mercoledì 31 ottobre 2018

Marketa Lazarova - František Vláčil

un film così non l'avete mai visto, tre ore dentro un medioevo freddo e violento come non mai.
due clan rivali si massacrano senza pietà, le donne servono solo per essere stuprate, esiste qualche potere centrale, in tempi in cui si formano i regni, ma nessuna regola arriva per alleviare la carneficina.
le immagini sono di una bellezza senza pari, come quadri indimenticabili.
è un film grandissimo e straordinario che ti cattura, un capolavoro senza nessun dubbio, io l'ho visto due volte, ed è poco, lo so. 
buona visione - Ismaele





QUI il film completo con sottotitoli in inglese




È altresì insolubile quest’arrancare all’interno di un’opera tanto complessa e affascinante se non in virtù del modesto tentativo di suggerire ciò che essa a sua volta comunica in chi la osserva. Più che una chiave di lettura infatti Marketa Lazarovà vanta una tecnica ed un impegno filosofico tra i più encomiabili in assoluto nella storia del Cinema. Dilatare il tempo sprofondando in una voragine angosciante, scrutare nell’animo dei personaggi rivedendovi un’universalità sconcertante: un’epopea stravolgente, tra le più significative ed ammalianti dell’intero panorama novecentesco.

Vedere Marketa Lazarova oggi significa appropriarsi di una visione dove la creazione di un mondo alternativo è stata messa in piedi in barba ad ogni regola di scrittura e di regia. I suoi volti e i suoi ambienti provengono da una galassia percepita in un mondo che non è mai esistito. La sua forza e la sua tragicità impongono il riserbo di dubbio mai abbastanza celato dietro le ombre del moralismo.
Se Marketa Lazarova è un’opera morale perché annienta la morale significa che il suo nichilismo è servito in modo tale da dare l’essenza di quel mondo barbaro che viene messo in scena senza alcuna edulcorazione.
Dunque, cosa si può dire di aver visto nel film di Vlacil? Un tormento senza lacrime, un melodramma purificato dall’assenza del patetismo. Un’immagine del Tempo condensata in 2 ore e 45 minuti che si spingono molto oltre il limite della decenza. Un’opera indecente che fa pensare. Indegna sicuramente per un’occidente dormiente che non sa vedere oltre la via maestra tracciata dal pedante didascalismo dello script.

As a “Film-Opera”, the role of music is paramount and Zdeněk Liška was to provide an ideal collaborator. Liška, of course, was a prolific composer of scores for both Czech and Slovak films and is well known for his work with Juraj Herz and Jan Švankmajer among others. In Marketa Lazarová, he uses echoing percussive effects, xylophone, and electronic effects, and even invented new instruments. At the same time, the music is linked to the early traditions of church music.
While the film always maintains its narrative links, it is difficult to find any scenes that present their subject matter in an orthodox way. This is less because Vláčil is opposing classical narrative, but more the result of extending it through a process, of “making strange” or “making difficult”, to adopt Viktor Shklovsky’s terms. We see and experience feelings and images that are repressed in conventional films.
There are some striking set pieces, including the “paradise sonata” (Adam and Alexandra) and “the soliloquy of madmen” (Kristián’s journey through an apocalyptic landscape) but, for most of the film, we are visiting a world in which there is a complex but coherent web of relationships. However, we are visitors to this world and, like the characters themselves, our understanding is incomplete. As many Czech critics have noted, the film signified a new approach to history without moral or ideological messages, in which the lives and wills of individuals interacted with ongoing social and political forces.

…L’opus di František Vlácil è un viaggio surreale che rapisce e destabilizza lo spettatore, incantandolo e stupendolo con numerosissime modificazioni sinfoniche del tono e del ritmo, alternandosi convincentemente dai registri contemplativi a quelli macabri e convulsi, sciorinati in una raffigurazione brutale dell’era di mezzo. L’approccio è formalmente lungimirante, e il regista ceco dispiega una poetica attanagliante utilizzando lirismo brumoso, caratterizzato da inquadrature angoscianti e giustapposizioni simboliche a sfondo religioso. Un prosatore introduce il racconto su un ampio paesaggio invernale; la voce sembra provenire da lontano, echeggiando però una vicinanza intima. Il film altera costantemente il nostro orientamento ottico e acustico; spesso dobbiamo capire dove ci troviamo, in quanto le posizioni e i cambi di prospettiva variano improvvisamente…

The events are shown with a continuous and relentless stream of hypnotically striking images. Unforgettable scenes of harsh dirty villages where life is so hard even the clan nobles would envy the comfort of a modern homeless person; frequent shots of wildlife including hungry packs of wolves roaming cold barren snowy landscapes; strange pagan rituals, notably involving the only instance of full-frontal nudity I can recall in a Czech film; and fiercely violent battles fought by brutes armed with crudely forged weapons.
In addition, there are many interesting cinematic devices: odd unannounced flashbacks as well as sudden jumps forward, frequent occurrences of off-screen dialog, and even some curious breaking of the fourth wall. All of which are wonderfully edited together to form the film's intricate and lyrical narrative. Adding to this is the medieval inspired score composed by Zdenek Liska. Comprised of a cacophony of unfamiliar sounding instruments together with haunting choruses that lend an aura of uneasy tension to the atmosphere.
So many films are recklessly heralded as masterpieces, Marketa Lazarová is a rare one that truly deserves it. Which makes it total mystery why this isn't more well known. This is an unique and essential cinematic experience, not only for those with a fondness for Czech/Slovak cinema or historical epics, but for any serious film lover. On initial viewing, it didn't quite capture me enough on an emotional level to call it a personal favorite, however it remains a monumental achievement fully worthy of its title of greatest Czech film ever made. 

lunedì 29 ottobre 2018

Disobedience - Sebastián Lelio

non succedono troppe cose in questo film, è quasi un film morale, si tratta di libertà, a parole e nei fatti.
bravi gli attori, Rachel McAdams, Rachel Weisz e Alessandro Nivola (nipote di Costantino, il grande artista sardo, emigrato negli Usa)
l'amore fra due donne è uno scandalo, sopratutto se si vive in una comunità chiusa, dove si parla di libertà, ma è come una galera.
l'unica salvezza è fuggire, quando si può.
è il primo film Usa, riuscito, di un bravissimo regista cileno (qui un altro suo film)
non trascuratelo, al cinema in questi giorni - Ismaele




…Il senso di oppressione è figlio di un sistema granitico e intoccabile, all'interno del quale si naviga a vista, sperando di non affondare. Il contrasto non arriva necessariamente da uomini e donne, anzi: il film non propone veri e propri antagonisti ma solo persone che vivono in un contesto, esso stesso tutt'altro che manicheo nella rappresentazione, denso di positività e contraddizioni. E persone credibili, vere, sono quelle che vengono raccontate tramite il buon lavoro degli attori, i piccoli gesti, il sorriso beffardo dopo una battuta fuori luogo, lo sguardo lancinante nel momento sbagliato, la passione improvvisa che esplode e distrugge tutto, regole, imposizioni, tradizioni, voglia di rimanere inquadrati per non rischiare di perdere ciò a cui non si vorrebbe rinunciare ma senza rinunciare a ciò che non è possibile perdere.

La trama è permeata da un’aura di bellezza che si intreccia al senso di colpa generando una visione intelligente ed esteticamente appagante. La forte identità e profondità dei personaggi, che non hanno bisogno di grandi gesti per esprimere i tormenti o i piccoli gesti quotidiani, contrasta la sensazione di soffocamento proprio del film.
Un cinema di sottrazioni e asservimento che pone un pesante fardello sulle due protagoniste. Rachel McAdams non utilizza altro che lo sguardo, sempre cupo e segnato, per rendere persuasiva la condizione di Esti, intrappolata in quel mondo e con suo marito. L’attrice americana fa, inoltre, un lavoro delizioso per trasmettere le emozioni di una donna che si tormenta per la sua esistenza. Esti, interpretata da Rachel Weisz, non sembra venire toccata dalla sua situazione da emarginata, ma rappresenta il punto di debolezza di Ronit, protagonista di un vissuto silenzioso e laconico.
Le due attrici trasmettono chiaramente la vita interiore dei personaggi incarnati, il che rende facile mettersi dalla loro parte anche se la storia è focalizzata perlopiù su Ronit come esiliata dalla comunità e unica persona in grado di vedere il mondo reale al di fuori di un sistema religioso fortemente miope e indottrinato.
Ed è allora che Disobidience diventa la testimonianza intima della ricerca del proibito e del trasgressivo verso un’estasi potenzialmente sconosciuta e sconfortante, ma positivamente potente.

…Disobedience nos lleva hasta un lugar de Londres donde cohabita la comunidad judía ortodoxa de nuestra protagonista, Ronit, esa congregación llamada Henden es donde Ronit pasó buena parte de su vida y tras pasar años de asfixia decide irse a vivir a New York. Allí pierde relación con toda la comunidad incluida la de su padre el rabino de la congregación con lo que cuando es avisada de la muerte de su padre se sorprende pero decide volver a sus orígenes para honrar el cuerpo de su progenitor. Una vez de regreso vuelve a ver a sus amigos de la juventud que ahora están felizmente casados, Dovit y Enit, con lo decide pasar ese tiempo de estancia en casa de estos. Lo que no esperaba Ronit es que afloraran sentimientos que pensaba olvidados sobre Enit cosa que complicará más la relación de estas en una comunidad donde las prohibiciones están a la orden del día y la libertad de la mujer está muy cuestionada algo que irrita considerablemente a Ronit.
Disobedience es una de las mejores películas que podemos ver actualmente en la cartelera en gran medida al buen hacer del director sudamericano que recrea una historia de pasión que traspasa la pantalla mostrando una veracidad única. A veces fría, realizada con conciencia de ello, sirve esto
para mostrar una distancia en una relación que no por ello deja de criticar unas reglas estrictas sobre una religión que roza el sectarismo. Nada o poco que objetar en  Disobedience cuyas actrices crean unos de los mejores trabajos de sus carreras haciendo todavía mas potente un titulo como este que no tendría que pasar desapercibido por nadie. Solo cierto convencionalismo en la parte final rompe el esquema casi perfecto de una historia que desborda por su emoción y sensibilidad.

Louder than bombs (Segreti di famiglia) - Joachim Trier

un film un po' lento e ripetitivo.
il padre e il figlio piccolo, Conrad, non riescono a parlarsi, per tutti è difficile ricordare la madre, e riuscire ad elaborare il lutto.
a differenza degli altri suoi grandi film, qui Joachim Trier, allontanatosi dalla Norvegia, si perde un po' in un film, il primo negli Usa, che non colpisce.
la sufficienza c'è tutta, ma Joachim Trier sa fare di meglio - Ismaele





…Stavolta tocca alla Huppert nel primo film ospitato in Concorso a Cannes del norvegese Joachim Trier, Louder than Bombs: confuso, zeppo e insieme vuoto, incongruo e solo in qualche sparuta sequenza fascinoso, non va. Proprio non va: La Hupper interpreta la reporter di guerra del NY Times: è morta in un incidente automobilistico, o forse suicidio, e ha lasciato su questa terra il marito professore (Gabriel Byrne, ignavo di ruolo e di fatto), Il figlio più grande Jesse Eisenberg  – i suoi capelli lisci dicono bene di quanto vedremo… – e il più piccolo Devin Druid.
Tutti e tre ugualmente e differentemente disturbati, incapaci di elaborare il lutto e rifarsi una vita: si evitano, il piccolo con il padre, si parlano senza dirsi, il grande e il padre, si confrontano, i due fratelli, per la sventura dello spettatore, perché il piccolo ha composto una specie di poema bimbominkia e il grande certifica il capolavoro tradotto visivamente da Trier con un collage altrettanto sghembo. Mashup, tristesse…

…In questo dramma silenzioso e (troppo) delicato, il senso di frustrazione provato da chi osserva la storia svilupparsi con fatica è potente. Ogni personaggio accende una miccia, una scia luminosa che illumina di una luce fioca uno dei tanti percorsi del labirinto in cui Trier li ha intrappolati. Ma l’esplosione emozionale, quella che dovrebbe risuonare “louder than bombs” non si verifica, viene soffocata, lasciando ogni possibilità di comprensione (e compassione) sospesa e irraggiungibile.
Gli sguardi intensi di Isabelle Huppert, la dolorosa preoccupazione di Gabriel Byrne, la fredda razionalità di Jesse Eisenberg e l’inquieta solitudine di Devin Druid, per quanto meritevoli di spazio e approfondimento, non riescono ad amalgamarsi in un unicum che sia davvero portatore di senso. Le individualità più che incontrarsi si scontrano, come sottolineato da un montaggio che a tratti pare eccessivamente artificioso, ma nessuna trova davvero un varco nel dedalo immaginato da Trier, finendo per perdersi in un irrealizzabile, quanto inaccessibile, immaginario onirico.

…La piattezza di Segreti di famiglia è infatti il suo più grande difetto, e si declina in diverse maniere. Da una parte la sceneggiatura, pur sforzandosi di creare situazioni peculiari, sembra non andare da nessuna parte, dall’altra il rigore visivo del film non sembra abbinarsi benissimo a vicende che non comunicano la sensazione di sacralità del nucleo familiare che conosciamo da film come Tree of life, a cui il primo fotogramma di Louder than bombs rende tributo.
Si può dire in un certo senso che la pellicola sia divisa tra la ieraticità che vorrebbe imporre al materiale e la trivialità e bassezza dei propri personaggi, con poche eccezioni nevrotici e insopportabili. Il risultato è un film che non riesce a creare un’aria rarefatta e “mistica”, ma che al contempo non è in grado di mettere sostanzialmente le mani nella pasta dei personaggi e dei dialoghi per creare un intreccio interessante.
Un passo falso per un regista promettente dunque, ma che non riduce le mie aspettative per i film ancora da venire.

sabato 27 ottobre 2018

L'ombra della vendetta (Five Minutes of Heaven) - Oliver Hirschbiegel

due ex nemici devono incontrarsi e fare la pace, ma non è facile.
Joe ne vuole approfittare per chiudere i conti con Alistair, il suo incubo da quando era bambino.
ma non è facile vendicarsi dopo tanto tempo.
bravissimi James Nesbitt e Liam Neeson.
un film che ti prende e non te ne stacchi più.
merita, buona visione - Ismaele







Nel film di Hirschbiegel sono due le vite distrutte: Alistair si è fatto dodici anni di galera, è un uomo solo, perseguitato da una colpa incommensurabile. Non si fatto una famiglia, essere perdonato o essere ucciso per lui è lo stesso, purché si liberi dal fardello.
Joe lavora in un cartonificio per contenitori di uova , ha moglie e due figli, è un nevrotico ossessivo (e chi non lo sarebbe con il peso di un fratello ucciso, la colpa attribuitagli dalla madre, il padre morto di infarto sei mesi dopo), scosso da tic tourettici.
La partita tra i due uomini sta per cominciare. Impossibile giudicare, non resta che riflettere.
Oliver Hirschbiegel dirige con sobrio distacco, Liam Neeson è meno rigido del solito e ripete una performance degna di Schindler, James Nesbitt è straordinario (come in Bloody Sunday), forse troppo sopra le righe.
Five Minutes to Heaven è un film politico come Frost/Nixon e United ’93: spazio chiuso, confronto, suspense.  

Molto bello il soggetto, vittime e carnefici della guerra in Ulster, perchè in fondo di guerra si è trattata come testimonia l'alto numero di morti. C'erano stati accenni a tale contesto già in pellicole come Nel nome del padre di Sheridan, ma mai affrontati con tale profondità come in questo caso dove si affrontano due reduci imprigionati da un passato di sangue. Un dolore troppo profondo che nessun programma televisivo "riconciliatorio" può lenire. Molto buona la sceneggiatura ed Ottima la scelta degli attori: sia Neeson che Nesbitt raccontano due vite che per opposti motivi portano su di sè il peso della colpa vere e presunte. La regia Hirschegel poi fa il resto rendendo la narrazione appassionante senza cadute di ritmo, riuscendo infatti a farti entrare dentro il racconto per non lasciarti più.

…Sin llegar a la categoría de obra maestra, pues es de esas películas a la que encuentras que le falta algo, Hirschbiegel consigue realizar con escasos medios un film honesto que profundiza en la conciencia humana sin tomar partido, ni político, ni religioso, ni ético. Sólo intentando comprometerse con los hechos, en este caso dramáticos problemas de conciencia. Algo muy de alabar en medio de una producción sobre todo exteriorizante o de fútiles buenos sentimientos, donde la reconciliación se presenta meramente como una fácil moraleja final.

giovedì 25 ottobre 2018

Citadel - Ciarán Foy

un omicidio, bambini assassini, un padre con la figlia, un prete, un'assistente sociale, le torri di Glasgow, terrore, agorafobia, buoni attori, in un film che non sarà un capolavoro, ma riesce a non sfigurare davanti ai modelli di ispirazione.
fa anche un po' di sana paura.
una bella sorpresa, buona visione - Ismaele





This is a basic story, simply and directly told by Irish writer-director Ciaran Foy. He doesn't try to explain too much, he doesn't depend on special effects and stays just this side of the unbelievable. As Tommy, Aneurin Barnard is very effective. He trembles and sweats with fear, he would seem paranoid if it didn't seem the "demons" weren't really there, and if they hadn't really killed his wife.
The priest enlists Tommy in a scheme to destroy the Citadel and send the demons back to the flames of hell. This would be a better plan if they didn't start at the ground floor and work their way up. Think about it.

Citadel looks great, with clean, sterile camerawork highlighting Tommy's loneliness and despair in the first half, and frantic, kinetic photography driving home the action-oriented conclusion. The scares are never contrived and always effective, and aside from the inherently confusing and half-baked nature of the demonic children's mythology, the story is unique and fascinating. Yet the entire film never quite gels as an allegory for overcoming one's own fears, even though that goal is readily apparent, as is Foy's immense talent and potential as a filmmaker. Given his natural eye and innate sense of what is simultaneously frightening and compelling, there can be no doubt that the writer/director will impress later down the line.

…Citadel, il primo lungometraggio di Foy, mette insieme queste intuizioni sullo sfondo di una Glasgow post-apocalittica e Ballardiana, desumendo dallo scrittore britannico quello sguardo disfunzionale sulla morfologia della città verticale osservata dopo il declino. Tommy (Aneurin Barnard) e Joanne (Amy Shiels), la sua fidanzata incinta, vengono assaliti da un gruppo di ragazzini incappucciati direttamente fuori dal loro appartamento, situato in un edificio fatiscente, parte di un complesso noto come Citadel. Mentre Tommy è costretto in ascensore, vede attraverso il vetro la scena del massacro; quando riuscirà a liberarsi da quell’angusto abitacolo, troverà Joanne ferita a morte e con una siringa ipodermica piantata in pancia. La donna entrerà in coma profondo dopo aver partorito una bimba e il ragazzo dovrà prendersi cura della piccola uscendo ogni giorno in un territorio ostile e abbandonato, filmato come una discarica infinita senza più nessuna funzione sociale; gli unici luoghi di interazione subiscono una fortissima deformazione di memoria quasi Polanskiana, dove la realtà sembra sfaldarsi in una continua riconfigurazione dello sguardo soggettivo…

mercoledì 24 ottobre 2018

I tre stati della melancholia (Melancholian kolme huonetta) - Pirjo Honkasalo

bambini in guerra, orfani, dimenticati, maltrattati.
la Russia educa futuri soldati, per guerre senza fine.
il film è un documentato dove non c'è niente da ridere, anzi,
i bambini sono il patrimonio per le guerre future, qualcuno può essere ammazzato, ma il patrimonio umano va conservato e curato.
poveri bambini.
un documentario che merita molto, buona visione - Ismaele 





Il mio film è un ritratto di quello che noi esseri umani facciamo gli uni agli altri. E nasce dal mio sentimento di vergogna. Lo considero il mio contributo ai negoziati di pace in varie parti del mondo.
Quello che è successo in Ossezia credo sia opera di un terrorismo internazionale che però trova adesioni in una popolazione decisa a combattere fino all’ultima persona per l’indipendenza.
(…) La Cecenia da un lato è diventata un ottimo business per gli ufficiali che trafficano in armi e droga, dall’altro è la guerra privata di Putin, che sa reagire come gli è stato insegnato. Perché un uomo del KGB rimane tale anche se, come diciamo in Finlandia, lo friggete nel burro.
(Pirjio Honkasalo durante la conferenza stampa a Venezia 61, parlando della Strage di Beslan)

Sullo sfondo c'è la guerra in Cecenia. L'incapacità degli adulti di risolvere la guerra dà vita a una generazione che crede che l'odio nasca in loro stessi. Non c'è bisogno di cercarne le cause. Per tutta la vita saranno accompagnati dalla malinconia e da improvvisi scoppi d'ira. Nell'isola di Kronstadt, davanti a San Pietroburgo, è stata fondata una scuola militare per gli orfani. Lì vengono addestrati come soldati il cui nemico è il ceceno. Solo con la sua sconfitta definitiva, il soldato diventerà un eroe della patria. In Cecenia, Xhadizhat Gataeva, lei stessa diventata orfana quando aveva sei anni, fa da madre a 63 orfani raccolti dalle rovine della devastata Grozny. Quasi tutti i loro genitori sono stati uccisi dai russi...

3 Rooms came to a premature halt in the fall of 2003, when the war began spilling over into Ingushetia, but that sense of danger and chaos is systematically excluded from the finished film. This is the kind of movie that attracts adjectives like “rarefied” and “meditative.” It’s beautifully shot and was made with undeniable intelligence (and at some physical risk to the filmmakers). Still, is it unfair to ask if meditation is really an adequate response to war? To suggest that the contemplation of natural beauty here is but an escape from the vicissitudes of human history? Given the sheer number of poorly crafted political docs that have sprung up like weeds over the past couple years, the lack of bleeding-heart sentiment and liberal preachiness comes as a relief. But given the current geopolitical stakes,
3 Rooms also feels like a retreat.

Dead Man Down - Il sapore della vendetta - Niels Arden Oplev

Colin Farrell non delude mai, qui in un film d'azione che sembra un filmetto come tanti, sulla carta, in realtà si fa vedere davvero bene.
Niels Arden Oplev riesce a tenere alto il livello della storia, dosando morte e amore, senza annoiare mai.
buona visione - Ismaele





…L’asso nella manica del regista danese è la debordante componente melodrammatica di Dead Man Down, enfatizzata dalla fisicità dei due protagonisti. Lasciandosi trascinare in questo tourbillon di vendette personali e sentimenti irrefrenabili, che prendono il sopravvento e rattoppano il côte gangsteristico, si possono probabilmente apprezzare anche gli eccessi narrativi. Tra i tanti, l’irruzione suicida con la macchina nel villino: una classica e impossibile situazione di “uno contro tutti”, con i proiettili che fischiano all’impazzata mancando sistematicamente l’eroe senza paura, ma non senza macchia. E allo stesso tempo, probabilmente, ci si può immergere nel mood della sequenza, che sembra presa di peso dal cinema hongkonghese anni Ottanta/Novanta. Insomma, un interessante cortocircuito geografico: Danimarca, Hong Kong e Stati Uniti. Ma non solo, visto che il tenebroso Victor è ungherese e la sfortunata Beatrice francese. Un melting pot che ci trascina in una New York grigia, tra capannoni industriali che nascondono macabri segreti e palazzi che ospitano silenziose solitudini.
La storia d’amore tra Victor e Beatrice e le ferite interiori e fisiche del loro passato sono il motore del film, la vera ragion d’essere di Dead Man Down. Più della vendetta, delle sparatorie e del piano arzigogolato contano la redenzione e il riscatto. È il viso sfigurato di Beatrice/Noomi Rapace (in netta ripresa dopo Sherlock Holmes – Gioco di ombre e Prometheus) a distogliere l’attenzione dalla maldestra detection della banda di Alphonse; sono le ombre e i fantasmi di Victor/Colin Farrell (attore dalle scelte spesso imprevedibili) a prendere il sopravvento su alcune sequenze dal basso grado di verosimiglianza. È la potenza del melodramma a riscattare un vengeance movie altrimenti meccanico e convenzionale…

Badando poco al bunker dei ricordi che sa di parecchio già visto, in particolare ci colpiscono alcuni punti del film: il momento della cena al ristorante, con i goffi tentativi di Victor e Beatrice di camuffare la verità sulla rabbia che covano, sull'accecata sete di giustizia, lasciando però trapelare quanto desiderino disperatamente ricominciare con qualcuno; le persecuzioni che Beatrice subisce quotidianamente dai bambini del quartiere, culminate sul vestito chiaro depositario di sogni e aspettative, pagina bianca da voltare che ancora una volta si macchia di sangue; il legame profondo e protettivo che la stessa ha con la madre (una splendida e sempreverde Isabelle Huppert), parzialmente sorda, con cui condivide il problema della disabilità.
Dettagli apparentemente insignificanti, ma da cui s'intravede lo zampino di una sensibilità europea, infiltrata anche nella miscellanea di un cast di provenienza francese, ispano-svedese, irlandese ed inglese. Un'influenza che fortunatamente si ripercuote sulla retorica a stelle e strisce, riuscendo a smorzarne la tradizionale stucchevolezza.

lunedì 22 ottobre 2018

Bronson – Nicolas Winding Refn

Tom Hardy interpreta Charles Bronson, l'uomo più cattivo della Gran Bretagna, ed è un mostro di bravura.
il film è davvero strano, dall'inizio, e bellissimo, non è un film che racconta le storie di un nonviolento come Gandhi.
Bronson non riesce a non dire sempre l'ultima parola, anzi l'ultimo pugno, non importa come andrà a finire, lottare per lottare è la sua fede.
ma come fai a raccontare di un film come questo?
bisogna vederlo.
e allora buona visione, non ve ne pentirete mai - Ismaele






Una vita incredibile, assurda ed estrema, un monumento al nichilismo, una titanica ed insopprimibile tendenza all’annientamento, alla mortificazione del corpo e dello spirito. Ma pure un problema sociale irrisolvibile, che manifesta, con il caso Bronson, l’incapacità del sistema detentivo di assicurare il rispetto della dignità fondamentale di un uomo costretto a vivere gran parte della propria esistenza in isolamento. NWR ci racconta la storia di quest’uomo in maniera non convenzionale e antinaturalistica. Pur se con qualche consonanza cromatica, il carcere disegnato da NWR, entro il quale si svolge gran parte della pellicola, è distante anni luce da quello messo in scena in Hunger da Steve McQueen (entrambi i film sono del 2008). Due storie vere, in egual modo, che raccontano la vicenda reale di due primatisti delle peggiori esperienze carcerarie britanniche, ma che indagano e perseguono finalità profondamente differenti. Quello di Steve McQueen è un affresco politico, il corpo di Michael Fassbender / Bobby Sands è lo strumento per raccontare una lotta, per mostrare un atto di sacrificio, ed il carcere è nel suo film il luogo dell’oppressione, dell’annientamento, dell’abiura, ma anche del gesto sovrumano, della volontà (politica) che domina la biologia. NWR è invece interessato all’indagine dell’istinto di questo straordinario e sbalorditivo personaggio, d’un posseduto da un’aggressività irrefrenabile, incapace di vivere nella società, quasi che fosse una belva feroce, una cristallizzazione genomica proveniente da un lontano passato della specie. Il carcere è dunque un set, una ribalta, la sola della quale dispone Charlie, sopra la quale mettere in scena il suo spettacolo. Una ribalta reale che diviene immaginaria nel film: Charles stesso interagisce con il pubblico immaginario di un teatro, truccato da clown o con il viso diviso a metà, narrando le proprie gesta come un attore che mette in scena una storia. È solo alla fine che il carcere diventa una gabbia, una terribile scatola di metallo dentro alla quale rinchiudere il “caso” Charles Bronson, ed il dolore – estetizzato in chiave gore – prenderà il sopravvento…
da qui

Ogni facile sociologismo, ogni giustificazionismo che riconduce la violenza dell’individuo a cause sociali e di deprivazione economica, viene fortunatamente spazzato via dal film di Refn. Peterson/Bronson nasce e cresce in una famiglia middle class assai perbene che, come usa dire, non gli fa mancare niente, non è dunque il prodotto di chissà quale triste emarginazione. Il suo primo colpo, quello alla banca con un fucile a canne mozze, lo fa semplicemente perché ne ha voglia e gli piace, per puro gusto dell’infrazione e dell’effrazione, forse anche per pura malvagità. E tutto quello che in seguito combinerà in carcere (rivolte devastanti, risse, combattimenti bestiali con detenuti e secondini) lo farà per usare la violenza come piedistallo del proprio mito, e (forse) anche per trasformare il proprio corpo, i propri muscoli, la propria animalità-belluinità in opera d’arte, in performance e esibizione dandistica, secondo un processo di estetizzazione della brutalità e della violenza, del sangue e della carne, non si sa quanto istintivo e inconsapevole, e quanto invece assai consapevole. A un certo punto della sua parabola Bronson scoprirà in carcere, attraverso l’intervento maieutico ma non disinteressato di un insegnante, di essere un artista dotato, di avere cioè una visione estetica del mondo e di saperla trasferire in lavori, in disegni, che immediatamente hanno successo e gli procurano fama fuori dal carcere…

"I showed magic in there!" he shouts after one brawl, bleeding in triumph. How's that? Magic, like in opening night? Does he expect a standing ovation? I believe most of us, no matter how self-destructive, expect some sort of reward for our behavior. It may not be some people's idea of a reward, but it's ours. Is Bronson then an extreme masochist, who only wants to be hurt? They say there are masochists like that, but surely there's a limit. What kind of passionate dementia does it require to want to be beaten bloody for 34 straight years?
I suppose, after all, Nicolas Winding Refn, the director and co-writer of "Bronson," was wise to leave out any sort of an explanation. Can you imagine how you'd cringe if the film ended in a flashback of little Mickey undergoing childhood trauma? There is some human behavior beyond our ability to comprehend. I was reading a theory the other day that a few people just happen to be pure evil. I'm afraid I believe it. They lack any conscience, any sense of pity or empathy for their victims. But Bronson is his own victim. How do you figure that?

domenica 21 ottobre 2018

Vermist - Jan Verheyen

Walter Sibelius (Koen De Bouw), capo della sezione Persone Scomparse segue il caso di Evi, 16 scomparsa da casa.
Una storia come tante, sembra…
non male - Ismaele


giovedì 18 ottobre 2018

Mother of Asphalt (Majka asfalta) - Dalibor Matanić

film di solitudini, fughe impossibili, rassegnazioni.
povero Milan, nell'ipermercato dove passano le vite degli altri, e lui può vederle, ma non sono per lui.
poi appaiono Mare e Bruno...
Dalibor Matanić è il regista di Sole alto.
da evitare nei giorni in cui sei tristissima/o - Ismaele











…Mare è una giovane donna croata, sposata con Janko, e madre del piccolo Bruno. Durante la messa della vigilia di Natale, annuncia al marito l’intenzione di lasciarlo. E subito dopo fa le valigie e se ne va, portando il figlio con sé, in casa della sorella. Ma il cognato non ci sta, e così Mare è costretta a girovagare per la città, a dormire in macchina, e, infine, a chiedere l’elemosina per mangiare. Si riduce in condizione pietose, ed anche Janko, dal canto suo, si trova ad imboccare una strada senza uscita: intraprende una relazione con un’amica, progetta un weekend sulla neve, ma tutto finirà nel peggiore dei modi, nel buio di una notte di Capodanno che aveva immaginato in maniera del tutto diversa. La miseria, morale e materiale, fa presto ad arrivare: può essere un’immediata conseguenza di un no piazzato fuori posto, oppure di un  pronunciato a sproposito. Ma può anche essere il risultato di un processo molto più lungo, in cui l’isolamento scava lentamente nell’anima,  giorno dopo giorno, un abisso in cui nemmeno ci si rende conto di precipitare. È il caso di Milan, il guardiano di un centro commerciale, che vive e lavora per conto proprio, padrone di spazi che non può condividere con nessuno…
…I tre protagonisti di questa storia, una moderna e silente avventura metropolitana, sono le schegge impazzite di un’armonia spezzata, frammentata in individualismi che non sono in grado di badare a se stessi. Mother of the Asphalt è un dramma a tre facce, che si guardano da lontano, senza riuscire a parlarsi, ognuna troppo intenta a seguire la fatale scia del proprio disorientamento.

Calvary - John Michael McDonagh

Padre James (Brendan Gleeson) aspetta una punizione, da parte di qualcuno che lui ha capito chi è.
non fugge, sopporta sulle sue spalle il peso dei preti merda, qualcuno si vuole vendicare su di lui, come esempio, o perché è a portata di mano.
il regista segue il protagonista per una settimana e Brendan Gleeson rende il film indimenticabile.
non privartene, se ti vuoi bene - Ismaele






…McDonagh dimostra di essere un regista carismatico dalla superba capacità di gestire soggetti e toni diversi. Interpretato magnificamente, con una scrittura pungente, Calvario è una precisa commedia nera, che senza indugiare immerge lo spettatore dentro i dubbi morali e lampeggia tra gli stati d’animo divini e dannati; e Padre James si muove in una via crucis tra la compassione e il perdono delle crisi esistenziali e dei peccati del mondo, o meglio della sua comunità di fedeli, sul lato Nord-Ovest dell’Irlanda.

Calvario disegna un microcosmo negativo, irriverente, nel quale ogni personaggio pare sopravvivere in modo casuale, senza uno scopo e senza la benché minima morale. Difatti McDonagh attornia il prete (interpretato da un convincente Brendan Gleeson) di caratteri cinici, arroganti e degenerati, quasi a voler rappresentare un mondo non solamente negativo, ma anche privo di speranza. Calvario procede per stazioni, ostenta confessioni e incontri che fanno vacillare il parroco di paese, che non trova pace nell’introspezione e continua a invocare integrità.
Pellicola che si professa baluardo del massacro etico, Calvario giustappone umorismo nero e destino ineluttabile (i Coen lo insegnano in modo meno cinico nelle loro parabole vitali), ma probabilmente non trova la giusta chiave di volta e, a causa di ciò, appare come un film a tratti fine a se stesso. Accanto alla meravigliosa fotografia di Larry Smith, lo spettatore trova un corollario di cattiveria, figlia di un mondo degenerato e distruttivo; e al centro di tutto ciò un pastore che cerca indissolubilmente di interrogarsi, di trovare all’interno dei suoi “parrocchiani” qualcosa per cui valga la pena salvarsi dal proprio tragico destino.

Il film, in più, è una chiara accusa e critica nei confronti dell’ipocrisia e della negligenza della chiesa, anzi degli uomini di chiesa (rappresentati nel film dal pragmatico aiutante di padre James, che stanco delle sue bigotte considerazioni sui fedeli, gli rivolgerà parole dure: «Perché sei un prete? Dovresti essere un dannato commercialista! O un dannato assicuratore»). Brendan Gleeson, con il suo volto ruvido e autentico, è il mediatore, colui che ascolta senza giudicare e il regista lo eleva ad una sorta di faro della comunità, che illumina il cammino di questi penitenti senza scrupoli e li indirizza verso la sublimazione della loro trasgressione in qualcosa di costruttivo.
La pellicola è un tuffo nel nero mare del cinismo in cui questi personaggi restano a stento a galla e, proprio la forzata concentrazione e interazione di tutte queste mostruose personalità in un solo paesino, rende la vicenda poco credibile agli occhi di qualsiasi spettatore. Nonostante ciò la sceneggiatura (dello stesso regista) caustica ed essenziale, conferisce alla storia ritmo e qua e là concede qualche brillante battuta detta sottovoce. Il film inoltre è impreziosito dalla suggestiva fotografia del maestro Larry Smith che riesce a catapultarci in un universo dark e dal paesaggio mozzafiato delle coste irlandesi.
Evocativo e perverso Calvary è la metafora perfetta dell’umanità moderna: come diceva Eric Fromm «l’uomo è l’unico animale per il quale la sua stessa esistenza è un problema che deve risolvere».

un ritratto impietoso, agghiacciante, che ti lascia addosso un senso di sporcizia e la voglia di farti una lunga doccia. Il problema è che raccontare una storia del genere attraverso un cast di personaggi così schizzatino (per quanto forse neanche troppo surreale, considerando l'ambientazione, e comunque contestualizzabile come gran metaforone del rapporto fra l'irlandese medio e la Chiesa) può generare risultati un po' stranianti. In parte la cosa è sicuramente voluta ma, tant'è, si tratta di un approccio che McDonagh non padroneggia forse nel migliore dei modi, faticando qua e là a centrare il tono giusto. Io non ho particolari problemi con questi strani mix ma, insomma, tanto vale sottolinearlo. Detto questo, Calvario merita comunque una chance, perché affronta temi forti senza tirarsi indietro e anche perché McDonagh riempie lo schermo con una splendida Irlanda, ritratta con uno sguardo dalla forza limpida.

martedì 16 ottobre 2018

Esperame en el cielo - Antonio Mercero

Paolino ha la sfortuna di assomigliare un po' troppo al dittatore Francisco Franco.
un giorno viene prelevato per fare la controfigura, il sosia, insomma, e addio alla vita precedente.
la vita opprimente di quegli anni si respira tutto, e se qualcuno pensa a un film divertente lasci perdere.
ci sono sì spazi di comicità, ma in una cornice cupa.
Antonio Mercero, come sempre, è un regista bravissimo.
buona visione - Ismaele






…en la película de Mercero, el entramado que se produce entre espiritismo, cine y fabricación del doble es extraordinariamente sutil. Sin embargo, su mensaje de fondo es demoledor: “España es un cuartel”, dice el Generalísimo, “haga lo que yo: no se meta en política”. Sin voluntad propia, ni de ninguno, la realidad política del país es una fantasmagoría. Los subyugados terminan por creer que lo negro es blanco, y lo blanco negro, si así se les dice. “Qué cansado viene el Generalísimo, claro, es que ha pescado un cachalote de mil kilos”, recita uno de sus sirvientes. “Paulino, ayer, de tres reojadas, cacé más de tres mil perdices”, le confía el dictador a su doble; la hipérbole, tan descarada, tiene que ser creída y celebrada. La idea es siniestra, y más cuando los medios nos transmiten que hoy este mismo tipo de autoengaño colectivo se produce igual en otra de las dictaduras de la tierra: Corea del Norte. Y no lo hacen mal, porque en el simulacro les va la vida.

En Espérame en el cielo, la ilusión más penetrante, más risible, y a la vez perturbadora, es la del propio Sinsoles, el “lanista” que entrena a Paulino: negándose a admitir que la voz impostada del dictador es chillona, le dice a su pobre víctima que el tono que buscan es “diamantino”. Y, una vez el oficial se labra su propia desgracia, al ser incapaz de distinguir su propia obra del dictador, irá gustoso a picar piedra al Valle de los Caídos: “¿y tú por qué estás aquí?”, le pregunta otro preso (probablemente político), a lo que Sinsoles responde, “¡por franquista!”. El papel es sin duda una de las mejores aportaciones de José Sazatornil, “Saza”, que también en estas semanas pasadas salía al paso de la eternidad.

En algún momento, como un Narciso enamorado de su reflejo, Paulino comienza a “cogerle gusto” a su personaje, y se prueba a sí mismo perdiéndose por los pasillos de El Pardo, incluso confundiendo a Doña Carmen, cual atrevido héroe que se cuela en la residencia de los dioses. La consecuencia es irremediable: Paulino-Franco ya se han convertido en Jano bifronte, en un todo bicéfalo —como la imperial águila—, en un tándem donde el doble termina verdaderamente por asimilar todas las funciones del dictador. La película, en perfecta simetría, termina como empieza: frente a una tumba. La simulación ha rebasado el nivel del recipiente: mientras Franco reposa, goloso, en la soleada tumba que al comienzo del filme esperaba a Paulino, el doble habita ahora el frío nicho destinado al dictador en el Valle de los Caídos, donde se transforma, como cantado por Góngora, “en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada”.

…La historia se centra en la vida de un tal Paulino Alonso un hombre llano del pueblo pero que tiene un gran parecido fisico con Franco. Durante una juerga privada es secuestrado por agentes del gobierno, con el fin de utilizarlo como doble del dictador en sus apariciones públicas de alto riesgo, comienza asi un "entrenamiento" en los gestos y modos de Franco, que Paulino termina finalmente aprendiendo. Mientras tanto su mujer y amigos deciden contactar con él por medio de sesiones de espiritísmo pero los resultados no son los esperados. A Paulino es ya practicamente imposible de distinguir de Franco por nadie. Pero no está conforme con su destino y piensa sublevarse, si bien unicamente conseguirá un fugaz encuentro con su esposa, en el que acuerda comunicarse con ella pellizcándose la oreja, gesto que ella podrá ver durante las restramisiones del NO-DO. Y ya al final de la historia se descubrirá que Paulino ha suplantado por completo al dictador, tanto que ha sido él y no Franco el que está enterrado en el Valle de los Caidos (pero eso solamente lo sabe su esposa)...
  Muy entretenida y estimable película como digo. Una comedia de enredos políticos con la posibilidad de que Franco utilizara un doble suyo en los actos públicos en previsión de posibles atentados. En mi opinión creo que es de lo mejorcito que Mercero ha hecho para la pantalla grande. Una película con unos fragmentos y diálogos muy ocurrentes y memorables: "Paulino hazme caso y fijate bien en mi, no te metas nunca en política". Una película pues muy entretenida y estupendamente ambientada en esa opresiva atmosfera de la España de la posguerra…