martedì 30 maggio 2017

Ritratto di Famiglia con Tempesta – Hirokazu Koreeda

ancora una storia di Koreeda, nella quale non succede niente, pare, ma succede tutto.
Ryota è un figlio che rapina un po' a casa della madre, un marito fallito, un drogato delle scommesse, e per sua fortuna anche un padre, che non può deludere il figlio.
Ryota è come un sughero nella tempesta, poche certezze, un passato dietro le spalle e un avvenire che non si sa come arriverà.
non è il miglior film di Koreeda, secondo me, ma solo perché molti degli altri suoi film sono davvero straordinari.
e però resta un film da vedere, attori bravissimi e una tempesta che poi arriva, e l'indomani è un altro giorno - Ismaele







...Com’è cambiato nel tempo la maniera in cui scrive i film dalla fantasia di Air Doll al naturalismo degli ultimi film?
Non posso dare una risposta per tutto perché dipende da film a film, quindi parlerò nella fattispecie di Ritratto di Famiglia con Tempesta.
Quando avevo finito le riprese di Still Walking con protagonisti sempre Kiki Kirin e Abe Hiroshi, avevo iniziato a pensare di voler fare un altro film con loro due come protagonisti sempre con il tema della famiglia. Ho così cominciato a tenere un quaderno in cui appuntavo episodi possibili. Ed era il 2009. Per la sceneggiatura vera propria invece sono partito dalla scena in cui viene tolto l’incenso da un altare buddista e con i bastoncini viene preso quello non bruciato, che mi è davvero capitato ed è ciò che accade nei funerali giapponesi in cui dopo la cremazione le ossa del morto vengono prese con dei bastoncini appositi e messe in un’urna. Da qui è partito tutto”.
E’ partito da un suo ricordo ma il film ha a che vedere con la sua vita e i suoi ricordi?
Sì assolutamente, in questo film la percentuale di ricordi e vita vissuta è estremamente alta”.
Gli ambienti del film non sono molto particolari ma ordinari, non sono luoghi memorabili o parti iconiche della città ma posti che potrebbero trovarsi ovunque. E’ frutto di una grande ricerca o del suo contrario, del girare vicino casa?
Come dicevo in Ritratto di Famiglia con Tempesta ci sono molti elementi autobiografici, le case popolare che si vedono sono il luogo in cui sono cresciuto. Però è molto complesso avere permessi per riprenderle e caso ha voluto che sia riuscito ad avere i permessi solo per le case in cui effettivamente sono cresciuto io. Questo dettaglio ha fatto sì che per la prima volta nella mia carriera, l’idea originale e il luogo abbiano combaciato del tutto

La famiglia, il radunarsi dopo la scomparsa di un proprio caro, il rapporto col coniuge e con i figli: il grande cineasta giapponese, prolifico e presente quasi ogni anno a Cannes, continua il suo percorso quasi privato, e comunque senz'altro intimo, all'interno della famiglia o di quel che ne è rimasto.
Bei dialoghi, una certa ironia più accentuata di fondo che anima il comportamento maldestro di un protagonista a cui non si riesce a non volere almeno un po' di bene; ed un personaggio di anziana madre davvero brillante e decisivo, il vero trait-d'union di rapporti familiari altrimenti completamente allo sbando. Forse non il Kore-eda più intenso e felice, ma un altro importante tassello di un percorso intimo che ci continua a piacere molto.

La tempesta non è affatto temuta, ma diviene invece una scusa per riunire la famiglia “disgregata” sotto uno stesso tetto, quello della nonna. E’ un ritratto di famiglia malinconico, che fotografa forse un rimpianto, ma non è per questo privo di speranza. “La tempesta mi piace perché è capace di spazzare via ogni cosa” dice la nonna in una scena del film, anticipando l’accettazione che ognuno dei protagonisti sarà costretto a fare. Una tabula rasa che è anche un nuovo inizio…

Ritratto di famiglia con tempesta sa parlare della vita con le giuste parole, è intriso di profonda saggezza, e mantiene la famigliarità delle sillabe che potremmo ritrovare sulle labbra di una nonna intelligente e con un ottimo senso dell’umorismo (guarda caso, il sale della vita). È un’opera piccola e perfetta e per questo grandiosa. Dolcissima. Che racconta con pacata, ma viva rassegnazione, la vita, la morte, l’amore, i sogni e le mille passioni che muovono l’umanità, sottolineando, al contempo, l’inesauribile incapacità degli uomini di viversi il proprio presente in santa pace, romanticamente, così com’è, sempre presi invece dalla smania di recuperare il passato, o di pianificare il futuro…

…Kore-eda firma también el guión y el montaje de su película y este dominio sobre la estructura formal se convierte en un estallido de libertad creativa y de empatía para con los personajes. Las réplicas son oro puro y el autor es capaz de captar y transmitir toda la entidad de cada sílaba y cada silencio con una endereza y espontaneidad tan apabullante como alegórica del mundo interior de todos ellos. Las comparaciones y los símiles son constantes pero lejos de saturar por acumulación, rezuman inteligencia y conmiseración a raudales. El trabajo con los cuatro personajes protagonistas (y con la mayoría de secundarios) es impecable y la fabulación o reformulación de las ideas tradicionales se ve transgredida por una finísima pero potente destilación irónica de mitos, creencias y constructos sociales…

…la quotidianità e l'universalità dei temi trattati fanno del regista giapponese uno dei più empatici autori, perchè chiunque può riconoscersi nei suoi personaggi come fossero nostre proiezioni; in effetti il saper raccontare temi così vasti e in fondo semplici, ma ricchi di coinvolgimento, è la vera forza delle storie di Kore-eda.
Dalla famiglia in crisi nasce la solitudine, il senso di sconfitta personale e la difficoltà ad affrontare la vita di tutti i giorni ( frequentemente nel film sentiamo racconti di gente scomparsa ); ma nella famiglia stessa, attraverso una analisi della propria personalità , dei propri tratti caratteriali, delle scelte effettuate è possibile tornare a sentire un calore umano perso.
After the Storm , pur nella sua semplicità, ci offre ancora una volta una lettura delle relazioni umane lucida, pacata ma intellegibile e, in un paio di circostanze, addirittura commovente, da parte del regista giapponese che per l'occasione si avvale di nuovo di un bravissimo Abe Hiroshi , di una etera Maki Yoko e di una straordinaria Kiki Kirin, altra presenza consolidata nelle pellicole del regista.

…Maestro en humanidad, Koreeda teje su historia con pasmosa naturalidad, y los personajes, a pesar de sus debilidades, se hacen querer, porque su lado bueno pugna siempre con la inclinación egoísta, y esa lucha, donde hay victorias y derrotas, es la vida misma. Sorprende el equilibro, el dibujo atinado de cada uno y las razones que les mueven. No hay torpeza grosera en mostrar al protagonista apostando, y buscando algún objeto que vender de su difunto padre, para conseguir algún dinero. O a la madre y abuela –inspirada en la madre de Koreeda, que vive con su familia–, apoyando las tretas de su hijo, cuyos defectos conoce mejor que nadie, como tampoco le eran desconocidos los de su esposo.
Un director hollywoodiense, en el peor sentido del adjetivo, habría cargado de efectismo la noche tormentosa, un aguacero tremendo, con padre e hijo en el parque infantil, y la madre saliendo a buscarles bajo la lluvia. Koreeda sabe imprimir emoción a este pasaje, como a todo lo demás, sin artificios ni trucos baratos, sencillamente dando las indicaciones precisas a sus estupendos actores, y dejando que sean ellos y la historia los que conmuevan, como debe ser. "Después de la tormenta, viene la calma", asegura el dicho, y así debiera ser aquí también el caso, la tormenta adquiere entonces un preciso sentido simbólico, de cómo las relaciones familiares pueden y deben atemperarse, pese a las dificultades.


lunedì 29 maggio 2017

Tutto quello che vuoi - Francesco Bruni

un film che non ti aspetti, un viaggio nella conoscenza di due persone che sembrano lontanissime, Giorgio, che ha l'Alzheimer, vuole stare con Alessandro, e Alessandro piano piano vuole bene al vecchietto.
nel film c'è spazio anche per un mistero, il poeta l'ha scritto come sa fare lui, i ragazzi si buttano in una caccia al tesoro.
niente sembra fuori posto, ogni follia ha una sua logica, nascosta.
Giuliano Montaldo sembra che abbia fatto sempre l'attore, ha imparato molto dai grandi che ha diretto da regista, riesce a essere un personaggio divertente e triste nello stesso tempo. 
una commedia che fa ridere, emozionare, coinvolgere.
da non perdere - Ismaele


QUI il film completo, su Raiplay


...A una società affetta da un Alzheimer collettivo la cui forma patologica sembra escludere pervicacemente qualsiasi riferimento al passato recente e, ancor più, remoto Bruni ricorda che è grazie alla presa di coscienza della nostra storia, che passa attraverso quella di chi ci ha preceduto, che si può camminare verso il futuro. Lo fa sapendo suscitare quelle forme di sorriso e di riso che nascono da una riflessione profonda e da uno sguardo sensibile ed acuto capace di graffiare il muro di ogni possibile indifferenza.

Quello di Francesco Bruni è un film che ce l'ha fatta. Un po' sentimentale, un po' comico, un po' avventuroso: quando sembra aver detto già tanto (anche troppo, in termini di minutaggio dedicato al dialogo), Tutto quello che vuoi si trasforma in un improbabile road movie e ogni personaggio si trasforma in qualcosa di diverso. Di storie di incontri fra anziani e giovani il cinema è pieno, ma l'alchimia della coppia di protagonisti è travolgente: una nota di merito in questo va - non ce ne vorrà l'immenso Giuliano Montaldo - al più giovane dei due attori, Andrea Carpenzano, che accanto a un mostro del cinema sembra perfettamente a suo agio.
Tutto quello che vuoi si muove certamente lungo una traccia di pericoli e di conoscenza. Sembrerebbe una evoluzione narrativa stimolante, orientata positivamente verso il cambiamento e la crescita. Il ‘sapere’ del vecchio si espande nella poesia e arriva in modo impercettibile al giovane. Bello, encomiabile, auspicabile. Sembra però che la brusca marcia indietro di Alessandro (la ‘pace’ con  il padre) percorra un sentiero alquanto brusco e non del tutto credibile, abitato da improvvisi trasalimenti e pacificazioni. Si, è vero che i giovani non conoscono né storia né geografia, non rispettano età e buone maniere, ma appunto vanno affrontati secondo una certa logica dei caratteri…

…Quanto alla poesia, questa non è certo una cosa facile da raccontare sul grande schermo, per cui nel corso del film fanno capolino sentenze difficili da digerire del calibro di “le poesie si scrivono quando non si sa dove mettere l’amore”, oppure “le cose belle sono inutili, come la poesia”. Per fortuna poi, a fare da contraltare, ci pensa una bella declamazione a voce alta di un articolo del Corriere dello Sport. Interessante è poi l’utilizzo che Bruni fa dei videogame, quali insospettabili strumenti di comunicazione tra giovani e anziani, dal momento che consentono di reinscenare ora una partita del Grande Torino, ora una battaglia della Seconda Guerra Mondiale.
Non tutte le trovate sfoderate da Bruni dunque funzionano, a tratti si ha l’impressione di osservare il nudo meccanismo da manuale di sceneggiatura, uscendo dunque dalla finzione per apprezzare il lavoro che ci sta dietro, tutto volto a rivitalizzare per l’ennesima volta un copione già di suo usurato.
Ma è innegabile che Tutto quello che vuoi con il suo zigzagare nel tempo e nello spazio, un po’ colto e un po’ cialtrone, spesso riesca a cogliere nel segno e a strappare sapide risate, raggiungendo una non trascurabile autenticità soprattutto nella resa dei suoi personaggi, che aprono la strada a un sentimentalismo accorato e schietto, a cui lo spettatore non può fare a meno di aderire. Ed è difficile dargli torto.

La genuinità spigolosa di Andrea Carpenzano (in una prova che ricorda incredibilmente il Mastandrea degli esordi) e l’incredibile umanità di Montaldo (che raggiunge l’autenticità dei non professionisti) si sposano perfette e trascinano il pubblico in una storia che, pur personale (dei personaggi e del suo regista), si conferma, scena dopo scena, universale. L’allegra sofferenza e lo strazio lieve dell’avventura affettuosa di un “nonno” e un “nipote”, di un grande uomo senza memoria e del suo giovane compagno senza prospettive, sono sentimenti immediati, irresistibili. Come il Moretti di Mia Madre o il Virzì de La prima cosa bella, Bruni usa il proprio dolore per realizzare del Cinema che diventa subito Condivisione.  Il crescendo emotivo di Tutto quello che vuoi, arricchito da intuizioni visive fortissime (i ricordi confusi di Giorgio che si materializzano, lo studio con le poesie incise nei muri, come nelle celle del carcere di Via Tasso), non può che concludersi in un piccolo finale ideale, dove ancora una volta parole come Memoria e Poesia (bellissimi i versi scritti per il film da Simone Lenzi dei Virginiana Miller) si confermano temi decisivi, senza mai il bisogno di sottolinearli ossessivamente.

Pur nella semplicità del suo racconto (che comunque è decisamente difficile ottenere in forme così limpide), il film di Francesco Bruni è la dimostrazione che si possono continuare a realizzare delle commedie (all’italiana o meno) ma che al fondo ci deve essere sempre un tentativo di dialogo con il mondo. La sola cosa che può renderle necessarie. 
Tutto quello che vuoi ha il merito di essere una commedia che funziona riattivando un dialogo non derivativo con una stagione mai dimenticata del nostro cinema. 

La sceneggiatura non si fa mancare alcune sonore cadute di stile (come l'innesto di sequenze oniriche fuori contesto con il registro a cui sopra abbiamo fatto riferimento), la regia si mantiene sempre piuttosto scolastica e accademica e si segnala, più che altro, qualche buona soluzione di montaggio; nelle interpretazioni abbiamo invece forse le maggiori soddisfazioni: se Montaldo - regista, prima che attore (suo era il "Sacco e Vanzetti" del 1971, con Gian Maria Volonté e l'indimenticabile colonna sonora di Ennio Morricone) - convince relativamente nella parte dell'anziano malato, Carpenzano (che, siamo pronti a scommetterci, rivedremo ancora) si rivela un'autentica sorpresa nella gestione dello spontaneo e superficiale Alessandro.
"Tutto quello che vuoi" scorre allora velocemente, contraddittorio come la realtà che intende raccontare, tra la brillantezza delle battute e la prevedibilità dell'intreccio, tra la potenza di alcune soluzioni narrative (la stanza come pagina di poesia) e la convenzionalità di altre (la malattia, la letteratura e la seconda guerra mondiale come rimandi al tema della memoria), fino a uno dei finali più genuinamente belli ci sia capitato di vedere al cinema in questi ultimi tempi. Lo stacco che cala il sipario sul filmato e introduce lo schermo nero, prima dei relativi titoli di coda, arriva con una dolcezza disarmante e con un tempismo veramente sorprendente, tanto da far rivalutare quasi per intero i più di cento minuti precedenti. Testimonianza delle indubbie capacità di Bruni e, tuttavia, della difficoltà che ancora manifesta nel realizzare un'opera veramente convincente in tutta la sua durata.

Lo sguardo di Bruni è quello di un regista attento ai giovani e ai loro bisogni e il risultato è un film dalla scrittura puntuale e scorrevole. L’evoluzione di Alessandro è tangibile e costellata da ostacoli (le problematiche con il padre, un nuovo “possibile” amore, lo scontro con un amico di vecchia data), ma gli permette di conoscere un nuovo lato di sé: la preoccupazione per il prossimo.
Tutto quello che vuoi è un prodotto che mette di buonumore, che fa riemergere il ricordo che “graffia” letteralmente i muri di una stanza dopo un avvenimento straziante, che scava nella giovinezza di un amore e nella fugace amicizia durante un periodo doloroso. Inoltre il film di Bruni fa riscoprire il garbo giovanile, che sa affidarsi alla saggezza e al fascino di una mente inceppata (che finisce per ritrovarsi) per poi prendersene cura.
Tutto quello che vuoi coinvolge con la sua leggerezza e con la sua capacità di farsi ascoltare e farsi tramite di un messaggio importante: la memoria è un tesoro che va custodito per non perdersi definitivamente ed essere incapaci di camminare verso il futuro.
da qui

…Francesco, com’è stato scrivere e dirigere un film che prende le mosse da una vicenda che ti tocca da vicino, la malattia di tuo padre, affetto da Alzheimer?
Per certi versi è stato liberatorio. Man mano che procedevo nella scrittura e nella realizzazione del film la vera vicenda si faceva molto drammatica, quindi per me era in qualche modo un alleggerimento della pena che stavamo provando in quei giorni, e che si è conclusa da poco tempo. È stato una maniera, per me, per ricordare mio padre in quei momenti in cui ancora si poteva ridere insieme a lui. È stato delicato, ma liberatorio.

Tutto quello che vuoi è un film che parla della memoria. Vediamo oggetti, e scritti, che custodiscono i ricordi di Giorgio, che rimarrebbero però del tutto inerti se non ci fosse un ragazzo, Alessandro, che a un certo punto decide di decifrarli. È un film che parla della trasmissione del ricordo e del dialogo fra generazioni diverse, un tema che ricorre nella tua filmografia.
Devo dire che è curioso, in effetti c’è come una coazione a ripetere da parte mia. L’unica spiegazione che ti so dare è che il teatro familiare, o comunque le relazioni parentali, sono una fonte inesauribile dal punto di vista drammaturgico, ti danno infinite possibilità.
Sono cose che conosco molto bene, come tutti noi del resto, è un terreno comune, attraverso cui penso di poter coinvolgere il pubblico: chiunque abbia una famiglia o delle relazioni complesse, al di là dell’immagine che se ne vuole dare all’esterno. Forse è questo il motivo per cui mi piace raccontare questo tipo di storie. Per quanto riguarda la memoria, invece, è interessante quello che dici: in questo film l’apprendimento, anche della storia e della letteratura, passa attraverso la motivazione, che è quella che manca a scuola fondamentalmente: una spinta molto forte, altruistica nel caso del protagonista, opportunistica nel caso degli altri ragazzi, che sono capaci di andare a spulciare i libri quando è il caso!...


domenica 28 maggio 2017

Il viaggio di Felicia – Atom Egoyan

un Bob Hoskins da Oscar per un personaggio complesso, in una storia che sembra semplice.
ma le apparenze ingannano, gentilezza, amore, sincerità sembrano vere, ma poi...
povera Felicia, in cerca del padre del figlio che verrà, e fortunata a trovare il signor Hilditch.
un piccolo capolavoro da non perdere - Ismaele



Tratto dal romanzo di William Trevor e diretto da Atom Egoyan (autore de "Il dolce domani" e "Exotica") con alcuni adattamenti, il film punta molto sulla psicologia dei personaggi, entrambi influenzati in maniera negativa dai genitori, ed entrambi solitari e in fuga dalla realtà. Anche la figura di Hilditch è diversa da quella del solito killer, ma è un analisi accurata sulla psiche fragile e emotiva del protagonista.
È un film interessante che rispecchia le altre opere di Egoyan, che si avvale della straordinaria performance di Bob Hoskins, e che avrebbe senz'altro meritato di vincere il festival di Cannes.

…Egoyan all'apparenza propone un cinema classico sotto tutti i punti di vista eppure "Il viaggio di Felicia" è estremamente innovativo nel linguaggio. Se a prima vista assume i toni del road movie, del romanzo di formazione o del classico film drammatico che sottende una profonda storia di amicizia, ben presto e in modo molto graduale, emergono i toni del thriller psicologico, dove il personaggio di Hilditch rivela il suo volto di killer seriale. Quell'uomo mite e gradevole svela i suoi segreti a cominciare dal suo rapporto morboso con la madre, diva del mondo della cucina, che continua a coltivare attraverso le registrazioni dei suoi programmi.
Il film si apre con una telecamera che indugia in una casa arredata con gusto retrò e con un uomo che si diletta con grande passione nella preparazione di deliziosi manicaretti. Si utilizza una musica soave anch'essa di gusto antico, che crea un'atmosfera calda, accogliente ma soprattutto gioiosa. Il personaggio di Hildich è interpretato magistralmente da Bob Hoskins dall'apparenza rassicurante e bonaria. Piccole cose disturbano quella idillica quiete solitaria domestica, ovvero alcuni sguardi e uno sgabuzzino pieno di prodotti per la cucina tutti ancora incartati…

...Egoyan abbandona la rigida linearità per affidarsi alla mancanza di vettorialità: rompe gli schemi della stretta cronologia per affidarsi alla disomogeneità narrativa, ma non al disordine. Quello che viene a crearsi è una specie di mosaico che piano piano si ricompone per formare un corpo unico, visto da differenti angolazioni e da prospettive temporali poste su livelli discrepanti, le quali si uniscono per dare un corpo unico, monolitico e granitico nella sua riuscita finale. Lo stesso regista spiega la sua scelta di campo, ormai caratteristica del suo modo di fare cinema, con una logica ferrea che evidenzia una volta di più la sua grande coerenza stilistica: «Usare il tempo in maniera strettamente lineare mi fa sentire come in prigione. La mente, per sua natura, fluttua avanti e indietro tra le diverse esperienze quando esse si relazionano con le circostanze del tempo presente, e per me è assolutamente essenziale strutturare i film in questo modo. La nostra diffidenza nei confronti di una narrazione non lineare è una conseguenza del fatto che la maggior parte dei film non approfitta delle possibilità del mezzo cinematografico. Sono convinto che quando si mostrano scene frammentate o sequenze non cronologicamente lineari, che a prima vista sembrano prive di coesione, ci sia in realtà un grande impulso creativo ed una interazione con il pubblico che deve rimettere assieme i pezzi. Questa tecnica rende attivi gli spettatori, li tiene impegnati - li rende più coinvolti nella storia - a patto che, ovviamente, io riesca a conquistarmi la fiducia del pubblico. Il pubblico ti seguirà nel viaggio del film se sa che i pezzi del film, ad un certo punto, si ricomporranno in un quadro».

…Egoyan is such a devious director, achieving his effects at a level below the surface. He never settles for just telling a story. He shows people trapped in a matrix of their past and their needs. He embraces coincidences and weird lurches in his plots because he doesn't want us to grow too confident that we know how things must turn out. He almost never provides a tear-jerking scene, an emotional climax, a catharsis. It's as if his films inject materials into our subconscious, and hours later, like a slow reaction in a laboratory retort, they heat up and bubble over.
You leave "Felicia's Journey" appreciating it. A week later, you're astounded by it.

Brescia 1974 - Strage di innocenti - Silvano Agosti

sabato 27 maggio 2017

Remember Me – Ashley Pierce

scritta da Gwyneth Hughes, Remember Me è una serie davvero bellissima, straordinari gli interpreti, Michael Palin e Jodie Comer su tutti, una storia di fantasmi che ti tiene incollato allo schermo ogni minuto.
solo tre episodi, praticamente un film lungo.
non privartene, se ti vuoi bene, nessuno protesterà dopo la visione, ci scommetto - Ismaele




Una casa infestata, una canzone che ritorna ossessivamente e un trauma mai superato sono gli ingredienti principali di Remember Me, miniserie in tre parti trasmessa dalla BBC. È un prodotto veramente british questo cupo horror diretto da Ashley Pierce che discende direttamente dalla tradizione delle ghost-stories all’inglese, quella che ha in Giro di vite di Henry James il suo rappresentante principale. Qui però i protagonisti non sono dei bambini, bensì un uomo anziano, interpretato dal Michael Palin dei Monty Python, che abbandona la propria casa e i tristi ricordi ad essa collegati, solo per scoprire che la separazione sarà molto più traumatica di quanto immaginato. Un inizio folgorante e uno stile sempre ricercato e curato nella costruzione delle immagini non riscattano tuttavia un prodotto che perde ritmo nell’avanzare della storia, e che in fondo non colpisce quanto avrebbe potuto.
L’incipit, come detto, è davvero invitante. Tom Parfitt (Michael Palin) finge una caduta dalle scale per poter lasciare la propria dimessa e cadente dimora e andare a vivere, in quello che definirà il miglior giorno della sua vita, in una casa di cura. È solare come non lo era da anni, accarezza l’aria con la mano lungo il tragitto verso la sua probabile ultima destinazione. Ma un’oscura presenza non si rassegna a lasciarlo andare, incombendo su di lui e sulle persone che lo circondano…

a presenza di icone e personaggi orientali che vengono inseriti (anche i vicini di casa di Tom sono immigrati dall’ex colonia britannica) reggono tutta l’impalcatura della vicenda. Non è di certo una casualità che il Paese in cui si svolgono i fatti sia legato a doppio filo con l’India, in una storia sanguinolenta di occupazione e dominio culturale, e che sia proprio il Paese asiatico che in questo caso vuole farsi ricordare a qualsiasi costo. Un altro aspetto, secondario ma senza dubbio rilevante, concerne la lieve impronta di genere che affiora guardando Remember Me. La presenza quasi materna, possessiva, che accompagna la vita dell’anziano signore: la compagna, ormai defunta, o Hannah che, come una nipote mancata, crederà subito nella sua innocenza: la partecipazione femminile sembra essere una costante, causa anche di una solitudine più lunga di quel che si pensa.
C’è poi una ballata popolare inglese, “Scarborough Fair”, risalente probabilmente agli ultimi anni del XVII secolo e rieseguita in diverse versioni (quella di Simon & Garfunkel o, in italiano, di Angelo Branduardi), che ci accompagna lungo tutta la serie. La sceneggiatrice Hughes sembra adottare l’interpretazione più contemporanea delle parole, in cui per un mondegreen dell’originale alcuni termini vengono mal percepiti dando ulteriore senso ai tormenti che perseguitano i personaggi. Remember Me sintetizza dentro di sé queste immagini così diverse tra loro, ma in modo armonioso e non stridente. Così che il risultato finale è, senza dubbio, un prodotto che lascia un ottimo ricordo.

…Bastano i primi minuti per capire il prodotto che ci troviamo davanti e quali sono i suoi punti di forza. Remember Me è un mystery sovrannaturale con una vena horror prima accennata, inquietante, poi sempre più manifesta con una progressione che ricorda quella dello Shining di Stanley Kubrick. Tra i punti di forza ci sono sicuramente l’ambientazione nordica e il tono malinconico che invece richiamano una Twin Peaks che ha smussato i suoi angoli più grotteschi e visionari. Ma il vero catalizzatore di questo primo episodio è senza dubbio Palin, il cui talento lampante emerge già, dicevamo, in quei primi minuti, senza neanche bisogno che lo stesso pronunci una parola. Lo sguardo tormentato e stanco insieme, un volto comune ma allo stesso tempo misterioso donano a questa serie un protagonista potente che guida un cast ottimo, composto dal detective solitario Mark Addy, fino alla giovane Comer, ragazzina a confronto con i problemi di un mondo e dell’altro.
da qui 

Remember me è uno slow burning drama come lo chiamano gli inglesi, un dramma che brucia lentamente e che cresce col passare dei minuti impreziosito da una confezione come la solito inappuntabile e da un cast eccellente, inutile sottolineare ulteriormente le prove dei tre protagonisti .
Remember me è un ottimo modo per iniziare l’anno televisivo e per stare accoccolati davanti al camino mentre fuori nevica, lasciandosi cullare da una fiaba gotica e trasportare in una terra senza tempo, piena di misteri e di fascino.
Certo che la BBC fa veramente dei bei regali ai suoi spettatori…



venerdì 26 maggio 2017

Kruh in mleko (Black and White) - Jan Cvitkovic

un bianco e nero vero e implacabile, in una storia dove i colori sono banditi.
una famiglia distrutta per un bicchiere di troppo, anzi ben più di uno.
il padre esce dalla struttura per alcolisti dove si è disintossicato, poi una giornata di follia fa scivolare il mondo all'indietro.
non ci sono prediche, solo una storia.
io la farei vedere nelle scuole, per veder l'effetto che fa.
dimenticavo di dire la cosa più importante, appena lo troverete vedrete dell'ottimo cinema, un piccolo capolavoro che non si dimentica - Ismaele












In the sixties, during the golden age of socialism, a big establishment named the “Taverna” was built in my hometown. It was intended for workers as a place where after hard work they could treat themselves to a subsidized lunch, play a game of chess, relax by bowling and have a drink or two.
As the years went by this place was steadily becoming less and less similar to what it was intended for in the beginning. It became a refuge for people who for some reason did not want to spend their spare time at home. The divorced, the lonely, people who did not get along with their relatives, alcoholics, the unemployed and young people who, like me, did not have anywhere else to go. The “Taverna” was now open all night long.
At that time (I was about 16 or 17 years old) a certain scene made a profound impact upon me. A chap, a family man whom I knew by appearance, came to a halt in the middle of the tavern at about three o’ clock in the morning, completely drunk, holding a plastic bag in his hand. There was a moment when it seemed that this man realized how he had ruined his own life. In the bag that he dropped on the floor were a loaf of bread and a liter of milk.
This scene remained with me somewhere in my sub consciousness all through the years until I decided to make a film based on it. I have accomplished this by adding the previous and the next day to that moment, that is, a bit of the past and a bit of future.
What was created is a film that actually does not examine the social conditions and the obvious problems of the protagonists so much. Instead it focuses more on their yearning for mutual love and warmth. The film looks especially closely at the mistakes that the protagonists make, because of which their final goal is farther and farther away.
Bread and Milk is a film about people living between heaven and hell. About people we all know.
Jan Cvitkovič

Cinema minuscolo ma emozionante, fatto della semplice, quasi algida esposizione della giornata di una famiglia allo sbando. 
Un padre alcolizzato, un figlio tossicodipendente, una madre senza la forza necessaria per fronteggiare la situazione.
La sincerità di Jan Cvitkovic - ex studente di fisica, poi vagabondo attraverso Israele, Egitto, Africa orientale e infine convertitosi allo studio dell'archeologia prima di approdare al cinema - e la sua distanza, priva di moralismi, dai personaggi che racconta, rende vivi i cliché. E fa vibrare quanto basta un vero film di soli 68 minuti, inizialmente inteso come cortometraggio e poi allargatosi seguendo le esigenze drammatiche dei personaggi così come queste venivano sviluppandosi durante le prove, prima delle riprese.
Immerso in un bianco e nero insieme intimo e documentario (girato in 16mm colore e poi gonfiato in 35mm b/n), col suo piglio asciutto e parsimonioso Kruh in mleko(letteralmente "Pane e latte") non spreca un fotogramma, non si concede una sola lungaggine.
Perfetta la colonna sonora, fra hardcore e techno.

Il regista Jan Cvitkovic, ex studente di fisica votato al viaggio e all’archeologia, ritrae con pennellate delicate le ferite di una famiglia in cui si riconosce un intero popolo. Girato interamente in Slovenia, Kruh in mleko (Bread and Milk) è il ritratto sensibile di un destino di inetti, il cui ultimo grido disperato si traduce in un rantolo di follia distruttiva. Una storia che affonda nel sentimento cosmico con un’economia poetica che non si perde in melodrammaticità superflua, ma si declina in un’ora di sensibilità emozionante, senza la necessità di quelle elucubrazioni cervellotico-filosofiche che sembrano interessare sempre più gran parte dell’ultimo cinema. La pellicola, inizialmente girata in 16mm e poi gonfiata a 35, era destinata al cortometraggio, ma il regista ha lasciato scorrere il respiro naturale dei propri personaggi su cui poggia discreto l’occhio meccanico, definendone con sguardo documentario le ferite più intime. Una musica altalenante di techno mista ad hardcore stride con ogni singola scena marcatamente lirica, con i silenzi venati di dolore che incidono quel bianco e nero di un’esistenza in declino. Il grigio-bianco che pervade l’intero film si frange in un secondo finale che segna l’ineluttabilità di un manicheismo non superato: paradiso e inferno si delineano nell’asettico bianco dell’ospedale e nel nero prolungato che scende sull’ultimo fotogramma di mondo silenzioso, ormai invaso dal suono pneumatico…
 La debolezza umana invade la quotidianità su cui la macchina da presa si sofferma timidamente, senza lungaggini, senza sprecare un singolo fotogramma, tutti tesi al senso di perdita di chi si accascia sui propri fallimenti. Il piglio asciutto e parsimonioso evita l’eccesso di un sentimentalismo patetico, a vantaggio di una vena intimistica fatta di dettagli essenziali. Un film sincero privo di moralismo, che impasta il bianco nel grigio per raccontare, in una sorta di mise en abime, la tragicità che intacca quei volti, quelle giacche, quei luoghi invecchiati e lisi.

 It doesn’t sound much like a comedy, but the disasters escalate so quickly and cruelly that they spiral into crazy farce: think Some Mothers Do ave Em, as written by Raymond Carver. But the film isn’t just an acid, black (and white) joke: with the minimum of effort, Cvitkovic captures the atmosphere of this town (Tolmin) by night, especially The Tavern. Identified in the credits as the Hamurabi Bar, this scruffy pub becomes one of the movies great dives: If this town is Eden, then this Tavern is the apple reads scrawled graffiti on the wall outside. On another wall, there’s the legend Love never dies, under which Robi slumps among cardboard boxes in lesser hands, the irony would be too cheap, but Cvitkovic knows he can get away with it if he takes things to sufficient extremes. And he pulls it off, loading Ivan with truly Job-like afflictions, only faltering at the very end: the director builds to a terrific dirty-poetic image, only to cobble on a poem, a dedication, and a final shot that goes just a step too far. At 67 minutes, this really would have been something special.
da qui




mercoledì 24 maggio 2017

Kongekabale (King's Game) - Nikolaj Arcel

uno di quei film che in sala sarebbe stato un grande successo, ma da noi non è mai arrivato, è solo un film della piccola Danimarca, mica della portaerei Usa.
Nikolaj Arcel ha il dono di scrivere e/o dirigere film che meritano molto, questo è di quelli.
film molto attuale, sulla politica marcia, il giornalismo, gli intrighi, la verità, e non annoia un minuto.
cosa volere di più?
buona visione - Ismaele 




Despite being a début, Arcel has managed to put together a convincing piece with a very distinctive look. Parts of it end up being almost monochrome as the palette is drained of almost all hues leaving mostly blues and greys - it gives this bleary, early morning look that fits in perfectly with the film's ambiance. Although this may not be the best political

…More than just a political thriller, “King’s Game” is a story about power, what men will do to get it, to keep it, and how hard it is to maintain some sense of idealism is a cynical world, where everyone is struggling for power. A key element in the story is the relationship between the press and the legislative power. While spin in Denmark differs largely from spin in other countries, mainly because the distance between the press, and public, and the politicians, spin has still become an important element of the political game, not just in order to protect politicians, but also in order to guide “the best obtainable version of the truth”, and even as the story is exaggerated and a composite of many persons and events, it portraits a game, where ethics and objectivity is put aside in order to both gain and maintain power. By doing so, it offers the viewer a base for discussion and a reference, by which the viewer then can approach political news in general…

The Faustian pact between politicians and the media is laid bare in King's Game, an immensely watchable Danish conspiracy thriller. A cub reporter, Torp (Anders W Berthelsen) is assigned to the parliamentary beat just days before a general election, at a time when the man expected to lead a landslide victory for the Centre Party is involved in a horrific accident. Manipulated by almost everyone around him, the idealist journo gets a crash course in the dirty business of politics….

martedì 23 maggio 2017

Get Out - (Scappa: Get Out) - Jordan Peele

opera prima di Jordan Peele, ma se non lo sai sembra di vedere un'opera di Kevin Smith, o di qualcuno di esperienza.
ogni definizione di genere è riduttiva, è solo cinema come si deve, non perfetto, ma cosa si vuole di più da un esordiente alla regia?
le avventure e gli incubi di Chris sono terribili, ma ha un amico che più di un fratello vero.
è comunque un film sul razzismo, le apparenze ingannano, i negri buoni sono i negri servi, i negri oggetto, i negri ogm.
la fine mi ha ricordato un po' quella del gran film che è Django unchained.
non avete bisogno di consigli, lo so, ma sappiate che se andrete a vedere Get Out sarete soddisfatti come non succede spesso, promesso - Ismaele






Se vuoi vederti il classico filmetto standard, insomma, te l'ho già detto e te lo ripeto: scappa!
Magari scappa su Canale 5!
Ah no, lì manco di filmetti standard ne danno più, solo fiction, reality o talent.
Se invece vuoi vederti un film a basso budget (4 milioni e mezzo di dollari) che in patria è diventato uno dei maggiori campioni di incasso dell'anno (oltre 170 milioni di dollari nei soli Stati Uniti fino ad ora), quindi una pellicola in stile Sundance Film Festival (dove infatti è stato presentato), ma godibile come il più commerciale tra i popcorn-movies, e se cerchi un film che non sarà il capolavoro totale o l'opera cult rivoluzionaria che hanno cercato di spacciare negli Usa, però è comunque capace di far ridere (soprattutto grazie al mitico personaggio dell'agente TSA interpretato da LilRel Howery), inquietare e riflettere allo stesso tempo, scappa subito!
Dove?
Al cinema!

Scappa – Get Out è una sorta di Indovina chi viene a cena? aggiornato e inquietante, abile nel parlare di razzismo con una forza davvero impressionante e con metafore ben calibrate.
Coinvolgente e capace di trasmettere una tensione costante dall'inizio alla fine, è una pellicola che riesce anche a stemperare i passaggi più angoscianti con sottile ironia e con inserti che non si prendono troppo sul serio…

 La cosa migliore, però, e mi rendo conto che qui si toccano i gusti personali, è che il film sceglie di non farci vedere le mazzate in testa, ma di deviare in qualcosa di simil-paranormale, in una delirante conclusione che però, a me, è piaciuta da impazzire. Inaspettata e folle, prende per il collo i nostri privilegi bianchi e, prendendoci abbondantemente per il sedere, li rispedisce al mittente, senza privarci di un po' di sana umiliazione…

A prescindere, infatti, dalla parte scientifica dell'evoluzione della trama - comunque interessante, considerata l'esigenza e la presunzione di alcuni esponenti delle classi sociali "alte" di potersi permettere di vincere anche il Tempo e la Natura -, Get Out funziona come thriller e come survival, inchioda come si deve alla poltrona e tiene benissimo il campo - un campo difficile, come già sottolineato - dal primo all'ultimo minuto, senza sbruffoneggiare con ambizioni troppo alte ma allo stesso tempo mostrando tutta la solidità dei prodotti con le palle.
Di quelli che sopravvivono ai confronti ed ai pregiudizi.
Di quelli che gli appassionati cercano e bramano come l'aria.
Ed è bello, in questi casi, venire soddisfatti.
Anche se il prezzo è una visione a cuore non troppo leggero.

…el protagonista no está solo en el plano cultural (se supone que está cubierto en el romántico, pero eso está por verse), ya que si bien todos los sujetos de su propia raza con los que se encuentra en este entorno son demasiado raros para que pueda relacionarse con ellos, se mantiene permanentemente en contacto telefónico con su mejor amigo Rod (Lil Rel Howery), un simpático guardia de seguridad que, además de convertirse en su mejor consejero, posee toda la gracia y el carisma de una persona de barrio.
Pese a las ramificaciones de su mensaje y a las posibilidades de conversación que ofrece, “Get Out” mantiene las cosas simples en el plano narrativo, hasta el punto de que su última parte recurre a una de esas voces en off que terminan explicándolo todo y que suelen ser un recurso demasiado fácil. Pero en ese momento, Peele nos tiene ya completamente de su lado, y ni siquiera necesita recurrir a un despliegue de violencia demasiado salvaje para completar lo logrado con el invaluable soporte de Kaluuya, cuyas expresiones emocionales no tocan una sola nota falsa.

…Los planos son siempre claros, optando siempre por la claridad de imagen y narración. El montaje también sigue esta línea, dejando de lado los flashbacks u otras técnicas, y enfocándose en lo concreto. Junto con esto, el tiempo de duración son unos muy agradables y bien aprovechados 104 minutos, de los cuales ninguno es desperdiciado en tomas que puedan responder más a un capricho que a lo que en verdad necesita la historia.
“¡Huye!” es exactamente el tipo de película que necesita esta época: cine emocionante que al mismo tiempo tenga el valor de poner sobre la mesa los temas más complejos de la actualidad. Si a esto se le suma una ejecución casi impecable de todas las partes involucradas, resulta una película que de seguro estará entre lo mejor de este año.
da qui

ricordo di Roger Moore

lunedì 22 maggio 2017

The tribe - Myroslav Slaboshpytskiy

film completamente muto, perché muti sono i protagonisti.
ambientato in un istituto tutto per loro si riproducono le stesse dinamica di qualsiasi gruppo di giovani, amicizie, odi, amori, guerre.
quello che ci (mi) destabilizza è che tutto quello che succede viene urlato nel linguaggio dei segni, le violenze urlate diventano silenziose, ma non per questo meno violente.
molti vogliono fuggire, la fila all'ambasciata italiana ce lo rende un film molto vicino.
un bel, terribile e violentissimo film, da non perdere - Ismaele




Il primo lungometraggio di Myroslav Slaboshpytskiy appartiene alla categoria dei film destinati a rimanere impressi nella memoria dello spettatore sia per quello che raccontano che per lo stile adottato. Il regista afferma: "È un mio vecchio sogno quello di rendere omaggio al cinema muto. Fare un film che possa essere compreso senza che venga detta una parola. Non pensavo però a un certo tipo di cinema europeo 'esistenzialista' in cui gli eroi stanno zitti per metà della durata del film. Anche perché gli attori non erano muti nei film muti. Comunicavano molto attivamente attraverso un'ampia gamma di azioni e di linguaggio corporeo". Da qui nasce l'esigenza di una 'reale' impossibilità di comunicare con le parole su cui si innesta la decisione di non proporre sottotitoli neppure per tradurre l'alfabeto muto che viene utilizzato dai protagonisti…

…Dopo anni di cinema che ha raccontato l’handicap sfruttandolo cinicamente per imbastire vicende strappalacrime tutte incentrate sul patetismo e sulla retorica della denuncia dell’emarginazione, The Tribe capovolge in maniera radicale la prospettiva sforzandosi di raccontare un certo tipo di handicap come normalità affetta dallo stesso malessere socioculturale responsabile del marciume di quanti non hanno alcun tipo di handicap e rappresentano la normale società civile. E fin qui non ci sarebbe nulla di rivoluzionario, se non fosse che Slaboshpytskiy sceglie di affrontare questo ribaltamento di prospettive con un approccio linguistico che non ha precedenti al cinema.
Come annuncia minacciosa una scritta su sfondo nero prima che tutto abbia inizio, il film è recitato «nel linguaggio dei segni dei sordomuti» e che di proposito «non vi sono traduzione, né sottotitoli né voice over». Per 130 minuti lo spettatore viene coinvolto in un’avventura della percezione nella quale le coordinate del tradizionale sentire con la mente sono stravolte: mentre i personaggi del film comunicano tra di loro con il linguaggio dei segni nell’invalicabile mutismo che li contraddistingue e sullo schermo si sentono (di rado) soltanto rumori d’ambiente che fanno da labile cornice sonora al tutto, chi guarda quanto accade sullo schermo subisce la stessa emarginazione cui sono sottoposti i sordomuti nei contesti di tradizionale comunicazione verbale…

Anche lo stile adottato dal regista si adegua a questo micromondo costituito dall’istituto e dal sistema criminale messo in piedi dai ragazzi: ogni scena, che inizia quasi sempre con una carrellata laterale, è risolta mediante un piano-sequenza con macchina da presa fissa posta a debita distanza dal fulcro dell’azione, lasciando così liberi i personaggi di muoversi e (inter)agire liberamente senza vincoli e senza cadere nel voyeurismo. La ricerca di questo realismo diventa assoluto riprendendo scene di sesso, spesso consumato sul pavimento, in tutta la loro cruda realtà, ma raggiungendo il culmine (e lo shock) nella scena dell’aborto, quasi insopportabile nella sua crudezza senza peraltro mostrare alcun dettaglio scabroso, oppure la scena finale, di una violenza così disperata e al contempo così trattenuta da risultare ancora più shockante di quanto non sia; perché come noi non possiamo sentire le parole (perché di parole non ce ne sono), così non possiamo vedere tutto. Ed è lo stile (fermo, secco, preciso) a raggelare la violenza (urlata, concitata, assoluta)…

"The Tribe" è anche e soprattutto la storia di un amore impossibile e di una crudele iniziazione alle vita. Al centro del film, infatti, spiccano sempre Sergey e la sua gang: giovanissimi ragazzi di vita che tiranneggiano i compagni, collezionano espedienti, giocano di notte in una città che sembra abbandonata o sopravvissuta a un'apocalisse nucleare. Sono bambini sperduti, ma per loro non esiste un'Isola che non c'è o un Paese delle Meraviglie. Esiste al contrario un'Ucraina di degrado, di sporcizia e bassezza (anche morale) che non concede speranze né occasioni di riscatto. A questi emarginati dal destino segnato, lasciati soli o accuditi da adulti aguzzini, non resta che crescere in balia delle proprie pulsioni più bestiali: rubano, picchiano, sfruttano, stuprano, uccidono…

Sublime tragédie contemporaine, THE TRIBE est une immersion sensasionnelle au coeur d’un institut pour sourds et muets – un microcosme permettant une radiographie de la société ukrainienne contemporaine, et au-delà. Avec des signes pour tout dialogue, le film est a plus d’un titre proprement hypnotique. Myroslav Slaboshpytskiy prodigue une oeuvre boulversante, tout à la fois grandiose et effroyable…

The Tribe es subversiva y exigente. Rabiosamente y felizmente, apostillo. Como cine de la diferencia acota su foco entomológico en una comunidad cerrada de adolescentes sordomudos. Una residencia estudiantil. De ese microcosmos situado en los márgenes cierra más el objetivo porque se centra en un grupúsculo con prácticas delictivas. El imperativo del film: no utilizar el lenguaje ni ningún soporte que le acompañe. El espectador debe entrar como si fuera uno de ellos. Una introducción con requisitos, algo inusual y a lo que no estamos acostumbrados. Eso genera un automático proceso de empatía con los personajes como el que busca la formación de los lazarillos, a los que se les incorporan prácticas en las que se carezca de la visión para que el futuro ayudante pueda comprender mejor a aquel invidente que tendrá que asistir. Eso, a priori, sitúa el film en el umbral de dramas sociales que buscan la concienciación, mediante la visibilización de grupos invisibles para el cine mayoritario. Pero, lo sabemos, este tipo de películas están muy viciadas. Desembocan en actitudes paternalistas y lo que es un acto de denuncia acaba resultando un ejercicio lastimero y deplorable de pornografía sentimental. The Tribe le da una patada en el culo a todas ellas, porque lo suyo no es un retrato complaciente o idealizado. Justamente su prisma revuelve lo políticamente correcto cuando detiene su mirada en protocriminales masculinos desalmados que extorsionan, roban y ejercen de proxenetas. Las protagonistas femeninas se prostituyen sin ningún conflicto moral. De hecho, el conflicto estalla cuando el protagonista trata de romper esa situación de explotación y se encuentra con el rechazo frontal tanto de los que abusan como de las abusadas. Para arreglar las cosas el protagonista no lo hace como un gesto de buena acción. Sencillamente, se ha enamorado compulsivamente de una de ellas. Y lo que le gobierna es un desmesurado y patológico sentimiento de posesión que tendrá consecuencias fatales…

…Ammetto però che costui abbia dei raptus registici tali da riuscire imprevedibilmente a stupirmi,  come quando inscena l’aborto clandestino, agghiacciante ancestrale, o l’ecatombe finale, che evoca la violenza estrema del Petroliere, i monoliti e la tribù dei primati in 2001 Odissea dello Spazio. Momenti in cui il senso non è troppo, è solo uno, l’orrore, e nella caverna restiamo solo in due, io che guardo e lui che parla la mia stessa lingua, sciolta da ogni contrizione sociopolitica.