un film che non ti aspetti, quattro ragazzi (e una ragazza in più, la chiamano Crystal Fairy) stanno insieme per qualche giorno, cercano una droga e un posto per assumerla senza nessuno.
non ci sono adulti, un film di giovani, insicuri, un po' pazzi, e in fondo è un film sull'amicizia, il rispetto, la comprensione.
…Beffardo, ingenuo, comico ed emotivo come mai prima.
Michelino è in perfetta simbiosi con Silva, tanto da realizzare
contemporaneamente una doppietta in Cile, invadendo il Sundance Festival
dell’anno in corso (l’altro titolo è Magic Magic [Link#1 – Link#2], che – non – era un thriller proprio come Crystal
Fairy, – non – è un drug movie).
Crystal Fairy è
un esempio che dovrebbero seguire tanti di voi, cari registi intellettualoidi.
Nato senza script, si sviluppa come una riuscitissima jam
session improvvisata e sensuale, capace di trasmettere una palpabile e
piacevolissima sensazione di LIBERTÀ. Un trucco c’è, però: tutto nasce da uno
spunto essenziale, vale a dire la reale esperienza vissuta da Silva a caccia
del San Pedro. Tra l’altro in compagnia di una reale Crystal Fairy che il buon
Sebastian non ha mai più rintracciato.
La battuta più esilarante del film, che comunque – non – è
una commedia, è ovviamente di Michelino: riferendosi a Crystal Fairy, la chiama
Crystal Hairy (e bisogna vederla nuda per capire il perché), e la risata
collettiva che si scatena immediatamente è di una genuinità tale da costituire
la prova evidente dell’aria free-form che si respirava sul set…
…L’air de rien, Silva installe les bases de son discours qui,
progressivement, finit par défier les attentes. Loin de se limiter à un message
attendu et moralisateur sur l’acceptation de l’autre, il établit une dynamique
bien sentie sur les capacités d’intériorisation et d’extériorisation de soi.
C’est là qu’il surprend le plus. Son film aux allures de projet sans véritables
intentions prend ainsi rétrospectivement sens dans son dernier tiers. Pour le
spectateur le parcours n’est peut-être pas sans accrocs, mais il en vaut finalement
la peine.
gli ultimi tre giorni prima della libertà definitiva per Collin.
due amici da sempre passano insieme anche quei tre giorni, sempre sul filo del rasoio, lavorano per una ditta di traslochi e trasporti.
niente di straordinario, ma un film che si vede bene.
buona visione - Ismaele
…il film, diretto dal music maker di origine messicana Carlos Lòpez Estrada, risulta valido e convincente più per le singole situazioni, che per il risultato complessivo, non in grado di rendere la pellicola certamente memorabile.
Nel contesto invero drammatico di una vera e propria lotta di quartiere, di rilievo, per intensità e cinvinzione, appare la prova dei due protagonisti, il nero Daveed Diggs, e il bianco Rafael Casal, a me sconosciuti sino ad oggi, ma in grado di conferire ai rispettivi personaggi uno spessore ed una drammaticità che si inseriscono con prepotenza tra gli elementi più incisivi della media, ma ambiziosa pellicola.
…Avec intelligence et
originalité, "Blindspotting" casse les codes pour porter au plus haut
son message contestataire. Avec ce même saupoudrage d’humour et d’innovation
visuelle que présentaient les premières œuvres de Spike Lee, le métrage à
l’énergie communicative est une véritable claque, une chronique enragée et
poétique sur les rapports de classe et conflits ethniques. Sous la forme d’une
bromance délirante, où les digressions sont nombreuses, le réalisateur ne perd
jamais le fil de son intrigue, jusqu’à une apothéose à l’image des précédentes
séquences : intense et éloquente, incisive et saisissante. Avec sa mise en
scène esthétique, son montage tendu et son rap protestataire, cette première
réalisation frappe les cœurs et les esprits. Un immanquable !
È una tradizione degli Oscar: un discorso
politico squarcia il velo della mondanità e dell’autocelebrazione. Ne
scaturiscono reazioni contrastanti. Alcuni lodano l’oratore, altri lo ritengono
l’usurpatore egoista di una notte di celebrazioni. Poi tutti girano pagina.
Eppure sospetto che l’impatto delle parole del regista Jonathan Glazer, che il
10 marzo hanno fermato il tempo alla cerimonia di premiazione di Los Angeles,
durerà molto più a lungo, e il loro significato sarà oggetto di analisi per
anni.
Glazer stava ritirando il premio per il
miglior film internazionale per La zona d’interesse,
ispirato alla storia di Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento
di Auschwitz. Il film segue l’idilliaca vita domestica di Höss con la moglie e
i figli, che si svolge in una residenza signorile con giardino adiacente al
campo di concentramento. Glazer ha descritto i suoi personaggi non come mostri,
ma come “orrori non-pensanti, borghesi, ambiziosi-arrivisti”, persone capaci di
trasformare il male in rumore di fondo. Prima della cerimonia del 10
marzo, La zona d’interesse era già stato acclamato da
molte star del mondo del cinema. Alfonso Cuarón, il regista premio Oscar
per Roma, l’ha definito “probabilmente il film più
importante di questo secolo”. Steven Spielberg l’ha descritto come “il miglior
film sull’Olocausto che io abbia visto dopo il mio”, riferendosi a Schindler’s list, che sbancò agli Oscar trent’anni fa.
L’impatto delle parole del regista
Jonathan Glazer, che il 10 marzo hanno fermato il tempo alla cerimonia degli
Oscar, durerà molto a lungo e il loro significato sarà oggetto di analisi per
anni
Ma mentre il trionfo di Schindler’s list rappresentò un momento di unità
per la maggioranza della comunità ebraica, La zona d’interesse capita
in un momento diverso. Oggi infuria il dibattito su come debbano essere
ricordate le atrocità naziste: l’Olocausto dovrebbe essere considerato solo un
dramma degli ebrei, o come qualcosa di più universale? Fu una lacerazione unica
della storia europea, oppure un ritorno a casa dei genocidi coloniali, insieme
alle logiche e alle teorie razziali che ne erano alla base? Quel “mai più”
significa mai più per tutti o mai più per gli ebrei, una promessa che rende
Israele intoccabile?
Questi conflitti sull’universalismo del
trauma, sull’eccezionalismo e sulla comparazione sono al centro dell’accusa di
genocidio mossa dal Sudafrica a Israele presso la Corte internazionale di
giustizia, e stanno lacerando le comunità ebraiche in tutto il mondo. In un minuto
Glazer ha coraggiosamente preso posizione su ciascuna di queste dispute. “Tutte
le nostre scelte sono state fatte per riflettere e metterci di fronte al
presente, non per dire ‘guardate cos’hanno fatto allora’, ma piuttosto
‘guardate cosa facciamo adesso’”, ha detto, sbarazzandosi dell’idea che
paragonare gli orrori di oggi ai crimini nazisti significhi di per sé
minimizzare, e non lasciando dubbi sul fatto che fosse sua intenzione tracciare
una continuità tra il passato mostruoso e il nostro mostruoso presente. Ed è
andato oltre: “Siamo qui in quanto uomini che rifiutano di lasciar manipolare
le proprie identità ebraiche e l’Olocausto da un’occupazione che ha trascinato
nel conflitto tante persone innocenti, sia le vittime del 7 ottobre in Israele
sia quelle dell’attacco in corso a Gaza”. Per il regista Israele non può
passarla liscia, e non è etico usare il trauma dell’Olocausto come
giustificazione o copertura per le atrocità commesse oggi dallo stato
israeliano.
Altri hanno sostenuto queste argomentazioni
in passato, e in tanti hanno pagato a caro prezzo, soprattutto se palestinesi,
arabi o musulmani. Glazer ha sganciato la sua bomba retorica protetto da
un’armatura identitaria: si è presentato alla platea come un uomo ebreo bianco
e di successo – con al suo fianco altri due uomini ebrei bianchi e di successo
– che, insieme, avevano fatto un film sull’Olocausto. E questo privilegio non
l’ha messo al riparo dall’ondata di calunnie che hanno travisato le sue parole
affermando che stava ripudiando la sua identità ebraica, un’accusa che rafforza
la tesi del regista.
Altrettanto significativo è quello che è
successo dopo il suo intervento. Appena Glazer ha finito il discorso –
dedicando il premio ad Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk, una donna polacca che
di nascosto portava da mangiare ai prigionieri di Auschwitz e che combatté i
nazisti tra le file dell’esercito polacco – sul palco sono saliti gli attori
Ryan Gosling ed Emily Blunt. Senza neppure una pausa pubblicitaria, siamo stati
catapultati in una gag sul fenomeno “Barbenheimer”, con Gosling che dice a
Blunt che Oppenheimer, il film
sull’invenzione di un’arma di distruzione di massa in cui lei ha recitato,
avrebbe sfruttato il successo di Barbie al
botteghino, e Blunt che accusa Gosling di essersi dipinto degli addominali
finti. All’inizio ho temuto che questo improbabile accostamento avrebbe
indebolito l’intervento di Glazer: come potevano coesistere le strazianti
realtà appena invocate con questa energia da ballo del liceo californiano?
Glazer ha sottolineato che il soggetto
del suo film non è l’Olocausto, ma la capacità umana di convivere con le
atrocità, di farci pace, di trarne un beneficio
Poi ho capito: l’artificio scintillante
che ha incorniciato quel discorso aiutava in realtà a ribadire il concetto. “Il
genocidio diventa il sottofondo della loro vita”: Glazer ha descritto così
l’atmosfera del suo film, dove i personaggi badano ai loro problemi quotidiani
– figli insonni, una madre incontentabile, l’infedeltà – all’ombra delle
ciminiere che sbuffano resti umani. Queste persone non ignorano che al di là
del loro giardino stia operando una macchina di morte su scala industriale.
Semplicemente hanno imparato a vivere delle vite appaganti sullo sfondo di un
genocidio. È questo l’aspetto del film di Glazer che appare più contemporaneo.
Dopo più di cinque mesi di massacri quotidiani a Gaza, con Israele che ignora
gli ordini della Corte internazionale di giustizia e i governi occidentali che
lo rimproverano bonariamente continuando a inviargli armi, il genocidio sta
diventando ancora una volta un rumore di fondo. Glazer ha sottolineato che il
soggetto del suo film non è l’Olocausto, ma qualcosa di più duraturo e
pervasivo: la capacità umana di convivere con le atrocità, di farci pace, di
trarne un beneficio.
All’anteprima di maggio, prima
dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e prima dell’aggressione di Israele a Gaza,
si poteva considerare il film come un’opera intellettuale da contemplare con
distacco. Le persone che dalla platea del festival di Cannes hanno accolto La zona d’interesse con un applauso di sei minuti
probabilmente si sentivano al sicuro ad accarezzare la sfida di Glazer. Forse
alcuni avranno riflettuto su quanto ci siamo assuefatti alle nuove imbarcazioni
cariche di persone lasciate annegare nel Mediterraneo. O forse avranno pensato
ai jet privati che li avevano portati in Francia e a come le loro emissioni
sono legate alla scomparsa delle fonti di sostentamento per le persone povere
in luoghi lontani.
Glazer voleva che il suo film provocasse
questo genere di pensieri scomodi. Però, da quando è arrivato nei cinema a
dicembre, la sfida con cui il regista invitava gli spettatori a contemplare
l’Höss che è dentro di noi ci ha toccato molto di più. La maggior parte degli
artisti tenta d’intercettare lo spirito dei tempi, ma La zona d’interesse potrebbe aver risentito di
qualcosa di raro: un eccesso di rilevanza e di attualità.
In una delle scene più memorabili del film
un pacco di vestiti e biancheria femminile rubati agli internati del campo
arriva in casa Höss. La moglie del comandante, Hedwig (interpretata da Sandra
Hüller), stabilisce che tutte, comprese le domestiche, possono scegliere un
capo. Lei tiene per sé una pelliccia, e prova perfino il rossetto che trova in
una tasca. È questa intimità con i morti a essere agghiacciante. E non ho idea
di come qualcuno possa guardare questa scena e non pensare ai soldati
israeliani che si sono filmati mentre frugavano nella biancheria delle
palestinesi a Gaza o mentre si vantavano di rubare scarpe e gioielli per le
loro fidanzate o mentre si facevano selfie di gruppo con le macerie di Gaza
sullo sfondo. Sono tanti questi echi che il capolavoro di Glazer sembra un
documentario. È come se, girando La zona d’interesse con
lo stile di un reality show, con telecamere nascoste nella casa e nel giardino
(il regista ha parlato di “Grande fratello nella casa nazista”), il film avesse
anticipato il primo genocidio in diretta streaming.
Tutti quelli che conosco che hanno
guardato il film non sono riusciti a pensare ad altro che a Gaza. Questo non
vuol dire stabilire un paragone con Auschwitz. Non esistono due genocidi
identici. Ma il motivo stesso per cui è stato costruito l’edificio del diritto
internazionale umanitario era proprio darci gli strumenti per riconoscere alcuni
elementi distintivi. E alcuni di essi – il muro, il ghetto, le uccisioni di
massa, l’intento di sterminio più volte dichiarato, la riduzione alla fame, il
saccheggio, la disumanizzazione, e l’umiliazione – si stanno ripetendo. E allo
stesso modo è così che il genocidio diventa un sottofondo, è così che quelli di
noi un po’ più lontani da quei muri possono bloccare le immagini, spegnere le
grida e semplicemente andare avanti. Ed ecco perché l’Academy ha rafforzato il
messaggio di Glazer con quel brusco passaggio a “Barbenheimer”. L’atrocità sta
di nuovo diventando un sottofondo.
Cosa possiamo fare per interrompere la
normalizzazione? In tanti stanno offrendo le loro risposte con proteste, con la
disobbedienza civile, inviando convogli di aiuti a Gaza o raccogliendo fondi.
Ma non basta.
Guardando gli Oscar, dove Glazer è stato
l’unico nella passerella di ricchi a parlare di Gaza, mi è tornato in mente che
erano passate due settimane da quando Aaron Bushnell, un soldato di 25 anni
dell’aviazione statunitense, si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana
a Washington.
Non voglio che nessun altro metta in atto
quella spaventosa forma di protesta. Ma dovremmo meditare sulla dichiarazione
che Bushnell ha lasciato, parole che considero un finale contemporaneo del film
di Glazer: “Molti di noi si chiedono: ‘Cosa farei se vivessi durante la
schiavitù? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo
un genocidio?’. La risposta è: lo stai facendo. Proprio in questo istante”. ◆fdl
Questo articolo è uscito sul numero 1555 di Internazionale, a pagina
43.
un avamposto di montagna non dà notizie e un gruppo di soldati viene mandato a capire cosa è successo.
una morte dopo l'altra, una tensione che non cala, la paura dei terroristi, ma la morte già li accompagna.
nessuno si fida di nessuno, film oscuro e notturno, una donna che non parla (una strega, una terrorista, chissà) è il detonatore della violenza.
non sarà un capolavoro, ma è un film che sorprende.
buona (claustrofobica) visione - Ismaele
…La gran virtud de esta película es que en ningún
momento la tensión que crea sobre el público desaparece. Primero, con su bien
elaborado engaño para hacer creer que se trata de un cuento de horror, y luego,
con la descarnada forma en que va transformando a sus personajes y se va
deshaciendo de ellos uno a uno, algunos de forma angustiante y otros de manera
cruel, incluso truculenta.
De manera que esta
cinta cumple a cabalidad su cometido, que no es otro que producir en el
espectador emociones fuertes por medio de los recursos del horror y el
thriller. Y esto lo hace gracias a un guión simple pero bien elaborado, a unos
actores de gran fuerza y contundencia en la encarnación de esos duros
personajes y a la hábil construcción de un espacio dotado de un ambiente lleno
de tensión y de zozobra, como la película misma.
The similarities of this story with the Serbian “The Enemy”,
reviewed five days ago in this blog, are too much evident. The screenwriters
from both movies were not the same and the movies are from the same year. I
just wanted to share this curious fact. Anyway, the Colombian “The squad” was
much more efficient and scary than its twin Serbian competitor. Maintaining a
certain ambiguity and the tension levels at top from start to end, it also
revealed to have a great direction and musical score behind the story. Aberrant
and creepy!
…Lo más
interesante de El páramo reside en su registro
general y en la apropiación estética de la locación elegida. La niebla que a
menudo tiñe el paisaje acentúa la abstracción del horror buscado, cuya
naturaleza nunca se devela del todo. He aquí el principal acierto del film, que
al mantener la indeterminación sobre qué es exactamente lo que aterroriza a los
soldados puede obtener algunos efectos deseados del género de terror. El páramo
parece una película de guerra, pero su filiación remite a aquel género.
La
omnipresente banda de sonido como guía e intrusión permanente con fines
didácticos para significar unívocamente lo que la lógica visual expone con
ostensible evidencia, más algunas licencias narrativas que subrayan los
horrores de la guerra, no están a la altura de varias decisiones formales de
encuadre y del esfuerzo por mantener la indeterminación del origen del horror
principal con el que trabaja la película. Aciertos indiscutibles son la forma
con la que Márquez destaca las distintas procedencias sociales de la tropa y
aquellos pasajes que comunican con un gesto la vulnerabilidad de los hombres
uniformados en el campo de batalla.
…Lo que encuentran los personajes en el
páramo traslada la película a otros parajes y el fantástico no tarda en
aparecer. La renovación genérica pasa así por una idea y no por la puesta en
escena, lejos de lo que llevó a los grandes maestros a consagrarse y consagrar
cada uno de los géneros. 'El páramo' tiene más fuerza por su trabajo plástico
que por sus piruetas narrativas.
…Brillante película que es una interesante mezcla entre
el género bélico y el género de terror que nos pone al límite de la tensión
casi en toda su duración, nos hace viajar dentro del miedo, nos sitúa en medio
del horror y nos deja allí, indefensos, sin nada agradable al que asirnos. Su
visionado puede ser un poco difícil, no por estar mal realizada, al contrario,
si no por esa falta de ayuda para su digestión. Todo en ella, sin ser perfecto
en su totalidad, consigue dejarnos anonadados y cuando finaliza, se nos queda
el cuerpo peor que al bajar de una montaña rusa. El guión es magnífico, la
fotografía excelente, las interpretaciones perfectas, aunque los diálogos son
rudos y casi incomprensibles, supongo que los soldados de un ejército hablan
así, pero esta cinta está hecha sin concesiones y esto puede ser uno de sus
puntos débiles.
Film un poco denostado por los espectadores pero que
esconde, a mi entender, una espesa trama de relaciones interpersonales. No la
recomiendo a personas sensibles ni a espectadores de películas clásicas de
terror. Es muy original y para verla hay que abrir la mente y aceptar que el
horror tiene muchos matices.
la guerra civile di Alex Garland non è la guerra di un paese lontano, diverso, è la guerra di casa, nostra, occidentale, riconoscibile.
i protagonisti del film non combattono, con la macchina fotografica osservano, mostrano, si buttano nella mischia, a rischio della vita, per uno scatto epico che li farà diventare immortali.
il mondo è diventato senza speranza, alcuni combattono contro altri, qualcuno sa perché, o forse non lo sa nessuno più, la guerra è igiene del mondo, poi, forse, si ricomincerà.
i fotografi documentano con le immagini, che non sono la verità, solo un istante in una storia lunga, col prima e il dopo, che molti non vedranno.
guardando il film non si capisce che guerra è, perché si fa, il film non è un documentario, l'obiettivo non è quello di spiegare, ma come i fotografi, quello di mostrare.
l'obiettivo è quello di inquietare lo spettatore, nessuno in sala può sentirsi tranquillo, tutto è riconoscibile, ma non interpretabile, non c'è una spiegazione logica, il presidente crepa come un Ceausescu, o Saddam, o Gheddafi qualsiasi.
non ci sono brutti, sporchi e cattivi, quelli brutti, sporchi e cattivi sono come noi, siamo noi, siamo in quel negozio, come quella ragazza, apparentemente indifferenti, con i cecchini sui tetti.
il caos, l'insicurezza, il disordine regnano sovrani, iniziare una guerra è molto più facile che finirla.
alla fine resta qualche immagine, niente più.
se pensi che questo sia il migliore dei mondi possibili, lascia perdere Civil War.
buona (disperata) visione - Ismaele
ps: scrive Medvedev:
...non posso sinceramente non augurare agli Stati Uniti di precipitare il più rapidamente possibile in una nuova guerra civile. Che, spero, sarà radicalmente diversa dalla guerra tra Nord e Sud del 19° secolo e sarà condotta utilizzando aerei, carri armati, artiglieria, MLRS, tutti i tipi di missili e altre armi. E che alla fine porterà al crollo inglorioso del vile e malvagio impero del 21° secolo: gli Stati Uniti d’America.
Chissà se ha visto il film di Alex Garland...
…Il film di Garland non è un film di guerra. Lo è solo
nella misura in cui offre un contesto drammatico per allestire la vicenda.
Perché non spiega niente,
con buona pace della critica americana timorosa di farsi illustrare la propria
politica da un inglese: cita le due fazioni in lotta (il Western Front contro
le forze governative), non fornisce le ideologie a confronto se non qualche
sporadico commento sul fascismo del Presidente (ma negli atteggiamenti ferini
anche la parte avversa non è da meno), non dà conto delle origini del
conflitto, al di là di qualche riferimento al secessionismo del Fronte
occidentale. Non lo spiega perché fondamentalmente non gliene frega niente
delle ragioni di nessuno. Il problema non è lì. Il problema riguarda soltanto chi documenta lo
stato di guerra. La deontologia dei fotoreporter a caccia del conflitto come se
fosse una dose di eccitanti per tenersi costantemente su. E la
loro eventuale sensibilità. Mettendoli al seguito dei commando e al centro
delle battaglie cruente, difesi solo da una giacca d’emergenza, un giubbotto
antiproiettile, un caschetto e una dose di buona sorte, Garland li fa diventare
un altro battaglione, meno violento ma talvolta altrettanto spietato, fondando
la metonimia sulla sovrapposizione
semantica della parola «shot»: sparo, sì, ma anche foto, istantanea…
…L'assenza di spiegazioni impedisce del resto di disinnescare questo
incubo con la logica e anche quel poco che ci viene detto basta del resto a
scombinare i nostri preconcetti. La California liberal e il Texas conservatore
sono qui alleati, contro un Presidente "fascista" che ha mantenuto il
potere per un terzo mandato, ha sciolto l'FBI e ha approvato bombardamenti con
droni sul suolo americano. L'odio verso di lui unisce così Stati anche
tradizionalmente avversi, in un caotico precipitare degli eventi che evita di
essere una banale e strumentalizzabile rappresentazione delle divisioni
dell'America oggi.
Spesso è persino impossibile dire chi stia da una parte e chi dall'altra e i
protagonisti del resto non lo chiedono quasi mai e quando lo fanno non ricevono
risposte, oppure vengono coperte dalla musica, come quando Joel chiacchiera e
ride con i sopravvissuti a una sparatoria, mentre Jessie fotografa
un'esecuzione. Il loro obiettivo è fare l'ultimo scoop o lo scatto definitivo,
quello che rimarrà nella memoria collettiva, il loro operare è un misto di
necessario cinismo e folle coraggio, di cui Garland non nasconde i paradossi.
Anzi gli inserti fotografici sono la principale marca stilistica del film, dove
il flusso frenetico dell'azione è spesso spezzato da immagini statiche, a volte
in bianco e nero, di uno o due secondi di durata e senza audio che non sia il
suono di uno scatto di macchina fotografica. I suoi giornalisti, con la loro
facciata di neutralità - che si infrange però a volte in grida mute e disperate
- sono l'unica risposta possibile alla fine della democrazia, sono i testimoni
che ci ammoniscono riguardo il baratro a cui ci avviciniamo. È attraverso di
loro che Garland firma un'opera dal taglio documentaristico, specchio di un
mondo distorto ma in cui è fin troppo facile riconoscere il presente.
…Kirsten
Dunst è serafica, controllata. Parla poco,
piuttosto pensa e agisce (scatta), non si lascia sopraffare dalle emozioni
perché crede sia l’unico modo sensato di gestire la realtà. Cailee Spaeny fa
tutto il contrario. Questo all’inizio del film, poi le cose cambiano e le
attitudini progressivamente convergono, per ribaltarsi del tutto. Tornando, a
ruoli invertiti, al punto di partenza. Non è una resa alla vita, l’incapacità
di Civil War e
di Alex Garland di
domandare senza rispondere. È la forza di questo straordinario e solo
apparentemente divisivo film, esplorare i dilemmi etici e morali (la tensione
civile e la spettacolarizzazione del dolore) collegati alla ricerca e la
testimonianza della verità. La giusta distanza, dilemma etico e necessità
artistica, condiziona ad ogni livello la natura ibrida di un film che è insieme
fantasia, denuncia, allegoria, documento e spettacolo. Tutto insieme,
problematicamente. Cinema per adulti.
…Garland en pantalla
vuelve a apelar a los diálogos sinceros, el humor negro, los personajes
mundanos y su laconismo visual/ expresivo marca registrada para construir una
contienda pesadillesca y genocida que por un lado invita al debate, de hecho
jugando con el exploitation de alarma social porque le exhibe sin filtro alguno
al público los posibles resultados truculentos a mediano plazo de sus “batallas
culturales” más necias o pueriles, y por el otro lado funciona como una
antiépica hollywoodense idiota y maniquea, señalando la insensibilidad popular,
tanto escarnio rutinizado, la sandez de las fuerzas armadas y desde ya la
antinomia entre periodismo de la verdad y medios masivos audiovisuales de la
mentira, amén de homologar a los corresponsales de guerra al miedo, el
suicidio, la adrenalina e incluso la irresponsabilidad ética flagrante para con
sus prójimos…
in Cile, sotto il regime fascista di Pinochet, la Resistenza è quasi impossibile e gli oppositori sono eroici, sanno che rischiano la vita ogni momento.
Carmen è la protagonista, una nonna cattolica, che ancora rischia, piena di paura e però coraggiosa, controllata e minacciata dalla polizia del regime.
una storia che non lascia tranquilli, nessuno si senta al sicuro.
buona (rischiosa) visione - Ismaele
Pure esordiente, Manuela Martelli si
dimostra in grado di confezionare un’ interessante pellicola. Partendo da un
noto e drammatico contesto storico e politico, il film riesce a virare al
thriller più incalzante senza forzare la mano su fatti e personaggi che
rimangono assolutamente compatibili e credibili con il contesto storico
tormentato e complesso sullo sfondo.
La Martelli elabora la vicenda con felice approccio narrativo,
incastrando ogni pezzo al punto giusto: la denuncia politica, la memoria
storica, la corretta suspense e un’ adeguata contestualizzazione ( dai risvolti
intimi a quelli psicologici) della protagonista, ottimamente interpretata dalla
brava e credibile Aline Kuppenheim.
La brava attrice risulta capace di rendersi credibile nel passaggio
da ricca donna dedita alla ristrutturazione della casa di vacanza, come
passatempo per non annoiarsi, a parte integrante ed attiva di una resistenza
alla dittatura. Divisa e schierata in una dimensione ufficialmente privilegiata
ed elitaria, ma coinvolta a difendere la causa delle vittime oppresse e fatte
sparire.
Il film si pregia di una fotografia accurata in cui prevalgono i
colori caldi e una ricostruzione d’ambiente meticolosa che non diventa tuttavia
un fine, bensì un mezzo per contestualizzare una vicenda curata, sin nei minimi
dettagli, sia tecnicamente, sia nella costruzione narrativa.
1976 resta un esordio notevole di un’autrice da
tenere d’occhio.
…Stupisce la bravura della Martelli nel costituire la
sua opera prima incastrando ogni pezzo al punto giusto: denuncia politica,
memoria, suspense, approfondimento psicologico della protagonista, ottimamente
interpretata da Aline Kuppenheim. All'inizio del film la vediamo impegnata a
scegliere i colori per la ristrutturazione della sua casa, i rumori di scontri
che provengono dalla strada sembrano qualcosa di completamente estraneo alla
sua esistenza. Ma una macchia di vernice che le cade sulle scarpe è il primo
segno che non si può evitare di sporcarsi in una realtà orrenda come quella che
stava vivendo il Cile. Sono particolari come questi a far capire che il film ha
una marcia in più. La cura nella fotografia e nella scelta delle location di
paesaggi costieri, le musiche assolutamente appropriate, l’attenzione ai colori
e ai dettagli, i punti di vista e le posizioni della macchina da presa, gli
zoom messi al punto giusto senza stafare sono induce di un talento che andrà
senza dubbio tenuto d'occhio.
…Los cambios emocionales de la
protagonista, de una u otra forma —en la crítica social de Moffat y de
Martelli—, expresarían una suerte de denuncia al vacío y a la superficialidad
en los cuales se encontraba Carmen, previo a poner en peligro su tranquilidad y
la de su acomodada familia; para luego zambullirse sin mayores requiebros
personales, en la aventura de posibilitar y de ayudar al escape de un
«extremista» de izquierda, desde su refugio en la parroquia playera y costera,
con el propósito de que este pueda continuar su lucha armada y política en
contra del régimen, en una empresa que es ya una opción de vida, y que abarca
la totalidad de una existencia.
Carmen evoluciona en profundidades
desconocidas para ella, y tanto el rostro de Aline Küppenheim como la música
incidental compuesta por María Portugal, atestiguan ese viaje hacia la
obscuridad o el final de una noche, política, moral, y en última instancia
cívica.
En efecto, la intimidad social y cultural
de ese Chile en su mayoría cómplice y simpatizante frente a las cuestionables
acciones de la Junta Militar de Gobierno en materia de seguridad interior, se
consiguen de una manera bastante realista y al modo de una recreación de
historicidad privada, insisto que suficientemente lograda y satisfactoria
(salvo la aparición de las antenas «neoliberales», por supuesto), acerca de un
país y de una sociedad, en suma, que confinaba a la proscripción y al
ocultamiento, a sus ciudadanos disidentes.
Ahí, en esas minucias dramáticas y
escénicas, sin duda, se rastrean el trabajo en la elaboración y en la redacción
del guion, y de la dirección de actores propiciada por Manuela Martelli…
…La primera película de Manuela Martelli
es una obra misteriosa cargada de detallesy belleza. Con ritmo lento, nos introduce poco a
poco en la vida de Carmen, una mujer tan preocupada por el color de
las paredes de su salón, como por el bienestar de un joven rebelde.
Tan preocupada por la tarta de cumpleaños de uno de sus nietos, como por la
posibilidad de un cambio político en su país.
En 1976 Martelli
es crítica con su país y con sus ciudadanos. Desde la boca de sus personajes
escuchamos que definen a Chile como un país triste y a
los chilenos como una sociedad débil y perezosa. Pero Carmen no
es así, es precisamente todo lo contrario.
Carmen es color, fuerza y valentía. Pero
en el Chile de 1976, esos atributos viven sometidos de una forma brutal. Su
valentía se sostiene gracias a su extrema curiosidad y la
protección de su fe cristiana. Es una valentía culpable. Carmen
es una mujer excepcional, inteligente e interesante. Pero vive como florero de un médico que es incapaz de mirar
más lejos de la punta de su nariz.
Ella tiene profundos deseos, con otros
hombres, profesionales y de vida. Pero la religión, una sociedad
profundamente machista y patriarcal y vivir bajo el yugo de un criminal como
Augusto Pinochet, ponen freno a todos sus impulsos…
…Durante
toda su vida, Carmen ha aceptado el papel que la sociedad patriarcal le ha
impuesto y se ha desempeñado como una mujer pasiva. Pero, gracias a un evento
fortuito, tiene la oportunidad de descubrir su verdadero yo y decidir quién
quiere ser en la vida. Sin embargo, lograr esto no será fácil, ya que tendrá
que enfrentarse no solo a la nueva clase política, sino también a su propia
familia, la cual está conectada con la dictadura. Aunque esta búsqueda implica
riesgos, Carmen experimenta una transformación personal profunda que justifica
todos los peligros que debe afrontar.
Escrita por
Martelli y Alejandra Moffat, y fotografiada con maestría por Yarará Rodríguez,
la película captura con sutileza el clima político y social de la época,
combinando elementos dramáticos, emocionales y de tensión en una narrativa
psicológica plagada de simbolismos (como zapatos, ventanas y pinturas que dicen
mucho más de lo que representan a priori) y haciendo uso del fuera de campo,
para ofrecer una nueva perspectiva que rompe con los estereotipos del género
cinematográfico político.
1976 es un retrato humano,
histórico y social que sitúa a la actriz convertida en cineasta como una de las
debutantes más prometedoras y comprometidas del último año.
una giornata di un poverissimo villaggio messicano, povertà allo stato massimo, semischiavitù di tutti, compresi i bambini, nelle piantagioni dei terratenientes e delle multinazionali.
un film che fa male, una giornata di ordinaria sfruttamento e sofferenza dei poveri del mondo.
le bambine e i bambini, nonostante tutto, provano a giocare e a ridere.
non guardate questo film, se non volete soffrire, ma bisogna farlo.
buona (messicana) visione - Ismaele
QUI
il film completo, non c'è bisogno dei sottotitoli.
Silenziosa
considerazione sulla vita di bambini messicani che, come al solito, per i più
rimane nell'ombra, Los Herederos osserva con sguardo lucido
e contemplativo una giornata tipo di alcuni fanciulli, davvero giovani, e delle
loro faticosissime attività lavorative.
Le immagini passano delicate e poco invadenti, tanta è la cura del dettaglio, a
cercare le mani e i volti sporchi di fango, nella speranza di vedere apparire
un sorriso fugace. Ma non è così, è troppo difficile sorridere quando il sudore
ti cola dalla fronte, le mani si rovinano contro i legni secchi raccolti nella
foresta, le dita si tagliano e si scottano. È troppo difficile giocare e vivere
come bambini se il tuo destino è quello di potare i giunchi, raccogliere
pomodori, cetrioli e verdura di ogni sorta, frutto per frutto con le nude mani;
tessere e stendere i fili lunghi e vorticosi al telaio con la mamma, come le
nostre nonne facevano e quei bimbi fanno tuttora; impastare la terra e riempire
gli stampi per i mattoni, velocemente. Perché più chili raccogli e più mattoni
prepari, più la tua famiglia mangia.
Volti indagati da vicino, con l'obiettivo che sembra quasi una mosca che gli
ronza intorno, che spia indisturbata i particolari dei loro corpi e dei loro
abiti provati dall'assenza di giochi. Qualche frase, ogni tanto, disturba i
rumori ambientali; ma per il resto non hanno voce questi figli, che come tutte
le loro famiglie sono costretti a una vita di fatiche: le nonne e i loro occhi
raffreddati, deperite, invecchiate per gli stenti, ci confermano che questo
sarà il loro futuro. Traspare implacabile da Polgovsky la pesantezza ereditata
dalle generazioni precedenti, gli affanni dei ragazzini che si caricano pesi
che pure una adulto faticherebbe a portare.
Un documentario questo, discreto nei toni, e invadente nei messaggi. I
protagonisti si lasciano avvicinare e seguire, abituati alla presenza dei curiosi,
o forse troppo indaffarati per prestare attenzione agli stessi, lasciando così
che la semplice assenza di giochi sia una valida spiegazione narrativa per il
film intero.
Forse le immagini asettiche con cui il regista ha cercato di celebrare questi
piccoli lavoratori della fame, lo portano talvolta a non approfittare della
ricchezza che la camera digitale gli regalerebbe; stiamo così, silenziosi, a
guardare, senza la forza di disturbare i loro ritmi serrati, ma con una lista
infinita di domande in testa e un enorme senso di impotenza di fronte alla loro
realtà. Questi procedono, gesto dopo gesto meccanicamente e rapidamente, mentre
a casa li aspettano le madri delle loro madri, i corpi e l'animo rassegnati.
A un tratto, tuttavia, inaspettatamente, subentra la musica: introdotta dalla
bimba che cucina e che sta al telaio, come fosse un carillon circense. E da
qui, infine, la festa. Perché dopo una giornata di sforzi si ha ancora la forza
di ballare, si deve aver la forza di ballare per non soccombere a una routine
implacabile che non lascia vivere i freschi anni in santa pace. Rimaniamo col
sorriso dei tre ragazzi che si inseguono e per un attimo, si divertono, mentre
pascolano le capre: nobili animali che in questo racconto sono gli unici a
concedere un momento di libertà ai giovani, nel loro lento ruminare indeciso. E
ancora, la musica, che non finisce e sfuma, a ricordarci che nel domani qualcun
altro vivrà di nuovo le stesse ingiuste fatiche.
…Il giudizio viene
espresso in modo poco invasivo (volendo sibillino) attraverso l’emersione di
alcune immagini stridenti o sconvolgenti, su cui ci si dilunga per attirare
l’attenzione. Si tratta di particolari apparentemente insignificanti, come un
ragazzino con le scarpe totalmente sfondate o un altro che ferma le sue ferite
con il nastro adesivo, ma a ben guardare suppliscono alla mancanza della
narratività, fornendo i punti cardine per un discorso complessivo piuttosto
chiaro.
A suggerire il
senso finale di questa indagine cinematografica, in particolare, è il montaggio
alternato dei volti dei bambini al lavoro (magari un po’ imbronciati ma sempre
pieni di energia) e quelli delle anziane del villaggio: facce deformate dalla
consuetudine del tempo e svuotate da ogni anelito di vita, come se una spirale
infinita avvolgesse le alture abitate dalle popolazioni messicane più povere,
condannandole alla stasi e alla miseria perpetua. Un documentario, dunque, che
cerca di sferrare un pugno in una carezza, affidandosi al potere suggestivo dei
mezzi cinematografici per insinuare (a costo di una certa piattezza espositiva)
un senso intimo, piuttosto che pietistico, di urgenza e di preoccupazione per
ciò che succede ai margini dello sguardo distratto della civiltà.
un film di tre ore, che sembra lento, ma tutto il tempo è necessario per lo sviluppo dei sentierichesibiforcano e poi si incrociano.
i cinque protagonisti si chiamano Morán, Norma, Román, Morna, Ramón, le loro vite (e non solo i loro nomi) si intrecciano in maniera casuale ma davvero sorprendente.
quello che sembra un film su un colpo in banca è in realtà un film sull'evasione da un lavoro e da una vita troppo noiose, che annichiliscono ogni speranza di un futuro possibile.
un film da non perdere, se appare in una sala cinematografica.
buona (imperdibile) visione - Ismaele
…La storia
è quella di un bancario che un giorno decide di rubare denaro alla banca, molti
soldi, in modo che sia conveniente farsi qualche anno di galera, tre e mezzo
con la buona condotta, e poi sparire con il malloppo che frutterebbe
esattamente gli stipendi ancora da percepire fino alla pensione. L’obiettivo
non è diventare ricco, ma non dover più lavorare. Morán, questo il suo nome,
coinvolge per necessità Román suo collega. Ma poi entrano in scena Norma e
Morna, due sorelle che stanno girando un film con Ramón. Tra flash back e
racconto del presente il film mostra tutte le sue potenzialità narrative per un
finale inatteso e illuminante.
…è tutta questione di
narratologia. Non cerebrale, ma gioiosa, borgesiana, con nomi che sono tutti
anagrammi, flashback che diventano “altre versioni della realtà”, rilievi
bressoniani che scherzano su loro stessi, lasciando il bottino (l'argent) in
mezzo a una collina intoccato, come se nel finale di Greed di von Stroheim McTeague non rimanesse solo
e immobilizzato nel deserto col suo tesoro, ma si dimenticasse il perché l’ha
preso in precedenza, e ci trottasse attorno col suo cavallo.
…Los Delincuentes es un film que
retrata en forma paródica el dilema de la clase media actual, atrapada en un
trabajo sin posibilidades reales de ascenso ni mejora salarial, aún menos de un
progreso en su situación social, sumida en una rutina agobiante o en la
depresión, siempre atrapada en esa trampa individualista que ve la vida en el
campo como una utopía distante, que apasiona y aterroriza por igual y que en
este caso lleva al protagonista a cometer un crimen absurdo para romper con
este círculo vicioso de explotación y humillación. Rodrigo Moreno logra un
trabajo tan caótico como bien resuelto, construido a partir de recursos
diversos, como flashbacks, pantalla partida y capítulos varios,
para reflexionar sobre el esquizofrénico trabajador actual, que realiza su
labor a desgano, sueña delirios adolescentes, es incapaz de asumir su adultez y
vive la vida como un zombie impasible.
in un palazzo di Madrid è caccia al tesoro, senza regole, mors tua vita mea.
la corsa finale è fra i terrazzi e le altezze dei palazzi, un tipo di epilogo che piace ad Álex de la Iglesia.
divertente e amaro, senza speranza per il genere umano.
buona visione - Ismaele
Apologo ferocissimo sulla grettezza umana rappresentata dalla
grottesca fauna umana che abita il condominio teatro del film.La fame di
denaro,la miseria morale dei tipi che abitano in quel casone fatiscente,sono
descritte con una penna intinta nel curaro e nonostante si rida parecchio non
c'è troppo da rallegrarsi perche'tutto quello che si vede rappresentato sullo
schermo è solo una piccola rappresentazione della realta'quotidiana.Il casting
è veramente brillante:a parte i protagonisti sono state scovate facce degne di
un quadro surrealista...
Julia è un agente immobiliare, uno degli
appartamenti che deve vendere è particolarmente lussuoso e fornito di gadgets
invitanti: idromassaggio, letto ad acqua. Julia decide di insediarsi a sbafo
nella comoda casa, finché il tetto della camera da letto non crolla per
un'infiltrazione d'acqua; è così che Julia scopre il cadavere decomposto del
vicino del piano di sopra e con esso la mappa per recuperare un vero e proprio
tesoro: 6 miliardi vinti al totocalcio. Tutto il condominio è però a conoscenza
del tesoro nascosto. Comincia così un'inquietante accerchiamento che costringe
Julia a barricarsi nell'appartamento. Horror condominiale dall'ironico gusto
nero. Non guarderete più il vostro vicino di casa con lo stesso sguardo. Una
vera e propria comunità di mostri, paradossi ricreati attraverso una visione
grottesca del quotidiano a noi più vicino; molti riconosceranno i volti,
trasformati dalla commedia, dei propri coinquilini: il single fascinoso, l'uomo
di mezza età aggressivo e quello cordiale, il giovane ritardato un po'
pervertito, l'anziana signora irascibile e le vecchie orrende zitelle.
Il cinema di Alex De La Iglesia è da prendere
o lasciare, o lo si ama o lo si odia. Fin da AZIONE MUTANTE, il regista
spagnolo (per l’esattezza basco) ha dimostrato una propensione per il grottesco
e la black comedy violenta e dissacrante. Una ispirata vena narrativa e visiva
accompagnata da una disinvolta abilità nell’uso della macchina da presa, che a
molti irrita stroncando e liquidando con facilità ogni sua opera, sono invece
al suo attivo. Dopo l’esordio prodotto dai fratelli Almodovar, egli si è
confermato con EL DIA DE LA BESTIA, CRIMEN PERFECTO, l’incursione inglese THE
OXFORD MURDERS e nel 2000 LA COMUNIDAD. Julia è un’agente immobiliare che deve
piazzare un appartamento in un vecchio stabile. Il marito fa il buttafuori in
una discoteca, momentaneamente si fermano nella casa ma dal soffitto cadono
scarafaggi e ci sono infiltrazioni d’acqua provenienti dal piano di sopra. Julia
chiama i pompieri, sfondano la porta e scoprono un tugurio e il cadavere di un
vecchio. La nuova inquilina torna nell’appartamento ora sigillato con una mappa
in mano trovata nel primo sopralluogo, infatti sotto una mattonella trova sei
miliardi! La sua vita potrebbe cambiare nonostante il marito l’abbia
abbandonata ma non ha fatto i conti con la Comunidad (i vicini di casa)…
Denis Ménochet e Zar Amir Ebrahimi sono i protagonisti di questo film nella neve, braccati dalla polizia e dagli assassini.
Chehreh (Zar Amir Ebrahimi), una dei milioni di persone con il passaporto di un altro colore (sbagliato!), partita dall'Afghanistan, vuole passare dall'Italia alla Francia, a rischio della libertà e della vita.
Chehreh, nella neve con un paio di jeans, trova Samuel (Denis Ménochet), che rischia la vita per lei, la aiuta e la salva, ad ogni costo.
il film potrebbe essere dedicato a Cédric Herrou, chissà.
opera prima di Guillaume Renusson, un film che ha girato poco e male, peccato, è un ottimo debutto.
buona (clandestina) visione - Ismaele
ps: per chi vuole approfondire quello che succede davvero:
Dopo essere riuscita a scappare da una retata della polizia,
una donna afgana (Amir-Ebrahimi) cerca di attraversare le Alpi Marittime per
raggiungere la Francia. Qui viene trovata, stremata, da un uomo (Menochet,
sempre più emblema del cinema francese contemporaneo) che si era rifugiato per
qualche giorno nella sua baita di montagna per elaborare i sensi di colpa
derivanti del traumatico lutto della morte della moglie. Insieme, i due saranno
oggetto di una caccia spietata da parte di un terzetto xenofobo franco-italiano
(due uomini e una donna, la più feroce) che farebbero di tutto per vederli
morti…
Un’opera prima certamente di peso, Sopravvissuti,
ispirata, nata da una particolare esigenza: «Volevo fare un film che
racconta di migrazione e di rifugiati, raccontato come fosse un film di
fantasmi, perché i migranti, oggi, sono come i fantasmi della nostra società ed
è sotto gli occhi di tutti. Questo è stato il primo spunto da cui iniziare a
scrivere. E poi le montagne, questa specie di deserto innevato nelle Alpi, mi
hanno ricordato Il Grande Silenzio di Corbucci che è uno
dei miei western preferiti. L’ho impostato come un western. Amo il cinema, amo
fare il cinema, anche con un budget limitato, è questo il punto di vista che ho
voluto raccontare: cosa sta succedendo al confine». Su di esso,
Renusson incide un Sopravvissuti,
narrazione accattivante, minimalista, radicale, che racconta di elaborazione
del lutto e redenzione, ma anche di rinascita e Frontiera…
…Nella trama di Sopravvissuti siamo
tutti protagonisti. Magari abbiamo subito un lutto che ci ha segnato come
Samuel e la figlia, oppure siamo in fuga da qualcosa (che sia anche da noi
stessi) come Chehreh. Il messaggio politico che si cela dietro il film di
Renusson è chiaro fin da subito, eppure questo film è stato girato dopo il
COVID-19, nel gennaio 2021, quando ancora le guerre erano lontane dalla
cronaca. Renusson però porta sul grande schermo il conflitto e un sentimento di
repressione, da parte dei tre villain, più attuale che mai. Dall’altro però
scopriamo un sentimento più puro: aiutare il prossimo senza riserve.
Samuel vede in Chehreh un po’ di sua
moglie, che non è riuscito a salvare. Alla fine, infatti, sarà proprio la
moglie a salvare entrambi, come un aiutante nascosto. I documenti trovati da
Samuel nella loro baita in montagna saranno fondamentali a Chehreh per
attraversare i confini. Scopriamo così anche perché Samuel ha cercato in tutti
i modi di aiutarla: c’è una somiglianza lampante tra Chehreh e la moglie che
l’uomo portando a compimento la sua missione conclude così il viaggio. Entrambi
come sopravvissuti e come
esseri umani.
…Sopravvissuti è un film che
lavora in sottrazione, riducendo all'osso i dialoghi per dare spazio
soprattutto al corpo.
La sofferenza provocata
dall'abbandono forzato della propria patria, dal senso di solitudine di chi si
mette in viaggio per sopravvivere e, ciononostante, viene considerato fuori
legge, passa tutta attraverso la materialità del corpo.
Muoversi affidandosi solo alle
proprie gambe infiammate dal freddo, al respiro corto, alle scarpe sbagliate,
in una dimensione in cui elemento naturale ed elemento umano sono respingenti e
inospitali.
La corporeità è il centro
nevralgico, il tempio a cui affidare la propria preghiera di
futuro.
Il minimalismo di Sopravvissuti rende
la visione poco "comoda", a volte la concentrazione dello spettatore
potrebbe sfumare tra le scene dilatate e rarefatte, in attesa di uno
svolgimento che indugia piuttosto lentamente.
Al netto di questa sensazione,
però, l'approccio originale rispetto al tema della migrazione resta un fattore
attrattivo che a mio avviso rende il film molto valido.
La singola storia di Chehreh
diventa paradigma di un racconto collettivo che impone una riflessione corale
su quanto un mondo che si professa globalizzato respinga il diritto di
spostarsi da luoghi non più vivibili in cerca di un'esistenza migliore o -
ancora più spesso - tentando semplicemente di non morire…
Il y a parfois des premiers films qui marquent durablement. "Les survivants" fait partie de ceux-ci, englobant dans une mise en scène d’une rare maîtrise, des thématiques comme le deuil, l’immigration et la montée des extrémismes. En choisissant de lier deux portraits parallèles de personnages contraints de laisser quelque chose derrière eux dans un thriller enneigé des plus nerveux, Guillaume Renusson signe une œuvre nécessaire et magistrale, qui étonnamment est repartie bredouille du dernier Festival d’Angoulême où il était pourtant présenté en compétition. Sans doute un des films les plus impactants de cette 15è édition, le film met deux êtres blessés face aux dangers d’une nature hivernale hostile et de milices citoyennes s’étant donné pour mission de barrer le passage aux migrants, ceci par tous les moyens.
Dans ces contrées enneigées, le bruit devient ainsi synonyme de danger (une moto neige au loin, un drone qui se rapproche, le vent qui augmente...), mettant le spectateur en condition pour une chasse à l'homme sans merci, qui frise presque l’irrationnel du côté des agresseurs. La musique se met d’ailleurs au diapason de cette sensation de tension, les premières notes résonnant comme une alarme, avant de donner dans les cordes, plus graves. La première scène, long et impressionnant plan séquence, qui suit la migrante depuis son brusque réveil jusqu’à son échappé d’un bâtiment surpeuplé où la police ne ménage personne, donne la tonalité de cette traque qui constitue le cœur vibrant du film. Et Guillaume Renusson, calculant brillamment le moindre de ses effets, de montrer à la fois l’immensité dans laquelle évoluent les personnages (un impressionnant plan aérien nocturne où les deux silhouettes avancent dans la neige, avec des sapins à perte de vue...) et un contexte de déprise économique et de hors saison qui permet à la violence latente de s’exprimer dans toute sa frontalité.
S’inspirant de faits divers, il évoque non seulement un sujet polémique rarement évoqué au cinéma, mais aborde également divers sujets liés à l’exil (l’évocation du mari perdu en Grèce, la délicate scène où la femme craint pour son intégrité physique...) tout en n'évitant aucunement les scènes de violence. Si certains reprocheront au personnage très physique interprété par le toujours impressionnant Denis Ménochet (récemment vu dans "As Bestas") d’avoir une blessure à la jambe pas forcément utile au récit, et risquant de décrédibiliser certains de ses mouvements, c’est oublier que ce survivant français est ici comme « force de la nature ». Une sorte de montagne physique qui renoue avec sa propre humanité dans le contact avec cette femme afghane, que joue avec un bouleversant mélange de force et de fébrilité Zar Amir Ebrahimi (récompensée à Cannes en 2022 pour son rôle dans "Les nuits de Mashhad"). Thriller remarquable, la sortie du film "Les survivants" début 2023 est donc à ne pas rater, et montre également que Guillaume Renusson s’annonce comme un remarquable directeur d’acteurs, tirant le meilleur de ces deux solitudes qui s'unissent ici. Dire qu’on attend déjà avec impatience son deuxième long est un doux euphémisme.