sabato 29 giugno 2019

Oro verde – C'era una volta in Colombia (Pájaros de verano) - Ciro Guerra, Cristina Gallego

Ciro Guerra è il regista di quel capolavoro che è El abrazo de la serpiente, nel 2018 con Cristina Gallego ha girato un film che racconta di un popolo della Colombia e di cosa è stata la droga per quelle popolazioni.
l'avidità e la ricchezza senza fine (o il suo sogno) rendono l'essere umano una macchina da guerra, senza nessuna pietà verso nessuno.
non ci sono più rapporti umani, se non gli affari, all'inizio, e poi l'odio e la vendetta, senza fine.
il film inizia e finisce col canto di un pastore cieco, che racconta la storia.
una popolazione con regole antiche e vive viene (s)travolta dalla piena dei dollari versati da chi compra la droga per portarla al nord.
non perdetevelo, se vi capita, e cercatelo comunque, è un grande e terribile film - Ismaele

ps: se c'è qualcuno che viene turbato dalla violenza dei film di Tarantino, è meglio che lasci perdere Oro Verde, al confronto i film di Tarantino sono per ragazzine e ragazzini che frequentano i corsi di catechismo per la prima comunione.
e comunque tutto il sangue che si vede è cronaca, mai gratuito.







…seguendo la struttura di una tragedia sapientemente allestita in cinque atti ben distinti, Oro verde – C’era una volta in Colombia si delinea come una sorta di saga padrinesca in ambito etnico con piena filologia rispetto all’uso della lingua wayùu, dove niente può opporsi alla disfatta culturale davanti a modelli che s’impongono con la loro capacità di solleticare bassi istinti. Guerra e Gallego squadernano un’ammirevole sapienza di messinscena, che non disdegna sorprendenti uscite verso il conclamato cinema di genere (vi è posto pure per un “Mexican standout” di lunga tradizione, che di prima impressione ricorda le riletture tarantiniane) mantenendo però una salda e determinata significazione. Più volte interviene anche la gelida messincena di grottesche iperboli (quella bianca villa che d’improvviso si staglia, geometrica nel disegno, nell’incoerente paesaggio brullo; i pacchi di marijuana che si moltiplicano su scala esponenziale come i velivoli incaricati del loro trasporto), mentre i rappresentanti di un’antica cultura minoritaria vanno incontro a una bizzarra e stridente musealizzazione – la loro collocazione negli interni della villa. In ultima analisi, quel che viene scoperto dalla comunità wayùu protagonista è la sistematizzazione della violenza, che da garante implicito della stabilità di una cultura si tramuta in esplicito atto economico, del tutto sintonico a un nuovo modello di vita basato sulla prevaricazione prodotta in serie. E non è un caso se il salto decisivo verso la scoperta della gratuita umiliazione avvenga per via di uno sciroccato rappresentante della nuova generazione. Una volta innescato il tritacarne, la violenza genera violenza, la sete di potere fa scoprire il piacere distorto del dominio sugli altri. Di lì al suicidio eterodiretto di un’intera cultura non vi è che un passo.
Il discorso di Guerra e Gallego è insomma chiaro ed esplicito, e non lascia spazio a molte interpretazioni alternative. Tuttavia la coppia di autori evita il rischio del rigido film a tesi rifrangendo il racconto sulle strutture assolute della saga e della tragedia. Raccontando cioè una precisa tragedia storica, colta agli albori di un futuro e fiorente regno del narcotraffico, ma collocata nel panorama della tragedia universale dell’innocenza perduta. Avvincente, appassionante, potente. Si vede, e rimane la voglia di rivederlo subito. E non è poco.
da qui

 Les longues séquences de deal entre les deux clans familiaux, les premiers transferts de marchandise sur des ânes sont traités méticuleusement par le duo de cinéastes. Les discours parfois exaltés sur les règles à ne pas transgresser pour un Wayuu reviennent souvent, trop souvent. À trop faire allusion à l’oiseau de mauvais augure, Les Oiseaux de Passage sombre dans une lente description expliquant l’engrenage désastreux dans lequel s’est fourré Rapayet notamment. Son avidité lui fait perdre la boule. Entre vendetta ennuyeuse et coutumes ancestrales, le coeur de l’un des premiers boss des cartels balance. Derrières ses lunettes, chapeau vissé sur la tête, il voit l’argent le vampiriser et le prendre à la gorge. Sa folie des grandeurs le rattrape, l’isole de la réalité et de sa propre famille.
Une immersion parfois brouillonne, parfois sanglante, voire imprévisible. Le métrage fait l’élastique entre les bonnes séquences et les longueurs. Malgré les quelques fulgurances, Les Oiseaux de Passage est un récit souvent lancinant, souvent statique. L’histoire reste toutefois intéressante grâce à son sujet de base, grâce à sa réflexion sur ces peuples pauvres et rattrapés par le spectre de l’argent.

Porque Pájaros de verano es también (y sobre todo) una cronología de los orígenes del narcotráfico en Colombia, una genealogía de la violencia que ha marcado el país en el último medio siglo. Una cronología que no se apoya en un documentalismo de corte histórico o en una crónica periodística sino en el mito y la leyenda. La narración se organiza como un canto épico recitado por un cantor (un juglar, un bardo, un aedo según la tradición) que abre y cierra la película. Como un relato oral y popular que estructura la leyenda mediante una serie de capítulos (llamados cantares) que retrata varios momentos temporales entre 1968 y los años 80.

En el film se mezcla lo etnográfico con la tragedia personal y familiar. El relato mafioso se reviste con las tradiciones locales marcadas por un espiritualismo capaz de contactar con el más allá a través de los sueños o por la interpretación de los signos de la naturaleza, lo que provoca que aflore, en ocasiones, ese realismo mágico tan propio de la cultura y la realidad latinoamericana, una realidad violenta(da) fruto del contraste/choque cultural. Como cualquier relato sobre la mafia, Pájaros de verano, es también un relato sobre la familia, sobre sus leyes internas, sobre el papel de los Padrinos (en este caso una Madrina) y los consigliere (o palabrerosaquí), sobre la lealtad, el honor y la traición, sobre la ambición y la violencia desmedidas, sobre el asesinato y la venganza. En definitiva, sobre la destrucción de un ecosistema humano cuyas consecuencias llegan hasta nuestro presente en forma de metáfora representada por ese sonido de lluvia que sigue retumbando una vez finaliza el relato y los créditos finales desfilan sobre una pantalla en negro.



La puesta en escena y la fotografía son excepcionales, tanto como el desierto de Guajira y la Magdalena donde se grabó la cinta y que son base fundamental. La película es capaz de desplazar el cine de narcos a un territorio donde el trapicheo llega a convivir con los matrimonios pactados, las dotes y las danzas tradicionales. Uno de los aspectos que siempre se enmarcan en las películas de Ciro Guerra son los colores vivos y aquí se vuelve a representar de manera impecable.
La película no dejará indiferente a ningún espectador, tiene mucha violencia, momentos de venganza y nos muestra un modelo de gánster pocas veces visto. Muy recomendable.

Pájaros de Verano es una película que goza de su riqueza estética, narrativa y argumental, con esto quiero decir que es un filme que se nutre de todo para fortalecerse. Tiene una exploración detallada de un pasado que poco –o nada- se indaga en el cine actualmente, pero también tiene personalidad para no caer en lo documental enteramente, sabe cocerse a un ritmo lento, pero con la sustancia suficiente para moverse de un género a otro sin generar ningún tipo de ruido, es como si Pájaros de Verano supiera hacerte parte de su mundo de una forma silenciosa y tranquila a pesar de su premisa.

giovedì 27 giugno 2019

Demolition - Amare e Vivere - Jean-Marc Vallée

il film è un po' pazzo, tutto nasce da una lettera di reclamo verso l'impresa che gestisce i distributori automatici di bevande e snack in un ospedale dove è ricoverata la moglie.
l'impiegate che legge le lettere e gli risponde arriverà a conoscere Davis (Jake Gyllenhaal)  insieme i due si rifaranno una vita, meno ansiosa e arrivista di prima.
Davis taglia tutti i ponti con la vita precedente, in tutti i sensi.
un film dove appare Jake Gyllenhaal è sempre un bel film, almeno.
buona visione - Ismaele





Demolition – Amare e vivere vuole essere esattamente questo: la vicenda di un cinico uomo che si scopre incapace di provare dolore o sentimento alcuno per la perdita, ma che comunque sprofonda in una forma autodistruttiva di depressione. Jake Gyllenhaal è il lui di una coppia tutt’altro che perfetta, protagonista di un viaggio di riabilitazione confezionatogli su misura dal regista.
È una pellicola che paga la sua frenetica voglia di suscitare emozione, di spingere il pubblico alla lacrima. Creando un personaggio cinico, insolente e insensibile al dolore, però, Vallée ottiene fallisce nell’ottenere quell’empatia necessari da parte del pubblico e il tracciato scritto per il suo protagonista si rivela essere un percorso troppo didascalico.
Se vuoi risalire devi prima toccare il fondo e  se vuoi conoscere veramente come sono fatte le cose devi prima smontarle pezzo per pezzo: pare questo il messaggio che il regista voglia far passare; una demolizione fisica necessaria per la ricostruzione fisica degli ambienti e psico-fisica del protagonista che deve riscoprire il bello della vita. Già visto troppe volte.
Demolition è, insomma, un sincero inno alla vita, un grido alla speranza e alla felicità, uno slogan sicuramente positivo, lanciatoci però dal Gyllenhaal più antipatico degli ultimi anni.

…Azione dopo azione, il protagonista percorre la scoperta delle sensazioni. Il dolore si trasforma da godimento fisico a un movimento introspettivo che permette al personaggio di riconoscersi. Seguire questa ricerca ruba al pubblico parecchie lacrime, senza mai scadere nell’emotivo. Un ampio spazio è lasciato all’analisi dell’apatia e dell’autobugia di cui il protagonista è succube. Per raccontarlo vengono presi in considerazione tutti i livelli fisico-emotivi dell’essere umano, mettendo in scena anche quelli più ambigui che spesso la psiche cerca di eludere nella sua autonarrazione. La denigrazione personale in più ambiti porta David ad affrontare una battaglia complicata ma profonda che raggiunge picchi di imbarazzo molto intimi: viene dichiarato un piacevole masochismo messo in pratica per sentirsi vivi, per credersi “veri”, che non deraglia verso una vera psicosi, ma che può essere riconosciuto come un piccolo vizio piacevole. Grazie alla costruzione estremamente umanizzata, il protagonista non diventa mai vittima di se stesso, non provoca compassione e non permette nessun sentimento di pena. Il pubblico è portato a riconoscersi attraverso una delicata finezza narrativa.
Le immagini forti di una macchina da presa traballante finiscono per creare un quadro profondo in grado di narrare un ampio ventaglio di realtà. Non sono tanto le parole quanto l’accostamento di un sapiente montaggio a creare una narrazione efficace. Ciò che sarebbe potuto diventare un rovello intimista riesce, invece, ad inglobare una visione d’insieme realistica e profonda della psiche umana. L’elaborazione di Vallèe si trasforma in un’indagine affascinante di un piano ben più interessante: la coscienza e l’accettazione del dolore.

È sempre estremamente difficile inquadrare un'opera di Jean-Marc Vallée. Nulla si manifesta nei modi in cui ci aspettiamo si manifesti. Lo spostamento delle consuetudini del lutto si sposta oltre, devia, prende forme opposte, si espande e si trasforma in relazioni, picconate, assenze, reazioni e non reazioni. Vallée sposta continuamente il fuoco, spara ovunque tranne che guardando il mirino, consapevole che razionalizzare un evento secondo i codici dello spettatore è un'opera da falsario. Ci consegna quindi un film devastato, senza ritmo, non coerente, plastico, ironico e bastardo, un'opera umana e insensata proprio come lo è la vita, proprio come può essere un lutto, che è sempre comunque privo di una definizione, perché se ogni storia di amore è una storia di lutto e ogni storia di lutto è una storia di amore, ogni storia di lutto è una mancanza di storia, è un'assenza di definizione.

Ci piace perché mette sempre a tema il disagio che ci portiamo un po’ tutti dentro, quel non sentirsi mai a posto. Davis, interpretato da Gyllenhaal, è uno che cerca di elaborare il lutto a modo suo: prima reprimendo i sentimenti, poi cercando qualcuno con cui condividere i passi falsi. Troverà due persone scombinate peggio di lui che lo aiuteranno a mettersi in piedi.
Film strano, contraddittorio e senz’altro irrisolto. Meno riuscito dei film precedenti perché c’è troppa carne al fuoco e un personaggio (quello della Naomi Watts) lasciato a metà. Ma ad avercene di film che mettono a tema l’ansia dello stare al mondo, la ricerca della felicità e di un punto fermo.

martedì 25 giugno 2019

Jauja - Lisandro Alonso

siamo nella Patagonia argentina, in una delle tante guerre di conquista, nel periodo dell'accumulazione primaria, che sempre coincide con lo sfruttamento dei lavoratori e/o con lo sterminio delle popolazioni indigene, in mezzo a questi estremi sta la riduzione di popolazioni intere allo stato si schiavitù.
il capitano Dinesen, arrivato a combattere nell'esercito argentino, si è portato dietro la figlia quindicenne, che idea balzana, in un mondo di soldati assatanati di sesso.
si trova a far coesistere il ruolo di padre e quello di soldato e quando la figlia sparisce va a cercarla e fa degli strani incontri nella pampa e nei deserti.
siamo in un mondo magico e strano, ma se segui il cane scoprirai l'arcano.
Lisandro Alonso è sempre bravissimo, non perdere questo strano e piccolo grande film - Ismaele





in Jauja il cinema di Alonso sembra fare un passo in direzione della narrazione. La struttura del viaggio consente d’altronde una serie di stazioni per questa “passione” paterna sofferta e irredimibile. Il capitano Dinesen incontrerà dunque una serie di personaggi che, come in una progressione inesorabile verso il fantasmatico, diventano via via sempre meno realistici e possibili. Si parte infatti da un manipolo di soldati intenti a scavare una trincea, segue l’incontro con una delle vittime di Zuluaga, poi fa la sua comparsa un cane – animale desiderato dalla figlia del Capitano – poi il soldato che con lei è fuggito e infine una donna che forse è strega o forse incarna la figlia stessa, ma in una diversa dimensione temporale.
Splendidamente fotografato in digitale Jauja è inoltre denso di riferimenti cinematografici che vanno dal cinema di Jodorovski (Il topo, in particolare) ad Apocalypse Now (il disertore sanguinario Zuluaga è una sorta di Colonnello Kurtz), a Sentieri selvaggi (la ragazza da ritrovare) ad Aguirre furore di Dio di Werner Herzog (per via del “conquistatore” accompagnato dalla figlia). Ma il suo substrato è tutto filosofico e prettamente di stampo pre-socratico, Jauja mira infatti a riflettere, come ci rivelano le scarne sequenze di dialogo che contiene, sul funzionamento dell’universo – nelle sue singole parti così come nel suo insieme – sull’essenza dell’uomo (“Sei un uomo tu?” chiede l’anziana donna/figlia al Capitano), ma anche sulla paternità, sul funzionamento e il perpetuarsi della vita. Dunque la temporalità del film non può che essere dilatata, rarefatta, infine ripiegata su sé stessa come in un nastro di Moebius, perché un uomo “non è tutti gli uomini”, ma può sempre ritornare sulla terra, sotto le sembianze più varie e differenti, come sospinto da un’eterna risacca di stelle. E se dunque ad alcuni potrà sembrare che la metafora totalizzante di Jauja richieda troppo tempo e troppa attenzione, è perché questa è la dura legge che regolamenta l’epifania di tutte le cose belle.

En Jauja el desierto es un monstruo que ilustra no solo una aventura solitaria, sino también la esencia de una tierra mágica y surrealista. Al principio de la película, hay una placa explicativa del origen mítico de “Jauja” como un extraordinario territorio prospero en riquezas y abundancia, pero que era solo una leyenda porque nunca pudo corroborarse su existencia real. A través de esta introducción mitológica del título del film, ubicamos una historia en donde un paraíso terrenal es protagonista por sus propiedades mágicas de felicidad. El lugar es importante y hay que tenerlo en cuenta porque está instalado de forma equilibrada para explicar dos temáticas que he insinuado al principio: Fantasía y soledad.
El lugar vinculado a la fantasía tiene que ver con esa antigua tradición de la leyenda que marca la génesis de los relatos de la humanidad. En las sociedades “primitivas” se encontraron estos recursos narrativos para construir la imaginación de los pueblos que se pasaban las historias de boca en boca.
“Esas son habladurías del mundo. No se cómo se llegan a decir cosas tan demenciales”, le dice un soldado a otro mientras charlan a la luz de una fogata en la montaña. El rumor y la fascinación por transmitir estos relatos orales que no encontraban argumento comprobable se refleja en el diseño de un personaje misterioso llamado el “Coronel Zuluaga” del que se desconoce su paradero y muchos suponen que desertó del Ejército y ahora es un bandido salvaje vagando por el paisaje desértico. Este parece ser el conflicto central del film, pero se pierde entre la trama acomplejada por otra búsqueda más profunda en el mismo desierto.
Esta subtrama que se va tejiendo con el avance del capitán Gunnar por las llanuras inmensas tiene que ver con una reflexión sobre la soledad humana. Antes de la expedición por su hija, al principio de la película se visibiliza un hombre masturbándose, mientras está sumergido en un pozo de agua del desierto. Un acto solitario en un lugar solitario. Desde allí, todos los personajes que van apareciendo siguen marcados por la desolación de la tierra que los rodea. Pero no es solo el desierto, sino las secuelas de una devastadora guerra social que estaba fragmentando la nación, haciendo más oscuro al monstruo solitario de la gigantesca llanura. Cada uno de los soldados, son “hombres de guerra”: Perdidos y marcados por la soledad de un conflicto bélico genocida, como lo estaba el Coronel Aureliano Buendía en la reconocida novela de García Márquez…
Singular película del argentino Lisandro Alonso, coproducción de casi media docena de países, rodada con formato de pantalla 4:3, donde Viggo Mortensen tiene la oportunidad de demostrar que domina el danés además del inglés y el español. Se trata sobre todo de una película de atmósfera, en que se juega al contraste entre los personajes y sus vestidos del norte y el paisaje patagónico, y en que se pulsan sentimientos atávicos. Crece en intensidad en el tramo de la búsqueda, con el hermoso pasaje de la noche estrellada en el monte. El desenlace es de un completo desconcierto, y más de uno lo calificará, quizá no sin razón, de tomadura de pelo.

…Gunnar è presto perso in un deserto borgesiano che racchiude dentro di sè un’infinità universale labirintica priva di pareti. Come nel libro di sabbia di Borges anche Jauja perde qualsiasi chiave narrativa verso la fine del film, restituendoci una finzione cinematografica che lascia piena libertà allo spettatore di scegliere da quale fotogramma iniziare la propria visione. Molte scene sembrano infatti come essere già state girate, quasi fossero riprese interrotte o variazioni di un eterno ritorno. Un cinema quello di Alonso che impedisce qualsiasi interpretazione chiusa, un film incorniciato (anche nelle inquadrature che racchiudono le scene dando quel tocco di riflessione psicologica interiore) da un orizzonte mitico senza tempo. Disperso infatti nel deserto della Patagonia dopo aver percorso il labirinto della sua coscienza Gunner incontra una donna, figura piuttosto felliniana-Fellini/sogno, che da sempre trascorre la sua intera esistenza in una grotta insieme al suo cane. L’incontro con la sua psiche irrisolta raggiunge il punto più alto della poetica filosofica di Alonso. La donna infatti altri non è che sua figlia cresciuta, invecchiata che gli riconsegna la sua amata e perduta bussola e gli chiede di sua madre. Avrebbe sempre voluto sapere…

Jauja è in questo senso una sorta di paradosso estetico che tenta di riportare il cinema e, in generale la narratività, a un grado zero, a una struttura discorsiva primitiva che il cineasta desume da modelli come Apichatpong Weerasethakul, Andrej Tarkovskij, Robert Bresson e Tsai Ming-Liang (si dia un’occhiata, a tal proposito, alla lista dei film preferiti del regista argentino pubblicata sul sito ufficiale del British Film Institute: ).
E inoltre, ponendosi – tra le altre cose – come la storia di un padre alla ricerca della figlia nel mezzo di una terra dell’oro ostile e pronta ad essere colonizzata, Jauja sembra vagamente replicare, differenziandole e adattandole al sopraggiungere delle coeve dinamiche storiche, le strutture del fordiano Sentieri Selvaggi e in generale del western di cui il film è indiscussa immagine iconica. Il percorso lineare, classico, dotato di precisi criteri di separazione sociale e culturale di Sentieri Selvaggi, si trasforma qui in un groviglio indistricabile di apparenze, in una successione inesplicabile di forme dell’esistere, di spazi, di tempi. La frontiera di John Ford, intesa come divisione e separazione, viene ridefinita da Alonso e si trasforma in luogo ambiguo di convergenza e attraversamento, in soglia labile dominata dalla progressiva dispersione del limite più che dal valore escludente del limite stesso.
Jauja si configura, in questo senso, come un film che non pretende di offrire interpretazioni solide e si propone, al contrario, alla stregua di un affascinante esperimento che testa la possibilità stessa della molteplicità drammaturgica come modo di essere di un’opera. Un film che si disperde, annullando le coordinate narrative di riferimento, che confonde, rigettando il principio stesso della razionalità. Jauja concide con quella terra incantata e misteriosa che, in fin dei conti, non è altro che il cinema.

domenica 23 giugno 2019

Il Flauto Magico dell'Orchestra di Piazza Vittorio - Mario Tronco, Gianfranco Cabiddu

se non ne potete più delle parole vomitevoli di Salvini e dei suoi complici, se pensate che l'arte sia un milione volte superiore a qualsiasi tweet che vomita odio, se pensate che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, se ancora non sapete che solo a Ellis Island, per tacere del Sudamerica, nei 40 anni fra il 1880 e il 1920, sono sbarcate dalle navi migliaia di persone che insieme si chiamavano, Conte, Di Maio, Salvini e Mattarella,  se credete che lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge,
sappiate che questo film è per voi.
attori quasi tutti di altri continenti, componenti dell'Orchestra di piazza Vittorio, di quella città che un tempo era caput mundi.
la storia di Mozart è bellissima e anche questa volta non si smentisce, si ride e ci si commuove.
fatevi un regalo, guardatevi questo film (solo in una ventina di sale in tutta Italia, purtroppo) - Ismaele





Una natura teatrale che il film non nasconde, anzi cavalca, impiegando gli stessi performer dell'Orchestra come attori - accanto ad altri professionisti, come Petra Magoni nei panni di una regina dark lady o Fabrizio Bentivoglio, Sarastro e co-autore del progetto - giocando con l'unità spaziale - Piazza Vittorio è la location sia del regno di Sarastro che di quello della Regina della Notte - e mantenendo una messa in scena costantemente sopra le righe, esagerata, a cavallo tra favola urbana e musical onirico.
Un ibrido che inevitabilmente si consegna, al cinema, a un pubblico meno popolare e più di nicchia di quello teatrale, ma che proprio per la sua natura visionaria e pionieristica offre almeno due spunti che meritano attenzione. Perché con la sua eccellente partitura musicale, fatta di intelligenti e spassosi riadattamenti mozartiani in chiave jazz, balcanica, reggae o brasiliana, intrecci ritmici africani e orientali e musiche originali di Leandro Piccioni, Il Flauto Magico dell'Orchestra di Piazza Vittorio spezza (un'altra) lancia in favore di un genere, il musical, che il nostro paese sta lentamente riscoprendo. E perché grazie all'eterogeneità di volti e corpi dei suoi performer, provenienti da dieci paesi diversi nel mondo, e alla varietà linguistica dei testi, in otto lingue, è un film che apre Roma, e il cinema italiano, al mondo.
Regalando una sensazione incredibile di novità e freschezza, come se si fosse aperta per la prima volta una finestra in una stanza rimasta chiusa troppo a lungo.

Wolfgang Amadeus Mozart’s The Magic Flute is re-adapted in a feast of world-music influences by the multi-ethnic Piazza Vittorio Orchestra. Prince Tamino’s quest to set his love, the beautiful Tamina, free from the charms of the maleficent wizard Sarastro is sung and performed through sounds coming from Africa, Asia and South America in a magnificent mix of fascinating imagery and immortal music.

Mario Tronco e Gianfranco Cabiddu raccontano…

Questo film nasce per essere una favola musicale, sognata da un’intera piazza, di una grande città europea di oggi. Piazza Vittorio nel centro di Roma, con i suoi giardini e palazzi frequentati quotidianamente da un’umanità variegata che ne fa il centro del quartiere più multietnico della città è anche il luogo che ha visto nascere l’orchestra omonima. I suoi musicisti, che recitano nel film hanno trasformato l’opera di Mozart in una travolgente interpretazione multilingue. Nel nostro film la Piazza, dopo l’orario di chiusura, dal tramonto fino all’alba del giorno seguente, diventa il luogo dove tutto può accadere e dove tutto effettivamente accade, come in una favola“.
 In questi nostri tempi caratterizzati da un fenomeno migratorio che è quasi un’emergenza, che interessa tutta l’Europa, il messaggio di integrazione, convivenza e scambio necessario trova nella nostra favola una sintesi chiara e immediata, che rende evidente il reciproco arricchimento umano e artistico di cui sono portatrici culture e tradizioni diverse, che sono capaci, nell’incontro, di integrarsi attraverso lo scambio sia musicale che umano. Con una compagnia multietnica di questo genere, confortati da un “punto di partenza” universale e popolare come la musica di Mozart, abbiamo intrapreso questo viaggio cinematografico con la certezza che lo splendore della musica e della poesia veicoli al meglio un messaggio oggi più che mai necessario e universale”.














sabato 22 giugno 2019

La cara oculta - Andrés Baiz

un nazista, un nascondiglio impenetrabile, un tombeur de femme, un cane, la gelosia, fra le altre cose, mescola tutto con forza ed esce questo film, meglio di come si dice in giro.
qualche colpo di scena rende il film meritevole di essere visto, promesso - Ismaele





La verità nascosta è un film a tratti abbastanza sorprendente. Se la prima parte sembra preludere alla boiata dell’anno, la seconda metà si riscatta eccome.
Si inizia con lui lasciato da lei, i fumi dell’alcol, l’immediato rimpiazzo e via così mentre cresce la sensazione di aver buttato il proprio tempo: dialoghi assurdi, banalità una dietro l’altra e questi rumori domestici che la nuova ragazza avverte ma che lo spettatore vive con un certo distacco. Ma abbiate pazienza. Per la cronaca, ma non tanto, la ragazza precedente dopo averlo lasciato sparisce nel nulla.

Giocando con i vari punti di vista, ottenendo un incastro sufficientemente efficace, Baiz riesce a sopperire a una sceneggiatura difettosa, allungata da uno schema a ripetizione che tenta, non riuscendoci fino in fondo, di costruire un triangolo amoroso basato sulla possessività tormentata dell’uomo-trofeo. Sebbene si respiri, per brevi tratti del film, una sensazione di presenza estranea, di spirito disturbatore, questa vaga percezione non riesce a piegare la pellicola alle regole di genere ghost; si avvicina molto, ma non vuole prendervi parte del tutto. Scarsamente intenso e inquietante, La verità nascosta cerca troppa commistione di generi (horror, sentimentale, drammatico), non facendone proprio nessuno, confermandosi una pellicola incompiuta e di difficile collocazione cinematografica. Spremendo a fondo una trama troppo spesso utilizzata e già vista, il film di Baiz si perde definitivamente in una conclusione sbrigativa, che lascia decisamente con l’amaro in bocca.
Nonostante tutto, trascinandosi per novanta minuti, La verità nascosta sfoggia due protagoniste femminili (Martina Garcia e Clara Lago) che spiccano all’interno della storia, non tanto per la loro prova recitativa, che si compone principalmente di sguardi vacui e disperati a favore di camera, quanto per la loro bellezza. Magra consolazione per Baiz.

Pochi secondi necessari per riconoscere in Baiz il frutto di qualche più o meno prestigiosa film academy, dalla quale si trascina dietro piccoli vezzi stilistici, movimenti di camera manieristici, tic di quello stile medio internazionale che impregna le tante giovani produzioni che rinunciano al piacere di raccontare il mondo per mostrare l'ennesima variante di una storia già frusta. La vulgata vuole che i brutti film siano privi di quelle densità simbolica, linguistica ed estetica che filtrano lo sguardo, risultando per tale privazione più espliciti nell'essere loro malgrado specchio del proprio tempo: ingenuità del luogo comune. Il tempo di La cara oculta è prigioniero di un bunker segreto e l'ossigeno scarseggia.

« Inside » est indéniablement un brillant thriller hispano-colombien, support d'un suspense haletant, dû à une montée en puissance de la tension parfaitement calculée. Allant crescendo dans l'oppression, les manifestations étranges dans la maison (coupures de courant, vibrations dans l'eau du lavabo ou de la douche, eau qui devient bouillante d'un seul coup...) se doublent d'une présence grandissante de la police, avec un inspecteur soupçonneux et son acolyte silencieux, cure-dent à la bouche. Le film navigue ainsi dans sa première partie entre film de fantômes et enquête policière juste esquissée, mais assez efficace pour nous guider vers diverses pistes.
La seconde partie du film, long flash-back sur les moments heureux entre Adrian et sa fiancée, décrit notamment l'installation dans la maison. Elle ne fait que renforcer les doutes concernant la disparition de la fiancée, décrivant les soupçons d'adultère que celle-ci développe. Et elle renforce aussi le sentiment que cette maison, occupée dans le passé par une famille d'immigrés allemands, cache certainement quelque chose... Une fois le retournement de situation passé, l'entrée dans une troisième partie se fait alors avec un changement de style adéquat, sans pour autant relâcher la pression sur un spectateur malmené.
Le suspense est alors à son comble, même s'il change de nature. Une lutte s'engage, déployant des trésors de perversité, car il s'agit dans le fond ici de récupérer ou conserver sa vie... « Inside », thriller captivant, montre ainsi la complexité des sentiments amoureux, mais aussi une certaine logique de la femme impliquée ou jalouse qui peut, selon la situation, faire beaucoup de dégâts. Et le film nous emmène épuisés vers un final éblouissant, à vous glacer le sang...

Borghi vicino al Cinema America: "questi non sono fascisti, sono parassiti"



da qui

venerdì 21 giugno 2019

La fórmula secreta - Rubén Gámez

scritto da Juan Rulfo, che ha scritto la poesia che dà il titolo al film.
è cinema sperimentale, impossibile vederlo al cinema.
racconta di un popolo colonizzato dal vicino todopoderoso.
immagini che non si dimenticano facilmente.
un film da recuperare - Ismaele




Secret Formula,
Provocative and surreal Mexican 45 minute movie. Animals are slaughtered graphically or lassoed, only for the animals to turn into humans, while apathetic lovers make out in the background. An endless string of fast-food sausages slides through the city over all industrial and city life, budding child priests fake the crucifixion then bash older priests off their climbing frame, a dead man is carried on bags of flour, some poetic existential whining serves as narration, etc. I'm not sure what it all means but it delivers somewhat interesting provocations nevertheless.

…Vaya, los romanos católicos apostólicos no tienen ninguna oportunidad contra la fórmula secreta aquí expuesta y posiblemente esté ya excomulgada. El vistazo en todo caso no sería reconfortante y requiere algo de capacidad de asombro. Aunque algún surrealista estaría feliz de inscribirla a su género, el film de Gámez es realmente un poema construido con lenguaje cinematográfico y logra con creces un discurso paradójico: por un lado es un retrato etnográficamente fiel que tranversa el México capitalino con el provincialismo rural y por el otro es una manifestación algo tipo de protesta sobre la psique cultural la cual es atemporal del todo. Dicho de otra manera: el México de principios de los años sesenta como poema cinematográfico, lo que es mucho más honesto y veraz en su subjetividad que cualquier documental etnográfico “objetivo”.

Média metragem experimental que já a partir de sua bravíssima originalidade dos planos iniciais, filmados na monumental praça da Cidade do México, antecipa o festival de idiossincrasias visuais, assentando-se principalmente em eixos próximos da psicanálise e rebatendo forte influência do surrealismo presente nos primeiros filmes deBuñuel, que encerrava sua carreira mexicana por esse momento, ao mesmo tempo antecipando elementos de filmografias de igual apelo experimental, como o cinema marginal brasileiro. Como em Buñuel, elementos que ligam a repressão sexual e religiosidade assomam em diversos momentos do filme, assim como perversões dos mais diversos tipos e imagens como a de um boi sendo sacrificado ou um homem sendo arrastado, após ter sido laçado por um vaqueiro encontram-se dentre as mais notáveis, por mais que o excesso de experimentações também pague o seu preço.



La fórmula secreta (poesia di Juan Rulfo)

I
Ustedes dirán que es pura necedad la mía,
que es un desatino lamentarse de la suerte,
y cuantimás de esta tierra pasmada
donde nos olvidó el destino

La verdad es que cuesta trabajo
aclimatarse al hambre

Y aunque digan que el hambre
repartida entre muchos
toca a menos,
lo único cierto es que aquí
todos
estamos a medio morir
y no tenemos ni siquiera
dónde caernos muertos

Según parece
ya nos viene de a derecho la de malas.
Nada de que hay que echarle nudo ciego
a este asunto.
Nada de eso.
Desde que el mundo es mundo
hemos andado con el ombligo pegado al espinazo
y agarrándonos del viento con las uñas.

Se nos regatea hasta la sombra
y a pesar de todo
así seguimos:
medio aturdidos por el maldecido sol
que nos cunde a diario a despedazos,
siempre con la misma jeringa,
como si quisiera revivir más el rescoldo.
Aunque bien sabemos
que ni ardiendo en brasas
se nos prenderá la suerte.

Pero somos porfiados.
Tal vez esto tenga compostura.

El mundo está inundado de gente como nosotros,
de mucha gente como nosotros.
Y alguien tiene que oírnos,
alguien y algunos más,
aunque les revienten o reboten
nuestros gritos.

No es que seamos alzados,
ni le estamos pidiendo limosnas a la luna.
Ni está en nuestro camino buscar de prisa la covacha
o arrancar pa’l monte
cada que nos cuchilean los perros.

Alguien tendrá que oírnos

Cuando dejemos de gruñir como avispas en
enjambre,
o nos volvamos cola de remolino,
o cuando terminemos por escurrirnos sobre
la tierra
como un relámpago de muertos,
entonces
tal vez
nos llegue a todos
el remedio.

II

Cola de relámpago,
remolino de muertos.
Con el vuelo que llevan,
poco les durará el esfuerzo.
Tal vez acaben deshechos en espuma
o se los trague este aire lleno de cenizas.
Y hasta pueden perderse
yendo a tientas
entre la revuelta obscuridad.

Al fin al cabo ya son puro escombro.

El alma se la han de haber partido a golpes
de tanto potreones a la vida.
Puede que se acalambren entre las hebras
heladas de la noche,
o el miedo los liquide
borrándoles hasta el resuello.

San Mateo amaneció desde ayer
con la cara ensombrecida.
                                   Ruega por nosotros.

Ánimas benditas del purgatorio.
                                   Ruega por nosotros.

Tan alta que está la noche y ni con qué velarlos.
                                   Ruega por nosotros.

Santo Dios, Santo Inmortal.
                                   Ruega por nosotros.

Ya están todos medio pachiches de tanto que el sol
les ha sorbido el jugo.
                                   Ruega por nosotros.

Santo san Antoñito.
                                   Ruega por nosotros.

Atajo de malvados, punta de holgazanes.
                                   Ruega por nosotros.

Sarta de bribones, retahíla de vagos.
                                   Ruega por nosotros.

Cáfila de bandidos.
                                   Ruega por nosotros.

Al menos éstos ya no vivirán calados por el hambre.