degli stessi autori, anche molte serie americane a partire da Cin cin.

In secondo luogo, la presenza di John Cleese, appena uscito dai fasti del Monty Python’s Flying Circus (trasmesso fino al 1974, un anno prima del lancio di Fawlty Towers) e creatore e protagonista della serie assieme all’allora moglie Connie Booth.

Infine, quel senso dell’assurdo tipico dei Monty Python che viene qui per una volta applicato a un format più tradizionale come quello della serie TV, con esiti travolgenti anche se non sempre facili da digerire al primo impatto (non a caso, le recensioni del primo episodio, nel ’75, furono tremende, ma poi cambiarono completamente con la fine della prima stagione).

In Italia solo con trent’anni di ritardo

Trasmessa dalla BBC in due annate (sei episodi proprio nel 1975 e altri sei quattro anni dopo, nel 1979, quando Cleese e la Booth avevano tra l’altro già divorziato), la serie è arrivata anche in Italia – con colpevole ritardo – nel 2007 grazie al canale satellitare Jimmy.

Personaggi principali erano l’albergatore Basil Fawlty e sua moglie Sybil, sempre impegnati il primo a tentare di migliorare il proprio hotel e il proprio status sociale e la seconda a sistemare i guai provocati dal marito.

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In Inghilterra è una serie famosissima che ha superato in ascolti persino il Flying Circus. All'hotel del titolo Cleese (in reception) e sua moglie (co-proprietaria) finiscono con l'acqua alla gola in ogni puntata. Tra il factotum spagnolo Manuel (impagabile, non spiaccica una parola in inglese!) e clienti a cui capita di tutto è quasi impossibile riuscire a stare un attimo tranquilli. Cleese costantemente in sovreccitazione è uno spettacolo senza eguali. Meno geniale rispetto al Circus dei Python e molto più statico, ma come sit-com è semplicemente strepitosa!

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Nello stesso anno, iniziava quella che fu definita, da un gruppo di critici della rivista Radio Times, la migliore sit-com inglese di sempre: Fawlty Towers, ideata e interpretata dal “Monty Python” John Cleese e dalla moglie di allora Connie Booth. La serie era ambientata a Fawlty Towers, un hotel immaginario nella località balneare di Torquay, sulla riviera inglese. Gli episodi vedevano l’arrogante, scortese e nevrastenico proprietario Basil Fawlty (Cleese), insieme alla prepotente moglie Sybil (Prunella Scales), la giudiziosa cameriera Polly (Booth) e l’inetto cameriere spagnolo Manuel (Andrew Sachs) alle prese con situazioni farsesche nel tentativo di gestire al meglio l’hotel e i suoi ospiti spesso esigenti ed eccentrici. La comicità era di grana grossa, spesso slapstick. S’insultavano Indiani, Spagnoli, donne, omosessuali (nel personaggio del cuoco “ovviamente” greco), i Tedeschi e, in generale, tutti quelli che, nelle ristrette vedute del protagonista Basil, lo innervosivano o complicavano la vita. L’intolleranza era parte del personaggio che si permetteva anche di malmenare senza sosta il malcapitato cameriere spagnolo. Non esisteva il concetto di “politically correct”. Faceva ridere e basta. Nessuno si sentiva offeso. L’episodio “The Germans”, col suo famoso “Don’t mention the war! ” era considerato, dal popolo alemanno, il più divertente…

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L’insulto in questione, che nello specifico era la parola niggers (negri, ndSA) associata a degli sportivi, veniva pronunciato dal Maggiore Gowen (Ballard Berkeley), un vecchio soldato con una visione antiquata del mondo.

La decisione da parte dell’emittente di rimuovere la puntata, però, non trova d’accordo l’attore e ideatore della serie, John Cleese, noto per essere uno dei membri dello storico gruppo comico britannico Monty Python, che ha definito «stupido» chi l’ha presa. «Se metti delle parole cretine in bocca a qualcuno di cui vuoi prenderti gioco, non stai veicolando il suo messaggio, lo stai solo prendendo in giro – ha spiegato Cleese in una nota riportata da Sky News – Il Maggiore era un vecchio fossile, un rimasuglio di epoche precedenti, non stavamo dandogli ragione ma lo stavamo prendendo per i fondelli. Se non capiscono questo, se la gente è troppo stupida per afferare il concetto, cosa posso farci?», si è chiesto l’attore riferendosi ai dirigenti che hanno deciso la cancellazione dell’episodio. «È ammirabile che si cerchi di rendere la nostra società meno discriminatoria – ha aggiunto l’attore – ma ci sono persone alla BBC che vogliono solo restare attaccate alla loro poltrona. Se un po’ di gente si agita, loro preferiscono tranquillizzarla piuttosto che puntare i piedi come avrebbero fatto 30 o 40 anni fa»…

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martedì 26 luglio 2022

Education - Steve McQueen

Kingsley è un ragazzino che ha bisogno di attenzione, figlio di operai immigrati poveri.

Kingsley è buono e gentile, da grande vuole fare l'astronauta, è intelligente, però ha difficoltà a leggere, e la scuola si libera di lui mandandolo in una scuola speciale, per ritardati.

i genitori sono rassegnati, lui soffre, ma non può dirlo a nessuno.

e poi appare un'associazione per la difesa della minoranza black, in Inghilterra, nel centro di quell'impero schiavista e razzista, devono convincere prima di tutti i genitori di quelle bambine e di quei bambini di quanto sia razzista quella scuola.

a Kingsley il mondo torna a sorridere e lui a sognare.

gran film, come tutto Small Axe, non perdetevelo.

buona (sofferta e ottimistica) visione - Ismaele


 

 

Small Axe: Educación, grabado íntegramente en 16 mm, nos ofrece la relectura definitiva de Steve McQueen de la mejor manera posible: partiendo de la niñez, aquél momento de la vida en donde surgen las motivaciones por conocer el mundo que nos rodea. Se nos muestra qué ocurre cuando el camino de aprendizaje hacia esas motivaciones es sesgado con intenciones engañosas, por entidades que se suponen incuestionables. Este último episodio puede resultar muy breve para lo que pretende retratar, y por eso McQueen subraya demasiado algunos momentos que rozan el inverosímil. Sin embargo, es el mejor cierre que podríamos haber pedido para Small Axe.

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En 'Educación', McQueen demuestra una vez más su magnífica habilidad para dominar la narrativa en cualquier formato. Esta vez, en tan solo unos cortos 60 minutos, el cineasta consigue situarnos muy cerca del protagonista y comprime con eficacia un retrato de la familia 'west indian' de los 70, además de una estilosa denuncia sobre la ignominia provocada por un sistema educativo que todavía no ha cambiado. Sin embargo, este es uno de esos temas de los cuales podría hablarse largo y tendido en una película de mayor duración, y McQueen deja escapar la oportunidad de desarrollar muchos de sus matices. Asimismo, también peca de dramatizar y exagerar algunos de los pasajes. No obstante, esta última entrega de la antología Small Axe es la más pequeña, personal y una excelente muestra del poder que tienen las historias intimistas.

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Son muy emocionantes las escenas en que el niño se pone a leer delante de sus padres. En la primera casi es incapaz de articular las palabras, mientras que en la segunda lee con fluidez sobre Amina de Zaria, una guerrera que se convirtió en Reina. Educación es un episodio que funciona más por todo su trasfondo emocional que por la manera en que se nos cuenta. Sí es un acierto ese inicio y final con imágenes del universo vistas a través de los ojos curiosos del niño protagonista. Existe todo un mundo allá fuera para conquistar y nadie tiene derecho a despojarte de tus oportunidades para hacerlo.

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lunedì 25 luglio 2022

Alex Wheatle - Steve McQueen

quarto episodio della serie (di 5 film) Small Axe, sempre ambientato nella Londra razzista dell'inizio degli anni '80.

Alex, un ragazzo che passa da una casa all'altra, dall'orfanotrofio allìaffido, senza famiglia, finisce in galera e lì comincia ad avere coscienza di sé e delle sue radici.

un compagno di cella lo guida in un percorso di autocoscienza, con successo.

e Alex rilegge la sua vita e le sue disgrazie con altri occhi.

sempre ottima musica, grande storia di riscatto e resistenza, il dio del cinema benedica Steve McQueen.

buona (galeotta) visione - Ismaele


 

En Brixton, vivirá experiencias excitantes y peligrosas al mismo tiempo. El punto cúlmine, y desencadenante crucial para su transformación personal, tendrá lugar en los trágicos disturbios de 1981, revueltas de la comunidad negra en contra del abuso y racismo de las fuerzas policiales. A partir de estos hechos, Alex terminará de descubrir la herencia cultural que realmente lo define y se abrirá paso a la escritura, impulsado por su mentor rastafari en prisión.

Small Axe: Alex Wheatle aborda temáticas repetidas, pero enfatizando la estructura narrativa estilo biopic, decisión estilística que parece haberle jugado en contra. Los motivos ya fueron sugeridos: no podemos dejar de sentir que al entusiasta Alex Wheatle le falta desarrollo, y los momentos donde la música aparece como contrapunto inspiracional son escasos. Sin embargo, la apuesta de McQueen no pierde valor alegórico: los personajes son carismáticos y dan cuenta de una realidad situada con el nivel de meticulosidad descriptiva que caracteriza a las entregas anteriores.

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Episodio centrado en la vida y trayectoria del premiado escritor Alex Wheatle (Sheyi Cole), desde sus años de adolescencia hasta sus primeros años como adulto. Habiendo pasado su infancia en un centro institucional para blancos, sin el amor y el cariño de una familia, encuentra en Brixton por primera vez no sólo un sentimiento de comunidad, también su propia identidad y la oportunidad de dar rienda suelta a su pasión por la música. Cuando es arrestado, se enfrenta a su pasado y vislumbra un camino de reparación.

'Alex Wheatle', película perteneciente a la antología 'Small Axe', ofrece un mensaje claro y conciso: si no comprendes tu pasado, entonces no conoces tu futuro. Nuestro protagonista va dándose cuenta de quién quiere llegar a ser a medida que va rememorando su vida, la cual está plagada de odio y abuso, pero también de alegrías y esperanzas. Durante el transcurso de la trama, no sólo Alex se va conociendo mejor a sí mismo, sino que el espectador tiene la oportunidad de visionar su desarrollo y evolución de una forma bastante cercana

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… La estancia en prisión de Alex Wheatle le devolvió a su mente todo el sufrimiento que pasó encerrado cuándo era niño. Sin embargo, en aquella celda fue donde se forjó el futuro escritor. Ambos espacios, el hogar social y la cárcel, se describen con precisión y crean una fuerte sensación de agobio en el espectador. Su estancia en prisión la compartió con Simeón, un rastafari que acabaría convirtiéndose para él en una especie de guía espiritual. Fue quien le adentró en el mundo de la lectura a través del libro «Los Jacobinos Negros» del historiador C.L.R. James. Es un libro sobre la revolución haitiana a través de Toussaint L’Ouverture, un esclavo que acabó defendiendo los valores de libertad e igualdad que tenía la Revolución Francesa. Aquella fue una manera reveladora de enfrentarse al pasado colectivo de la comunidad negra para emprender un futuro conjunto basado en la educación y la cultura como acto liberador.

Aunque los valores y los temas que se tratan en este episodio son igual de interesantes que en el resto, el guion no consigue encajar bien todas sus piezas- Es el episodio más flojo de toda la antología. El personaje central no se explora adecuadamente y, a veces, aparece como alguien demasiado pasivo. La ambientación y estética de principios de los 80 vuelve a ser lo mejor. También la relación entre los integrantes de esa comunidad y que procedían de distintos países caribeños. A veces resulta complicado entender el lenguaje y la jerga que se utilizan en algunos diálogos. Se nota que ha habido un concienzudo trabajo en la búsqueda del realismo para mostrar la riqueza de acentos que existían. Alex Wheatle tuvo una etapa donde realizó sus primeros pinitos como DJ y creador del sonido Crucial Rocker. Esa relación emocional con la música aporta un contrapunto lúdico y atractivo para una historia que se queda a medio camino entre lo íntimo y lo político.

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domenica 24 luglio 2022

Swiss Army Man - Un amico multiuso - Dan Kwan, Daniel Scheinert

un vivo e un morto s'incontrano e vivono come amici/fratelli, in un posto dimenticato da dio e dal mondo.

in realtà quel posto non è molto lontano dal mondo, forse Hank si è recluso/escluso da una società nella quale stava male, e voleva farla finita.

poi appare un amico, morto sì, ma un amico, qualcuno con cui condividere i suoi ricordi, le sue opinioni, i suoi progetti, come mai non era riuscito a fare con un vivente, come robinson e Venerdì, ma alla pari, senza servi e padroni.

Manny a volte sembra una proiezione di Hank, ma altre volte no, e i due si fanno compagnia, come non ce l'aspetteremmo mai.

e poi tornano alla civiltà, che non è un granché.

a volte il film ne ricorda altri, ma è solo un'impressione.

il film è folle, apparentemente, ma se lo fosse non arriverebbe ad emozionare chi guarda, in certi momenti.

un piccolo grande gioiellino, da non perdere.

buona (inattesa) visione - Ismaele





 

Un'opera che trasuda idee originali da ogni singolo poro con tocchi surreali di fantastica efficacia, mescolando egregiamente l'alto (riflessioni mai banali sulla solitudine e sull'emarginazione) e il basso (lo sfruttamento corporale di Radcliffe). Andamento scoppiettante con una regia di ammaliante bellezza e una coppia di attori in stato di grazia. Diverte e fa pensare, soprattutto per la tematica omosessuale solamente accennata ma trattata con una delicatezza di notevole eleganza. Imperdibile per l'originalità dell'insieme e per i messaggi che sa lanciare.

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"Swiss Army Man - Un amico multiuso" è il bizzaro titolo di un film strano forte.
Questa pellicola del 2016 è a tratti comica, a tratti demenziale / grottesca, a tratti drammatica e patetica.
Un film in parte fantastico, anche se spesso no sence, che sotto sotto parla di una categoria di ragazzi spesso ignorata dalla società: i timidi e gli impacciati, per non dire gli strani.
Sono sicuro che cercando bene su internet qualcuno ha anche dato un senso a diverse scene fantastiche quanto imbarazzanti, ma alla fine il mio giudizio resta comunque combattuto.
Swiss Army Man - Un amico multiuso, trattasi di una pellicola geniale o di una cagata pazzesca? (cit.) Allo spettatore ardua sentenza.

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Difficile dire se un’opera del genere possa trovare riconoscimenti dal cinema ‘mainstream’ (nonostante tutto, in Italia non è ancora stato acquistato da alcun distributore …), ma si tratta indubbiamente di qualcosa che esiste al di fuori di quel continuum legato all’hype del momento, in cui i distributori cercano un prodotto con la possibilità di raggiungere un pubblico più ampio possibile, dove esiste un potenziale diverso. La ricerca di un grande risultato implica indiscutibilmente il porre il consenso sopra ogni altra cosa. Ma la cultura vive di sperimentazione, di disaccordo e di persone disposte a rompere le regole. I film che dividono ci rendono soltanto più forti e Swiss Army Man appartiene a quella categoria, non importa quante persone riescano a rimanere sedute in sala fino alla fine.

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Compostamente triviale e sensibilmente profondo, Swiss Army Man parla di ciò che più di serio c’è nella vita, senza mai prendersi sul serio. Con una qualità manifestata sin dalla regia potentemente dinamica e estremamente pulita. E con un ritmo incalzante nei dialoghi sin dalla scelta delle parole. Meritevole di attenzioni è a propria volta la colonna sonora molto didascalica, composta appositamente dai Manchester Orchestra, che gioca costantemente con il racconto. Talvolta cantando ciò che sta accadendo, talaltra venendo intonata dagli stessi protagonisti…

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venerdì 22 luglio 2022

Red, White and Blue - Steve McQueen

il protagonista, bravissimo, è John Boyega, il Moses di Attack the block.

e il film, come capita a Steve McQueen, ha molto da dire, non è solo arte per l'arte.

a Londra, capitale di un impero dove tutti erano per forza inferiori, ci sono i colonizzati che vogliono diventare cittadini, o almeno rispettati da quei razzisti di merda.

Leroy sceglie di diventare poliziotto, e cambiare quel sistema da dentro.

se non si capisce ancora, il film è bellissimo, non perdetevelo.

buona visione - Ismaele


  

 

 

Evidente la portata molto attuale di questa storia, con il movimento Black Lives Matters in pieno fermento, in seguito alle vere esecuzioni negli ultimi anni di afroamericani da parte degli organi di polizia in molti stati. Non è cambiato nulla, o poco, dai tempi della schiavitù americana o dei poliziotti razzisti nell’avanzata e civile Londra degli anni ’80. Al cuore del film c’è anche il rapporto fra un padre e un figlio (un John Boyega che ce la mette tutta per superare la delusione di Star Wars), la cosa più interessante di un film rigoroso ma anche un po’ appesantito dalla sua lodevole vocazione di denuncia civile

Un padre onesto e di grande dignità, incapace di accettare abbassando la testa, e tacendo, i piccoli soprusi per il colore della sua pelle, che però vuole che il figlio righi dritto, volendolo proteggere a tutti i costi, spronandolo negli studi e poi a proseguire nella sua carriera scientifica. “Sarò l’unica tua autorità”, gli dice a un certo punto con durezza, figlio di un’altra epoca e un’altra educazione, con un concetto di “mascolinità” incapace di dimostrare a parole o con gesti affettuosi il proprio amore. Ma il figlio lo vuole onorare proprio non dandogli retta, “vendicando” i torti da lui subiti entrando in polizia e cambiandola da dentro. Come fosse un agente sotto copertura, non per vera vocazione. Un contrasto fra il pessimismo dell'esperienza e l'ottimismo idealistico della volontà, in una tensione fra due sentimenti sempre in gioco nel confronto fra generazioni e nel rapporto con una società percepita sempre più come ingiusta.

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Lo más atrapante del film subyace en cómo McQueen muestra la necesidad de Leroy por volver a sus raíces. El joven, ya en su inconfundible atuendo policíaco, visita la escuela de música de su niñez y se deja encantar por la ejecución al piano de un alumno. Esta situación se repite más de una vez. Son estos momentos, que parecen instantes de desconexión del agitado mundo exterior, los que unifican la esencia cultural que el director busca representar en Small Axe

De eso se trata su reivindicación: de la imposibilidad de despojarse del vínculo cultural y comunitario. En este episodio, lo vemos reflejado en la familia y en la defensa legítima de los principios éticos.

Small Axe: Rojo, blanco y azul también exhibe las debilidades más profundas de su protagonista: se lo muestra como alguien mentalmente fuerte pero preso de sus ambiciones. De algún modo, McQueen se niega a concederle un final feliz a su relato, porque las problemáticas segregativas siguen imperando. Y esto hace que el fuera de campo en las escenas violentas de Red, White and Blue se vuelva aún más explícito.

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John Boyega (El círculo, Detroit) interpreta a Leroy de manera formidable, consiguiendo que el espectador simpatice tanto con él que desea que su lucha no sea en vano y que, ojalá, hubieran más como él en la vida real, con ese deseo de hacer del mundo un lugar mejor para todos. También destacan notablemente Steve Toussaint (Tutankamon, Deep Water) interpretando a su padre Ken y Nadine Marshall (The Innocents, Second Coming) en el papel de su tía Jesse, siendo ambos las dos caras de la moneda en cuanto a la decisión del protagonista de ser policía.


El largometraje resulta ser otra maravilla del director Steve McQueen (Shame, Hunger) que, al igual que El Mangroveestá basada en hechos reales, concretamente en parte de la vida del policía Leroy Logan. Le puede gustar a todos aquellos que disfrutan con películas acerca del cuerpo policial, pudiendo aprender sobre un hecho tan poco conocido para muchos gracias al cual, seguramente, se abrieron muchas puertas a bastantes personas que en aquella época no habrían podido acceder a este puesto de trabajo por su color de piel.

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Este episodio puede considerarse más convencional en lo narrativo que la entrega que le precede, pero tiene un mensaje igual de emocionante y su tratamiento visual está más ajustado a lo que explica. Steve McQueen centra la cámara en su protagonista, interpretado por un fantástico John Boyega, el cual aparece en todos los planos de la película. Rodada en 35 mm., la textura de la imagen recupera el estilo de una época, muy bien recreada a través del vestuario y las localizaciones. Aunque la parte central del relato se basa en el racismo institucional dentro del cuerpo de la policía, para el director es igual de importante mostrar la complejidad de las relaciones familiares. Padre e hijo representan a dos generaciones con una manera distinta de luchar contra ese racismo. El padre busca la confrontación frontal de quién se sabe en posesión de la verdad, mientras que el hijo tiene una visión más pragmática. La relación entre ambos está filmada con mucha sensibilidad y verdad. Cuando el episodio termina, suena la canción de Al Green «For the Good Times», una agradable melodía soul que invita a saborear el tiempo presente.

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