domenica 9 giugno 2019

Pity - Babis Makridis

Giannis, un avvocato, marito e padre abbastanza noioso, e figlio di un padre che non l'ha fatto crescere come si deve, e infatti pende sempre dalle labbra del padre, insomma, un uomo senza qualità, sembra.
aspetta la morte della moglie e intanto si piange addosso e fa di tutto per essere compatito, lo richiede, lo pretende.
farà delle cose inspiegabili, a prima vista, e poi farà anche di peggio.
gran film, per i miei gusti - Ismaele







L’attore è Makis Papadimitriou, che rappresenta benissimo il momento che un avvocato sta vivendo, con la moglie in coma all’ospedale e che approfitta e si compiace della compassione altrui: della segretaria che lo abbraccia quando lascia lo studio per impegni esterni, della vicina di casa che in quei giorni gli prepara delle torte appetitose, dell’amico con cui frequenta palestra e spiaggia, dell’addetto della lavanderia o del negoziante da cui compra un vestito nero per il probabile funerale…

Il cinema greco continua a regalare pellicole uniche ed ibride, a metà strada tra il dramma a tinte forte ed il grottesco più strampalato non privo però di significati abilmente nascosti, senza mai avvicinarsi completamente a nessuno di questi due generi. Se il maestro indiscusso degli anni 2000 del cinema ellenico ‘nonsense’ è Lanthimos, Babis Makridis dimostra di esserne un ottimo allievo, grazie ad una seconda opera che sembra seguire pienamente le linee guida di altre pellicole greche bizzarre/disturbanti, sulla scia anche della crisi economica che ha attraversato la penisola negli ultimi anni, come SUNTAN, LUTON, MISS VIOLENCE e tantissimi altri, più o meno noti.
Se la prima parte, pur non indicandoci su quali binari si stia dirigendo la storia, appare statica, incomprensibile ma destinata a raccontare un dramma familiare, successivamente, quando finalmente inizieremo ad intuirne il senso, non ci resta che rimanere affascinati dell’involuzione del protagonista, per poi restare a lui aggrappati per scoprire fino a dove si spingerà per saziare la sua fame di vittimismo e disperazione…

Oiktos / Pity è un’opera intensa e disturbante, che muovendosi con maestria negli schemi della commedia, del dramma e del thriller, porta nello spettatore uno stato di costante inquietudine e suspense sempre più esasperante. La macchina cinemafunziona perfettamente, grazie ad uno script esaustivo ed efficace dà vita ad una storia dove il calore del nido domestico diventa apice di violenza e perversione, in un discorso filmico che pone le basi per una nuova interpretazione del Dolore.

La tristezza, il dolore, il lutto, sono sentimenti estremamente complessi, che in linea generale (e teorica) hanno in comune un variabile grado di sofferenza ma concretamente assumono contorni differenti a seconda delle persone in cui si manifestano. Pity è un film che si concentra su una particolare modalità in cui è vissuta la condizione del dolore, presentandosi come un'opera dalla storia inizialmente molto drammatica ma dal registro grottesco e capace di mettere alla berlina alcune contraddizioni umane con eccezionale acutezza.
Il protagonista del film è Giannis, un avvocato di successo la cui vita è sconvolta dalla tragica condizione della moglie, la quale è in coma da diverso tempo. La famiglia è completata da un figlio adolescente, che condivide con il padre una serie di appuntamenti rituali che vorrebbero onorare l'assenza della madre, ma che nella loro ostentazione risultano soprattutto forme di patetico autoconvincimento vittimista. Il film conosce un brusco turning point nel momento in cui la moglie del protagonista si risveglia dal coma, rompendo un equilibrio fondato proprio sul dolore e sulla condiscendenza da parte degli altri...

Tanto per cominciare, forma e contenuto dialogano alla perfezione. Segnatamente, la messa in scena è di altera eleganza, con interni geometrici, particolarmente attenti ad arredi e quadri, ed esterni che vivono dell’abissale contrasto tra il tenore di quanto descritto e l’abbacinante luce fluita dal connubio tra il mare e una stagione solare.
Nonostante questi pregi, la portata principale giunge dalla genialità del guizzo narrativo, che vede il protagonista disposto a qualsiasi contromisura per non perdere la sua dose di compassione quotidiana. Un taglio imposto dalla sceneggiatura quanto mai originale, un ingranaggio psicologico che scalfisce un pezzo per volta la razionalità, costruendosi nella prima metà del film per poi ruotare di 360° e infilare una sequela di passaggi che incrementano esponenzialmente la crudeltà e la scortesia, arrivando a livelli inauditi.
In più, tutto ciò avviene controllando minuziosamente la spaziatura, in una scansione di lacrime e glacialità nera come la pece accompagnate da didascalie di pregiato compendio, che si lascia scappare un paio di sbavature – per di più sostanzialmente evitabili - quando ormai il successo è già agguantato.
Già, perché Pity è una di quelle opere che non passa nell’indifferenza (mal che vada, può creare una repulsione totale), arricchita anche dall’espressività dei volti degli interpreti e dalla sua ostinazione nell’allontanare la luce che parrebbe comparire in fondo al tunnel.
Uno schiaffo alla morale e alle consuetudini, di devastante bellezza.

La mano registica di Makridis (che co-firma anche la storia) non delude, e se vediamo confermato il talento già emerso in L, non possiamo che notare anche una crescita stilistica e formale. Il linguaggio rimane coerente con quello tipico di un certo cinema ellenico (così come la fotografia, che pur segnando l’esordio al lungometraggio di Kostantinos Koukoulios ricorda molto da vicino il lavoro di Thimios Bakatakis), ma il piglio ironico e qualche soluzione intelligentissimamente ruffiana (come quella della scena appena prima dei titoli di coda) suggeriscono che Makridis sia pronto a fare il grande salto.
Senza nulla togliere a Makridis non possiamo però non tornare a parlare ancora una volta della sceneggiatura, e considerare che Filippou, vero responsabile della teatralità meccanica e fredda che tanto ha condizionato le recenti pagine di un cinema greco sempre più straniante, con Pity firma il suo lavoro più personale. Nel proporre una riflessione sulle emozioni reali e su quelle simulate, sulla funzione di queste come collante sociale e sulle conseguenze dell’incapacità di ‘sentire’ qualcosa, l’autore ateniese sembra parlare del suo stesso approccio alla narrazione, riproponendo tematiche a lui care e cristallizzandole in un concetto più ampio e assoluto; una sorta di comune denominatore della sua filmografia…

Meno conosciuto di Yorgos Lanthimos, ma altrettanto velenoso e provocatore, Babis Makridis cavalca quest'onda e un immaginario surreale che destabilizza. Il filtro impiegato dal regista è quello dell'assurdo. Di un umorismo irresistibile, prima di suscitare una tristezza inconsolabile, Pitymuove da un'idea di partenza originale e intrigante che rimane miracolosamente coerente fino alla fine. L'impresa non è facile per lo spettatore ma se ci si lascia andare all'esperienza il film mantiene le premesse dispiegando un immaginario più grande che altrove, uno sguardo inquieto sull'umanità. La ricerca di (in)felicità del protagonista, everymandipendente dalla pietà del titolo, è presa seriamente, fino alla follia e alla morte (arrecata).
La sua vita si consuma come in una tragedia greca, dove gli umani diventano animali, si cavano gli occhi per vedere meglio o praticano l'omicidio sacrificale per scaricare una violenza altrimenti distruttrice di qualsiasi consorzio umano. L'esercizio di deformazione del quotidiano costituisce l'anima di una commedia nera sotto un cielo blu e davanti a un mare brillante. Pity esplora con attitudine solare un racconto oscuro e un personaggio mediocre il cui ego risplende quando è al centro della compassione.

Il problema è che però, nel momento in cui la moglie del protagonista si risveglia dal coma, il film o sembra appena iniziato o sembra appena sul punto di finire; e invece siamo a circa metà della sua durata. Se, effettivamente, come dice di voler fare, il Nostro eroe vuole orchestrare un piano per tornare a essere compatito, che lo faccia però e che non continui a ripeterlo allo spettatore senza mai decidere quale debba essere il suo agire.
Va a finire così che Pity, partito come possibile parabola di tutta una tendenza del cinema greco, finisce per aderire completamente al contesto in cui è nato, con un protagonista negativo e sgradevole, ma soprattutto con un’idea di film che resta tale e che ha più il tono di una crudele barzelletta che quello di una riflessione filosofica sulle tendenze masochiste dell’essere umano…

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