mercoledì 30 gennaio 2019

El viaje comienza aquí - Gerardo Herrero

Anatomia di un omicidio - Otto Preminger

una storia giocata per gran parte in un'aula di tribunale, come tante di quei tempi, e tutte a livelli altissimi (penso a Testimone d'accusa e La parola ai giurati).
nel film di Otto Preminger abbiamo un avvocato, anzi due, un colpevole già deciso, una femme fatale, gli ingredienti ci sono tutti.
l'avvocato difensore è James Stewart, che ne sa una in più dell'accusa, e la musica è di un certo Duke Ellington.
con un film così tutto quello che potete fare è rinviare tutti gli impegni di due ore, e non ve ne pentirete mai.
buona visione - Ismaele




La grandezza di Otto Preminger , secondo me, è di essere sempre stato in anticipo sui tempi di almeno un decennio e ciò gli ha creato molti fastidi con la censura negli anni '50. La sua intelligenza al servizio del cinema denota appieno l'origine europea (viennese) e lo pone al medesimo livello di altri esuli quali Pabst, Lang ecc. anche se non è mai stato adeguatamente valutato dalla critica.In questo film si parla addirittura, in un aula di tribunale, di violenza carnale con strappo di mutandine e ricerca di tracce di liquido seminale !! Argomenti assolutamente tabù nel '59 , affrontati con un eleganza di linguaggio che caratterizza tra l'altro tutta la pellicola; più di due ore di colloqui affascinanti e ironici , una tensione continua  acuita da uno spendido bianco e nero che accentua i contrasti dei caratteri : l'imputato in divisa bianca, (falsamente)  angelico , il pubblico accusatore (un magnifico George Scott al suo primo impegno vero) sempre vestito di nero e implacabile.
La musica stupenda di Duke Ellington (che appare in un cameo) avvolge il tutto e sottolinea adeguatamente i punti più drammatici; e James Stewart giganteggia con la sua aria da uomo qualunque che qualunque non è mai.

La sapienza tecnica di Preminger fa scivolare quasi tre ore di film in un niente, aiutato dai caratteristi che si avvicendano alla pedana e capaci di tenere la scena per altrimenti lunghi e interminabili minuti, aiutati a loro volta da alcune sapienti sequenze di alleggerimento in cui si producono delle gag che inducono ad un riso nervoso ma sincero, liberatorio.
Sicché, gli elementi distonici prevalgono sulla macchina burocratica e consentono un discreto numero di agnizioni e riflessioni. prima tra tutte, quella riguardante l’imputato, il tenente Manion (un gelido Ben Gazzara), militare pluridecorato e reduce di Corea. La sua posizione processuale, reo confesso, lo costringe al silenzio urlato del suo bollente linguaggio del corpo. È accusato di omicidio di primo grado poiché la vittima è stata ammazzata a sangue freddo, ben dopo un fatto gravissimo, lo stupro della moglie del tenente, l’enigmatica Laura (Lee Remick). Biegler prova una strada processuale ambigua e si basa su un principio più pertinente la psicologia dinamica che un’aula di tribunale, la "dissociazione" che genera "impulsi irresistibili" che non consentono "la distinzione tra il bene e il male". Conviene aggiungere che questa via è ampiamente seguita ai giorni nostri, in ispecie per giustificare le peggio atrocità, a cominciare dagli infanticidi…

Bellissimo titolo, poi diventato proverbiale, di un crime-legal-movie del 1959. Filma Otto Preminger, in uno dei suoi risultati più alti, più disincantati, di uno scetticismo tutto europeo. Anche lui partecipe della grande emigrazione Vienna-Berlino-Hollywood, non dimentica le sue origini e le ambiguità del cinema di Weimar e quel clima culturale (aveva lavorato con Max Reihnardt) quando mette in scena questa storia di un delitto contorto e confuso, di un assassino che forse non lo è. Il marito di una donna violentata afferma di aver ucciso lo stupratore, si autoaccusa, parla di raptus, ma poi tutto si intorbida. Cos’è successo davvero? E qual è stato il ruolo di lei? James Stewart è l’avvocato incaricato dalla donna di difendere il marito. Dalle sue indagini e dal dibattito in aula si comporrà faticosamante parte del puzzle, ma la visione d’insieme sembra sfuggire. Film che forse risente della lezione ineludibile di Rashomon di Kurosawa, ma che si è affermato da sé come un classico. Magistrale. Lucido e asentimentale. Fu un successo travolgente, e a intrigare il grosso pubblico fu anche la franchezza nel parlare di stupro, di sesso e quant’altro. La scena in cui in tribunale James Stewart mostrava le mutandine di lei suscitò scandalo, ma creò anche intorno al film un’aura di seducente peccaminosità…

lunedì 28 gennaio 2019

La Donna Elettrica (Woman at War) - Benedikt Erlingsson

solo uno che ha studiato nella scuola Radio Elettra poteva pensare a un titolo così, in tutti gli altri paesi il titolo è Una donna in guerra, o qualcosa del genere.
nonostante il pessimo titolo italiano il film è davvero bello.
è un film politico ed etico, il mondo sta andando sempre peggio, Halla non gira la testa dall'altra parte e compie azioni di sabotaggio, e poi c'è una bella sorpresa, e un cugino davvero fraterno, e una musica che non è la solita colonna sonora, ma è dentro il film, un turista sudamericano in bicicletta sfortunatissmo e tante altre cose, serissime e con il poco conosciuto umorismo islandese.
un film da non perdere, per i miei gusti, poche copie al cinema, solo una decina, ma provate a cercarlo lo stesso, non ve ne pentirete - Ismaele




Erlingsson scrive e dirige una storia tutta al femminile, nella quale il fisico e l'intensità espressiva di Hallora Geirharðsdóttir sono protagoniste assolute, addirittura raddoppiate dall'espediente narrativo della gemella di Halla, interpretata dalla stessa attrice. Ma la questione femminile è anche interna al racconto, nel richiamo della maternità, nelle metafore del ventre della terra, nel patto che lega le due sorelle e anche nella solitudine dell'impegno della protagonista, che però arriva allo spettatore in forma divertente e sentimentale, tra cellulari nascosti nel freezer, cugini di campagna, automobili dai colori improbabili e accanimento delle istituzioni e del destino contro un povero turista sudamericano.
Piccola anticommedia della contemporaneità, imparagonabile alle punte cinematografiche di un Kaurismaki o di un Roy Andersson (per restare a Nord), La donna elettrica è in ogni caso una visione salutare e gradevolissima, che, sotto la confezione leggera, fa la sua dichiarazione al mondo attraverso il megafono del cinema, con modi garbati ed evitando di prendersi troppo sul serio, lasciando quel genere di serietà, drammatica e alla fine inutile, al vociare indistinto della televisione. In questa operazione, di sdrammatizzazione da un lato ed eleganza del tocco, dall'altro, ha un ruolo fondamentale il disegno sonoro del film, sofisticato ed elettrizzante, con la messa in scena ritmica ed umoristica del trio di musicisti.

La donna elettrica soffia così un po’ di spirito ribellistico, d’idealità utopica, di adrenalina della rivolta, come tanto cinema liberal anni settanta, in questa epoca di paure minimali tra spread e punti decimali del deficit. Giusto è così lasciare scritto ai posteri uno stralcio della rivendicazione di Halla dopo aver tirato giù cinque piloni dell’elettricità: “Chiedo a tutti di insorgere e utilizzare il loro ingegno per danneggiare queste imprese. L’unica cosa che questi psicopatici delle aziende multinazionali riescono a comprendere. È così che agiscono, minacciando e sabotando la natura e la società. Il sabotaggio contro la natura ha causato il riscaldamento globale. È un crimine contro l’umanità e contro la vita tutta. Siamo l’ultima generazione che può far cessare le guerre contro il nostro pianeta. I nostri figli e nipoti non potranno farlo. Dobbiamo muoverci ora. È la nostra missione”.

…Malgré sa grande propension à se débrouiller seule, elle est néanmoins assistée par un "éventuel" cousin, mais aussi involontairement aidée par un cyclotouriste sud-américain qui se trouve toujours au mauvais endroit, au mauvais moment. Ce personnage secondaire (déjà présent dans le premier film de Benedikt Erlingsson "Des chevaux et des hommes") est continuellement suspecté par les autorités d'être un migrant ou un terroriste. Malmené, il est au final toujours libéré accompagné d'un cynique « Welcome to Iceland! »
Un double discours qui montre bien toute l'ironie de la situation actuelle. Le changement climatique est déjà dangereusement engagé et les autorités mettent tout en œuvre pour neutraliser celles et ceux qui cherchent à enrayer le processus. Certes, Halla ne lésine pas sur les moyens mais la cause est noble et l'urgence bien réelle. Truculente comédie parfaitement orchestrée, "Woman at War" apporte ainsi sa pierre à l'édifice en distillant, telle la petite musique de trois musiciens désinvoltes qui vous suivraient partout, ce message simple mais essentiel : « Notre terre est précieuse, préservons-la ! »

le personnage féminin, hors-la-loi, d’emblée sympathique malgré ses prises de positions extrêmes, va se révéler être une mère plus que parfaite (elle a adopté un enfant qui vient bouleverser  ses plans terroristes) et surtout une héroïne façon Rambo qui va provoquer le gouvernement islandais et l’aciérie pour l’empêcher de signer des contrats avec la Chine.
Remarquablement écrit, mise en images avec un talent certain (il faut dire que les paysages islandais sont un personnage en soi), très bien interprété, KONA FER I STRIO (Woman at War) est un film drôle, satyrique, décalé tout en étant en phase parfaite avec son temps!

Sembra di esser perennemente catapultati in un quadro a tinte fredde, controbilanciato dal calore umano degli interpreti. Il regista si diverte a sconquassare l’animo dello spettatore, facendolo sussultare fra diverse emozioni: si passa dall’azione alla passione, dalla concretezza alla voluttuosità, dal serio al faceto, dal cinismo alla sensibilità.

Questo reiterato passaggio da uno status emozionale all’altro impone una scelta capillare di toni e registri scenici, si punta molto sul ritmo confidando nell’adesione del pubblico. L’Islanda diventa un ipotetico palcoscenico, dove Erlinggson condivide una visione del mondo: una particolare prospettiva di vita che non porta con sé la pretesa di essere capita, ma si concede alla vista dei più in maniera distinta.

venerdì 25 gennaio 2019

También la lluvia - Icíar Bollaín

Luis Tosar e Gael García Bernal sono i protagonisti del film, sono in Bolivia per girare un film sulla colonizzazione degli spagnoli. al tempo di Bartolomeo de las Casas.
già questo è materiale per un bel film, poi arriva la sorpresa, il film è girato a Cochabamba, nei giorni  della ribellione per l'acqua, e anche la troupe partecipa alle manifestazioni.
si era partiti per fare un film storico , ma l'attualità irrompe con decisione.
un gran bel film, per i miei gusti, Icíar Bollaín non sbaglia un colpo.
buona visione - Ismaele






Appassionante e drammatico, crudo e realistico, coraggioso e profondo: un film che inchioda alla sedia e toglie il fiato, incide e pervade l’animo, “tre film in uno” come ebbe a dire la regista di questa pellicola, candidata per una lunga serie di riconoscimenti internazionali, molti dei quali ottenuti, e meritatamente. É un continuo di appassionanti e ardite inquadrature tra l’uon e l’altro dei tre temi, lontani nel tempo ma vicini nell’argomento, di intrecci tra realtà e finzione che pur rimangono distinte e inconfondibili.
Il giovane ed entusiasta regista Sebastian, sostenuto dall’amico e produttore Costa, sta girando un film su Cristoforo Colombo e le sue scoperte e sulle denunce fatte già nel Cinquecento dai frati domenicani Bartolomeo de las Casas e Antonio de Montesinos a proposito dello sfruttamento disumano e crudele perpetrato a scapito degli indigeni. Luogo delle riprese è la Bolivia che, anche se non è proprio lo stesso che Haiti, ha però il vantaggio di permettere un budget bassissimo…
En suma, Bollaín por un lado nos parece decir que la narrativa colonial en la actualidad no permite que el ex-colonizador pueda manejar una imagen del ex colonizado. Ello debido a que esta narrativa colonial se fundamenta en un “neo-colonialismo”, que en el contexto de la Cochabamba contemporánea encuentra serios reparos. Esto implica que el ex colonizador no haya cambiado del todo y que ahora represente el capital extranjero global –que es Costa y también la multinacional responsable de la privatización del agua en la realidad. El “rebelde” ahora sí puede ganar; esa es la gran diferencia. Bollaín también nos dice que, aunque el colonizador no ha cambiado, no puede perder totalmente en términos simbólicos. Su imagen debe rescatarse de algún modo…

In his weighty portrayal of Costa, Mr. Tosar goes as far as he can to make the character’s change of heart believable, but he can’t accomplish the impossible. And as Anton, the cynical, hard-drinking actor playing Columbus, Karra Elejalde lends the film a welcome note of antic unpredictability.
Consciously or not, “Even the Rain” risks subverting its own good will. You can’t help but wonder to what degree its makers exploited the extras recruited to play 16th-century Indians. Inevitably “Even the Rain” is trapped inside its own hall of mirrors.

As the film opens, a cast and crew have arrived on location in the mountains of Bolivia, far from the Caribbean shores first founded by Columbus. Here, as the producer Costa (Luis Tosar) boasts, the local Indians can he hired as extras for $2 a day and count themselves lucky. They can also be used for manual labor, and Costa is happy to use them to haul a giant crucifix into position, saving the cost of tractor rental.
You may begin to glimpse some symbolism coming into view. The film will exploit the Indians just as Columbus did. The difference is that Columbus evoked Christianity as his excuse, while the modern film thinks it is denouncing him while committing the same sins. This is more clear to us than the characters, including Gael Garcia Bernal as Sebastian, the director, who has vague sympathies for his low-paid workers but places his film above everything…
También la lluvia
( También la lluvia )
Hacer cine es una guerra a la moral,
una contienda para atacar conciencias.
Hacer cine es una obligación cultural,
una responsabilidad con tus audiencias.
Hacer cine debería ser un ritual,
una lucha contra intransigencias.
Hacer cine es una ruta mortal,
su mensaje faculta todas las licencias.
Cine dentro del cine dentro del cine.
Esta película es como una muñeca rusa.
No hay noticia que no vaticine.
La verdad siempre es confusa.
El retrato de la cinematográfica labor
es realista, cruel y ajeno a profanos.
Puede generar por sus actos estupor,
pero el arte siempre manchó manos.
Luis Tosar desnuda un personaje humano,
tan complejo como insano.
El agua es vaporosa escusa a debate.
No hay nada en nuestras entrañas más esencial.
Cualquier razón puede llevar a empate.
Nada justifica ser más cruel que el animal.

mercoledì 23 gennaio 2019

Casa de los babys (House of the Babies) - John Sayles

nell'America centrale c'è un posticino dove le povere del luogo vendono o danno in adozione bambini e bambina a più o meno ricche nordamericane che non vedono l'ora, pagando, di tornare a casa con il bottino.
è un'industria redditizia, per tutti, ma non è tutto così semplice come potrebbe sembrare.
John Sayles dà uno sguardo a questo mondo, dove tutti hanno un nome, una storia e un ruolo, nella macchina fabbrica bambini.
forse non è il miglior film di John Sayles, ma è un film di John Sayles e tanto basta.
buona visione - Ismaele






…Sayles handles this material with gentle delicacy, as if aware that the issues are too fraught to be approached with simple messages. He shows both sides; the maid Asuncion gave up her baby and now imagines her happy life in El Norte, but we feel how much she misses her. The squeegee kids on the corner have been abandoned by their parents and might happily go home with one of these rich Americanas. Sayles sees like a documentarian, showing us the women, listening to their stories, inviting us to share their hopes and fears and speculate about their motives. There are no answers here, just the experiences of waiting for a few weeks in the Casa de los Babys.

Sayles’ intellectual sensibility and ability to keep the film from falling into a sandtrap of caricatures and political polemics as he explores the economic landscape make it all worthwhile, though it is still one of his minor films. It never sustained the passion throughout for what he was trying to spit out about the great economic divide and cultural differences between countries, except for a few scenes. The best scene is of the earnest hotel maid Asuncion (Vanessa Martinez) conversing with Eileen, the only one of the group who looked upon the workers as real people with feelings, as Eileen explains why she wants to adopt and the maid counters as to why she had to give up the child she had at 14. This was powerful drama. To add to that, Eileen can't fully translate what the maid told her, but they both understood the universal language of motherhood. Sayles was trying to point out without laying down pat answers, that people from other cultures and classes are not that different, it is mostly the luck of the draw that gives people more of an opportunity to succeed. The Americans regard the baby as a vital commodity in their way of life that they must have to keep up with the American Dream, while the South Americans have too many children (viewed as natural resources) and to support them is more of a hardship than a blessing. 
Even an uneven Sayles film is superior to most such Hollywood dramas. Though the ensemble cast all give strong performances, it is hard to dig deeper into the more internal issues that drive people to think they can be saved by having a baby and not by looking more closely at themselves. Without knowing more about the characters, it is hard to feel much passion for their plight. Nevertheless, this is an honest look at rich yanquis taking advantage of those in a Third World country, as they use their money to get what they want. Not many other filmmakers choose to go down this noncommercial road, and have enough nerve to leave off with an existential ending instead of a shocking payoff. Sayles' little joke might be that the baby the one racist member of the group gets to adopt, is the one with the brownest skin.
  
… Le americane farebbero qualsiasi cosa per avere un bambino, gli autoctoni sono divisi fra i problemi economici e le gravidanze indesiderate. Per le strade pittoresche, in cui i turisti si affollano in cerca di souvenir e prodotti locali, si aggirano ragazzini magri, sporchi, analfabeti, che per alleviare le sofferenze di una vita ingiusta sniffano vernice, che si sentono ricchi perché qualcuno gli regala un libro che non sanno neppure leggere. A nessuna delle donne viene in mente di adottarne uno, di salvare una vita da una condizione pietosa. Tutte vogliono un neonato, "nuovo", da istruire ed educare secondo le migliori tradizioni americane.
Il grido di denuncia di uno degli ultimi registi off della cinematografia americana, si staglia netto contro il falso moralismo di tutti quegli americani che imperterriti, convinti della loro buona fede, continuano ad alimentare un deprorevole traffico.
Nel cast troviamo una Daryl Hannah, sempre in splendida forma, alle prese con il personaggio più tormentato della vicenda e la "segretaria" Maggie Gyllenhaal, ricca e dolce sposina ormai decisamente lontana dal personaggio che l'ha resa famosa.
A metà strada fra la commedia e il dramma, il film non convince appieno e termina lasciando lo spettatore piuttosto perplesso e poco convinto che le scene passate sullo schermo siano state davvero soddisfacenti



lk ml.

lunedì 21 gennaio 2019

Una notte di 12 anni – Álvaro Brechner

José "Pepe" Mujica, Mauricio Rosencof e Eleuterio Fernández Huidobro furono imprigionati per dodici anni in celle singole, in isolamento totale, per distruggerli, per farli impazzire.
dire tortura è dire poco.
quando furono liberati diventarono scrittori, ministri, Pepe Mujica addirittura presidente della repubblica, ma tanti sono morti.
il film ha dei bravissimi attori (appare per pochi minuti anche Soledad Villamil) e ricorda a tutti quanto può essere cattivo l'essere umano, e come tre indifesi prigionieri resistono, senza cedere mai.

naturalmente il film è in pochissime sale, ma se vi capita a portata di mano non esitate, non vi deluderà, promesso - Ismaele



…È interessante che a distanza di pochi giorni arrivino nelle sale cinematografiche italiane due opere che ci ricordano ciò che accadde in due Paesi dell'America Latina nella seconda metà del secolo scorso. Si tratta del documentario Santiago, Italia di Nanni Moretti sul Cile e di questo film.
Entrambi, seppure con modalità narrative diverse, ci ricordano ciò che accade quando una brutale dittatura in nome di un preteso 'diritto' cancella qualsiasi forma di trattamento umano nei confronti dei detenuti. Seguiamo i 4323 giorni di detenzione di tre dei nove guerriglieri catturati ed assistiamo ad una scientifica quanto abietta strategia finalizzata non tanto ad ottenere informazioni (le quali con il trascorrere degli anni divengono sempre meno utili) quanto piuttosto per devastarne la psiche uccidendoli di fatto pur mantenendoli in vita…

…L’impianto drammaturgico è semplice, lineare, e la scrittura, a tratti, inciampa in un poeticismo un po’ melenso nel ricostruire una fase storica, dominata da un’autorità violenta e spietata, supportata da una burocrazia paradossale. Si mostra l’inferno dal quale Mujica proviene quasi sottintendendo una spiegazione del suo approccio politico futuro: la visione pragmatica della realtà delle cose, di ciò che va considerato davvero importante, di ciò che si può ritenere superfluo. Il respiro è volutamente popolare e retorico e lo stesso ricorso all'ironia si spiega col tentativo del film di proporsi, didascalicamente, come strumento didattico per raccontare a un pubblico, il più vasto possibile, la sofferenza nella quale si è forgiata una figura straordinaria.

…Partendo dal libro di memorie di Rosencof e Huidobro, il regista prova così a raccontare a suo modo una delle pagine più buie del paese. Lo fa mantenendo una invidiabile lucidità che gli consente di sostenere la narrazione con mano solida e ritmo calzante e senza mai cadere nella trappola della retorica.
Ciò che convince di più nel film infatti, è la capacità di raccontare nel dettaglio l’orrore della prigionia grazie a una sapiente introspezione dell’animo umano che evita inutili forzature. La chiave narrativa spinge così lo sguardo dello spettatore in una direzione cruda e spietata grazie alla sola forza delle immagini che cerca di restituire tutte le privazioni, i soprusi a cui erano sottoposti i prigionieri dentro a un clima di feroce, spasmodica tensione, ricorrendo alla potenza evocativa dei tempi morti che ben sottolineano ed evidenziano il disordine psicologico partorito dalla tortura.
La storia si basa su molteplici fattori e innumerevoli dettagli, ma quello che sicuramente sta più a cuore del regista, non è certo la voglia di produrre un asettico saggio di analisi storica anche critica. Prevale invece in lui il desiderio, la voglia di concentrarsi sulla lotta  per la dignità di tre individui e  celebrare così’ la resistenza caparbia dell’essere umano, la sua capacità non solo di sopravvivere, ma di riuscire a conservare (e persino arricchire rendendola più feconda)  la propria umanità anche nelle peggiori condizioni di sofferenza e umiliazione è questo è certamente un pregio, ma anche un piccolo problema sia pure secondario poiché il voler limitare  al minimo indispensabile la contestualizzazione socio-politica di quel particolare momento storico,  potrebbe  anche rendere allo spettatore  che non ha alcuna nozione di quegli avvenimenti (e ce ne potrebbero essere moltissimi al giorno d’oggi) il senso ultimo di una pellicola che è come un iceberg perché anche lei (come quello) ci fa scorgere solo la punta più alta che affiora sulla superficie, ma ci fa ben comprendere che sotto esiste una massa ancora più ingombrante tutta da scoprire per le molteplici implicazioni che si porta dietro…

Una notte di 12 anni è insomma un film di una semplicità disarmante: frutto di anni di lavoro e di conversazioni con i veri protagonisti della terrificante prigionia, il film restituisce, con la sua preziosa linearità, una precisione essenziale interrotta qua e là, appunto, da qualche “episodio”, ma strutturata su una scelta stilistica assolutamente chiara e netta. Così anche la liberazione arriva, preannunciata certo dal ritorno alla prigione di Stato da cui eravamo partiti, senza fragore e retorica. E proprio per questa scelta sobria, il racconto della detenzione del futuro Presidente e dei suoi compagni commuove senza ricatto, sciogliendosi catarticamente nell’abbraccio ai cari che segna il ritorno alla vita.
Con una semplice e vacua formula si potrebbe dire che Una notte con 12 anni è un film “importante”, che racconta la forza dell’umanità e la forza della ragione, in varie accezioni, che non si spegne neppure con 12 anni di buio. Ragione e “immaginazione”, come ha ripetuto più volte il regista, perché senza immaginazione si perde tutto, non si può ricordare, ridisegnare e concepire il senso, strutturare l’identità. Ma al di là di questo nobile intento, il film riesce soprattutto a essere un’operazione intelligente e mirata sull’interiorità, la più vasta e misteriosa delle risorse. Il sorriso, la statura morale e le parole di Mujica – simbolo di lotta meno celebre di Mandela, ma la cui parabola non è poi troppo differente – sono ancora qui a ricordarcelo.

Il regista fa anche un buon lavoro di sceneggiatura per far appassionare lo spettatore alle vicende di tre detenuti che, in isolamento per anni, non fanno altro che essere spostati di caserma in caserma. Ricrea l’alienazione di questi luoghi, la ripetitività e l’ossessività dei movimenti al loro interno, un tempo circolare dove difficilmente si distingue il giorno dalla notte, ma spezza abilmente la monotonia con incursioni frequenti nelle menti dei tre, nel loro ondeggiare tra follia e lucidità, nel lavorio incessante per creare spazi astratti di evasione con fantasie su persone care, o ricordi riproposti in chiave onirica, con giochi immaginari, o inventando nuovi codici di comunicazione in assenza di linguaggio…


sabato 19 gennaio 2019

Free State of Jones - Gary Ross

tratto da una storia vera, la ribellione di un gruppo di uomini (e donne) fino alla creazione di una contea libera da razzismo e altre schifezze.
la storia è coinvolgente, e poi di gran bei film con attori neri protagonisti ne stiamo vedendo tanti, spesso straordinari.
Matthew McConaughey è il bravissimo protagonista di Free State of Jones.
un film da non perdere, per i miei gusti - Ismaele



La scrittura di Free State Of Jones insomma non si allontana dalla consueta ruffianeria retorica che il cinema americano mette in campo quando vuole esibire un preciso intento sociale, quando sente il peso dello scopo didattico. Eppure nelle pieghe di questo film ci sono molte più concessioni alla “sperimentazione” (virgolette d’obbligo!) di quanto non sembri. Non è infatti la consueta centralità della star nell’economia del racconto, la divisione manichea o l’odiosa stereotipizzazione di qualsiasi “cattivo” a convincere davvero, quanto la maniera in cui la parabola di un bianco che decise di ribellarsi a chi opprimeva lui e altri cittadini di serie B o C (nel caso dei neri) sia una maniera di chiedersi cosa voglia dire fare una rivoluzione e cambiare le cose, per concludere che non somiglia a quel che il cinema di solito ci racconta.
I film mettono in scena il cambiamento come una serie di passi bene identificabili, una serie di storie puntuali in cui chi si comporta male viene punito, e chi ha un diritto che viene calpestato alla fine vede riconosciuto il proprio legittimo desiderio. Titoli di coda. In Free State Of Jones la battaglia non finisce mai. Ad ogni conquista segue un movimento contrario, ogni qualvolta si ha l’impressione che il film possa finire e i personaggi possano vivere sereni in realtà accade un nuovo sopruso: le conquiste non sono applicate, compare il Ku Klux Klan o un giudice connivente contravviene ad ogni precetto e Knight reimbraccia il fucile…

…Non è un film memorabile Free State of Jones, eppure prova a veicolare dei messaggi non banali (l’azione, la collettività, il vero nemico, la sacralità del lavoro), ricollegandosi in tono minore all’ultimo Tarantino, The Hateful Eight e Django Unchained. Non una riscrittura della Storia o una possente metafora tarantiniana, ma un onesto tassello da aggiungere a una rilettura critica della genesi degli Stati Uniti e, più in generale, del capitalismo. «La guerra dell’uomo ricco combattuta dall’uomo povero» è la trave portante del pensiero e delle azioni di Knight, il veicolo che permette di prendere le distanze dallo schiavismo, dal razzismo, da qualsiasi distinzione di classe. E che permette di unire le forze, e di moltiplicarle.
Sarebbe molto utile anche oggi.
Detto della cornice “contemporanea” smaccatamente didascalica, con dinamiche e personaggi che non hanno il tempo fisiologico per prendere corpo, Free State of Jones sembra restare sempre a metà strada, un po’ Radici e un po’ Glory – Uomini di gloria, ma senza le dimensioni da epopea storico/familiare della miniserie televisiva o l’impatto epico del lungometraggio di Edward Zwick.

Il qui valido e bravo regista Gary Ross, che ricordiamo più volentieri per gli esordi felici dei tempi di Pleasanville,  anni '90, che per il resto di una carriera un pò discontinua a base di blockbuster non particolarmente ispirati, ha il merito di immergerci in un campo di battaglia scagliandoci con devastante realismo tra gli orrori della battaglia, combattuta con fucili e baionette, polvere da sparo ed arma bianca, e che mette in campo vecchi e giovani alle prime armi, buttati tutti allo sbaraglio come un muro umano destinato a sacrificarsi per la stupidità e l'intransigenza di chi non vuole capire e rinuciare ai propri interessi e privilegi.
Il film risulta toccante ed appassionante, nonostante le oltre due ore e venti di narrazione, concitata e ben distribuita su due archi temporali che non si differenziano per perseveranza di principi discriminatori ed ingiustizia. 
E sa parlarci correttamente, e senza delirare, della brutalità e della stupidità della guerra, senza necessità di prendere posizione di parte (imparasse quello stolto incosciente di Mel Gibson, nell'ultima sua stolta, incontrollata e supponente regia - Hacksaw Ridge - a raccontarci gli orrori della guerra senza enfasi inutili e patriottica sdolcinata retorica!!) e senza crogiolarsi su tendenziosi facili sentimentalismi.

La natura americana di Newton Knight sta nella completa assenza di dubbio delle sue azioni, nella concezione di una sola prospettiva di fronte alla complessità dei processi storici: la prospettiva dell’uomo di fede e di giustizia. La particolare del film, invece, sta nella scelta di lasciare poco per volta in secondo piano gli aspetti drammatici del racconto per evidenziare invece la ricostruzione storica del periodo post-bellico – quando l’Unione delega agli uomini della Confederazione la gestione degli ex stati ribelli, di fatto ammettendo il ritorno della schiavitù per via legali e riconoscendo il potere dei vecchi latifondisti – e la creazione delle ingiustizie sociali e razziali che segnano tuttora la società americana. Le vicende personali di Newton e dei suoi uomini – in particolare dell’ex schiavo liberato Moses – perdono la loro dimensione puramente narrativa per diventare i tasselli di una storia minima eppure decisiva che dai campi di battaglia della guerra civile porta a un tribunale del Mississippi negli anni ’40, e ovviamente oltre.
La linea di sangue e la linea degli eventi coincidono, e insieme costruiscono passo dopo passo la vergogna e il riscatto di una nazione. Per una volta, l’azione del singolo non si riverbera nello spazio concluso della famiglia, nella relazione fra un padre, una madre e la loro discendenza, ma attraverso quella stessa discendenza si apre a un popolo intero: la guerra della contea di Jones è la guerra del povero contro il ricco, del bianco che sa stare a fianco del nero in nome di un principio maggiore, minando inconsapevolmente la stabilità di una nazione e permettendole così di sperare a ogni passaggio storico nella propria redenzione.

venerdì 18 gennaio 2019

Muerte en León – Justin Webster

un fatto di cronaca terribile, l'omicidio in pieno giorno di un politico donna, a León, in Spagna.
in una serie da quattro puntate, praticamente un documentario lungo, il regista analizza l'accaduto, in maniera coinvolgente.
merita davvero la visione, nessuno si annoierà - Ismaele



Los retratos que se dibujan en Muerte en León son terribles, extremos, alocados y rozando el sinsentido permanentemente. Y lo hacen de una manera muy inteligente, con testimonios cercanos a ambas partes y con retazos del juicio que se llevó a cabo para condenar tanto a ambas acusadas como una tercera, amiga de la hija, que descubrió el arma. Lo que envuelve a la historia es tan loco, que no son necesario más artificios. Únicamente con eso pasas permanentemente del escándalo al asombro.
Lo cierto es que el documental arroja luz sobre una serie de detalles que podrían hacer variar la versión de la sentencia, acerca del momento del crimen, de la posibilidad de colaboración necesaria de Raquel Gago, la tercera acusada que entró en comisaría como testigo y salió como encausada; sin embargo, van pasando por alto, superados por el seguido de situaciones que narra y que resultan surrealistas. Pero van haciendo poso en la memoria y mostrando cómo ese suceso elemental podría tener flecos que han decidido obviarse en la narración oficial…
da qui

mercoledì 16 gennaio 2019

A distanza ravvicinata (At Close Range) - James Foley

gli attori sono straordinari, in una storia a 100 all'ora, dove Christopher Walken e Sean Penn sono padre e figlio.
il primo è un delinquente di prim'ordine, il figlio è un bravo ragazzo, un po' ingenuo, che inizia a lavorare per il padre.
quando il gioco si fa duro Sean vuole mollare (intanto si è innamorato), ma la sfortuna e il destino sono in agguato.
un gran bel film,  che non ti dimentichi tanto in fretta, e non potrà non piacerti, promesso - Ismaele





Da sottolineare la prova assurdamente magnifica dei due protagonisti:un Walken totalmente fuori degli schemi con lo sguardo folle e con gesti ancora piu' folli e un Penn che nonostante la giovanissima eta' ci regala un interpretazione favolosa di una gioventu' bruciata che si riesce a redimere....

… Film drammatico ispirato ad un criminale realmente esistito. 
Ben scritto da Nicholas Kazan e con una regia non solo peculiare, ma creativa, ricca di espedienti visivi che creano molta suggestione, ha come protagonista un Sean Penn che già dimostrava di essere in gamba (seppure ancora immaturo), tanto da dare del filo da torcere a Christopher Walken. Nei panni del fratello del protagonista c'è il compianto Chris Penn, vero fratello di Sean. 
Interessante commistione di noir moderno e dramma, riesce a creare la giusta tensione e il giusto pathos nonostante la trama sia piuttosto prevedibile da un certo punto in poi. 
Molto piacevole anche la colonna sonora (che introduce ad esempio il personaggio di Brad e di Terry con una bella atmosfera) scritta da Patrick Leonard e che vede la collaborazione con Madonna - allora moglie di Penn - per la canzone Live to Tell
Un film particolare, dai toni un po' malinconici e caratterizzato da scene inaspettatamente crude. 
Da vedere assolutamente (meglio in lingua originale). Consigliatissimo.

Una piacevole sorpresa questo film di Foley, e non solo perché regala un' occasione più unica che rara di vedere entrambi i giovanissimi fratelli Penn all'opera, ma perché riesce dall'inizio alla fine a trasmettere il giusto ritmo ad un film cupo e crepuscolare, con vicende familiari che si incastrano alla perfezione in un gioco criminale dove tutti i legami di sangue vengono soppiantati dalla legge del più forte. Un film dove però a giganteggiare a mio parere è il padre Walken, cinico, amorale ed al tempo stesso estremamente affabile come si conviene ad un criminale di lungo corso. La fotografia eccellente del paesaggio rurale americano è la ciliegina sulla torta di un'ottima pellicola.

Una sceneggiatura dura e tagliente come una lama, crudele e angosciante come una moderna tragedia di Shakespeare, supportata da un cast di altissimo livello, guidato da due attori sublimi come Walken e Penn. Solo la regia di Foley risulta un po' troppo...formale, quasi distaccata, lasciando in effetti che siano la solidità delle parole e degli attori a far funzionare il meccanismo, privando il tutto di quel pizzico di "inventiva" che avrebbe permesso al film di diventare un capolavoro (magari con uno Scorsese dietro al timone...)
In ogni caso, la sceneggiatura è un autentico gioiello di attenzione alle psicologie dei personaggi e di equilibrio tra azione, sentimento e logica degli eventi. E poi, come già menzionato, il duetto dei protagonisti vale da solo il prezzo del film: per quanto è odioso e senza coscienza Walken (ma in un modo molto umano e non macchiettistico, che lo rende anche più terrificante), così è intenso ed emotivo il giovane Penn (forse il miglior attore ora in circolazione ad Hollywood): poco più che ventenne, ma già incredibilmente dotato.
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martedì 15 gennaio 2019

A ghost story - David Lowery

succede poco, in questo film.
protagonisti sono i fantasmi, proprio quelli con il lenzuolo bianco e due buchi all'altezza degli occhi; detto così sembra una scemenza, ma quei fantasmi sono così espressivi, e legati al mondo, alla casa.
fra loro si riconoscono, e i pochi dialoghi riescono a commuovere.
è proprio un film da non perdere, nessuno se ne pentirà, anzi... - Ismaele






A Ghost Story es mágica, hipnótica, terrible, amarga y realista, utiliza a su fantasma para golpearnos con dureza y  simplicidad, dejándonos sin aliento y totalmente aturdidos al terminar la proyección. Obra de culto instantánea.

La sintassi cinematografica di Lowery sabota la linearità, il fantasma è osservatore fuori dal tempo che fluisce senza ordine: ed è così che scopre il futuro ergersi su grattacieli di vetro e acciaio, illuminati al neon, cadendo nel vuoto fino ad atterrare nel passato. Senza in realtà muoversi di un passo. Perché bloccato lì dove ha sempre desiderato essere: a casa. Almeno finché il bigliettino di M, incapsulato come un messaggio in bottiglia lasciato vagare nell'eternità, non riemerga; scendendo a patti con la finitudine delle cose umane, l'epifania si concretizza nell'attesa, al fine di lasciare una piccola traccia di sé in un angolo di mondo, prima che l'universo ci dimentichi. Lowery ci e si ricorda che la Settima arte permette tale impresa.

a livello costruttivo, la narrazione è divisa perfettamente in tre parti da due immobili piani sequenza; il vagabondare del fantasma viene interrotto da questi momenti cruciali che rallentano ulteriormente il tempo inglobandolo in un'atmosfera ovattata: nel primo troviamo, accovacciata a terra, la moglie che ingoia forzatamente dei bocconi di torta al cioccolato cercando di reprimere quelle lacrime che non vedremo mai scendere sul suo volto. Successivamente, in quella casa ormai abbandonata da tempo dalla vedova, compare un personaggio decisamente inutile ai fini della storia ma il cui monologo (nuovamente un motivo per sospendere la narrazione nell'unica sequenza vivace del film) presenta degli spunti di riflessione non indifferenti: l'idea pessimistica di un universo che, prima o poi, è destinato a scomparire e quella di destino come disegno precostituito, sono i concetti attorno ai quali il film stesso si costruisce.

gran parte del fascino di A Ghost Story risiede in un ammaliante impianto estetico, nel quale lente panoramiche esplorative e tableaux vivants densi di stasi si alternano a un montaggio sincopato che ben illustra la relatività del tempo che passa inesorabile, il tutto corredato da un insolito formato 4:3 dai bordi arrotondati che comprime lo sguardo all’interno di un universo eminentemente visuale (il buon vecchio “cinema puro” hitchcockiano) dominato dal silenzio, un mondo fatto solo d’immagine nel quale la parola sembra non trovare posto. Una realtà altra dove è permesso anche a due ectoplasmi della porta accanto abbandonarsi a un muto eloquio esistenzialista al quale il pubblico può grottescamente presenziare attraverso i sottotitoli…

No es una película de fantasmas, es mucho más que la banal adaptación de la opinión de alguien: Es una reafirmación de la importancia del detalle y el tiempo cuando no lo aprovechamos, y pretendemos lograrlo cuando empezamos a formar parte del olvido natural. Pero la cinta contiene un guiño final que cierra con perfección el ciclo analizado. Algunos podrían considerarlo una buena idea para resolver la película. Yo creo que es un vistazo a las segundas oportunidades.

Como sugiere el relato de Virginia Woolf que citamos al inicio del texto (Lowery también hace en el filme), quizá solo puedan regresar como fantasmas aquellos que, al igual que el caracter de Affleck, conciban cada pedazo de memoria como un tesoro a conservar en lugar de un jalón con el que sellar el avance hacia un nuevo camino. Sea como sea, A Ghost Story tiene la capacidad de trasladar esta perspectiva del fantasma a cualquiera capaz de identificar en esta figura el anhelo existencial, y junto a él la desazón irremediable, por perseguir la permanencia todo lo que amamos. Lowery ha confesado que el germen del guión fue una de esas etapas vitales en las que uno siente que, ante la mortalidad de todo lo que nos rodea, nada importa. Desde una necesidad desesperada de asomarse a ese abismo para salir de él con alguna verdad se entiende la inmensa belleza que arranca una película tan necesitada de aferrarse a ella. El gran logro de A Ghost Story, la obra de un cineasta en efervescencia creativa, es la organicidad con la que el minimalismo de sus elementos internos hace brotar un maximalismo de discursos existenciales. 

… Con un inicio que descoloca, en parte a su formato 4:3, A Ghost Story se convierte en una experiencia única que atrapa al espectador quedándose fascinado e hipnótico ante la propuesta del director australiano. Un prodigio de dirección en la que cada plano, cada escena tiene un significado que vamos descubriendo según avanza la película y que nos deja con una sensibilidad a flor de piel, nada es baladí lo que nos narra y la ternura traspasa la pantalla. A Ghost Story es una pequeña historia en lo que lo sobrenatural se narra de una manera poética y filmada con una exquisitez que abruma. Puede asustar su sencillez, sus agobiantes espacios e incluso algunos planos y escenas que no parecen tener fin pero la magia que desborda el fin es suficiente para atraer al espectador a una sala de cine y comprender que estamos ante uno de los mejores filmes de este año.