martedì 30 gennaio 2018

Il cinema della felicità - Maurício Gomyde

Pedro è un giovanotto che ama il cinema quanto se stesso, forse di più, fa un cineforum per qualche appassionato, vende e consiglia i film, in un noleggio di dvd, sa cosa dare a ciascuno, vive con un padre che fa il cuoco, a cui dà una mano, quando serve, e una madre un po' assente, ha un grande amico, Fit, e poi appaiono due ragazze, Mayla e Cristal.
succedono tante cose e poi i quattro gireranno un film straordinario.
Pedro sembra di conoscerlo, o averlo conosciuto, uno così.
magari un giorno ci incontreremo, in qualche cinemino sgarrupato, dove proiettano quei film che non arriveranno nelle multisale, peggio per le multisale. 
forse Pedro è il protagonista di Cut, di Amir Naderi, chissà se lo sa.
un bel libro, merita, per chi ama il cinema vale ancora di più - Ismaele






In sala le luci si sono appena abbassate. È il giorno di «Cinema felicità», il cineforum più amato da tutti coloro che stanno attraversando un momento difficile: basta guardare le immagini sullo schermo per dimenticarsi dei problemi e ritrovare il buonumore. Lo sa bene il giovane Pedro che con il cinema ci è cresciuto. Negli anni ha imparato che i film sono in grado di guarire le ferite. Di mostrare il lato positivo anche nei momenti in cui la vita sembra in bianco e nero. Per questo, da quando gestisce un videonoleggio, ha deciso di trasformare la sua passione in una missione: aiutare le persone con i suoi consigli da esperto cinefilo e far tornare il sorriso a chi credeva di averlo perduto per sempre. E allora L’attimo fuggente diventa la scelta giusta per coloro che devono imparare a cogliere le occasioni quando si presentano, senza rimandare. Per ricordarci che non si deve mai perdere la speranza, c’è la cura Forrest Gump, mentre come rimedio alla pene d’amore basta gustarsi Casablanca dall’inizio alla fine. In una parola, c’è il film giusto per ognuno di noi. 
Ma adesso Pedro ha scoperto che sta per perdere la vista. Adesso è lui ad aver bisogno di aiuto. E non può che rivolgersi al cinema. Armato solo di cinepresa, parte per un viaggio che lo porterà a girare un film con un copione a dir poco originale: la vita e la sua imprevedibilità. Perché non è mai detta l’ultima parola. Anche nei momenti più bui, se crediamo nell’amore e nell’amicizia, troviamo sempre il modo per ricominciare…

…Il cinema della felicità è un libro fresco che, seppur con toni delicati e frizzanti, affronta la disperazione e quesiti esistenziali profondi offrendo una formidabile arma di salvezza a tutti coloro che perdono la parte migliore dei propri occhi. Con il più semplice, leggero e fluente dei linguaggi, “Il cinema della felicità” è di sicuro il libro giusto per tutti coloro che sono alla riscoperta della bellezza e della meraviglia del mondo: è la chiave per ripartire con occhi nuovi, la combinazione degli ingredienti perfetti per le nuove vite.
Mauricio Gomyde, scrittore e musicista brasiliano è diventato ben presto uno degli autori più apprezzati e contesi del nostro  panorama letterario, affermandosi come un vero e proprio fenomeno  per la sua capacità di immediatezza. Definito il regista delle parole, colui che compie il miracolo di far credere alla persone ciò che è quasi impossibile da dimostrare e che ci offre uno dei ruoli più ambiti, quello da protagonista, nel più bello dei film: la vita.
Buona visione.

lunedì 29 gennaio 2018

Mediterranea – Jonas Carpignano

prima di A Ciambra Jonas Carpignano aveva girato la sua opera prima, che presenta i due protagonisti del secondo film.
il viaggio della speranza, dall'Africa verso l'Europa, è spesso un viaggio verso l'Italia, dove li aspetta, chissà se lo sanno prima di partire, una vita di stenti, semischiavitù (o peggio), oppressione.
in Italia la raccolta delle arance calabresi (il lavoro che faranno i migranti del film) è famosa per la cronaca, nera e non solo, qualcuno viene ammazzato, qualcuno muore d'incendio, di molti non si sa.
il film è fra il documentario e la fiction, in un equilibrio che non è mai esagerato.
cercatelo e soffritene tutti, un film sempre d'attualità, purtroppo - Ismaele





Girato tra il deserto della Mauritania e la Calabria, precisamente a Rosarno, il film narra la vicenda di Koudous Seihon, che attraversando il deserto e resistendo agli attacchi dei predoni prima di arrivare in Libia riuscirà ad andare via dall’Africa e a raggiungere l’Italia insieme al suo migliore amico Abas. Lì in Calabria troverà lavoro come raccoglitore di arance per poi mandare i soldi alla sorella e a sua figlia. In quella terra Koudous cercherà di integrarsi, anche se non sarà poi così facile proprio lì infatti scoppierà una rivolta contro i neri.  Cosa realmente accaduta nel 2010 quando Rosarno fu teatro di scontri cruenti tra migranti e cittadini.
Mantenendo un equilibrio perfetto tra narrazione e  realtà lo sguardo del regista segue i personaggi e ci porta con semplicità nel mondo di due immigrati africani che dopo un pericoloso viaggio sono alla ricerca di una nuova vita in Italia. Si avvicina a loro, senza alcun messaggio o giudizio da trasmettere. Ed è proprio questa la forza di Mediterranea che poi è la stessa di A ciambra. Il  regista infatti dopo aver incontrato il protagonista ha cercato di adattare il film il più possibile alla  vita reale, come ha fatto poi anche con la storia del giovane Pio Amato, personaggio principale di A ciambra e qui interprete di una piccola, ma significativa parte. 
Apprezzato dalla critica internazionale Mediterranea però non aveva ancora trovato una distribuzione in Italia. Nonostante l’attualità del tema, il film di Carpignano era rimasto ai margini, tra gli invisibili, proprio come i suoi protagonisti. Da oggi per fortuna, distribuito da Academy Two, sarà in programmazione al Nuovo Cinema Sacher di Roma. Per fortuna perché Mediterranea è proprio un film che vale la pena di vedere. Vedetelo.

Un film serio, giusto, realista, senza miserabilismo, senza innocentismo, quindi complesso, umano, umanissimo, una storia e un documento insieme. Il giornalismo ci inonda di dati lontani, spaventosi, il giornalismo ignora la realtà. Per questo Mediterranea arriva come un film necessario, per tutti, ma soprattutto per gli italiani, per risvegliarli dalla loro miseria televisiva. Un film senza risposte, ma con tanti interrogativi, tante domande – come è giusto che sia. Dell’epopea di Ayiva resta soprattutto l’insistente primo piano di un uomo che si interroga, che dubita, sempre di nuovo, nel guado tra la rassegnazione vissuta in patria e le speranze dolorose per un altrove senza leggi, per una manciata di euro senza diritti. La speranza si trasforma in umiliazione, l’illusione in disillusione, eppure continua a valerne la pena, o almeno così pare. Il viaggio di Ayiva è un percorso ad ostacoli, persino nell’accettazione della servitù. Qui non ne va solo del neoschiavismo, vero cuore pulsante della questione postcoloniale, ne va persino dell’incapacità di gestirlo questo neoschiavismo. All’Africa corrotta (a Mediterranea andrebbe sempre aggiunta un’Africana che scoperchi le pentole dello sfruttamento delle risorse africane…) risponde una periferia dell’Occidente ridotta a ignavia e barbarie – e questo è il pezzo di realtà su cui riflettere, non le cifre del terrorismo giornalistico. È nelle notti di Rosarno che l’Occidente è chiamato a interrogarsi.

…L’intelligence de l’écriture permet au réalisateur de faire corps au ressenti de ses personnages et, tandis que Ayiva s’impose comme protagoniste central, se placer habilement à distance pour mieux nous confronter au trouble de situations qui les dépassent, les écrasent ou les oppressent, mais auxquelles ils font face, coûte que coûte. Si la mobilité du cadre et les valeurs de plan font sens non sans une certaine réthorique, l’approche esthétique permet de transcender émoi et énergie. Certaines séquences sont proprement étourdissantes (comme la traversée de la Méditerranée) tandis que le travail sur le son et sur la musique offre de nombreuses résonances et attisent, subtilement, notre attention.
L’évolution du récit tient de la chronique permettant au réalisateur d’envisager de très nombreux enjeux nous propulsant dans un questionnement ouvert où nous découvrons les visages pluriels de l’Italie – et part extension de l’Europe – de la bienveillante « Mama Africa » au racisme primaire et à la ségrégation. Le réalisateur s’intéresse en pointillé aux motivations mères des migrations et à la naïveté dont font preuve ou à laquelle veulent se rattacher les migrants et leurs proches, emplis d’espoir autant que désespérés. Au-delà, il questionne notamment la paternité mais aussi le devenir d’un pays étrangement gangréné où « le système » transforme des enfants en mafieux très conscients de leurs actes.
Est-elle une ponctuation que la musique est aussi un véhicule de sens qui parcourt le film de part en part. Lien entre Ayiva et sa fille, elle l’est aussi entre les Continents et les cultures avec notamment les chansons de Rihanna qui hantent le film de part en part tout en soulignant rien moins que l’universalité des droits de l’homme. Enfin, la musique ponctue également le film sur une séquence autant envoûtante que médusante.

sabato 27 gennaio 2018

Perchè la vita deve essere bella - Marco Riva, Luca Berardi

documentario su Danilo Casadei detto Baciola


“Perché la vita deve essere bella” è un documentario che racconta l’esperienza e il pensiero di Danilo Casadei, detto Baciola, poeta di strada, vagamondo (mitico il viaggio in India in autostop, nel ’73, sulle orme dei maestri della Beat Generation). Abbiamo scelto Baciola in quanto rappresenta l’antitesi di un mondo dove la gente lavora, lavora per spendere e spandere (crisi permettendo) ed è insoddisfatta. 
Baciola è il contrario di tutto ciò: vive alla giornata, ricerca relazioni umane profonde girando per colline ed osterie, descrive le sue emozioni in taccuini stropicciati… lo si può incontrare la notte all‘Intifada di Cesena mentre annota i suoi pensieri su una vecchia lavagna oppure al circolo di Monteleone dove, seduto sulla sua poltrona preferita, chiacchiera con qualche ragazza di cui è “follemente” innamorato dedicandole versi scritti su carta per alimenti, o a gustarsi la spianata con la mortadella da Alvaro a Sorrivoli. 
Quindi noi vogliamo raccontare che si può vivere diversamente dall’ottica totalizzante di produzione, consumo e infelicità: la vita è una e “deve essere bella” e per ciò bisogna lottare ogni attimo. Questo insegna Baciola, a vivere sobriamente senza l’ossessione del denaro… “gli altri accumulino pure…Baciola esprime!” 
GIU’, gruppo inutili uniti, vuole: ricercare cosa sta succedendo nelle persone, oggi, in un angolo remoto del ricco occidente; analizzare le conseguenze, le ricadute personali di un mondo “a testa in giù” (E. Galeano) basato sull’ingiustizia, lo sfruttamento dei paesi poveri e sull’insoddisfazione esistenziale di massa in quelli ricchi; e lottare per una presa di consapevolezza allo scopo di cambiare la percezione del mondo e magari, nel tempo, insieme a tanti altri, provare a rivoltarlo un po’. Perciò andiamo fieri della nostra inutilità in una società dove l’utile è solo quello economico-commerciale.
Infine, tra gli intenti del gruppo, oltre a quello fondamentale di produrre documentari, c’è quello di fondare una scuola popolare di libera informazione (gratuita), per formare persone capaci di agire nel mondo della comunicazione (tramite Carta, Teatro, Video, Web…) sempre più in mano a pochissimi e potentissimi soggetti.

da qui

giovedì 25 gennaio 2018

Come un gatto in tangenziale – Luca Miniero

Paola Cortellesi e Antonio Albanese sono i grandi protagonisti di questo piccolo film, destinato a essere ricordato e rivisto anche in futuro.
non solo per la bravura degli attori (che già da sola giustifica la visione), ma anche per la sceneggiatura, per l'incontro-scontro di due mondi che nella realtà si guardano da lontano e a malapena si tollerano.
si ride in maniera semplice, non forzata, senza culi, tette e gare di rutti, o altre cosette del genere.
in sala ormai è a fine corsa, ma in qualche sala si trova ancora, non perdetevelo, è tempo ben speso, sicuro - Ismaele






…Una commedia che ha quella dote che hanno pochissime commedie italiane contemporanee: fa ridere…

Vengono alternate gang un po' più prevedibili a momenti di pura riflessione e denuncia sociale che sfociano anche oltre la semplice differenza tra centro e periferia, ma che toccano anche il tema complesso delle differenze tra etnie, le convivenza di più popoli sotto lo stesso tetto, il fatto che, alla fine, siamo tutti uguali. A me la commedia italiana piace quando insegna qualcosa, perché non sempre la sua comicità basta per farne un buon film, a dire il vero quasi mai, motivo per cui mi è sempre piaciuto Pieraccioni. Come un gatto in tangenziale grida a gran voce di conoscerci, di andare oltre le convenzioni sociali e i luoghi comuni, oltre alle braccia tatuate o la cravatta, la carnagione scura o chiara o la provenienza, che alla fine non siamo poi così diversi come ci sembrava all'inizio. È la conoscenza che ci rende liberi, liberi di fare le proprie scelte e di guardare il mondo con occhi diversi…

...Se l’alchimia tra i due protagonisti funziona splendidamente, il merito è essenzialmente della Cortellesi, davvero eccellente, uno dei pochi talenti genuinamente comici degli ultimi anni che non avrebbe sfigurato su un set di Dino Risi. Il fuoco di fila delle battute, l’impeccabile senso dei tempi comici, il ritmo e l’economia corporea, il suo oscillare fra aggressività, vulnerabilità e malinconia, il desiderio di riscatto e la rassegnazione, offrono la misura di un’interprete complessa che si destreggia magnificamente nello spettro relativamente lineare dell’evoluzione della sceneggiatura. Intelligentemente Albanese non tenta di rivaleggiare con lei sul terreno del comico, ma ricorre a un registro interiore, quasi da recitazione invisibile, per dare corpo a una crisi intellettuale che nelle visite ripetute al carrozziere saggio e maestro di vita trova la sua perfetta esemplificazione in gag…

se la descrizione del mondo di borgata di Come un gatto in tangenziale sembra colpire nel segno, sia pur avvalendosi di stereotipi (gigantografie di Totti nella stanza del figlio della Cortellesi, un cane dei vicini di nome Veleno, un altro vicino che dorme sempre per le scale del condominio dove fa più fresco), meno azzeccato – o, anzi, decisamente fuori dal tempo – appare il mondo dell’intellighenzia che si muove intorno ad Albanese: per quanto ne sappiamo ci sembra difficile che nei fatidici salotti borghesi (qui trasposti a Capalbio) si parli ancora di Biennale d’Arte e, soprattutto, è matematicamente impossibile che all’Eden (cinema romano considerato radical chic, sito nel quartiere Prati, dove Albanese porta la Cortellesi) facciano film in lingua armena sottotitolati in italiano. No, non è così, purtroppo. Perché quel che sfugge a Milani – o che, forse, ha preferito non vedere – è che il coattume l’ha avuta vinta, ha conquistato l’egemonia culturale del paese. E allo stesso modo l’approccio deferente e ottimistico verso le istituzioni europee è pura utopia, perché la scappatoia dal magna-magna italico (leitmotiv del film) non è non può essere la politica continentale sovra-nazionale, anch’essa tristemente in crisi.
Ma, con questi discorsi, si va a finire troppo in là. E forse a una commedia senza grosse pretese quale è Come un gatto in tangenziale basta chiedere una buona dose di divertimento e non anche di essere aggiornata rispetto alle ben più complesse dinamiche cui allude.

martedì 23 gennaio 2018

Alaska - Claudio Cupellini

ci sono film che immagini noiosi, e trascurabili, non so perché, ma così mi sembrava.
dopo qualche anno ho visto il film, e devo dire che quei pregiudizi erano sbagliatissimi.
il film ha interpreti bravissimi, che rendono la storia davvero intensa e credibile.
poi non sarà perfetto, ma intanto è un gran film.
recuperatelo, se vi era sfuggito, non ve ne pentirete - Ismaele






Su Elio Germano si sono spesi tutti i complimenti che era possibile spendere: e sono tutti meritati. In questo film, in particolare, è disarmante la sua capacità di passare con apparente semplicità non solo da uno stato d’animo all’altro, ma – viene da dire – da una condizione antropologica all’altra: assecondando così, e al contempo esasperando, i mutamenti a cui il suo personaggio (Fausto) è costretto. Basta un semplice tic che improvvisamente scompare, la diversa intensità di un suo sguardo, la repentina perdita di fluidità nei movimenti, e Germano è in grado di rendere con esattezza la nuova condizione esistenziale in cui Fausto è immerso. Il modo in cui, nelle scene finali, riesce a far evaporare la pesantezza della tragedia vissuta dai due protagonisti con un paio di battute e di sorrisi, è semplicemente commovente.
Poi c’è Astrid Berges-Frisbey (Nadine), attrice di inconsueta bellezza e di gran talento. Anche lei regala un’interpretazione sontuosa di un personaggio fragile e determinatissimo, che attraversa, senza mai evitarle, le peripezie in cui resta inviluppata. Un altro attore che dimostra la sua bravura è sicuramente Valerio Binasco: il suo Sandro è il personaggio in cui la dimensione comica e quella tragica si amalgamano meglio per creare un grottesco che in certi momenti (come quando, coi postumi della sbornia di Capodanno, si mette ad esplodere dei petardi nel parcheggio di un Autogrill) richiama alla memoria i disgraziati più riusciti del cinema di Scola o Monicelli.
E però, se gli attori offrono nel complesso una così alta prova di sé, lo si deve anche ad una sceneggiatura che, proprio nella costruzione dei personaggi, ha i suoi meriti maggiori. E dire che non era scontato dare coerenza all’evoluzione di uomini e donne che, come s’è detto, vivono cambiamenti bruschi e incessanti, e soprattutto di farlo senza scadere nella banalizzazione o nella giustapposizione di tante scene volte soltanto a mostrarci quei cambiamenti (un altro regista che insiste molto sul ribaltamento dei suoi personaggi, come Ivano De Matteo, cade spesso proprio in questo errore: e non del tutto a torto, infatti, per La bella gente e per I nostri ragazzi si è parlato di «sociologismo»). Quando Nadine decide di passare il veglione di Capodanno nella discoteca diretta da Fausto – l’Alaska, appunto – sappiamo già che evidentemente ha deciso di riannodare i fili spezzati del loro rapporto, e dunque non restiamo sorpresi dal fatto che faccia di tutto per avvicinare il suo ex ragazzo. E tuttavia, se nel momento esatto in cui gli dice «Ci sono ancora delle tue cose a casa» è difficile non sentire una stretta al cuore, è perché Cupellini riesce, con quella frase, a rappresentare bene, ma senza ricorrere a stereotipi, l’intima macerazione in cui il pentimento di Nadine dev’essere maturato…

…Claudio Cupellini confeziona un film sicuramente anomalo (nei contenuti e nella forma) nel panorama generalmente piatto e conforme dell’attuale cinema italiano (la coproduzione d’oltralpe si vede e si sente).
Un dramma pulsante e trascinante che finalmente spazza via i toni trattenuti, dimessi, mai urlati tipici di una certa filmografia nostrana che aspira (quando non si considera già da sola) ad essere autoriale.
Guardando Alaska ritorna alla mente lo splendido, struggente La sposa turca di Fatih Akin, ma questo film è anche altro: è la necessità di raccontare l’individualismo esasperato della nostra epoca, l’anaffettività che la governa e la flagella, il senso di appartenenza a qualcosa/qualcuno praticamente estinto.
Lo sbando di un mondo moralmente alla deriva, incapace di arrestare la sua folle corsa verso l’autodistruzione.

…Come nell’epico romanzo di F. S. Fitzgerald Il grande Gatsby, fonte d’ispirazione della pellicola, i personaggi sulla scena affrontano la realtà cercando la via più breve-e comprensibile- per decifrare i loro sentimenti e i loro desideri, per capire davvero cosa vogliono dalla vita; l’arco narrativo di cinque anni diventa così il racconto di formazione di due persone, di due solitudini che si incontrano e che non hanno nessun’altra boa di salvataggio alla quale aggrapparsi, se non l’uno all’altra.
I buoni presupposti teorici di Cupellini si perdono nel ritmo lento e “fangoso” della pellicola, un pantano emotivo senza barlumi che centellina gli eventi contravvenendo a qualunque regola narrativa tradizionale; così il regista sceglie piuttosto di disseminare la pellicola di tanti- troppi – colpi di scena che dovrebbero servire a tenere alta l’attenzione dello spettatore, ma che purtroppo hanno un unico esito, ovvero rendere forzata la narrazione di una storia d’amore promettente su carta e che in realtà tende a  perdersi tra le debolezze della propria ossatura narrativa.

A separarlo dal resto del cinema che vediamo dunque non sono solo i molti eventi ma anche la maniera inedita (per il nostro paese) con la quale sono osservati da un regista lontanissimo dai personaggi, il cui sguardo onnisciente ne segue le gesta quasi stupefatto quanto il pubblico. Non c'è nessuna adesione a loro, Cupellini sembra non essere nemmeno dalla loro parte (e del resto ne fanno di cose di cui non c'è da essere fieri). Solo questo assunto di partenza basterebbe per rendere questo uno dei film italiani "da vedere" della stagione, anche al netto della consueta visione esagerata dei sentimenti o della solita iperbolica voglia di gridare tutto. Una volta tanto si passa sopra volentieri alla recitazione presenzialista delle scene madri e dei tipici momenti in cui un attore mette in mostra se stesso invece del film.
Alaska sembra fregarsene di tutto (e finalmente!). Non vuole decidere un'ambientazione, non vuole decidersi a dare struttura alla sua storia, nè equilibrio ai suoi personaggi, si abbandona al caotico vortice della sceneggiatura (ovviamente molto rigorosa e ben scritta per riuscire ad ottenere quest'effetto) ripetendosi, ritornando su punti che pensavamo conclusi (le molte prigioni), uccidendo personaggi come fosse niente e abbandonandone altri senza troppi convenevoli. Ciò che altrove potremmo elencare come difetti qui sono pregi, perché questa qualità espressiva Alaska la mette a frutto, specie nella chiusa, quando vediamo per la prima volta del sentimento onesto e nudo, una dolcezza insperata che dopo un film di ottusa attrazione sembra spiegare tutto. 
Come i migliori finali infatti anche questo disegna un raggio di sole tra le nuvole che cambia il senso di ciò che abbiamo visto fino a quel momento.


lunedì 22 gennaio 2018

racconta Luciano Vincenzoni

I crudeli (The hellbenders) - Sergio Corbucci

una cassa da morto, come in Django, è una protagonista del film, il contenuto è un mistero che cambia.
la guerra di Secessione è finita, ma non tutti sono d'accordo col risultato, e poi un bel po' d'oro aspetta chi lo prenderà.
astuzie e trucchi vari, e quando non bastano ci sono le armi da fuoco, per decidere chi ha ragione e chi ha torto.
le storie di Sergio Corbucci non annoiano mai, e questo film, con la musica di Morricone, è una conferma, per chi non lo sapesse ancora.
guardatelo e godetene tutti - Ismaele





Les cruels donnera satisfaction aux amateurs de baroque italien et sera rejeté en bloc par les admirateurs du western à l’américaine…
…Une fois de plus à la tête d’un casting international, Joseph Cotten y interprète un soldat sudiste qui refuse de s’avouer vaincu et cherche à continuer la guerre de Sécession par tous les moyens. Inspiré de faits authentiques, cette histoire emprunte toutefois des sentiers hautement improbables et romanesques qui font d’ailleurs lorgner le film vers le fantastique.
Visiblement très content de son travail sur Django, Sergio Corbucci recycle certaines idées de son œuvre séminale, comme par exemple la présence d’un cercueil censé dissimuler un butin, mais aussi la présence d’un terrain boueux dans une étonnante scène de cimetière, encore une fois plus proche du film d’horreur que du western traditionnel. Enfin, le cinéaste fait une fois de plus preuve d’un sadisme outrancier qui devrait ravir les fans du western spaghetti et choquer les tenants d’une facture plus classique. Parfois gagnés par une hystérie proche de la folie, les personnages sont tous des êtres pervers uniquement intéressés par l’argent (sauf Joseph Cotten, obsédé par l’idée de reformer une armée sudiste). Lors d’un final excessif à souhait, tous les personnages se retrouveront seuls face à l’ineptie de leur quête, réminiscence de thèmes chers à John Huston (on songe au Trésor de la Sierra Madre)…

… While his Westerns are not quite as visually dynamic as Leone's, many of Corbucci's films tend to exist somewhere between the unrestrained Italian approach to the genre and the classic American-made Western - The Hellbenders serving as a good example of this combination. To this extent, viewers hoping for the Grand Guignol violence that sets many Spaghetti Westerns apart from their American counterparts might find The Hellbenders lacking somewhat in this regard. However, despite the lack of over-the-top violence, the action in The Hellbenders, while perhaps not plentiful or gruesome, is well shot and nicely choreographed, and suits the film's narrative rather than distracting from it. In terms of the story, The Hellbenders is tightly scripted and pretty straightforward, and though it may lack the epic depth of Leone's Westerns, the film still has more than enough conflict and tension, as well as some nice twists and turns, to keep the viewer engaged throughout…
da qui

Lo spietato colonello Jonas (Cotten) e i suoi tre figli trasportano in una bara un carico d'oro sottratto ai nordisti e viene reclutata una giocatrice d'azzardo (Bengell) per recitare il ruolo della vedova. Sara' un viaggio pieno di imprevisti,tra indiani, banditi e quant'altro. In assoluto uno dei migliori film di Corbucci, non molto nominato, ma rimane un avvincente spaghetti western con una struttura solida, sceneggiata da diverse persone accreditate per un lungo viaggio verso la morte. Ci sono tante sorprese e mantiene uno stile inconfondibile ,su tutte la figura femminile, una protagonista combattiva e tenace. Anche il finale non delude e la colonna sonora e' del grande Ennio Morricone…

The film is about an insane family who refuse to admit that the Civil War has been lost. Despite General Lee's recent surrender, Colonel Jonas (Joseph Cotten has a bloody and nutty plan--to steal a huge cache of Union money and finance a renewed Civil War! To do this, he and his three sons cold-bloodedly murder Union troops--and even of their own men! The problem is that now they have to get the money from out west all the way east where the fighting has been occurring. When their plan starts to unravel when the woman assisting them is killed, they need another female gang member because they are hiding the money in a coffin--a coffin supposedly holding a grieving widow's husband. How can this go wrong? See the film.

There's a lot to like about this one. The dubbing is far better than normal and the film looks very professional. Plus, while some similar plots were used in the 1940s and 50s (several with Randolph Scott), they never were handled like this one. While I am not usually a fan of violence, it really helps make the family thoroughly despicable--and this evil, clannish quality gives the film a very gritty (almost noir) edge. Overall, a very successful film with only one tiny flaw (the way the family reacts to a 'bum' in the desert late in the film makes absolutely no sense--especially in light of how the family behaved early in the film). Still, there's a lot to like and admire about this one.

sabato 20 gennaio 2018

Signore e signori – Pietro Germi

un film in tre parti, molta commedia, ancora più amarezza, e come tutti i grandi film anche Signore e signori parla di e a ciascuno di noi.
attori al meglio, regista grandissimo, una storia di provincia, noiosa e annoiata, divertente e triste, divertente e cattiva, ma quella provincia esiste, la abitiamo tutti i giorni.
nel 2016 il film è stato restaurato dalla Cineteca di Bologna, sempre sia lodata.
cercate questo gioiellino e godetene tutti, sarà una delle cose migliori che vedrete negli ultimi tempi, promesso - Ismaele








Sceneggiato da Age e Scarpelli, il film deve in verità la sua straordinaria struttura narrativa ad un'idea di Ennio Flaiano (non accreditato), che s'ingegnò per cercare una cornice che lo emancipasse dal genere boccaccesco della pellicola ad episodi, di gran voga in quel periodo. L'ideazione del coro di personaggi, che si assomma nella piazza cittadina, assurgendo a emblema di una logica ideologica di gruppo o ancor meglio di branco, per poi lasciar spazio ai singoli assoli, supera lo strumento decorativo, al punto che la cornice diventa il film stesso, il suo stile e il suo senso. 
Il coro, unitamente all'aria e al recitativo, porta con sé anche un'idea di melodramma, che riaffiora specialmente nel secondo dei tre atti, nella figura tragica del personaggio interpretato da Gastone Moschin, così come nell'aria d'opera accennata da Castellan e Scarabello ("La bella figlia dell'amor", dal Rigoletto, che Germi non riuscì ad inserire qui, andrà a far parte del primo capitolo di Amici miei). 
A distanza di cinquant'anni esatti, favorito da un ottimo restauro, Signore & signori si conferma un'opera di amara attualità e d'inalterata modernità.

Quando la commedia all'italiana sapeva inscenare la farsa dall'acuto e impietoso sguardo sulla realtà. Pietro Germi irride l'Italietta del boom economico e la borghesia provinciale delle professioni, che non ha fascino discreto ma solo malcelata vigliaccheria e villana scemenza mascherata di giovialità, e che non riesce, anzi non vuole scrollarsi di dosso la polvere delle sue inveterate meschinità. Allestisce un gustoso quanto straniante teatrino di caratteri che ricorda la Commedia dell'Arte. La coralità con cui dirige gli attori, tutti appropriati, sa di grottesca sagra paesana celebrata in una Treviso riconoscibile nei luoghi e nella comica, perché balorda, parlata dialettale. I piccioni volano in piazza dei Signori, mentre i perdigiorno perbene stanno al bar a commentare il passaggio della gente e a dar libero sfogo alle malelingue. Se non si riesce a farli zittire nei tre capitoli in cui è strutturato il film, almeno alla fine li si condanna senza appello al ridicolo di una mattinata domenicale in centro…

Du néo-réalisme sensible à la farce corrosive en passant par le mélodrame policier, ces trois films ne se seront pas contentés de nous montrer la variété des registres abordés par Pietro Germi : ils nous auront surtout démontré à quel point il s'agissait d'un maître du langage cinématographique. Il n'y a en effet en terme de mise en scène que très peu à voir (hormis la qualité de la photo et une direction d'acteurs impeccable) entre la belle retenue d'Il ferroviere, les recettes élégantes et maîtrisées du « genre » dans Meurtre à l'italienne et l'exubérance incisive de Ces messieurs-dames, film de gimmicks formels (ces zooms/contre-zooms récurrents et appuyés, ces gros plans grotesques...) et sonores (le bruit de la foule, omniprésent, ou ces ritournelles entêtantes de Carlo Rustichelli). Peu à voir si ce n'est la grande adéquation entre un sujet, une intention et un rendu formel.
Bravissimo e grazie.

"Signore e signori" est un film italien délicieusement écrit, multifacette, une vraie comédie italienne dans la lignée des Monstres, entre rires et larmes. Découpé en trois parties, il a toutes les allures d'un film à sketchs, mais trompe son spectateur car les mêmes personnages sont au centre des ces trois différentes histoires. En faisant simple, je dirais qu'il s'agit de la vie tragi-comique d'un groupe d'amis... de connaissances plus ou moins intimes dans un gros bourg italien (le tournage a eu lieu à Trévise). Il y est question de coucheries, de jalousies, d'idylles, d'amour, d'adultère, de prostitution, de religion et de corruption, bref un grand méli-mélo d'engagements et forfaitures en tout genre mais très humains…


giovedì 18 gennaio 2018

Les amants – Louis Malle

colonna sonora, perfetta, di Brahms, per una piccola storia come tante.
la libertà di un viaggio a Parigi e la possibilità di farsi un amante riempiono la vita insoddisfatta di Jeanne Moreau, sposata a un giornalista di provincia (Alain Cuny), con una bella casa di provincia, fuori Digione.
e poi succede che quell'insoddisfazione vada per un 'altra strada, inattesa e bellissima, in quelle poche ore.
non sapremo cosa succederà davanti c'è la libertà, con tutte le sue difficoltà.
il film non è mai passato nei cinema parrocchiali, francesi e italiani, (non?) si sa perché.
gioiellino senza tempo.
godetene tutti - Ismaele






Les amants, secondo film di Louis Malle, dopo Ascensore per il patibolo, è tratto da un racconto libertino del ‘700 di Dominique Vivant, “Point de Lendemain”..
La voce fuori campo è la coscienza della storia, che, essendo tale, fa diventare l’artificio letterario cinema. In altri termini la voce che racconta non si sovrappone inutilmente alle immagini, anche se essa non ha la stessa funzione poetica espressa in Querelle da Fassbinder-Genet.
Il bianco-nero e l’ambientazione anni ’50 diventano oggi, ai nostri occhi, storia, ma tanto più storia viva, in quanto è film, come scriveva Truffaut, in cui “si prova l’impressione di scoprire le cose contemporaneamente al cineasta e non quella di essere preceduti e soffocati da lui”.
Protagonista, e personaggio riuscito, di Les amants è una donna ( la magnifica Jeanne Moreau) dell’alta borghesia francese, che vive in provincia, nella campagna di Digione, con un marito (Alain Cuny) ricco e burbero, che, a suo modo, la ama, ma privo di immaginazione. Lei è stanca e annoiata, fugge spesso a Parigi, dove ha un’amica complice e un amante che l’adora, ma, nel profondo, desidera un amore, che sia avventuroso, che la faccia sognare…
L’incontro casuale (in macchina) con il giovane archeologo è forse la parte più riuscita della pellicola. Dapprima lui è scorbutico e sbrigativo, non ama il lusso e detesta gli amici di lei; poi diventa ironico e pungente nei confronti del marito di lei (“un orso”) e lei collabora felicemente con battutine fino al momento in cui, arrivati alla grande ed antica villa, lei, vedendo in attesa il marito statuario e inconsapevole (con l’amante e l’amica) di essere oggetto di beffe, scoppia in una risata irrefrenabile di fronte alla faccia sbigottita e perplessa del marito, che non capisce…

Les Amants è ambivalente: se da un lato c'è l'evidente obiettivo del regista di distaccarsi da ciò che racconta (almeno nella prima parte) affidando alla voce in terza persona lo svolgersi di pensieri della protagonista e delle vicende,poi c'è una seconda parte estremamente intensa sotto il profilo emotivo e passionale. In realtà anche qui si trova una critica alla borghesia parigina e alle costrizioni di una donna insoddisfatta che già dall'inizio ha un amante con cui tradisce il marito; l'amor fou,il colpo di fulmine o l'innamoramento comunque lo si chiami avverrà successivamente,all'improvviso e la porterà finalmente ad abbandonare un mondo ipocrita e di etichetta. Splendida in tal senso ed esplicativa la sequenze in cui Jeanne ride davanti la villa come un isterica,apparentemente senza motivo alcuno ma perché in verità ha capito cosa si nasconde dietro quella villa,simbolo dello status sociale di amici,marito e perché no,anche amante.
Les Amants è audace e coraggioso per il periodo in cui fu girato. Non bastasse la trama principale,a scandalizzare i moralisti incalliti ci pensa anche la scena (anzi,le scene) più belle e liriche,quelle della seconda parte in cui la notte d'amore e l'amplesso non vengono lasciati all'immaginazione. Ma la volgarità non esiste e l'erotismo è soffuso e per nulla pruriginoso,più che altro un rimando all'amore romantico che per il regista ha come diretta conseguenza l'amore fisico. Questa peculiarità della mancanza di volgarità in contesti spinti (anche se data l'età non è che poi oggi chissà quale scandalo provoca questo film),questa pecularità si diceva verrà ritrovata successivamente anche nel molto bello Soffio al cuore,molto più provocatorio e anche più riuscito sotto tanti aspetti.
da qui

Les amants è un sublime ed implacabile ritratto dell'aridità morale di quella borghesia da cui lo stesso Malle proveniva, che la sensualità delle atmosfere e la sontuosa interpretazione di Jeanne Moreau immergono in quel limbo dei sentimenti (ammantato dal magico bianco e nero di Henri Decaë) in cui la nascita di una nuova passione giunge, dirompente, a liberare un'intera esistenza dagli affanni di una vita ormai abulica: un film di esemplare raffinatezza stilistica ed affascinante ricchezza di sfumature, idolatrato da Truffaut ed osteggiato alla sua uscita dai soliti, miopi benpensanti scandalizzati da una bollente (per l'epoca) sequenza, lirico ed allo stesso tempo profondamente corrosivo nei caustici umori con cui tratteggia la decadenza, più o meno consapevole, dei suoi personaggi o nei simbolismi (gli specchi, il pipistrello, la villa di Jeanne) con cui anticipa o accompagna la descrizione di questa dissoluzione. L'inquietudine e la noia di Jeanne appartengono al retaggio di una generazione che la Nouvelle Vague intende affrancare dai propri complessi: Les amants ne registra il fallimento esistenziale, lancia un'ancora di salvezza, propone, seppur dolorosamente, una via di fuga.

 Bercée par l’Andante ma moderato de Brahms et nimbée d’un beau Scope noir et blanc de Henri Decae, cette histoire est contée avec un certain détachement, amplifié par les jeux compassés d’Alain Cuny (le mari) et Jean-Marc Bory (le jeune amant). La voix-off explicative de Jeanne Moreau, évoquant les motivations de l’héroïne, est compensée par des silences et non-dits qui anticipent un certain cinéma de l’incommunicabilité, en particulier dans la dernière partie. La scène d’amour finale, qui paraîtra anodine aujourd’hui, donna à l’œuvre un parfum de scandale. Nullement triviale ni même érotique, elle se justifiait par la volonté du cinéaste de montrer jusqu’au bout l’intensité de la relation amoureuse entre Jeanne et Bernard. Pour la première fois dans l’histoire du cinéma, un baiser sur un lit ne se terminait pas par un panoramique sur la fenêtre ou un feu de cheminée... Souvent étiqueté cinéaste de la Nouvelle Vague, Louis Malle est certes de la génération des Chabrol et Truffaut, ce dernier étant aussi un metteur en scène emblématique de Jeanne Moreau. Les innovations narratives d’un film comme Les amants vont aussi dans ce sens. Pourtant, la démarche de Louis Malle relève davantage du renouvellement d’un certain classicisme, dans la meilleure tradition d’un cinéma français romanesque et populaire.

martedì 16 gennaio 2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri - Martin McDonagh

una sceneggiatura che non ti fa distrarre mai, una fissazione, quella dei tre manifesti, che diventa subito realtà, musica di Carter Burwell (che di solito fa le musiche per i fratelli Coen), un attore che c'era anche nel gran film In Bruges (Martin McDonagh fa pochi film, e buonissimi).
ci sono altri attori straordinari, li vedrai, e poi il colpo di genio,
alcune lettere di un morto, che aiuteranno gli altri a vivere meglio, sono davvero bellissime, dopo anche il peggior poliziotto del mondo (quel Dixon che sembra una caricatura di se stesso, all'inizio) cerca nuove strade (non sappiamo se abbandonerà quella madre inutile e dannosa, ma lo speriamo).
c'e azione, violenza, odio, rancore, ma sopratutto è un film di rapporti umani, confrontandosi con gli altri si può cambiare.
non sarà perfetto, ma avercene di film così vivi.
vuoiti bene, la maggior parte delle cose che devi fare potrai farle dopo, esci e vai a guardare questo film, soffrirai e sorriderai, non te ne pentirai, è sicuro. 
buona visione - Ismaele





Andarci. Senza indugiare. Da qui a febbraio – per effetto degli Oscar e per esaurimento dei film italiani che cercano di intercettare lo spettatore stufo dei cognati e del panettone – un po’ di film belli finalmente usciranno nelle sale. Se cominciate ad accumulare ritardi, va a finire che vi perdete qualcosa. “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è un film su cui non si discute, è bello senza riserve. E non offre maniglie a cui appigliarsi, tipo: non sopporto quell’attore, non voglio più vedere quell’attrice, non sopporto i film dove cantano, non sopporto i film d’animazione. Neanche “non voglio più vedere film americani” (magari qualcuno c’è, tra chi si imbatte in questa pagina, non sa cosa si perde)…

…L'indagine al centro di "Tre manifesti a Ebbing, Missouri" è per il regista l'innesco per riflettere su un tema caro alla coppia Schrader-Scorsese, cioè la dialettica tra senso di colpa e redenzione; e il personaggio di Willoughby sembra indicare la via per diventare persone migliori, il miraggio a cui cercano tutti di aggrapparsi per non scivolare in una spirale di follia e cieca violenza. Ma si può essere veramente persone migliori quando il mondo smette di funzionare? È questo il dramma che vive Mildred e in parte anche gli altri personaggi, Dixon compreso, tutti tesi come sono alla ricerca di un colpevole o perlomeno di un capro espiatorio su cui sfogare la propria rabbia.
McDonagh si discosta quindi sia dalla rappresentazione della provincia americana dei fratelli Coen sia dal Quentin Tarantino al quale è sempre stato paragonato per via del talento nei dialoghi, andando per la propria strada in un affresco diretto con uno stile registico asciutto e preciso. Il mélange di registro in bilico tra black comedy e tragedia greca non blocca la creatività visiva dell'autore, che sviluppa il proprio lavoro puntando sì sulla bravura degli interpreti ma anche sulla gestione degli spazi e dei paesaggi su cui aleggiano suggestioni western. "Tre manifesti a Ebbing, Missouri" mostra il lato sconsolato ma ancora vivo di un mondo in cui né Dio né Patria riescono a rimettere la realtà sui giusti binari, spostando la catarsi al di là dei titoli di coda quando lo spazio della cittadina si allarga virtualmente in un on the road che potrebbe coinvolgere tutta l'America…

…La guerra personale della combattente Mildred scoperchierà collusioni, ignavie, ipocrisie, paure. Tutto il repertorio del marcio di provincia, con il sovrappiù della violenza americana. Il film si lascia seguire come un western, un uno-contro-tutti nella più pura tradizione dell’individuocentrismo americano. E onore a Frances McDormand che si produce in un’interpretazione travolgente conferendo alla sua Mildred una determinazione da eroina della frontiera. Gli attori sono tutti (anche il meraviglioso Woody Harrelson) alla corte e al servizio della star, dell’ape regina. Film tiratissimo, senza un momento di noia, che strappa l’applauso. Con McDonagh abilissimo nel giostrare tra drammatico e grottesco, impresa ad alto quoziente di difficoltà che non riesce a tutti (vedi il Clooney ultimo di Suburbicon). Eppure qualcosa non funziona in questa irresistibile macchina narrativa. Si prova un certo malessere di fronte alla cittadina Mildred certo assai provata dalla vita che però ostinatamente vuole, esige, pretende giustizia anche in mancanza di prove, fino a volersi fare giustizia da sola. Su questa zona oscura della psiche si sono costruiti film e interi generi cinematografici…

…Tre Manifesti è un film completo, secco ma debordante, doloroso ma divertente, una specie di western in cui ci sono tre pistoleri a sfidarsi.
Ma non c'è nessun vincitore, nessuno.
Solo tre vite senza quasi più un senso, solo un combattere il proprio odio.
Ma anche un sapere, per tutti e tre, un arrivare a conoscere l'ebrezza di diventare migliori.
Mildred è davanti ad Harrelson.
Si stanno scannando, lei lo umilia senza pietà.
Ad un certo punto gli arriva sulla faccia un fiotto di sangue.
Gli occhi di Mildred, gli occhi di Frances, cambiano del tutto, la pietà e l'umanità che l'assalgono sono talmente vere che fanno spavento.
La scena più grande in un film difficile da dimenticare,


lunedì 15 gennaio 2018

Corpo e Anima – Ildikò Enyedi

una storia d'amore che nasce in un sogno, in un mattatoio, a Budapest, con tanto sangue.
gente di poche parole, meno che mai per le cose importanti.
misteriosamente Endre e Maria stanno insieme in un sogno, si cercano, ma nella vita vera si respingono, non cedono al sogno.
i due fanno vite solitarie, lavoro e un po' di televisione. Maria è di una precisione straordinaria, nel lavoro e nella vita, aspetta qualcosa, non fa la prima mossa, aspetta. 
per Endre Maria è una nemica, sul lavoro, troppo precisa, poi sanno del sogno, pensano a una coincidenza, all'inizio.
terra di psicoanalisi, l'Ungheria, Vienna è a poche ore di treno.
si trova in una ventina di sale, ma cercatelo, vale il prezzo del biglietto, e anche più - Ismaele






La distanza come concetto visivo, come spazio che separa la coscienza dai sentimenti, la verità dall’illusione, il corpo dallo spirito: Corpo e anima (On Body and Soul), per l’appunto, il nuovo film di Ildiko Enyedi (in Concorso alla Berlinale), è un dolce trattato per immagini sulla relazione che occupa l’irrazionale nella materia quotidiana della carne. Niente che non sia nella poetica di questa straordinaria, rara e assolutamente “fuori moda” regista ungherese, che da sempre manipola nel suo cinema così magistralmente visivo il dissidio tra razionale e irrazionale (Simon Magus), ovvero tra Storia e individuo (Il mio XX Secolo) o tra società e persona (Tamas e Juli). Qui lavora sul rapporto che c’è tra la materiale verità della carne e l’impalpabile spiritualità del sentimento, manifestando una love story impropria sui corpi chiusi, conclusi nella loro solitudine esistenziale, di Endre, il non più giovane direttore di un macello di Budapest, e Maria, una bionda e timida ragazza appena assunta e guardata da tutti come “strana”. La distanza che struttura il loro primo incontro è una forma di attrazione implicita che in realtà percorre come un improprio flusso di coscienza il legame segreto che li unisce: i due infatti scopriranno che inspiegabilmente ogni notte vivono insieme nello stesso sogno, incarnato in un cervo e nella sua compagna che vivono insieme in un paesaggio innevato, incontaminato, limpido, solitario. L’esatto opposto del luogo di sangue, obroso, affollato di relazioni interpersonali meccaniche, in cui di giorno si incontrano…

Corpo e anima, scritto con tratto sottile e lieve, è la costruzione di un amore dal sogno alla realtà, dal corpo animale a quello umano, dal sangue come segno di morte al sangue che sprizza la vitalità dei sentimenti. È il bisogno di tenerezza di tutti noi, è il desiderio, è l’emergere di un’affinità che nessuno può decidere o comandare, ma che si può solo scoprire giorno dopo giorno.
I due protagonisti, sfiorandosi d’amore nei sogni ma essendo incapaci di farlo nella realtà, si cercano, si trovano, si nascondono, mentre il film mette in scena la nascita del loro affetto tappa dopo tappa, sospiro dopo sospiro, tentennamento dopo tentennamento, fra sguardi, azioni e reazioni destinati a ripresentarsi in ogni possibile sfumatura.
È una costante deriva dei sensi, che Ildikó Enyedi mette in scena in una poetica umanissima di piccoli gesti e in uno stile di straordinaria eleganza nelle inquadrature da sotto il letto o a ricordare il “Cristo Morto” di Mantegna, nel sublime candore del bosco innevato oppure nella mediocrità asettica dell’interno del mattatoio, incorniciando i suoi personaggi in un turbinio di vetri, specchi, porte e rifrazioni al contempo asfittiche e romantiche…
da qui

Bizzarro, con avanguardismi datatissimi da cinema antonioniano anni Sessanta e un’attrice che difatti monicavitteggia come nei film dell’alienazione del grande ferrarese. Strano, pencolante verso il kitsch, ma non privo di una sua nobiltà. In oscillazione tra il cult movie e il guilty pleasure. Intanto dai tempi di Berlino Corpo e anima ha fatto carriera: adesso è nella shortlist dei candidati allOscar come migliore film in lingua straniera. Una consacrazione per la finora assai appartata regista magiara Ildikó Enyedi.


La mano felicissima di Ildikò Enyedi viene assecondata dalla straordinaria recitazione di Alexandra Borbély e Morcsányi Géza, i due protagonisti. Poche parole a disposizione. La luce che la regista richiede si accende gradatamente sui loro volti, sui sorrisi timidamente accennati, negli sguardi che si illuminano fino a sfavillare.
Perché l’amore diventi carne, sarà necessario spingersi fino alle estreme destinazioni del viaggio: sposare il sangue. Questo il destino dei grandi amori. Ma, giunti alla meta, allora il sonno sarà placido: non c’è più bisogno di sognare.

L’écriture est habile tant, derrière un scénario apriori assez banal, Ildikó Enyedi parvient à unir l’ordinaire à l’extraordinaire. Oscillant entre le réalisme (frontal) et la comédie (potache), l’approche tient du romanesque et se veut des plus séduisante si bien que nous voguons, éblouis, au coeur d’un conte burlesque. Le trait pourrait paraître épais tant certaines situations ou personnages secondaires tiennent du grotesque (épinglons, sans rien en dire, une psychologue du travail et un pédo-psychiatre proprement merveilleux). Le scénario est pourtant d’une rare finesse et permet à la réalisatrice de critiquer au fil de situations rocambolesques, avec humour et même poésie, un monde gangréné à bien des niveaux – ce n’est peut-être pas pour rien que Mária et Endre sont « handicapés » – qui gagnerait à retrouver quelque humanité au fil de rapports sociaux véritables à l’instar de la balade que font la biche et le cerf dont les interactions ponctuent le film (jusqu’à lui conférer son sens).

…En Cuerpo y Alma' es una rara avis en el cine actual que maneja con pericia los biorritmos de la comedia absurda o surrealista, de los que se sirve en su manifestación alegórica sobre los sueños imposibles y la necesidad de afecto en un mundo aséptico y brutal. La directora Ildikó Enyedi sorprende con una puesta en escena que a menudo parece distante y fría, pero que logra despertar las emociones ocultas del espectador, construyendo dos estupendos personajes que interpretan de forma magnífica y desde el minimalismo escénico Morcsányi Géza y Alexandra Borbély (ella es todo un descubrimiento), mientras buscan su lugar en el mundo, ese que no les comprende y a menudo les señala o aparta. 'En Cuerpo y Alma' es un film más complejo de lo que aparenta, yendo más allá de su conmovedora historia de amor central, con una fotografía espléndida de Máté Herbai. Un film que no deberías perderte.