mercoledì 30 aprile 2014

Onirica – Lech Majewski

un film con immagini davvero belle, da vedere più di una volta per riuscire a catturare almeno un po' di quello che Lech Majewski mostra.
la storia è complessa, Adam ha causato un incidente d'auto nel quale sono morti le due persone più care, e lui è rimasto vivo, e si lascia vivere, con una zia che gli sta dietro, e il mondo che è dolore.
detto questo, resta un film che non si può raccontare, solo da vedere - Ismaele




Majewski è un perfetto Virgilio, prende lo spettatore per mano e lo conduce nella dimensione del protagonista e nella storia recente del suo Paese con leggerezza, fluidità e sobrietà. Ogni immagine è ricca di arte, poesia, musica, ma mai viene eretto un muro tra l’autore e il pubblico. Al contrario, tutti si sentono ben accetti in questo mondo in cui possono scegliere cosa cogliere in base alle proprie chiavi di lettura, alle personali esigenze, alle momentanee voglie, non sentendosi guardati dall’alto in basso.
Il regista ha una cultura immensa, si percepisce sin dalle prime inquadrature, ma è soprattutto una persona attenta: non mette a disagio lo spettatore, né lo allontana. Non ostenta, non insegna, ma accoglie e accompagna. Stimola, induce a osservare i particolari, a ricordare un libro letto o una frase già udita, provoca la riflessione e lo scambio, sempre in una dimensione tranquilla e senza tempo.
Il film parla di vita, morte, eternità, separazione, sofferenza, colpa, religione, filosofia e molto altro, insomma parla dell’uomo e delle sue pene che non sempre implicano il turbamento del suo quieto vivere. “Onirica” è una di quelle opere da vedere e rivedere: non annoia e scorre verso l’epilogo. Forse non è per tutti, ma per molti più di quanto si creda. Se siamo veramente in un’epoca in cui la gente è meno recettiva agli stimoli delle varie forme d’arte, una colta e non supponente (!) sovraesposizione non può che far bene.

stavolta la selva sembra farsi davvero troppo oscura anche per Majewski, che sembra faticare più di altre volte nel restituire un respiro unico e completo al progetto, spesso travolto dalle sue stesse potenzialità: eppure "Onirica" conferma la versatilità e la duttilità di un autore che ha sempre saputo assorbire con intelligenza gli impulsi provenienti dalle sue fonti d’ispirazione e dai suoi oggetti di indagine, lavorando con attenzione ed equilibrio sulla contaminazione delle arti, sulla sovrapposizione di idee e di spunti…

Adam che fa il commesso al supermarket, bizzarramente identificando l’inferno dei nostri giorni con quel regno delle casalinghe disperate, la grassa zia logorroica, al limite della parodia del genere, che sciorina Heidegger e Seneca tra un caffè e l’altro, e intanto va ripetendo al nipotino: “Dimentica Basia, meno male che non sei morto tu, pensa, potevi anche rimanere cieco” e altre amenità del genere, le pagine di un vecchio volume di illustrazioni della Commedia di Gustave Doré che Adam sfoglia e il vento che arriva dalla finestra risfoglia (Griffith e DeMille, a cui pure piaceva molto Doré, evitarono simili esibizioni, però!) la lentezza di sequenze, come quella del ballo nel bosco, che, nell’evocare scenari onirici, citano Fellini a man bassa senza averne la magica genialità, il rimando documentario a disgraziatissime vicende polacche viste dallo schermo di un televisore acceso o dai finestrini di un treno in corsa in un déjà vu almeno centinaia di volte: tutto collabora ad un giudizio di sostanziale non riuscita di un film che, ahimè, aveva alimentato grandi attese!...

In un film che si apre e si chiude in una grande chiesa non è casuale che Adam si rifugi nel tempio laico della modernità e del consumo: il centro commerciale. Così come una grande forza evocativa assume l'aratro tirato da buoi che ne scalza la pavimentazione. Altrettanto stimolante si presenta la lettura quasi apocalittica di una Polonia tormentata da catastrofi così come lo è, sul piano privato ed intimo, il cuore del protagonista. 
Finiscono quindi per risultare quasi ridondanti alcune figure incontrate dal protagonista nei propri sogni o scene come quella della ragazza in bikini. Lascia poi perplessi, su un piano più strettamente socio-politico, la particolare enfasi dedicata alla morte per incidente aereo del presidente polacco, figura molto discussa e sulla cui inumazione nella cattedrale che contiene le spoglie dei padri della patria un Maestro di indubbia forza morale come Wajda avanzò forti dubbi in una lettera aperta. D'altronde però è come se Majewski ci avesse dato un segnale di avvertimento presentandoci un angelo decisamente fisico e quasi ingombrato da delle enormi ali: talvolta il simbolismo può divenire una zavorra in quella che comunque rimane un'interessante prova d'artista.

Diretto dal regista de I colori della passione, e ispirato alla Divina Commedia di Dante questo film di Lech Majewski vanta soprattutto una spiccata componente visiva. Al centro della storia, un personaggio distrutto dalle conseguenze di un incidente, ma anche una riflessione sul dramma vissuto dalla Polonia, nel 2010, con l'incidente aereo nel quale rimasero coinvolti diversi esponenti del governo.

Onirica è un altro film contro la morte, un altro mélo disperato, necessariamente formalista: la tensione che lo muove, e che lo tiene, è quella che si crea tra la caducità dell’uomo e l’eternità dell’arte, tra le domande di uno e le risposte dell’altra, tra la singolarità del presente e gli esempi del passato. Tra le immagini di un tg e quelle di un cinema pittorico, le icone di un supermercato e quelle di una cattedrale. Tra il tragico nonsenso della cronaca (l’alluvione in Polonia del 2010) e i significati universali della poesia, l’involuzione dei simboli e la dimensione sociale. Dialoghi lirici che riecheggiano Guerra e Antonioni, omaggi a Fellini, un cammino audiovisivo di superba maestria compositiva: tableux vivants alla ricerca arrancante di un senso.

Il nuovo film di Lech Majewski conferma la tendenza al visionario del cineasta polacco, così come il tentativo di sfidare le "regole" dello sguardo nel tentativo di trovare delle immagini improntate alla fantasia più sfrenata. In tal senso, nel film, sono due le sequenze che restano più impresse: quella di due buoi che arano il pavimento di un supermercato, svelando la terra che vi è sotto, e quella di una chiesa che dal soffitto viene completamente inondata dall'acqua. "Tra queste due sequenze", - commenta Majewski - "quella che è stata più impegnativa è stata la scena dei buoi. La sequenza della chiesa infatti è diventata molto complicata soprattutto per colpa mia. Ovviamente non abbiamo potuto inondare d'acqua una chiesa, perciò l'abbiamo ricostruita in CGI. Il problema è che quando ho girato la scena non ho usato la giusta apparecchiatura, non ho usato il motion control e non ho preso le misure esatte del punto in cui avevamo piazzato la videocamera all'interno della chiesa. Quindi i tecnici digitali sono dovuti andare sul posto per capire queste cose. Ci sono poi alcuni elementi che è davvero difficile ricostruire al computer e l'acqua è tra questi, perché non ha una forma definita ed è un qualcosa che si muove in modo molto dinamico. Ma ben più complicato è stato girare, come dicevo, la scena dei buoi al supermercato. Il primo ostacolo derivava dal fatto che nessuno voleva permettere che in un supermercato si facesse una cosa del genere, il secondo era legato ai buoi stessi: non vi sono praticamente più buoi in grado di trainare un aratro. Qualcuno mi consigliava di andare in Cina, qualcun altro mi supplicava di usare dei cavalli, poi però alla fine abbiamo trovato un museo del contadino nel sud della Polonia dove, a scopi educativi, esistevano ancora dei buoi addestrati per arare la terra. L'ulteriore problema veniva dal fatto che questi animali, seppur possenti, hanno le ginocchia molto fragili e quindi non li si può spostare con dei mezzi di trasporto. Abbiamo deciso perciò di trasferirci lì con tutta la troupe per girare quella scena. Abbiamo ricostruito in studio il supermercato, perché il pavimento andava messo sopra la terra e i buoi, arandolo, dovevano essere in grado di sfondarlo. Di nuovo, ci siamo bloccati perché il padre del protagonista, che spingeva l'aratro andava troppo piano rispetto ai buoi. Insomma, è stata un'impresa sovrumana. E, alla fine, quando sono riuscito a finire il film, l'ho mostrato a tutti i produttori e uno di loro mi ha detto: 'non dirmi che abbiamo fatto tutto questo casino con i buoi per avere una scena di soli 18 secondi'. [Ride] Ebbene, sì, è così"

…Resta comunque impressa la disperazione composta sul volto di Adam, novello "primo uomo": ribadendo, infatti, la necessita' di non abdicare alla purezza e allo slancio del sentimento come elemento distintivo dell'esperienza umana - in un mondo che appare tanto più desolato quanto più resta sordo a richiami che non siano vincolati alla prepotenza materialista - essa si pone, allo stesso tempo, da esempio di "religione" dell'esistenza e da asciutto monito valido per ognuno di noi, essere umano immerso/abbandonato nella "modernità". Perché l'"etterno dolore" e' qui, ora e siamo noi "la perduta gente". 
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martedì 29 aprile 2014

La capra – Francis Veber

uno Gerard Depardieu giovane e magro e un Pierre Richard, pazzo come al solito.
si ride abbastanza, per le tanta scenette comiche, anche se il film ha dei momenti di pausa.
un'ora e mezzo divertente, ma non adatto ai superstiziosi - Ismaele





…In Italia il film è tristemente noto per due tragedie accadute in due delle sale dove era proiettato:
·         Napoli 1981. La città è frequentemente attraversata da scosse di assestamento a seguito del recente terremoto dell'Irpinia. Centinaia di spettatori, accalcatisi davanti all'ingresso in attesa dell'apertura della sala, vengono colti dal panico per un falso allarme sisma, una bravata di qualcuno per scavalcare la fila. Numerose persone restano schiacciate. Il bilancio è di due vittime.
·         Incendio del Cinema Statuto di Torino (13 febbraio 1983). Un incendio si sviluppa a causa di un cortocircuito nella sala gremita del cinema torinese "Statuto". Le uscite di sicurezza erano state bloccate per iniziativa del gestore, ad evitare i frequenti ingressi di "portoghesi". Trovano la morte 64 persone, per la maggior parte asfissiate dai fumi…

La sceneggiatura mette in campo un po’ troppi stereotipi, e il regista non sempre sembra volerci giocare nella maniera giusta. I dialoghi e le gag non sempre funzionano, ma gli attori nobilitano anche le sequenze meno riuscite. Il risultato è che si sorride spesso pur capendo con largo anticipo dove le gag andranno a parare. Certo di risate vere e proprie, soprattutto per il pubblico di oggi, ce ne sono ben poche, ma purtroppo non è una novità per le commedie francesi. Va però dato atto a Veber di non voler sottolineare a tutti i costi ogni sequenza comica, lasciando la riuscita di alcune scene all’attenzione e all’intelligenza dello spettatore. Si dimostra, insomma, un regista cinematografico con poco talento ma molta intelligenza, conscio dei propri limiti e consapevole del modo migliore per aggirarli. Non sempre gli è riuscito lo stesso gioco, in seguito.

La figlia di un industriale francese viene rapita in Messico. Siccome il detective incaricato delle ricerche non cava un ragno dal buco, il padre (consigliato dallo psicologo dell’azienda) decide di affiancargli un contabile perseguitato dalla sfortuna come la ragazza, sperando che riesca a ripercorrerne le tracce. È un film che trae la sua forza dall’esibizione dei luoghi comuni, con la strana coppia formata dal rude Depardieu e dal soave tonto Richard che finisce per ingranare contro ogni aspettativa, uscendo indenne da situazioni sempre più assurde e inverosimili. La messa in scena è francamente sgangherata, ma quando un film mi fa ridere non mi lamento dei dettagli. Molto carino anche il motivo musicale.
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domenica 27 aprile 2014

Heli – Amat Escalante

Amat Escalante svolge quasi una cronaca, ma lo sguardo è troppo freddo e distante per poter entrare in empatia con la storia e i personaggi, almeno per me. 
altri film messicani che ho visto negli ultimi mesi, quelli di Antonio Méndez Esparza e Diego Quemada-Diez, per esempio, hanno un altro stile e colpiscono forse meno, ma lasciano di più.
sembra quasi che "Heli", che pure è un film che merita di essere visto, sia troppo geometrico, come se applicasse delle regole di sceneggiatura troppo rigide, come se Amat Escalante dovesse dimostrare di essere bravo, e dimostra di avere talento, ma nel tentativo si ingessa.
ha vinto il premio per il miglior regista a Cannes nel 2013, tra l'altro - Ismaele








Il risultato è un film irrimediabilmente freddo, vuoto, insistito, che tortura in certa misura lo spettatore, non solo perché lo costringe ad uno spettacolo senza sconti, rigorosamente in tempo reale, ma soprattutto perché non sa far altro che rincarare la dose della stessa minestra di orrore e disgrazia. L'accumulo, sempre più prevedibile, di conseguenze nefaste ai danni dei personaggi principali, con l'aggiunta di un paio di spietate incursioni sugli animali, anziché servire la causa del film, ne mina progressivamente la credibilità e la forza. 
Mentre i ragazzini spiaggiati sul divano guardano con gli stessi occhi e partecipano allo stesso modo delle immagini dei videogiochi "beat 'em up" e dei colpi reali inferti nel loro salotto, Escalante ci chiede di credere al suo film di fiction come ad una reale denuncia del cuore nero del Messico rurale, della corruzione della polizia e del caos che regola i rapporti umani e famigliari, ma la narrazione non è abbastanza vitale e pulsante per spingerci a farlo. La soluzione finale, poi, prevede una modalità di riscatto che lascia persino ideologicamente perplessi.

Il problema di fondo di Heli, se tale può definirsi, risiede nella studiata asciuttezza della messa in scena di Escalante: quasi volesse in realtà tenersi a distanza dalla materia del contendere, il regista messicano non arriva mai realmente a sporcarsi le mani con le turpitudini che prendono vita sullo schermo.
Anche la più brutale e insopportabile delle nefandezze (e tra cani trucidati, peni dati alle fiamme e impiccagioni il repertorio a disposizione appare piuttosto variegato) sembra trovare residenza all’interno della narrazione più per épater le bourgeois che per un reale scandaglio degli abissi dell’essere umano. Senza citare, tra l’altro, alcuni passaggi per lo meno discutibili, soprattutto per quel che concerne le difficoltà nella relazione sessuale tra Heli e la sua compagna, trattate con una superficialità psicologica francamente risibile. Rimane l’apprezzabile tentativo di Escalante – destinato però a rimanere sulla carta – di meticciare un corpus narrativo così denso e doloroso con svisate autoriali che arrivano a lambire i bordi del grottesco. Ma non può bastare.

Vedere questo film fa male. La violenza infatti è particolarmente profonda quando, oltre ad essere selvaggia nei modi, è studiata nelle intenzioni. Nel Messico del traffico di droga la corruzione contamina soprattutto il potere armato, quello della polizia e dell’esercito: la prima si abbandona ad un senso di impotenza moralmente ammorbante, il secondo, per contro, mantiene il proprio dominio sul territorio combattendo una guerra spietata contro gli inermi…

Si disperde nelle sconfinate lande messicane, Heli, e ne resta solamente una ricostruzione: tentata, sotto il profilo introspettivo e forse più riuscita, sotto quello formale. Perchè è qui, che in definitiva ritroviamo quel minimalismo impeccabile, quella fissità che caratterizzava i film precedenti. E con esso, anche lo sguardo di Escalante ora, si decentra, e si discosta dall'orrore; dirigendo la mdp lontano dall'azione (la vendetta), ai margini dello schermo oppure, con incedere più reygadasiano, virando verso un cielo stellato (uno dei frammenti migliori), nel quale Heli può osservare, speranzoso...

…Il film e’ un racconto senza vie d’uscita: la realta’ messicana e’ messa in scena oggettivamente, con uno sguardo che non e’ mai interrogativo o critico. Escalante si limita a rappresentare uno stato di fatto, un mondo retto da una violenza inesauribile, che appare nascosta, ma che e’ pronta a difendere il proprio potere senza arretrare di fronte a nulla.
Lo stato risponde con gesti puramente dimostrativi, bruciando e sequestrando tonnellate di droga, ma e’ solo la punta dell’iceberg. La polizia e’ completamente impotente.
Il quadro e’ inquientante, di fronte alle torture si rimane impietriti, soprattutto per l’atmosfera di ordinaria follia che si respira.

…Il motivo per il quale però Heli è un grosso pallone al cui interno non c’è nulla, gonfio di pretese e silenzi, di paesaggi e volti, è che a tutto questo non è mai collegato uno sguardo cinematografico degno di questo nome. Vediamo accadere molte cose ma senza che Escalante sappia guardarle con la pietà oppure l’odio, con l’indifferenza oppure il coinvolgimento che servirebbero a fare il passo da un tema banalmente da festival, ad un film che abbia qualcosa da dire.
Con la sua sospensione di giudizio, l’alibi di voler solo mostrare personaggi e lasciare che interagiscano, Escalante dimentica anche di porre uno sguardo su tutto questo, che non significa giudicare ma saper mostrare eventi, cose, persone e luoghi in una maniera che dia un significato al tutto o che sia anche solo in grado di stimolare un pensiero nello spettatore, in virtù di immagini o momenti a cui non si può rimanere indifferenti.

…questo film è stato accostato, per la violenza esibita in maniera molto molto realistica, a Kinatay di Brillante Mendoza. È vero, il paragone è molto calzante: i due film si assomigliano molto. L'unica differenza sta nel fatto che nel film di Mendoza la violenza è vista come un male necessario, una consuetudine, un lavoro come gli altri, da accettare così com'è, senza farsi troppi problemi morali, mentre qui è come un cancro, con metastasi diffuse, che prima o poi si espanderanno anche alle parti sane…
da qui

sabato 26 aprile 2014

Windstruck - Jae-young Kwak

si capisce che il regista è lo stesso di "My sassy girl" (qui), le due storie si incontrano nel vento, è la storia di un amore, divertente e poi tragico, e mai troppo inverosimile da mollarlo lì.
bravissimi i due protagonisti, e, come l'altro film, "Windstruck" riesce a far ridere e commuovere.
forse in qualche momento sembra troppo lungo, ma nel complesso è da vedere, con piacere - Ismaele






Windstruck è un film d'amore e di vento. E di morte.
Per l’impigrito occhio dello spettatore medio occidentale, è almeno “strano”: parte come una divertente e spassosa commedia, a tratti parodistica, narrando la storia di un’agente di polizia, Yeo Kyung-jin (Jun Ji-hyun), che, lanciatasi irruentemente e avventatamente all’inseguimento di un borseggiatore, finisce con l’arrestare l’uomo sbagliato, Go Myung-woo (Jang Hyuk), un quieto professore di fisica in un liceo femminile. Da questo incontro/scontro, il rapporto tra i due sfocia in una bellissima storia d’amore, come lo sono anche i rituali di corteggiamento (tenere e piacevoli le scene in cui loro giocano con l’acqua o quando lei gli porta il pranzo a scuola). Lui è, all’apparenza, più coinvolto, è generoso, dolce, premuroso; preoccupato dal carattere impetuoso di Yeo Kyung-jin e dalla foga incontrollabile che ella mette nel suo lavoro, appena può la segue per aiutarla nei casi più pericolosi. Mentre lei mostra un atteggiamento aggressivo e scostante, tipico di chi ha vissuto una dolorosa esperienza (la gemella, dal carattere diametralmente opposto, morta tempo addietro)…

…Un po' troppo strappalacrime nell'ultima parte e molto basato, come nota giustamente la recensione di “Han Cinema” [1], sulla recitazione di buon livello, l’avvenenza, l’abilità nel ruolo di commedia di Jun Ji-Yun, alquanto accattivante nelle sue nevrosi di poliziotta non sempre all'altezza dell'immagine di superefficienza che si vorrebbe dare; di orfana di una sorella gemella deceduta per essersi scambiata con lei e insomma anche in questo caso origine di un senso di colpa; oltre che di innamorata dapprima felice e poi sofferente.
Con una miscela di motivi (di cui sopra) e di generi (poliziesco, comedyfantasy, racconto romantico) e non del tutto stringente sul piano della struttura narrativa, non di meno è un film, pur commerciale, realizzato con tatto nei confronti dei sentimenti dei personaggi…

…The problem is that neither Kwak, nor anyone else involved in this film could think of a good enough filler plot as an excuse for us to watch two pretty people fall in love. The audience is forced through awkward tonal shifts as the romantic comedy moments give way to Michael Bay type cop action scenes with a reckless Kyung-jin kicking criminal ass. Sure, an action movie can have romance, but it’s simply odd when the same film has one sweet moment where our two leads dance around in the rain to the oldies song ‘Stay,’ and then a gruesome murder scene soon thereafter. It recalls those script filler moments in My Sassy Girl when Cha Tae-hyun reads Jeon’s amateur screenplays and imagines the overlong movie sequences, however, without any of the irony. 
When the second half of the film descends into melodrama, audiences should be pleased to find it convincing, emotional, and relatively unique. It has a distinctively different angle from the normally contrived plot turn that breaks the characters up so they can dramatically get back together again. Kwak takes a risk with a plot turn that does not allow a neat, predictable happy ending. 
But again, this half comes with its share of problems when the film runs on for far too long, indulges in heavy-handed scenes and even makes its viewer sick of Jeon Ji-hyun’s frequent weeping. Kwak finds an absolutely perfect and satisfying way to end the film, but did we really have to wade through all the fat and unnecessary tangents to get there?
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venerdì 25 aprile 2014

La sedia della felicità - Carlo Mazzacurati

una commedia alla Mel Brooks, con un ritmo alla Mazzacurati.
per l'ultimo film ci sono quasi tutti i suoi attori di una vita, per un cameo che è quasi un saluto.
Valerio Mastandrea, Isabella Ragonese e Giuseppe Battiston sono bravissimi, a loro agio in una parte che sembra scritta per loro, ma anche tutti gli altri attori sono da applausi.
la storia è un'occasione per raccontare un (pezzo d)' Italia affamata di sicurezze, dove si è disposti a (quasi) tutto per i soldi, che fanno girare il mondo, e anche il Veneto.
i tre seguono l'odore dei soldi, fra alleanze e tradimenti, che scandiscono i loro rapporti umani, e li definiscono.
si sorride e si ride, in un film che è un po' folle e non dispiace, anzi... - Ismaele





Con garbo surreale, la commedia dinamica di Mazzacurati cambia lo stile di versificazione del suo cinema, sperimentando una scansione del racconto che pratica leggerezza e sorriso. Si (sor)ride tanto con La sedia della felicità, che 'esagera' rimanendo fedele al reale. Divertito, lieve e personale, lo sguardo dell'autore veneto coglie ancora una volta le contraddizioni esistenziali, trasfigurandole e deformandole in una rapsodia dominata dal caso, per caso avvengono gli incontri, gli abbandoni, le rivelazioni, i ritrovamenti…

il film, visto sotto altre vesti e prospettive, che non siano quelle (riduttive?) di un gioco divertente assume un’altra dimensione, quella di una sagacia interpretativa di una società smarrita, che senza certezze ricerca il benessere, così… del tutto casualmente. Ma il registro narrativo è privo di esagerazioni, il perfetto congegno ci fa lodare la sceneggiatura e ci ricorda che la commedia è un genere sempre molto pericoloso e di non facile uso e che non sempre il testo deve sottendere una critica sociale, un messaggio. In fondo Billy Wilder, uno dei più grandi realizzatori di commedie, diceva: io faccio film, se devo mandare un messaggio faccio un telegramma.

C'è tutto Mazzacurati nel film perché c'è il suo modo di vedere il mondo, un'umanità in bilico, antieroi che rendono straordinario l'ordinario, in cui la gentilezza vince sull'aggressività. Utopia delle relazioni, raccontando però i dettagli del quotidiano, di un territorio che registra le difficoltà del Paese…

…molti potranno storcere il naso per l'eccessiva semplicità di storia e personaggi, per l'impianto troppo fiabesco o a tratti surreale; la verità è che il lascito di Mazzacurati è all'insegna della gioia, soprattutto di quella piccola, che guarda alla nostra crisi non con sguardo lacrimevole né con una risata sguaiata (come tanti usano fare oggi), bensì con un sorriso trasognato, pieno di serenità e con un filo di speranza. Abbiamo esempi di questo stile di racconto nel mondo (si pensi, per citare dei grandi, a Miyazaki o a Wes Anderson), è bene trovare una briciola di questo anche in Italia, almeno ogni tanto.

Sono pochi i film italiani recenti così semplici, diretti, divertenti, coinvolgenti, dalla trama lineare ma ricca di argute trovate, come La sedia della felicità. Una piccola storia che nasce nel Nordest Italia, dal tono decisamente comico, ma senza dimenticare il realismo e la durezza della vita quotidiana che molti italiani si trovano ad affrontare…

…Non senza qualche cedimento o lungaggine inutile o forzata, il film di Mazzacurati trova nel trio Mastandrea, Ragonese, Battiston un gruppo affiatato che riesce a fare faville e a far ridere di brutto. Scene madri come quella della  seduta spiritica con Mastandrea scettico e disturbatore/suggeritore, sono esemplari e suppliscono qualche debolezza che scalfisce ma non compromette il ritorno in gran forma di uno dei  piu' ispirati giovani discepoli di Nanni Moretti di fine anni '80.
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giovedì 24 aprile 2014

(The) Grand Budapest Hotel - Wes Anderson

in una storia del cinema Wes Anderson dovrebbe avere un capitolo tutto per lui (come tanti, probabilmente).
fa film così a parte che solo gli altri suoi film (di Wes Anderson) possono assomigliargli.
e tanti attori, che spesso sono protagonisti con altri registi, qui fanno la fila per una parte anche piccola (George Clooney qui appare per due o tre secondi, più che un cameo è davvero un'apparizione).
nel film tutto è perfettino e folle, con una sceneggiatura pazza, tutto è gioco, slapstick, sincronismi, inverosomiglianza.
e però alla fine è una gioia per gli occhi, meno per la memoria, la storia sembra quasi un esercizio di stile.
bravissimi gli attori, il ragazzino Zero (Tony Revolori) e Gustave (Ralph Fiennes) sono i più bravi fra i bravi - Ismaele





Come il Chaplin de Il grande dittatore e il già citato Lubitsch di Vogliamo vivere Anderson vuole farci sorridere delle innumerevoli avventure a cui sottopone i suoi protagonisti. Questo però non cancella, anzi accentua, la riflessione su quelle frontiere che troppo a lungo in Europa hanno costituito punti di non ritorno per decine di migliaia di persone arrestate e fatte sparire e oggi si ripresentano con altre modalità meno tragicamente evidenti ma sempre fondamentalmente ostili. 
Questo film però vuole essere anche, fin dal suo tanto astratto quanto acutamente lieve inizio, una riflessione sull'arte del narrare. Un'arte che può permettersi di parlare della realtà profittando di quanto di meno realistico si possa escogitare. Le stanze del Grand Budapest Hotel sono innumerevoli quanti i personaggi che le abitano o vi entrano anche solo per un'inquadratura. L'instancabile e vivace fantasia di Anderson possiede la chiave di ognuna di esse.


Calligrafico. Un film di cui non sentivo il bisogno. Molto belle le scene, ma non mi basta. Del resto è quel che mi succede un po' con tutti i film di Anderson e con quelli di Burton. Non penetro nel loro mondo, ma resto freddo ed estraneo. Peccato perché alla fine mi attrae, e mi piacerebbe che mi piacesse...

Film incantevole, dunque. Un vero paradiso per cinefili che strizza l'occhio al cinema europeo degli anni '30 (da Ernst Lubitsch a Frank Capra) senza però mai scadere nella violenza e nella volgarità. Dedicato alla memoria di Stefan Zweig (scrittore austriaco perseguitato dai nazisti e morto suicida in Sudamerica) è una vera e propria gioia per gli occhi, da vedere e rivedere.

L’impatto è spettacolare, ma con il passare del tempo il film perde consistenza accontentandosi di un accumulo visivo che stupisce ma non scalda il cuore. Le caratterizzazioni sono strepitose ma senza respiro, destinate a lasciare il passo all’ebbrezza del regista bambino, divertito dalle infinite varianti di un meccanismo narrativo che torna prepotente in gioco nell’ultima sequenza quando il dettaglio sul libro che si chiude interrompendo la visione, ci ricorda l’importanza del lettore/spettatore, utilizzatore finale ed anello indispensabile al senso stesso dell'opera d'arte.

il film all'inizio prometteva altro, prometteva di sorprendermi a ogni inquadratura, prometteva di raccontarmi una storia incredibile, mi prometteva l'emozione, il coinvolgimento.
E invece ahimè, poi si stabilizza tutto, poi la storia altro che incredibile, diventa persino più che verosimile, e il coinvolgimento non c'è, o non quello della promessa.
E anche il finale arriva rapidissimo, due inquadrature e tirate su  il sipario.
Eppure avrei voluto essere immerso nella storia di un albergo così incredibile, eppure in quella struttura rosa in cima alla montagna pensavo di trovar dentro qualcosa di indimenticabile.

…Si rimane sempre stupiti con un film di Anderson. Forse questo suo modo soprannaturale di raccontare storie che non troveremmo da nessuna parte. Il suo modo di strutturare ogni passaggio e curarlo fin nel minimo dettaglio, ottenendo un disegno perfetto, eppure mai freddo. Ne viene fuori un affresco leggero e surreale. Un carosello di infinite sfumature, che rende usuale ogni cosa, anche quando non lo è.

Quizá sea “El gran hotel Budapest” la película en la que Anderson más deja fluir la ternura de sus personajes, todos ellos tan imposibles como reconocibles en su humanidad. Ralph Fiennes está simplemente colosal dibujando uno de los mayores iconos de la contención y la elegancia del cine reciente, al frente de un reparto tremebundo en el que podemos destacar, por la dificultad que requiere siquiera el hacerse notar ante tanto monstruo, el trabajo del joven Revolori. Todos corren, saltan, se desean, se persiguen y se observan en un marco excepcional, en un ambiente belicoso e inquietante pero tan dulce en su pureza que resulta imposible no dejarse llevar. Reservad vuestra habitación.

…"El gran hotel Budapest" tiene unos problemas narrativos enormes, pero Anderson los compensa con una parte visual personalísima y genial, y con toneladas y toneladas de encanto e imaginación. Habiendo visto las últimas tres películas de Anderson, yo diría que esas son las constantes del cine de Anderson. Si sus guiones estuvieran un poco mejor estructurados, manteniendo la forma tan personal con que cuenta las historias, sus películas serían obras maestras.
Lo peor de "El gran hotel Budapest" es su comienzo, ya que tarda una barbaridad en arrancar. Por algún motivo que se me escapa, Anderson utiliza la narración enmarcada: te mete una historia dentro de otra historia. En esta película primero te muestra la escultura de un escritor en la actualidad, luego ese escritor en los 80, interpretado por Tom Wilkinson, que va a recordar un viaje en los 60 al hotel del título; entonces Jude Law hace del autor en esa época, y después de demasiado tiempo, se pone a hablar con el dueño del hotel, que le va a contar la historia.

Un film trépident, dont le rythme ne faiblit jamais, mais dont encore une fois l'émotion est la grande absente, l'humour semblant mettre une telle distance entre spectateur et personnage, que l'empathie ne fonctionne que moyennement. Reste un vrai spectacle, qui vous en mettra plein les yeux... et vous donnera l'envie de revenir visiter ce lieu si particulier. On en redemande.
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mercoledì 23 aprile 2014

Blancanieves - Pablo Berger

la storia di Biancaneve con qualche variante, che ci sta benissimo, ambientata nella Spagna classica dei toreri, e i nani ci sono, non temete.
interpreti bravissimi, regia perfetta, non manca niente.
non servono tante parole, guardalo, se ti vuoi bene, è molto più bello di quello che ti aspetti - Ismaele






è una perfetta simulazione di un film muto degli anni '20, che però è allo stesso tempo un omaggio sentito e appassionato, senza le scorciatoie facili prese da The Artist.
Ed è veramente un peccato che il film francese sia stato strombazzato per tutto il globo terracqueo come la new sensation cinematografica mentre un film come Blancanieves, molto più bello e ambizioso, nonché più sincero, sia stato relegato in un limbo per essere conosciuto e omaggiato solo dagli appassionati.
Nulla di troppo rassicurante ma una storia esplorata in tutto il suo potenziale dark, con quel tocco di gotico in più dato dalle enormi stanze in cui è prigioniero , su una sedia a rotelle, in completa solitudine, il padre di Carmen, ridotto ormai a poco più che una larva.
E' bello come Berger , anche sceneggiatore , disegna il loro rapporto, solo con sguardi e ellissi registiche, in totale assenza della parola.
Ed è anche straordinaria la parte della storia in cui Carmen viene soccorsa e accolta dalla compagnia di nani girovaghi che le conia il nome di Biancaneve.
Echi di Murnau, di Von Stroheim addirittura di Dreyer e anche un tocco consistente del Tod Browning di Freaks, sono il tratto distintivo di un film orgogliosamente diverso, un cinema altro che a prima vista non dovrebbe avere posto nel panorama filmico moderno a causa del suo anacronismo voluto e conclamato.
E invece no, per una grande pellicola come Blancanieves, per una storia immortale e dal potenziale infinito come quella raccontata dai Grimm c'è sempre posto nei nostri occhi e nel nostro cuore…

It's too soon to declare a trend, but a silent film once again seems likely to become a success in the contemporary film world: "Blancanieves," a striking, visually stunning Spanish feature, written and directed by Pablo Berger. 
Although the story draws on the Brothers Grimm and the legend of Snow White, it is anything but a children's movie. It is a full-bodied silent film of the sort that might have been made by the greatest directors of the 1920s, if such details as the kinky sadomasochism of this film's evil stepmother could have been slipped past the censors…

La séduction opère également grâce à une mise en scène somptueuse, utilisant à merveille le noir et blanc, et les ressorts d'un cinéma d'antan. Pablo Berger utilise ainsi de très belles idées de transitions, d'un gros plan sur un œil du taureau qui renvoie sur celui d'un homme, à une robe de communion trempée dans un bac de teinture qui devient une robe noire, symbole de deuil. Il joue aussi sur les thèmes musicaux, qui s'adaptent aux situations ou personnages, avec en particulier l'instrument à vent, une flûte, qui marque chaque arrivée du meilleur ami de Blanche neige enfant, le coq Pepe…

…Eccessivo e generoso, mimetico rispetto all’epoca che racconta, compiuto anche se affastellato, sorretto da un’ispirazione notevole di scrittura e dalla genuinità dell’operosa ricostruzione retrò, Blancanieves sa ammaliare col calore immortale della sua lieve e candida umanità ma allo stesso tempo conosce il senso del sublime connesso al terrore e non si sottrae dal dargli il peso dovuto. Nonostante l’adorabile cornice e l’onestà di fondo non può non rimanere però il sentore di qualcosa che sappia inevitabilmente di riesumazione, non sterile ma di sicuro prigioniera dell’automatismo. Un inno alla bellezza abbagliante ma per forza di cose autoreferenziale, indubbiamente splendido ma anche nato già morto, auto-concluso nel passato in cui provvede a relegarsi, anche se senza mai vampirizzarlo. O, ancor meglio, senza mai farne un discutibile bignamino per favorire la fruizione e l’avvicinamento degli spettatori contemporanei, preferendo alla patina della confezione la carne e il cuore di una rilettura vibrante e sentita. Blancanieves è una favola come l’originale, ma per fortuna non si sottrae dal lasciare spazio ai momenti più neri e alla crudezza di una dramma di fondo che non fa altro che rimarcarne il coraggio e l’autonomia dello sguardo. Il bellissimo finale, tragico e feroce, non può che sottolineare il cuore di tenebra di qualsiasi pur meraviglioso girotondo consacrato alla messa in fiera delle illusioni. Il baraccone in cui la protagonista viene esposta, non a caso, somiglia in modo terribile e funesto a un Santo Sepolcro. E il bacio del principe azzurro, stavolta, sa quasi di necrofilia.

…Estamos ante un narrador que, con aciertos y errores, con influencias o sin ellas, se lanza a practicar el lenguaje del cine en su pura esencia, esto es con plena confianza y fe ciega en el poder de la imagen como generadora y propulsora de estados de ánimo y como auténtico motor del melodrama. Y eso es de agradecer. El resultado no es una obra maestra, pero si una obra que bombea sangre. Que más allá de las estampas rezuma una intermitente vitalidad. Y que es capaz de trazar una curva elíptica ingeniosa para despedirse tras un emotivo final taurino (eso si, políticamente correcto) con una filigrana poética de altura. Tal vez no merezca las dos orejas y el rabo. Ni siquiera una oreja, pero si una vuelta ruedo. O lo que es lo mismo, al cine.
da qui

martedì 22 aprile 2014

Tre ipotesi sulla morte di Pinelli – Elio Petri

cinema civile o cinema militante,  cosa vuol dire lo mostrano Elio Petri e Gian Maria Volontè, per chi si ricorda, e anche per chi non si ricorda, o per chi non lo sa - Ismaele

giovedì 17 aprile 2014

The Act of Killing - Joshua Oppenheimer

come raccontare lo sterminio di un milione di persone (in Indonesia, nel 1965)?
Joshua Oppenheimer lo fa raccontare agli assassini, che entrano nel ruolo di star, orgogliosi delle proprie azioni.
che si pentano o facciano finta non so, di sicuro è originale e riuscito il modo di far "confessare" quei criminali (o quegli eroi, il punto di vista è tutto), che diventano attori di se stessi.
merita di sicuro la visione - Ismaele

ps: per un ripasso veloce di quella storia si può leggere Noam Chomsky (da qui)





Qualcuno potrebbe vedere nella trovata di Oppenheimer una provocazione in stile Michael Moore ma "The Act of Killing", nonostante le immagini forti, è molto più asciutto. Gli autori-intervistatori restano in disparte lasciando i "protagonisti", criminali mai pentiti (e mai puniti) liberi di esprimere le loro opinioni sui loro delitti passati, adducendo ragioni ben poco plausibili (da notare anche il discutibile significato di "uomo libero" attribuito alla parola gangster). Eppure durante le lunghe sequenze in cui le varie uccisioni vengono riprodotte ci sono anche momenti rivelatori in cui Congo mostra vero disagio nel trovarsi "dall'altra parte", come se non ci avesse mai riflettuto più di tanto (col regista che pazientemente, comunque, gli ricorda che le vere vittime non stavano recitando e quindi non venivano aiutate dallo stop del regista).
Il risultato è un film che mette sicuramente a dura prova lo spettatore, decisamente innovativo nella sua ricerca di nuovi percorsi per raccontare ciò che molto spesso si presenta come irraccontabile.

…Soberbia puesta en escena de uno de los hechos más absurdamente diabólicos de la segunda mitad del último siglo. Si de mí dependiera sería de visionado obligatorio en cada colegio por su mensaje; y en cada facultad de cine, por la brillantez de su forma.

…Guardano in macchina e mettono in scena le torture, si divertono a mimare con la voce il suono orrido, rauco ed infinito che esce da una gola umana durante lo sgozzamento. Hanno una memoria così vivida che riescono ad impersonare le loro vittime, specie nelle convulsioni e nelle urla di dolore.
Non sono le pur insostenibili descrizioni delle torture e delle esecuzioni a disturbare di più, no. È l’atteggiamento degli ex-carnefici davanti alla telecamera, la loro allucinante simpatia, il loro mostrarsi nonni affettuosi o freak obesi, padri di famiglia disincantati o guappi in divisa paramilitare, compagnoni allupati e misogini, che accidentalmente hanno dovuto versare fiumi di sangue ed accatastare centinaia di cadaveri perchè era la cosa giusta da fare, senza se e senza ma.
Non temono il giudizio della storia, loro la hanno fatta, la storia, loro hanno vinto.
Il racconto della banalità del male porta alla luce la demenza del male. Una ferocia decerebrata oltre l’immaginabile, paragonabile alla spietata incoscienza di un bambino che strappa le ali ad un insetto e ride felice…

…Son varios de estos últimos los entrevistados en The Act of Killing, estremeciendo de entrada la impunidad y ligereza con que detallan sus torturas y asesinatos de comunistas, que rondan el millar en el caso de Anwar Congo; el individuo mejor dispuesto, por pura inconsciencia, a exponerse ante el objetivo de Oppenheimer.
Las declaraciones de Congo y compañía resultan de sumo interés por cuanto ejemplifican a la perfección la banalidad del mal sobre la que escribió Hannah Arendt a propósito del nazi Adolf Eichmann; la normalidad con la que en determinadas épocas y bajo determinados regímenes el mal puede practicarse, relativizarse y hasta justificarse…

Like Claude Lanzmann's otherwise incomparable Shoah, Joshua Oppenheimer's bracing documentary The Act of Killing reanimates a historical catastrophe without leaning on archival footage. In relying primarily on testimonials grounded at the site of violence, both films argue for a more radical than usual method of bearing witness to unspeakable genocides--in this case, the murder of nearly a million communists, intellectuals, and ethnic Chinese in mid-1960s Indonesia by a cadre of paramilitaries and gangsters who were backed by an American-funded military and subsequently never brought to trial. Yet as much as each project seeks to drag a monstrous past into the light by shooting at the present scene of the crime, Oppenheimer's work is given an even more surreal kick by virtue of the incredible status still afforded to members of the killing squads, politically-connected goons who openly boast of their murders to anyone within earshot, including the film crew…
continua qui

Karai Norte - Marcelo Martinessi



da qui

martedì 15 aprile 2014

Las acacias - Pablo Giorgelli

una storia piccolina, un viaggio in camion, il camionista, la passeggera e la sua bambina.
eppure si entra dentro un mondo, due storie che si incontrano, da lontanissime sembrano avvicinarsi, entrambi sono timidissimi, paurosi, con una vita difficile alle spalle e un futuro ignoto.
trovare il coraggio di parlare, di esprimere pensieri sinceri, in un mare di silenzi e sguardi, questo è il miracolo, che sembra naturale, scontato, ma è sempre più difficile.
non perdetelo, ma attenti, potrebbe coinvolgervi - Ismaele






…Quanti film ognuno di noi ha visto in cui i silenzi rappresentavano solo una pretesa paraintellettualistica e i tempi morti erano davvero tali perché nulla interveniva a offrirne il senso? In questo caso la memoria cinefila va invece a un modello troppo spesso dimenticato o imitato maldestramente: Robert Bresson. Il grande regista affermava: " Il cinema sonoro ha inventato il silenzio." e "Ripresa. Angoscia di non lasciar sfuggire nulla di ciò che intravedo appena, di quel che forse ancora non vedo e potrò vedere soltanto più tardi". 
Las Acacias può essere sintetizzato in queste due frasi. Perché in esso il silenzio diventa uno spazio fisico che potrebbe segnare una insuperabile distanza tra due esseri umani che siedono a pochi centimetri l'uno dall'altra oppure un territorio da conquistare con pudore palmo a palmo e poco per volta. Ma anche ciò che si vede lascia percepire l'attenzione data al sentire dei due protagonisti con quell'angoscia bressoniana destinata a tramutarsi nello spettatore in una visione ulteriore in cui la piccolissima Anahi offre ai protagonisti, con il suo agire libero da ogni convenzione, un fragile ponte da attraversare per incontrarsi al di là di ogni possibile retorica.

Las acacias, miglior opera prima a Cannes 2011, è una sfida al silenzio, un incrocio di sguardi. Ascoltare il pianto di una donna che finge di dormire, il tentativo maldestro di tenere tra le braccia una bimba minuscola. Non più distante diffidente e avverso, ora disponibile al prossimo, incline all’ascolto e al dialogo. Un’opera prima in cui Pablo Giorgelli fa parlare un ambiente ristretto in assenza di dialogo coadiuvato dal mirabile linguaggio espressivo dei due protagonisti. Un corrugarsi di fronte, un sorriso aperto di denti, uno sguardo contrariato o complice fanno del film un’opera di rara sensibilità dove il non detto è più importante di tante parole.

Questo di Giorgelli è un film che lavora sulla sottrazione. L’essenziale, che come diceva Saint-Exupéry, è invisibile agli occhi, qui lascia spazio al cinema in tutta la sua vera forza. Il cinema fatto di immagini, gesti ed espressioni.
Poche parole, totalmente ininfluenti rispetto alla trama, che è esile ma alla fine arriva dritto al cuore. La storia di un burbero trasportatore di acacie (Germàn de Silva) che beve mate e di una madre (Hebe Duarte) con figlia al seguito (una meravigliosa Nayre Calle Mamani) a cui l’uomo dà un passaggio per Buenos Aires. Tutto qui.
E’ nella mancanza di parole, nell’assoluta assenza di musica, che il gesto degli attori diventa forte e pieno di significato. E’ nella costante presenza del rumore di fondo che si percepisce la presenza della vita. E’ nella carica di ogni singola immagine che il cinema diventa ancora e sempre racconto, al di là delle acacie.
Mi viene voglia di prendere lo zaino e partire, per girare l’Argentina su un camion Scania rosso.
da qui

domenica 13 aprile 2014

Katyn - Andrzej Wajda

non ha avuto una grande distribuzione, in Italia, anche se in Polonia l’hanno visto in tre milioni di spettatori.
Wajda (il dio del cinema lo conservi attivo, come De Oliveira va bene) racconta una storia scomoda per 50 anni, fino a che la verità è diventata pubblica e riconosciuta.
la storia è quella di uno sterminio (per mano della NKVD, polizia segreta sovietica) di
almeno ventimila militari, che erano anche intellettuali, e sarebbero stati difficili da addomesticare, e dell’attesa e della ricerca della verità da parte dei familiari delle vittime.
bravissimi attori per un piccolo capolavoro per non indifferenti. 
da non perdere - Ismaele
    
QUI il film completo, con sottotitoli in inglese




Importante e imperdibile, perché rievoca una pagina di storia del Novecento polacco se possibile ancora più infame delle molte, troppe pur spaventose di quegli anni Quaranta di guerra d’Europa. Ed è quel massacro di Katyn in cui, nel 1940, i sovietici invasori del paese fecero fuori 22mila ufficiali dell’esercito polacco fatti prigionieri, per tagliare la testa a una possibile, potenziale resistenza armata. La messa a morte per fucilazione in serie voluta e progettata a Mosca, ma che poi – a guerra finita, a Polonia annessa all’impero del socialismo reale – venne attribuita da Mosca ai tedeschi, onde stornare da sé l’odio popolare e scaricarlo sui già odiati, et pour cause!, nazisti. Aggiungendo l’inganno, la riscrittura falsificante della storia, all’orrore. Ce n’è voluto, perché nella Polonia ancora sovietizzata e poi della ritrovata libertà e sovranità, fosse spezzata la depistante versione ufficiale del massacro e fosse dissepolto e restituito il vero…

Gli esseri umani, le loro storie, non possono cambiare la Storia: la loro unica possibilità, eliminate quelle del compimento personale o dell'attiva partecipazione agli eventi, è la testimonianza, come Andrzej, o la comprensione, come quella della moglie. A patto che dimentichino o tacciano ciò che hanno visto o saputo, oppure che muoiano.  Anche cinematograficamente, l'unico ruolo possibile ai personaggi è lasciare tracce per un futuro indefinito, senza sperare per se stessi nè per la propria lotta. Da questo punto di vista Katyn è una dichiarazione di impotenza, ma di impotenza non superficiale e rinunciataria. Se da una parte il suo compito è quello di raccontare una verità che ancora non era stata abbastanza raccontata, dall'altra il film sembra dimostrare l'impossibilità di raccontare con gli strumenti della narrazione un evento di questa portata, di farci spettacolo, di intrattenere. Sono storie nate morte, significati che si perdono nella sofferenza prima di aver assolto il loro compito di illuminazione. In un film doppio, che prova a raccontare contemporaneamente la Storia e le vicende degli umani che ne fanno parte in qualità di pedine, la prima ha il totale sopravvento. 
E allora Wajda fa un passo indietro, e negli ultimi minuti del suo film abdica dalla parola e dalla narrazione comunemente intesa, e lascia defluire le immagini in un orrore senza spiegazioni né significati, dove lentamente le parole, le domande su che senso abbia ciò che accade, si spengono, e rimangono le immagini nude della tragedia e del massacro. Il finale di Katyn rinuncia a cercare o a dare senso, e semplicemente mostra il metodico processo di eliminazione degli esseri umani. Rimane qualche preghiera e qualche sparuto simbolo religioso in mezzo al sangue e ai cadaveri coperti di calce e terra, poi le stesse immagini scompaiono e l'ultimo minuto è nero, accompagnato dall'Agnus Dei di Penderecki. Nello spegnersi del cinema, in quella che sembra una resa agli eventi, si trova invece per la prima volta un segno di acquisita consapevolezza, nel momento in cui Katyn smette di essere spiegazione tramite narrazione, e diventa finalmente tentativo di testimonianza pura

… Wajda has directed an intensely moving film - as good as, if not better than, the films about wartime Polish resistance that made his reputation in the 1950s. No doubt, this is in part because his own father was one of the murdered officers - but more crucially, perhaps, because he also lived through the period of Stalinist reconstruction of Poland, a period that imposed on him its own complex demands of how to survive without sacrificing the truth. Thus there is no caricature, no simplification. The film possesses an objectivity that does not sacrifice commitment to onesidedness.
It is beautifully filmed, with an astonishing use of muted browns and greens to convey the atmosphere and extraordinary performances from the actors. The music by Penderecki, one of Poland's leading composers, matches the mood perfectly. And the film's climax is extraordinarily gripping, not least because it suggests that the truth cannot be buried forever.

Esta ambiciosa película afrontaba en sus estructuras tres principales retos. El primero, histórico, por sacar a relucir el monstruoso crimen de Estado de la KGB (policía secreta soviética), al aprobar Stalin y su gobierno el asesinato, en el bosque de Katyn, de gran parte de la oficialidad del ejército polaco, hecha prisionera a traición, en una guerra no declarada. El segundo reto, artístico, por la dificultad de mostrar estéticamente un acontecimiento inicuo, manipulado ante la opinión mundial. Atribuido primero por los soviets al ejército alemán que lo identificó, ocultado luego al tribunal internacional de crímenes de guerra en Nuremberg con flagrante violación de la justicia y de la historia. El tercer desafío, era de orden más sentimental, pues uno de los oficiales asesinados fue el capitán Jakub Wajda, padre del director del film, entonces muchacho de 13 años. Este debió huir con su madre a Cracovia y ocultar su parentesco, no sólo ante los ocupantes, alemanes y rusos, sino también luego, ante el gobierno comunista polaco. El más famoso de los actuales realizadores de la escuela de Lodz, ha debido esperar más de medio siglo, para reivindicar la memoria del padre y llenar un vacío tabuizado de la historia patria y del cine polaco…

In 1940, some 15,000 officers of the Polish army were rounded up, transported in sealed buses to a forest named Katyn, shot in the back of their heads by the Russian KGB and buried in mass graves. That is the simple truth. When the nation was occupied by both the Nazis and Soviets, their deaths were masked in silence. Then the Nazis dug up the graves and blamed the deaths on the Soviets. After the defeat of Hitler and the Soviet occupation of Poland, history was rewritten and the official version blamed the massacre on the Nazis.
One of the officers murdered that day was Jakub Wajda, whose son Andrzej would become a leading Polish film director, and one of the chroniclers of the Solidarity movement. Now 82, Andrzej has evoked what happened that day and how it infected Polish society for 50 years. Reflect that everyone in Poland knew the truth of the massacre, but to lie about it became an official requirement under the Soviet-controlled regime. Thus, in some cases, to gain immunity or advancement in postwar Poland required parents and children, brothers and sisters of the dead to remain silent about their fates…
continua qui