martedì 30 giugno 2015

Mio caro assassino – Tonino Valerii

un film che ti tiene attaccato alla poltrona fino all'ultimo minuto, una bambina che era morta, caso archiviato, poi tutto, dopo anni, si rimette in moto.
ultima scena alla Agatha Christie, e tutto il resto cinema italiano, fatto di particolari, coincidenze, tensioni, paure, colpi di scena.
non un Capolavoro, ma un piccolo capolavoro sì, da (ri) vedere senza se e senza ma - Ismaele





La fantasiosa indagine investigativa - che decodifica il linguaggio di una bambina morta - immerge il film in un ordito onirico macchinoso e inquietante che si satura, gradatamente, di nenie infantili, allusioni pedofile, retroscena familiari e crudeltà assortite; con i suoi impressionanti momenti di panico e un avvio imprevisto, il thriller di Valerii è da ascrivere tra gli esiti migliori del glorioso cinema italiano d'annata. Molto ben girato, con grande equilibrio ed economia narrativa, ha un cast efficiente ed espressivo e si avvale delle pregevoli, spettrali musiche Ennio Morricone.

Malgrado una ingloriosa dimenticanza di critica e di pubblico, uno dei gialli più interessanti tra tutti quelli prodotti con ossessiva reiteratezza negli Anni Settanta. La trama è originalissima: con un indovinato dosaggio di particolari, essa incolla decisamente lo spettatore ad una serie di rivelazioni concatenate da un ritmo che non conosce cadute, che spinge verso la verità finale senza forzare i tempi, né alterare l'equilibrio della sceneggiatura. Davvero un bel film.

…Le suspens est incontestablement le point fort de ce « Folie meurtrière ». Après un départ plutôt tranquille, on est dans l'attente de nouveaux rebondissements. Valerii n'en fait pas trop et gère quelques indices renvoyant à l'assassin.
Autre bonne nouvelle, George Hilton est parfaitement dans son rôle. Avec un flegme plus british qu'italien, il reste sobre dans la peau de cet inspecteur pugnace qui ne va absolument rien lâcher. Il est secondé par des bureaucrates compétents mais qui n'ont pas son sens du crime. Ce modèle de policier vient presque faire du Agatha Christie en réunissant tout le monde dans les derniers instants comme l'aurait fait Hercule Poirot.
Comment exister auprès du lumineux investigateur Hilton ? C'est difficile et il manque quand même de temps pour approfondir les faces sombres des Moroni. C'est pourquoi, quand le tueur vient à être démasqué, on est un peu pris de cours. Ce sont plus les événements qui nous ont mené à lui – et la sagacité de Peretti - qu'un aboutissement réel. 
De plus, Morricone a déjà eu de bien meilleures idées que cette partition assez impersonnelle, qui fleure bon le giallo – les fans reconnaîtront la patte habituelle -.
Ce que ces aficionados vont par contre louper c'est la félicité de la violence. Il y a très peu de considérations visuelles et cela pourra également décevoir. Un premier meurtre amusant et quelques poncifs – attaque gantée à la lame – entoure la séquence qui a fait sortir le métrage de l'anonymat, à savoir une mise à mort à la scie circulaire. Alors certes on y va gaiement mais Valerii n'est pas très à l'aise pour rendre compte de sa brutalité. Peu réaliste, cette séquence vaut plus pour son idée que sa mise en œuvre.
Valerii a voulu faire original dans la tuerie mais ne maîtrise pas complètement son sujet. Peut-être qu'une deuxième tentative aurait été plus fructueuse.
On est ici face à un thriller bien rythmé et qui semble se diriger vers le giallo plus par obligation que par réelle envie. A voir pour un Hilton très impliqué et pour ses choix d'armes peu banals.

…Tipico del genere anche la ridda di personaggi (di cui è difficile ricordare i nomi) tutti potenziali colpevoli: la presenza di un pittore-scultore pedofilo darà l'occasione di mostrare una bambina nuda, elemento d'exploitation forse evitabile. Il film vira molto verso il genere poliziesco ed il finale con il commissario che riunisce tutti i sospetti in una stanza e fa una filippica accorata prima di rivelare l'identità del killer, ricorda molto da vicino Agatha Christie & Co. Forse Mio caro assassino è un po' lunghetto, con degli approfondimenti sulla vita privata del commissario Peretti abbastanza inutili, ma rimane il fatto che la pellicola presenta tutti gli elementi che si aspetta un appassionato di giallo all'italiana: decisamente uno dei film più interessanti nel suo genere. Consigliato. Solo per afecionados, però.



Whiplash – Damien Chazelle

sguardi e potere, in sintesi.
un ragazzino vuole emergere nel suonare la batteria, non sa di quante spine e croci è lastricata la strada.
alla fine riesce, ma a che prezzo.
intanto c'è il rapporto maestro/aguzzino - allievo/vittima, tutto il resto sono solo lontani satelliti.
nella sintesi di Fofi è un film di destra.
il maestro è anche troppo ripetitivo, e cattivo, ma è la sua natura,.
non è un film memorabile, ma si può vedere - Ismaele







Perché vederlo
Il film ha il pregio di una regia sicura, ferma, che anche quando deve esagerare lo sa fare con classe, e non ha paura di niente: ralenti, dettagli o primissimi piani che siano, risultano tutti elementi coerenti con il film, indipendentemente dall'enfasi che esprimono. Si ha la sensazione che tutto quello che succede nel film sia pensato per funzionare così, e così funzioni. È raro in assoluto, ma nel primo lungometraggio di un trentenne è davvero stupefacente. J.K. Simmons è uno dei più grandi caratteristi di Hollywood e qui riesce a passare da confidente ad aguzzino nel giro di uno sguardo, e fa fisicamente paura anche al pubblico. Miles Teller per contrasto è un anaffettivo impeccabile, e comunica tutto con pochissimo, distinguendosi da molti suoi coetanei. Il film ha decisamente ritmo ed è fotografato con stile.
Perché non vederlo 
In tutto Whiplash, se si esclude la relazione tra i due protagonisti, non c’è niente di credibile. Il modo in cui gli studenti interagiscono tra loro, la musica che fanno, la musica che suona il docente severissimo quando lo si vede al piano in un bar, le modalità didattiche, la reazione degli allievi, i modelli musicali che non vanno oltre gli anni cinquanta, le torture fisiche e psicologiche, il sangue, il dolore, gli insulti: tutto quello che nel film ha a che fare con la musica non ha niente a che vedere con la musica. Non si fa nemmeno mai riferimento al suono, all’espressione, ma sempre a dati numerici, atletici, come andare veloci, stare a tempo, non correre, non stare indietro, vincere o perdere un concorso. È un’impostazione che serve al cuore del film, ma dopo un po’ si ha l’impressione di essere presi in giro.
In sostanza il film fa capriole stupende per raccontare una storia piccola che vive all’oscuro dell’ambiente in cui si svolge. Anche l’empatia nei confronti dei personaggi è sostanzialmente esclusa, vista l’eccentricità secca dei due, di cui quasi niente sappiamo se non che sono così, soli al mondo e cattivi (ok, me lo segno).
Il film ha poi una tendenza alla bellezza delle immagini che diventa gusto per la calligrafia degli infiniti momenti drammatici, dando a parecchie scene un tono grave che dopo un po’ sfinisce. In tutto il film, dall’inizio alla fine, non c’è un momento di ironia o leggerezza: niente, né nella scrittura né nello stile né nella recitazione. Non c’è, in poche parole, vita. C’è il rapporto morboso, c’è l’ossessione, c’è la voglia di riscatto, ma è sospesa nel vuoto di una teca perfetta che non ha niente intorno. Di conseguenza Whiplash risulta sì frizzante ma anche futile, un po’ come un assolo troppo lungo.

…E' come se Chazelle puntasse i riflettori su di un ideale in nome del quale il finale - concepito come catarsi - dirà poi che ha avuto ragione Andrew a essersi sentito superiore a tutti, ad aver rinunciato (non senza rigurgiti d'infelicità) a una vita privata. Sembra quasi che Chazelle si sia lasciato prendere la mano, forse non comprendendo la reale portata di quello che arrivava a sostenere. La sensibilità artistica non ha bisogno di disciplina come il virtuosismo: ma se, tra due talenti, ve ne fosse uno che meritasse in qualche modo di venire idealizzato, sarebbe quello dell'artista, non quello del virtuoso. Invece, "Whiplash" premia proprio il narcisismo autocompiaciuto del virtuoso. E a trionfare acriticamente, nel pirotecnico finale di "Whiplash", è la vanità del successo: un'ossessione e quanto in essa c'è di effimero. Un catartico tripudio a uso e consumo del bisogno sempre vivo dello spettatore di identificarsi con un modello vincente.

...Quello che il racconto di una trama piena di colpi di scena una volta tanto davvero imprevedibili (altro merito clamoroso del film) non dice è però l'ardore con il quale questo cineasta di 30 anni coniughi esigenze commerciali e ricerca di un cinema personale, filmando quasi tutto il suo film da molto vicino per cogliere sudore e fiatone, escoriazioni della pelle e sangue che ne fuoriesce (gli effetti sonori sembrano quelli di un film dell'orrore). Con grande intelligenza la difficoltà d'approccio ad uno strumento solitamente poco celebrato (la batteria) e un genere non amato dal grande pubblico (il jazz) sono stemperate dai più ruffiani montaggi d'allenamento e titanici scontri. Magnificando la portata della storia e facendone una lotta tra punti di vista sulla vita (come si capisce dal dialogo a tavola con la famiglia) Whiplash facilmente eleva il proprio discorso al di sopra delle contingenze trattate, per affrontare i massimi sistemi. Non temendo di esagerare spinge il suo protagonista al massimo dopo averlo fatto partire dal minimo (due assoli di batteria ben diversi aprono e chiudono il film), rifiutando di piegarsi alla morale buonista familiar/sentimentale imperante che vorrebbe mettere gli affetti prima di ogni cosa.
Commovente per qualsiasi amante della musica la precisione con la quale Whiplash esegue le parti musicali, tarando l'abilità degli strumentisti a seconda di chi stia suonando (in alcuni casi a livello maniacale), scegliendo le partiture e le soluzioni meno commerciali (non ci sono brani realmente famosi al di fuori della cerchia degli amanti) per non portare mai il jazz allo spettatore ma lasciare che accada il contrario, mantenendo così un'integrità e una serietà da applausi.

sabato 27 giugno 2015

Les salauds (I bastardi) – Claire Denis

Vincent Lindon, come sempre, non passa inosservato, in una storia che più buia e nera è difficile pensarla.
un mondo che è un naufragio, da mille punti di vista, e niente potrà salvarlo.
il cinema di Claire Denis non arriva in sala, bisogna cercarlo.
è un film che merita - Ismaele






Les Salauds è cinema che si anima nel buio e che alla fine, in questo suo obnubilamento e nella sua totalità d'insieme, possiamo tranquillamente riconoscere come percettivo. A conti fatti quindi, le varie vicende ed intrighi che ruotano attorno alla vita del protagonista, poco interessano e perdono di rilevanza di fronte a segmenti individuali certamente di maggior pregno, quali la silenziosa intimità dei corpi (e degli sguardi) degli amanti che si cercano nell'oscurità delle scale; l'incidente stradale causato dall'ottenebrante ricerca del piacere estremo. O anche, solamente quella cruda registrazione finale (aspramente criticata a Cannes), quella ricostruzione dei fatti: il sesso svelato nel freddo di un file digitale. Terribile nel suo palesarsi chiaramente senza alcun filtro ai nostri occhi, impotenti di fronte alla verità, ma anche innegabilmente attratti (inutile nascondersi dietro falsi moralismi) dal delinearsi sgranato di quelle immagini, destinate a corrodersi come la vita di chi vi è rimasto impresso.

Potrebbe essere un serie B di Walsh o Tourneur se Claire Denis, il cui stile non è mai stato così sobrio, non andasse a sondare i bassifondi dell’anima umana con una violenza tanto più insostenibile in quanto non viene portata direttamente sullo schermo ma trabocca dal film. Non si sa in quale condizione di sfiducia, di febbre o di rabbia la Denis abbia trovato la forza di immaginare, di raccontare e di mettere in scena una così tenebrosa faccenda. Nessun dubbio che Bastards sia un diamante nero nella sua filmografia, radioscopia intima e quadro senza sconti di un mondo, il nostro, che va verso la sua rovina.

La storia e’ talmente implausibile e cosi’ intimamente sadica nella sua messa in scena dei rapporti sociali e personali, che finisce per avere l’effetto opposto a quello voluto forse dalla regista.
Il racconto e’ di una grevita’ pornografica del tutto ingiustificata, la Denis pare animata da un risentimento e da una rabbia degne di miglior causa. Il suo film ha svolte narrative del tutto incongrue, propone flashforward incomprensibili e si chiude con una delle scene piu’ crude e ributtanti che ci sia capitato di vedere ad un festival.
Peccato che si siano prestati a quest’opera ignobile, attori del talento di Chiara Mastroianni, Vincent Lindon e Lola Creton, che la Denis fa vagare completamente nuda ed insanguinata per tutto il film, senza neppure lasciarle una battuta di dialogo.

… In sala l’attenzione è rimasta ai vertici sino all’ultimo (stomachevole) fotogramma, a cui sono seguiti applausi, tentativi di standing ovation e vari segni di approvazione incondizionata, cosa che ha lasciato la sottoscritta pensierosa. A voler essere obiettivi, il girato è provocatorio, purtroppo talvolta oltre il necessario, e i personaggi sono efficacemente fastidiosi, ma la recitazione, soprattutto della componente femminile del cast, non mi ha positivamente impressionata. Quindi, la Denis è sicuramente riuscita a colpire lo spettatore e a far parlare del suo film, onore al merito.
Il mio giudizio, però, rimane negativo, perché non interpreto come poesia la povertà di dialoghi e perché sono contraria alla sovrabbondanza di violenza per immagini, ciò significherebbe che l’unico modo oramai rimasto per catturare l’attenzione del proprio interlocutore (e per ottenere le luci della ribalta) sia un linguaggio provocatorio e violento. Bocciato!

Les salauds engancha, convierte al espectador en cómplice y detectivesco testigo de los sucesos, seduce y finalmente, sin salirse de los patrones habituales de su género cinematográfico, convence y deja un buen sabor de boca. Todo ello gracias a una historia sólida, arriesgada y amparada en la oscuridad psicológica y las dualidades internas de sus personajes, abordando temáticas como las infidelidades, los abusos de dinero y poder, las tensiones y depravaciones sexuales más sórdidas o las incertidumbres emocionales. Y si a las soberbias interpretaciones de todo el elenco de actores le sumamos el tratamiento sumamente realista y los ingredientes del ingenio, la ironía y la resolución gráfica de Claire Denis obtenemos esta oscura oda sobre las tonalidades de la venganza y los secretos familiares, que levantan losas incómodas y realidades desagradables acerca de sus seres, que desearemos compulsivamente conocer. Altamente recomendable.

Un film noir, des séquences violentes sublimes, d’autres plus maladroites, une passion amoureuse dépeinte avec la force du désir animal, un film incontrôlable dans sa terrible vérité. Un Vincent Lindon marqué et dur, et avec lui, ces salauds. C’est là finalement, dans l’excitation du glauque, que l’on découvre qu’il n’y a aucune porte de sortie.

Le film reste passionnant dans sa forme, magnifiée par la photographie rugueuse d’Agnès Godard, offrant quelques séquences troublantes (le rêve de la mort de l’enfant). Peu de réalisateurs réussissent à filmer si bien l’errance et la noirceur humaine. Cependant, le formalisme de Claire Denis a tendance à masquer ici un propos peu maîtrisé. En proposant une narration morcelée via l’utilisation d’ellipses, la cinéaste souligne l’égarement du personnage de Marco, qui navigue à vue tout du long. Mais brouillant constamment les pistes, c’est le spectateur qui s’égare. En effet, n’ayant que peu d’informations, aucune psychologie, la confusion prend le dessus et rend le film trop énigmatique. Cela pourrait être relié au cinéma de David Lynch, mais ce dernier maîtrise son mystère alors que Claire Denis se laisse totalement dépasser par son projet. On le ressent particulièrement lors de cette fin maladroite et démonstrative, qui ne fait que surligner ce qui avait été suggéré tout du long. En esquissant à peine les personnages, on finit forcément par les juger moralement ainsi que leurs actes. Ce n’était pourtant pas le projet de Claire Denis…

… Denis rellena veinte largos minutos de escenas  inconexas, en los que el espectador apenas consigue dilucidar qué está pasando, ni enlazar hechos ni personajes. Cuando por fin parece que empiezas a entender la trama, vuelve a ocurrir algo que te despista, que no te cuadra en este puzle que la realizadora ha montado, y que te deja con la sensación de estar perdiendo parte de la historia. Y así durante un total de 100 minutos en los que los mayores esfuerzos se centran en seguir el orden de un relato confuso y desordenado.
Los huecos en la construcción de “Les Salauds” contrastan con la explicitud de ciertas escenas. Si de lo que se trata es de retratar una sociedad podrida e insana, en la que “los canallas” sí duermen en paz, Denis ofrece imágenes sombrías, oscuras y dramáticas llenas de poética, pero crudas, brutales e innecesariamente explícitas, sobre todo en el nauseabundo final, a modo de epílogo, que ya no aporta demasiado a lo contado hasta el momento…

in Bastards the pieces fit together in a precise way we're simply not allowed to know until we've arrived through the movie's own idiosyncratic channel, and at its own deliberate pace. That makes it one of the most elegantly constructed of Denis's eleven features--a grim noir story broken into its component parts, then reassembled into a haunted funhouse image of itself…

giovedì 25 giugno 2015

Se sei vivo spara – Giulio Questi

un anno prima de "Il grande silenzio", di Sergio Corbucci (qui), Giulio Questi gira questo western anomalo, dove gli indiani sono buoni, la "brava" gente di un villaggio del West è costituita da gentaglia, i due più influenti cittadini sono degli avidi senza fondo, un ragazzo e un moglie sono le loro vittime sacrificali, i banditi sono banditi davvero, solo Tomas Milian si salva, mezzosangue, e per questo destinato a pagarla cara, ha una sua personale visione della giustizia, e poi la banda delle camicie nere (sembrano usciti dal Salò di Pasolini).
come quello di Corbucci anche questo è cinema politico e il western è il contenitore e lo stile per un film forte, dove i ricordi partigiani di Giulio Questi riapparivano.
il film usci regolarmente, ma fu sequestrato dopo qualche giorno, e censurato. 
riemerse nel 1975, con un nuovo titolo, Oro Hondo.
cercalo, non sarai deluso - Ismaele







Probabilmente il western più “maledetto” e censurato di tutti i tempi, l’unico che in Italia sia stato fatto oggetto di sequestro da parte della magistratura e indubbiamente lo spaghetti western più sperimentale e visionario mai realizzato. E anche in assoluto uno dei più belli.
Visto con l’occhio di oggi non colpisce tanto per le sequenze di efferata violenza (ché dagli anni sessanta ne è passato di sangue sotto i ponti) – anche se la scena della scotennatura dell’indiano e quella dell’autopsia a mani nude risultano tuttora abbastanza impressionanti – quanto per il sottotesto di ambiguità sessuale che attraversa come un fil rouge l’intera pellicola e per l’esplicito messaggio anticapitalista e antifascista (con la banda di fuorilegge gay in divisa nera come più indovinata delle metafore)…

Febbrile, visionario, artaudianamente crudele, disturbante. Poco importa la trama pretestuosa del vendicatore intrappolato in una ragnatela western di perfidie, complotti e tradimenti. È un’esperienza di deragliamento visivo e sensoriale: sequenze graffianti, idee spiazzanti, suggestioni esoteriche, montaggio poetico-rimbaudiano, musica insinuante. Primissimi piani, dettagli, e tanto sangue: allegoria di un orrore che allude a fascismo e resistenza (l’impiccato a testa in giù), attraversa la cristologia e approda ai moderni razzismi sociali.

Il film ebbe diverse noie con la censura, vista la forte violenza, la quale si abbina in modo ironico e mordace alla esplicita carica critica della società moralistica e ipocrita del villaggio, peggiori ancora dei banditi traditori nei confronti di Hermano che torna da una presunta morte, personaggio un po' mascalzone ma in fondo dotato di sensibilità e calibrata compassione (tratteggiato anche con valenze cristiche e con una spiccata carica erotica), come nei confronti del giovane efebico Evan (Ray Lovelock), rapito dalla banda, sadica e dagli splendidi costumi neri, di Zorro (R. Camardiel) come riscatto per l'oro e che diventa oggetto del desiderio sessuale (in una sequenza che ammicca soltanto alle loro attenzioni in modo comunque evidente) e con cui però si allude anche ad una sotterranea attrazione tra Evan ed Hermano stessi, oppure nei confronti di Elizabeth (Patrizia Valturri), moglie segregata dell'avaro Ackerman (Paco Sanz, alias Francisco Sanz), rivale di Bill Tembler (M. Quesada), "scandalosamente" convivente della cantante Lori (M. Tolo).
Chi sa che non abbia influenzato anche Alejandro Jodorowsky...

Un western nero come pochi altri. Non è questione di sangue, ma di un'opprimente cappa di morte e dolore che pervade il film dall'inizio alla fine. Se è vero che la nomea di western-splatter poco gli si addice, è altrettanto vero che l'atmosfera è violentissima: non c'è pietà per nessuno, solo la morte. Unica nota stonata la love story tra il Nostro e la pazza, unico personaggio inutile, ma tutto sommato porta via poco minutaggio. Uno dei migliori e senz'altro più personali film del genere.

…Prima e unica incursione western di Giulio Questi, che realizza un film geniale, bizarro e dai temi forti per quegli anni, tanto che il film venne sequestrato e tagliato in più punti per poi uscire al cinema. Un vero cult cinamatografico. Scritto da Franco Arcalli, è considerato uno dei più violenti e stranianti spaghetti-western prodotti in Italia. Il film è una sorta di esperimento, ed è pieno di immagini violente e scioccanti come lo scotennamento di un indiano, il ventre di un uomo scuoiato per recuperare una pallottola d'oro e un gruppo di cavalli sventrati da una bomba. C'è infine la curiosa apparizione di una banda di cowboy omosessuali,per non parlare della scena dello stupro omosessuale ai danni di un giovanissimo Ray Lovelock (scena non reperibile, in quanto fu tagliata). L'atmosfera equivoca, lugubre e malsana che regna intorno a tutta l'ambientazione del film lo rende una parentesi strana e originalissima nel panorama del western italiano. Per tutti gli estimatori del genere, un titolo imperdibile.

Il film ormai rimane un opera cult estrema, Quentin Tarantino eJoe Dante non si stancano mai di omaggiarlo e di citarlo continuamente. Oggi, questo film di Giulio Questi, è proprio un riferimento di studio, di accademia, e per noi anche di nostalgia. E pensare che Se sei vivo spara è nato proprio per caso.  Ricordava Giulio Questi: “io e Kim eravamo a casa a scrivere la scaletta di quello che doveva essere il nostro prossimo film da girare,  la morte ha fatto l’uovo, quando bussa alla porta il produttore Sandro Iacovoni. Lui aveva assolutamente bisogno di noi perché dovevamo buttagli giù immediatamente una scaletta per un western. Insomma per abbreviare la cosa ci fece interrompere la scrittura della sceneggiatura de  La morte ha fatto l’uovo  insistendo sul fatto che in quel momento il mercato voleva un western atipico. Ma a me e ad Arcalli il genere western non aveva mai davvero interessato, noi cercavamo cose più autentiche, però Iacovoni riuscì a convincerci buttando giù la promessa di un impegno per la produzione del nostro prossimo film, quello che stavamo appunto scrivendo in quel momento.  La decisione finale, giunta come una illuminazione per Giulio Questi e Kim Arcalli, è stata “fortunatamente” diceva Questi, quella di accontentare il produttore Iacovoni e fare il suo western, di consegnarli in brevissimo tempo l’ampia scaletta e dopo la sceneggiatura. Dice Giulio Questi: “Se sei vivo spara  fu girato a Madrid, con pochissimi soldi, dentro un cantiere, e stando ben attenti a non inquadrare gli operai al lavoro e le tante case che insistevano attorno al nostro proscenio”.   Se sei vivo spara ottenne decisamente un successo internazionale, lo stesso Giulio Questi ha poi sempre riconosciuto che il successo della pellicola era forse da ascriversi un po’ anche  alla equivocità del film, al suo occhieggiare e sbeffeggiare in definitiva a più generi cinematografici…

…Se sei vivo spara è probabilmente uno degli western italiani più stranianti di ogni tempo – insieme ad alcune altre pellicole d’autore come lo psichedelico Matalo! di Canevari e gli (anti)lirici Django di Corbucci e Tempo di massacro di Fulci. Violenza, surrealismo e narrazione atipica sono i tratti distintivi del western di Questi, riconosciuto anche all’estero come un capolavoro: se si volesse spiegare perché “genere” e “autore” sono distinzioni di maniera quasi sempre nominali, tale film può esserne un esempio pratico e più efficace di tante parole. Se sei vivo spara è un western, certamente, nella trama e nelle ambientazioni: una banda di rapinatori, un uomo in cerca di vendetta, un villaggio nel deserto, sparatorie e lotte per il denaro. Ma è molto di più: pur trattandosi di un film su commissione, Questi e Franco Arcalli sceneggiano una vicenda del tutto originale dal punto di vista tematico e stilistico, magistralmente diretta dallo sguardo caustico del regista che sovverte tutte le regole del genere. Spiega Nocturno Cinema: “Attratti dall’idea di scrivere un film eccentrico e spiazzante, Questi e Arcalli immaginarono un western che contenesse tutto ciò che in quel momento nessuno avrebbe mai osato mettere in scena”…
Un western come Se sei vivo spara non poteva che avere una musicalità del tutto particolare: affidata al compositore Ivan Vandor (Professione: reporter di Antonioni, 1975) , è dominata da uno score trascinante con percussioni ossessive contrappuntate da una melodia più fluida e lirica – con l’effetto di un impasto sonoro contrastante – che si evolve in un brano di ampio respiro. A questo tema, che si ripete innumerevoli volte nel film, si affiancano pezzi dissonanti e surreali che accompagnano i momenti più lugubri, come gli spasmi della donna rinchiusa.

Violentissimo (all'epoca fu vietato ai minori di 18 anni), ma straordinario western realista che conduce il genere cinematografico verso il punto di non ritorno. La storia di un bandito che sopravvive miracolosamente al massacro dei suoi compagni (o forse resuscita, questo l'elemento che rende il film ancora più straniante) e cerca una vendetta che diventa impossibile a causa della follia degli abitanti di un paese disposti a massacrarsi l'un l'altro pur di impossessarsi di una notevole partita d' oro. Notevoli e scioccanti ( ma a loro modo indimenticabili) le esplosioni splatter: celebre quella del bandito scuoiato vivo dalla folla nel tentativo di estrarre dal suo corpo una pallottola d'oro, quella dell'indiano scotennato e i cavalli sventrati dalle bombe. La sceneggiatura del regista e di Franco Arcalli ripropone gli spunti e le tematiche rese celebri da "Per un pugno di dollari" sviluppandoli in modo ben più agghiacciante e creando uno scenario da incubo dove si muove un protagonista (a cui Tomas Milian conferisce grande intensità e sofferenza) animato da un sentimento di giustizia che risulta comunque perdente di fronte alla follia sanguinaria dei paesani. Il mio giudizio non è completamente obiettivo (potrebbe starci benissimo un punto in meno), ma ho visto dei giudizi etremamente negativi che mi hanno causato una certa rabbia. Non è assolutamente possibile ritenere questo film indegno di essere visto e attribuirgli una media così bassa. E' un'opera rivoluzionaria con un finale difficile da dimenticare, più coraggiosa dei film di Sergio leone anche se molto meno fortunata , ma ancora oggi estremamente attuale. L'analisi di un film non è cosa per tutti e non dipende dai gusti individuali. Deve essere fatta a mente fredda senza pensare ai film di oggi (molti dei quali a mio parere non hanno nemmeno un minimo della forza di queste opere). Certo le opinioni sono opinioni ma un'analisi accurata ci vuole sempre e non si deve rovinare la memoria di questi film soprattutto per rispetto nei confronti degli appassionati. Certi giudizi di questa pagina dovrebbero essere passibili di cancellazione.
da qui





lunedì 22 giugno 2015

L’odore della notte – Claudio Caligari

ci sono film che assorbono la lezione del miglior cinema fatto in precedenza e che contengono quelli che verranno fatti nei successivi vent'anni.
Claudio Caligari con L'odore della notte riesce a fare questo miracolo, con una grande sceneggiatura, tirando fuori il meglio da attori che diventeranno famosi.
chi negli ultimi anni ha visto qualche film e qualche serie tv, di quelle che vanno tanto di moda, provi a guardare questo film, e vedrà che cosa abbiamo perduto con tutti i film non fatti di Claudio Caligari.
non privatevene - Ismaele





Sono gli anni di piombo, quelli in cui Caligari ambienta il film (traendo spunto da un romanzo di Dido Sacchettoni, Le notti di arancia meccanica), ma il vero nemico non è il brigatismo; è l’Italia del riflusso, in cui si agitano gli spettri del golpe Borghese e si vagheggia il compromesso storico. L’Italia che ha superato/sperperato l’illusorio boom e ricade nel vortice del conflitto sociale.
Non sono molti i film che hanno avuto il coraggio di tracciare un percorso possibile sulla lotta di classe in Italia, e sono ancora meno quelli che hanno scelto di farlo ragionando allo stesso tempo sulla macchina/cinema. L’odore della notteè un oggetto a se stante, fuori dal tempo (e incompreso al momento della sua presentazione ufficiale), che mescola il noir d’oltreoceano con lo scandaglio umano delle periferie che tracima ancora umori pasoliniani e zavattiniani e dà del tu ad altri grandi reietti del cinema italiano (il Nico D’Alessandria de L’imperatore di Roma, l’Alberto Grifi di Michele alla ricerca della felicità); Caligari fonde questi due elementi con una semplicità che ha del miracoloso, sostituendo l’enfasi epica che gronderà umori post-polar nei “romanzi criminali” del terzo millennio con uno straniamento mai anti-popolare. Agit-prop borgataro, L’odore della notte è onesto e preciso come lo sguardo di un regista che ha osato ciò che non poteva essere accettato: nell’Italia del miracolo italiano, nell’Italia post-ideologica in cui la falce e martello andava riposta in un cantuccio, cancellata dai manifesti elettorali, nell’Italia che ritrova il suo posto centrale in Europa, Caligari riporta lo sguardo a un passato recente senza edulcorarlo, né elevarlo a monolite storico inattaccabile…


Caligari ci ha lasciato con “Amore tossico” e poi con “L’Odore della notte” un cinema senza fronzoli, raccontando sempre storie interessanti di casi umani, baraccopoli, e di come si diventi attraverso questo tipo di vite ed esperienze. Nella sua opera non è mai difficile trovare forti critiche per l’atteggiamento italiano generale in quegli anni, per i partiti politici e la polizia inclusi. Non dimentichiamo, che “L’Odore della notte” è ambientato durante gli Anni di Piombo, quando i “criminali normali” furono spesso trascurati dalle forse dell’ordine rispetto all’azione terroristica e ai suoi colpi. Tuttavia, non si può anche fare a meno di pensare che la città di Roma e il suo lato più oscuro giochi sempre uno dei ruoli principali nel cinema di Caligari, e in fattispecie Ostia, così ben presente sia in “Amore tossico” che qui. Per salutare degnamente e come gli sarebbe piaciuto Caligari e il suo cinema, non c’è forse modo migliore di postare in fondo a questo scritto il notevole e al contempo esilarante cameo di Little Tony,costretto a cantare la sua hit “Cuore Matto” sotto la minaccia della 9 mm di Marco Giallini.


"L'odore della notte" - tratto dal libro-inchiesta di Dido Sacchettoni "Le notti di Arancia Meccanica" - racconta le azioni di una banda dell'entroterra criminale romano, guidata da un poliziotto di borgata in forze a Torino. Vite allo sbaraglio segnate non solo da un disperato bisogno, ma dal desiderio di guardare negli occhi e offendere con la rapina coloro che dalla vita hanno avuto il benessere, l'agiatezza, la felicità. La banda di Remo (un colossale Mastandrea) è composto da lupi che si battono la coda sulle costole magre, branco di borgata senza strategia, che nel furto vede un riscatto sociale più che una fonte di ricchezza. Eccellenza masnadiera, ma anche tragico limite di un gruppo di criminali improvvisati in un'Italia che vedeva riempire le pagine della cronaca nazionale da un selvaggio rigurgito di lotta armata.

Colmo di scene degne di culto, come quella che vede il compianto Litle Tony nei panni di se stesso, durante un drammatico colloquio con uno dei rapinatori che lo obbliga a cantare "Cuore matto" portando il tempo con la canna della pistola; oppure quella in cui Mastandrea, novello Travis di "Taxi Driver", abbatte il televisore fracassandolo al suolo.

Da riscoprire e riabilitare, senza indugio.

…“L’odore della notte”  (1998) è stato comunque riconosciuto come un gradito ritorno ad un tipo di cinema, chiamiamolo di genere, che in Italia ormai non si faceva più da tempo. Ecco, ci sono stati dei film a cui si è ispirato?
Di cinema italiano c’è ben poco. C’è dentro soprattutto Bresson. La casa di Remo Guerra (Valerio Mastrandrea) è costruita su quella di Pickpocket (1959) e di Le samouraï (1967) di Melville. Sono case che vedevo al cinema quando avevo vent’anni. Erano costruite in teatri di posa, ma all’epoca non lo capivo. Mentre, ad esempio, la casa che si vede in Taxi driver (1976) di Scorsese è vera. Bene, ho fatto un mix di tutte queste case e perciò automaticamente posso affermare che queste sono state le mie influenze. Per quanto riguarda Remo Guerra devo dire che ha qualcosa soprattutto di personaggi solitari come Alain Delon o Jean-Paul Belmondo.
In questo modo ci allontaniamo dal cinema dagli echi tarantiniani, quelli a cui spesso viene accostato il film……
Il tipo di violenza che si vede nel cinema di Tarantino, soprattutto nel film Le iene (1992), non mi interessa perché è una violenza che fa ridere, ma che fa anche paura. L’avevo pensata anch’io già negli anni Ottanta, ma non erano pronti i produttori. Ecco, Tarantino è stato abile nei tempi, su molti a mio parere. Quando proposi una sceneggiatura simile alle sue, molti non la capivano e io l’ho abbandonata. I film polizieschi italiani degli anni Settanta, invece, non li andavo a vedere perché la critica diceva che facevano schifo e anche a me quei pochi che ho visto mi sembrano scalcinati. Tarantino in realtà ha fatto tanti danni esaltando questi film. Preferisco, invece, il polar francese, soprattutto i film di Melville, o il primo Sautet (Asfalto che scotta). Oppure il cinema americano, Scorsese prima di tutti.
Nel volume “Storia del cinema”, Gianni Rondolino la colloca all’interno di una schiera di registi  da lui denominati “post-televisivi”. Ora, cosa risponderebbe?
Non rispondo mai. Nel libro “Italia odia – Il cinema poliziesco italiano” di Roberto Curti, però, c’è una lettura interessante suL’odore della notte. Intuisce che il film ha disturbato nel dire chi ha i soldi e chi non li ha, perché questo discorso è un tabù nel nostro Paese…



comincia così:

domenica 21 giugno 2015

La torta in cielo - Lino Del Fra

è lo stesso Lino Del Fra che sette anni dopo girerà Antonio Gramsci: i giorni del carcere.
La torta in cielo è un film per bambini, e non solo, come tutte le storie di Rodari.
antimilitarista e antiautoritario e anti televisione e antipubblicità, fra le altre cose, dovrebbe essere proiettato nelle scuole, come compensazione a tutta la tv patriottica e militarista che i bambini sono obbligati a vedere.
Paolo Villaggio non è ancora Fantozzi e i bambini sono bravissimi, sembrano che facciano quello che vogliono, un po' meno gli attori.
cercatelo, se riuscite a trovarlo, ne vale la pena - Ismaele





Una gigantesca torta scende nei pressi della romana Borgata del Trullo e, visto che l'opinione pubblica suppone trattarsi di un disco volante, il generale Diomede organizza una complessa manovra militare contro l'invasore mentre sottopone la popolazione a stato di assedio. Per la ricerca di eventuali complici e traditori, il fanatico ufficiale si serve del popolare vigile Vincenzo Meletti, impiega il robot Eleuterio guidato dagli scienziati Terenzio e Varrone, costruisce false interviste televisive. Nel frattempo i piccoli Paolo e Rita, figli del Meletti, e diversi loro amichetti, avvicinano l'oggetto misterioso e prendono contatto con Thomas, il suo bizzarro abitante. Figlio di un mercante di cannoni, Thomas ha rubato un mirabolante razzo e, anziché bomba per la guerra totale, lo ha reso un enorme dolce semovente nei cieli. Luisa Lombardozzi, magnate della cioccolata, non essendo riuscita a piegare i bambini per una pubblicità a suo favore, fa pressioni su Diomede affinché usi delle forze repressive sui piccoli e sulla loro torta. Ha così inizio una guerra alla quale i fanciulli del Trullo si ribellano ridicolizzando il capo dello Stato, l'esercito e la polizia, nonché tutto il sistema imperialista.
da qui

...il film si ispira all'omonimo racconto che Gianni Rodari compose tra gli scolari della scuola elementare Collodi della Borgata del Trulllo e pubblicò per la prima volta a puntate sul "Corriere dei Piccoli" nel 1964. Diversi registi italiani, impegnati in una riflessione critica sulla cultura borghese e sul sistema capitalistico, hanno trovato stimolo nella commistione di tematiche sociologiche, fantapolitiche e fantascientifiche realizzando opere, spesso, interessanti e originali (tra le quali La decima vittima, Omicron, H2S, L'invenzione di Morel). Il film di Del Fra (qui all'esordio nel lungometraggio a soggetto) tenta la discutibile rilettura di una favola moderna pensata per i ragazzi ai tempi della guerra fredda, per riutilizzarla come adulta invettiva contro le tentazioni reazionarie e militaristiche della società degli anni '70. L'operazione appare strumentale e intellettualistica e mortifica la sincerità delle intenzioni. Privo dell'ironia sottile e del gioioso gusto della citazione che caratterizza la pagina di Rodari, il film si risolve in una traballante metafora ideologica animata da una galleria di caricature che neppure il mestiere degli interpreti solleva dalla banalità.
da qui




Io sono un sognatore,
ma non sogno solo per me:
sogno una torta in cielo
per darne un poco anche a te.

Una torta di cioccolato
grande come una città,
che arrivi dallo spazio
a piccola velocità.

Sembrerà dapprima una nuvola,
che si fermerà su una piazza,
le daremo un’occhiatina
curiosa dalla terrazza…

Ma quando scenderà
come una dolce cometa
ce ne sarà per tutti
da fare festa completa.

Ognuno ne avrà una fetta
più una ciliegia candita,
e chi non dirà”buona!”
certo dirà “squisita!”

Poi si verrà a sapere
(e la cosa sarà più comica)
che qualcuno s’era provato
a buttare una bomba atomica,

ma invece del solito fungo
l’esplosione ha provocato
(e per ora nel mio sogno)
una torta di cioccolato.

sabato 20 giugno 2015

Tühirand - Veiko Õunpuu

di Veiko Õunpuu avevo già visto questo film, l'altro giorno ho ritrovato Tühirand (che avevo cercato grazie alla segnalazione di Eraserhead (leggete sotto), e davvero è un film che dà molte soddisfazioni, non perdetevelo - Ismaele







Il debutto di Veiko Õunpuu arriva nel 2006 con questo brillante semi-lungometraggio della durata di 43 minuti uno più bello dell’altro.
La trama è ridotta all’osso: una coppia si reca nella casa estiva di un amico violinista che si rivelerà l’amante della moglie


venerdì 19 giugno 2015

Adam & Paul - Lenny Abrahamson

Adam & Paul sono due drogati persi che passano una giornata a Dublino, in cerca di soldi per drogarsi, con mille piccole avventure a volte comiche, a volte terribili, con più ex amici che amici.
niente a che vedere con Trainspotting, se qualcuno ci ha pensato.
nonostante la divertentissima la scenetta della panchina, con l'uomo con la valigia, in fondo è un film tristissimo.
ed è un ottima opera prima, per Lenny Abrahamson.
cercatelo, non ve ne pentirete - Ismaele





Adam & Paul è una continua danza di corrispondenze con l’Ulisse di Joyce. Due personaggi in cerca di senso, Adam e Paul, così come lo sono Stephen Dedalus e Leopold Bloom in Joyce. Tutti e quattro prigionieri di una città madre e matrigna insieme, che a volte li accarezza, a volte li schiaffeggia.
Una città, sia in Abrahamson sia in Joyce, dalla quale sembra impossibile uscire e che, nonostante questo (o forse proprio per questo) è territorio perfetto di narrazioni.
Adam & Paul è un film molto amato dai dublinesi, dicevamo, forse proprio perché ne ricorda così spiccatamente il carattere, quell’umorismo nero che forse è ancora più spiccato in Beckett che non in Joyce....

An uncomfortably honest film, Adam and Paul may not be saying anything new – a junkie's lot is not a happy one – but gives an authentic voice to those that don't normally have one. Its relentlessly downbeat tone is tempered with occasional black humour and has at its centre an unforgettable duo. Alas, it probably won't get the large audience it deserves, but hopefully good word of mouth will attract well-warranted praise from those that get the chance to see it.

There are films that make you dance and films that make you sing. There are also films that make you want to kill yourself. Adam & Paul is one of these. If this review peters out in a jumble of negative phrases, you know what to do - call the ambulance…

Lenny Abrahamson ne juge pas et ne veut pas donner de leçon, il dresse le constat de cette journée dans la vie d’Adam et de Paul et montre la triste réalité des junkies dont le seul objectif est de trouver leur eldorado, même si cela doit signifier s’en prendre à plus faible que soi, trahir ses amis, ou encore voler. Le film commence sous les nuages et se conclut sous le soleil, à l’aube d’un nouveau jour, mais ses rayons ne réchaufferont personne.

giovedì 18 giugno 2015

Dlug (Il debito) - Krzysztof Krauze

un film che ti cattura, una sceneggiatura a orologeria, attori bravi, qualche indizio.
dopo il prologo, che cronologicamente è quasi alla fine della storia, il film parte,
come sempre avviene negli horror e thriller migliori, si parte ridendo e scherzando, il futuro sarà facile e ricco, ma...
non perdetevelo, se vi piacciono le belle sorprese - Ismaele




Dług (Il debito – 1999) è un thriller psicologico, ambientato nella Varsavia dinamica e in movimento di fine anni 90’. Krauze ha preso spunto da una storia realmente accaduta, per portare sullo schermo un film drammatico e ben costruito, che lascia con il fiato sospeso fino all’ultimo.
Lo sviluppo della linea temporale del racconto, aiuta a mantenere alta la suspense e a stuzzicare la curiosità nello spettatore. Il film infatti, si apre con il ritrovamento da parte della polizia di due cadaveri decapitati, precedentemente gettati nella Vistola. Sapienti e ambigue inquadrature si soffermano su alcuni dettagli, apparentemente insignificanti, che si riveleranno poi decisivi per ipotizzare chi siano le vittime e chi gli assassini nel corso della storia.
A questo punto la scena si interrompe e il la narrazione dei fatti riprende tornando indietro a tre mesi prima

mercoledì 17 giugno 2015

Amore tossico - Claudio Caligari

Claudio Caligari non solo segue, ma fa un film vero con alcuni ragazzi e ragazze tossici (e attori).
ci si diverte anche, però di fondo è un film tragico, in un crescendo drammatico che non lascia scampo, tutto traballa e si sfascia a causa della droga, quei ragazzi così simpatici, sembra di conoscerli, almeno un po', vivono alla ricerca dei soldi e del buco in vena. 
Claudio Caligari racconta come è stato girato il film, le difficoltà con gli attori e quelle legali, e le vicissitudini al festival di Venezia e merita davvero ascoltare le sue parole - Ismaele







a metà strada tra il documentario distaccato, il ritratto fedele di un'epoca e un sottogruppo sociale e il piccolo dramma-denuncia. Il film interessa, avvince, diverte, intristisce e sciocca finché si lasciano i protagonisti liberi di esprimersi con il loro gergo, nel loro ambiente, alla ricerca della dose e senza una finalità precisa. Poi, quando il film prende forzatamente la piega del dramma, allora lo schema della naturalezza e della simpatia (intesa come filo empatico che lega lo spettatore all'opera) salta: quando si schizza il sangue sulla tela per fare un quadro di "vita", quando si muore ai piedi del monumento di Pasolini, quando si viene freddati dalla polizia come in Accattone (1961, sempre di Pasolini), allora alcune delle più note critiche a questo film colgono nel segno.

In quegli anni Ottanta un film come Amore tossico rappresentava una sorta di residuo, di scheggia resistente, in un orizzonte che si faceva ludico e ovattato e in cui il cinema cominciava a tendere verso l’edulcorato e il politicamente corretto. In tal senso il film di Caligari è uno squarcio nella tela, un urlo tra la spazzatura, una squallida morte ad Ostia davanti al monumento a Pasolini.
Raccontando la vita quotidiana di ragazzi ridiventati sottoproletari per potersi fare costantemente e ossessivamente di eroina, Caligari metteva in scena il radicale spostamento di prospettiva che si cominciava a percepire tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta: la droga come utopia annichilente, come l’interezza assoluta cui dedicare ogni momento della propria vita.
Particolarmente significativo è infatti l’inizio in medias res di Amore tossico, in cui il gruppo capitanato da Cesare – il protagonista del film – è impegnato nei pressi del lungomare di Ostia in una spasmodica ricerca prima del denaro necessario per acquistare delle dosi, poi dello spacciatore di turno, quindi degli ingredienti necessari per farsi, in un crescendo emotivo e nichilista che trova il suo compimento nell’atto stesso dell’iniezione. Con solidissima abilità di metteur en scène, Caligari appronta questo incipit lavorando in direzione del climax, così come un regista americano avrebbe fatto con un omicidio o una rapina in un gangster movie. Questo perché, a lato di un realismo e di una crudezza estremi, in Amore tossico non si perde mai di vista la giustezza della messa in scena, la perfetta e naturale costruzione dei movimenti di macchina, in particolare delle panoramiche, attraverso le quali Caligari fa muovere anche con eleganza i suoi personaggi…