lunedì 21 gennaio 2019

Una notte di 12 anni – Álvaro Brechner

José "Pepe" Mujica, Mauricio Rosencof e Eleuterio Fernández Huidobro furono imprigionati per dodici anni in celle singole, in isolamento totale, per distruggerli, per farli impazzire.
dire tortura è dire poco.
quando furono liberati diventarono scrittori, ministri, Pepe Mujica addirittura presidente della repubblica, ma tanti sono morti.
il film ha dei bravissimi attori (appare per pochi minuti anche Soledad Villamil) e ricorda a tutti quanto può essere cattivo l'essere umano, e come tre indifesi prigionieri resistono, senza cedere mai.

naturalmente il film è in pochissime sale, ma se vi capita a portata di mano non esitate, non vi deluderà, promesso - Ismaele



…È interessante che a distanza di pochi giorni arrivino nelle sale cinematografiche italiane due opere che ci ricordano ciò che accadde in due Paesi dell'America Latina nella seconda metà del secolo scorso. Si tratta del documentario Santiago, Italia di Nanni Moretti sul Cile e di questo film.
Entrambi, seppure con modalità narrative diverse, ci ricordano ciò che accade quando una brutale dittatura in nome di un preteso 'diritto' cancella qualsiasi forma di trattamento umano nei confronti dei detenuti. Seguiamo i 4323 giorni di detenzione di tre dei nove guerriglieri catturati ed assistiamo ad una scientifica quanto abietta strategia finalizzata non tanto ad ottenere informazioni (le quali con il trascorrere degli anni divengono sempre meno utili) quanto piuttosto per devastarne la psiche uccidendoli di fatto pur mantenendoli in vita…

…L’impianto drammaturgico è semplice, lineare, e la scrittura, a tratti, inciampa in un poeticismo un po’ melenso nel ricostruire una fase storica, dominata da un’autorità violenta e spietata, supportata da una burocrazia paradossale. Si mostra l’inferno dal quale Mujica proviene quasi sottintendendo una spiegazione del suo approccio politico futuro: la visione pragmatica della realtà delle cose, di ciò che va considerato davvero importante, di ciò che si può ritenere superfluo. Il respiro è volutamente popolare e retorico e lo stesso ricorso all'ironia si spiega col tentativo del film di proporsi, didascalicamente, come strumento didattico per raccontare a un pubblico, il più vasto possibile, la sofferenza nella quale si è forgiata una figura straordinaria.

…Partendo dal libro di memorie di Rosencof e Huidobro, il regista prova così a raccontare a suo modo una delle pagine più buie del paese. Lo fa mantenendo una invidiabile lucidità che gli consente di sostenere la narrazione con mano solida e ritmo calzante e senza mai cadere nella trappola della retorica.
Ciò che convince di più nel film infatti, è la capacità di raccontare nel dettaglio l’orrore della prigionia grazie a una sapiente introspezione dell’animo umano che evita inutili forzature. La chiave narrativa spinge così lo sguardo dello spettatore in una direzione cruda e spietata grazie alla sola forza delle immagini che cerca di restituire tutte le privazioni, i soprusi a cui erano sottoposti i prigionieri dentro a un clima di feroce, spasmodica tensione, ricorrendo alla potenza evocativa dei tempi morti che ben sottolineano ed evidenziano il disordine psicologico partorito dalla tortura.
La storia si basa su molteplici fattori e innumerevoli dettagli, ma quello che sicuramente sta più a cuore del regista, non è certo la voglia di produrre un asettico saggio di analisi storica anche critica. Prevale invece in lui il desiderio, la voglia di concentrarsi sulla lotta  per la dignità di tre individui e  celebrare così’ la resistenza caparbia dell’essere umano, la sua capacità non solo di sopravvivere, ma di riuscire a conservare (e persino arricchire rendendola più feconda)  la propria umanità anche nelle peggiori condizioni di sofferenza e umiliazione è questo è certamente un pregio, ma anche un piccolo problema sia pure secondario poiché il voler limitare  al minimo indispensabile la contestualizzazione socio-politica di quel particolare momento storico,  potrebbe  anche rendere allo spettatore  che non ha alcuna nozione di quegli avvenimenti (e ce ne potrebbero essere moltissimi al giorno d’oggi) il senso ultimo di una pellicola che è come un iceberg perché anche lei (come quello) ci fa scorgere solo la punta più alta che affiora sulla superficie, ma ci fa ben comprendere che sotto esiste una massa ancora più ingombrante tutta da scoprire per le molteplici implicazioni che si porta dietro…

Una notte di 12 anni è insomma un film di una semplicità disarmante: frutto di anni di lavoro e di conversazioni con i veri protagonisti della terrificante prigionia, il film restituisce, con la sua preziosa linearità, una precisione essenziale interrotta qua e là, appunto, da qualche “episodio”, ma strutturata su una scelta stilistica assolutamente chiara e netta. Così anche la liberazione arriva, preannunciata certo dal ritorno alla prigione di Stato da cui eravamo partiti, senza fragore e retorica. E proprio per questa scelta sobria, il racconto della detenzione del futuro Presidente e dei suoi compagni commuove senza ricatto, sciogliendosi catarticamente nell’abbraccio ai cari che segna il ritorno alla vita.
Con una semplice e vacua formula si potrebbe dire che Una notte con 12 anni è un film “importante”, che racconta la forza dell’umanità e la forza della ragione, in varie accezioni, che non si spegne neppure con 12 anni di buio. Ragione e “immaginazione”, come ha ripetuto più volte il regista, perché senza immaginazione si perde tutto, non si può ricordare, ridisegnare e concepire il senso, strutturare l’identità. Ma al di là di questo nobile intento, il film riesce soprattutto a essere un’operazione intelligente e mirata sull’interiorità, la più vasta e misteriosa delle risorse. Il sorriso, la statura morale e le parole di Mujica – simbolo di lotta meno celebre di Mandela, ma la cui parabola non è poi troppo differente – sono ancora qui a ricordarcelo.

Il regista fa anche un buon lavoro di sceneggiatura per far appassionare lo spettatore alle vicende di tre detenuti che, in isolamento per anni, non fanno altro che essere spostati di caserma in caserma. Ricrea l’alienazione di questi luoghi, la ripetitività e l’ossessività dei movimenti al loro interno, un tempo circolare dove difficilmente si distingue il giorno dalla notte, ma spezza abilmente la monotonia con incursioni frequenti nelle menti dei tre, nel loro ondeggiare tra follia e lucidità, nel lavorio incessante per creare spazi astratti di evasione con fantasie su persone care, o ricordi riproposti in chiave onirica, con giochi immaginari, o inventando nuovi codici di comunicazione in assenza di linguaggio…


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