sabato 29 febbraio 2020

American Honey – Andrea Arnold

Andrea Arnold si sposta negli Usa, per girare un film dei suoi, protagonisti ragazzi e ragazze senza futuro.
lavorano per una schiavista, Krystal (l'attrice è Riley Keough, vista recentemente in The lodge), che muove una truppa di disadattati di città in città, per fregare il prossimo, vendendo abbonamenti a riviste.
i giovanotti/e fregano anche nelle case, quando possono, e il tempo libero dalla schiavitù (una schiavitù moderna, peggio di quella antica, illudendo gli schiavi di essere liberi) lo passano sballandosi con qualsiasi sostanza che si possono permettere.
il caporale della truppa è Jake (un bravissimo LaBeouf), intermediario fra la comandante e la truppa.
fra le schiavette, ma non domata, c'è Star (un'indimenticabile Sasha Lane) che entra nel gruppo lasciando i due bambini che trattava come figli, stregata da Jake.
lei capisce che fa schifo quello che fanno, ma resta per amore di Jake, che a sua volta la protegge e la taglieggia insieme.
ma Jake non fuggirà per lei, ormai è fregato.
e Star sarà sola, in un futuro sconosciuto.
verso la fine della storia Star sembra Bess (l'eroina dell'immenso Le onde del destino, che si vende per amore). e poi incontra anche dei bambini disperati.
questo sono gli Stati Uniti d'America, questo noi vediamo, ricchi pochi e poveri moltissimi, illusi di stare nel migliore dei mondi possibili, tra sfruttamento, consumismo e distruzione della natura, e Star crescerà.
un film da non perdere, non potrà lasciare nessuno indifferenti, forse i morti soltanto, forse.
buona visione - Ismaele














…Arnold opta por realizar una particular road movie, para hacer un intenso retrato de la América de Trump, poblada por jóvenes que se integran en un mercado laboral sin derechos, sin seguro médico. Donde la pobreza no entiende de si posees un puesto de trabajo o no. Una clase pobre trabajadora que parece invisible a los ojos del resto de la sociedad. Aun así, Jake y Star tienen un sueño, que el espectador acabará descubriendo al final del filme. Otro tema es hasta dónde estás dispuesto a dar para alcanzarlo. Porque la cruda realidad se impone a los protagonistas. Como en cualquier empresa los trabajadores se verán explotados. Estos harán uso de múltiples triquiñuelas para intentar alcanzar su sueño. A la par que la empresa hará todo lo posible para engancharles literalmente a un modo de vida, supuestamente más libre, porque irónicamente es mucho más esclavizador en todos los sentidos, porque al que rinde menos se le castiga físicamente.
El espectador se verá inmerso en el seno de ese particular grupo de trabajo gracias a la narrativa empleada por Arnold, marcada por unos primerísimos y primeros planos, que dotan de gran intensidad al relato. Invita al espectador a compartir este hermoso y duro viaje con estos grandes personajes que rebosan vida y verosimilitud, gracias al magnífico trabajo de Sasha Lane y Shia LaBeouf. Por eso, podríamos decir que lleva un paso más allá la narrativa de “Fish Tank”. Sigue jugando con los mismos elementos, la música, el realismo, pero fotográficamente se ha vuelto más estética y costumbrista. Busca en la fotografía, con encuadres perfectos, los colores vivos, fuertes, que rebosen esa vida que quiere analizar. En cierta medida es una revisitación del espíritu hippie en el buen sentido, esos personajes que se comen la vida a bocados, que tienen como bandera la libertad, que poseen una mirada dulce, inocente y pura de la realidad, parafraseando la canción que da título a la película.

“American Honey” es un largometraje de imprescindible visionado. Está entre las diez mejores mejores películas de este año que está a punto de acabar, porque es una interesantísima revisitación del Sueño Americano. Dará mucho que hablar porque la veremos en premios como los Globos de Oro o los Oscars, porque es una obra lúcida, cautivadora, honesta y cargada de sentimientos. Sus imágenes cautivadoras nos invitan a viajar al núcleo del verdadero drama estadounidense que nos será revelado al final del largometraje.

…La cinepresa di Andrea Arnold trova il paragone più adeguato nel cinema di Kechiche e in particolare ne La vita di Adele. Teoricamente lontane nelle loro parabole, Star e Adele di fatto abitano lo stesso spazio cinematografico e ottengono il medesimo trattamento: una vita e un amore iscritti dentro un naturalismo. Alla domanda «Qual è il tuo sogno?», Star risponde: «Avere un posto tutto mio». E questo posto dov’è? Non nella comunità dei venditori in cui Star resta altalenante e non avrà un amore felice, non nella società che l’ha esclusa in partenza. Lo spazio cercato, forse, è nello stesso movimento, nelle riprese a spalla, nelle ombre e nelle luci. Arnold cattura un insetto sul vetro sporco, un ragno sul muro, nel finale delle lucciole che volano al buio in una chiusura visiva circolare che fa rima con l’inizio nel sole. Eccolo, il suo posto: impossibile da trovare tra gli uomini perché è già dentro l’inquadratura. Lo struggente modo di girare le offre una collocazione che non esiste di fuori: è l’immagine l’unico luogo che Star può davvero abitare.

la referencia a Trump cobra sentido y realidad casi desde el comienzo del metraje, cuando el personaje interpretado con gran emoción por Shia Labeouf, de nombre Jake, describe su atuendo como Donald Trumpish. Y es que la cineasta británica se desplazó a Estados Unidos el año pasado para rodar esta cinta (antes de estrenarla en Cannes este verano, donde se hizo con el premio del jurado), cuando el nuevo presidente norteamericano ya se había consolidado en las primarias y su visibilidad ya de por sí considerable se había vuelto omnipresente. Pues bien, en ese momento Jake se dirige a la protagonista Star, a cargo de la novata y prometedora Sasha Lane, a quien le despierta curiosidad ese individuo que trata de vestir con algo más de elegancia que el resto de la banda white trash que le acompaña, en un negocio de venta de suscripciones a revistas al que casi sin dudarlo se une la propia Star, dejando atrás a una familia pobre y rota. A partir de ahí asistiremos a un recorrido episódico por la América profunda, la de las mujeres evangelistas, trabajadores de la tierra y vaqueros anacrónicos, mientras la camioneta en la que viajan estos personajes, liderados por la maquiavélica amante de Jake, Krystal (Riley Keough), no revela tantas expectativas profesionales como obstáculos que les impiden salir de un bucle presente. La persistente imagen que presenciamos entonces, la de unos jóvenes a la deriva mejor o peor vestidos, o incluso sin ropa alguna, reformula la interpretación que adelantábamos: esta muestra de la especie white trash como potenciales votantes de Trump en realidad no es tal si la contraponemos con sus futuribles clientes, de las antedichas categorías sociales, que son los que sí encajan entre tales electores, aún cuando su background sea casi opuesto. Si con estas elecciones se ha querido dibujar la geografía de este país como dividida en dos, siguiendo unos clivajes campo/ciudad o laicidad/confesionalidad, Arnold se encarga de darle la vuelta con este fuerte contraste entre sus personajes principales y secundarios…

Non è oro tutto quel che luccica: tutto il gruppo, Jack compreso, è dominato da Krystal (Riley Keough), una bionda dalla bellezza fredda che si sposta su un’auto sportiva. A lei tutti, Jack compreso, portano i proventi della giornata. In termini di sfruttamento non siamo molto lontani dal gruppetto di ragazzi usati da Fagin in Oliver Twist. Occupano temporaneamente case vuote, e vanno in cerca di lettori a cui vendere abbonamenti a ogni tipo di rivista, dal porno alla pesca. L’attività, rispetto al romanzo di Dickens, è senz’altro legale, ma sulle modalità ci sarebbe da discutere. Il film infatti è ispirato da un’inchiesta del New York Times che denunciava questo tipo di sfruttamento.
Lo spettatore è trascinato on the road. Ma i paesaggi e i grandi spazi, cosi tipici della mitologia di questo tipo di viaggio, sono sostanzialmente lasciati fuori campo: all’America dei villini della classe medio-alta, magari obnubilata dalla destra fondamentalista, succede più spesso ancora quella suburbana, le aree di parcheggio dei grandi camion, gli impianti petroliferi. La fauna umana incontrata, in genere maschile, è varia, talvolta degna, talvolta meno, nessuno è ignobile veramente.
Filmato camera a spalla con un ritmo irrefrenabile ma non faticoso, accompagnato da una straordinaria colonna sonora dominante ma non fastidiosa (Arnold sa usare molto bene anche le pause, o forse sarebbe meglio dire le stasi, i silenzi), questo ritratto dell’America dimenticata appassiona dall’inizio alla fine.
Una ricerca di vita, una bellezza colta nel suo movimento in quanto tale, al fine di sottrarsi alla sporcizia, alla palude, alla bidonville non dichiarata. Star come tutti cerca l’amore, ma quando capita in una casa di bambini chiassosi e adorabili e poi vede la loro madre sdraiata sul divano con accanto una siringa, si rende conto di esser tornata alla casella di partenza, e fugge via. Per riprendere la sua ricerca dell’amore. Con Jack o senza.
Quello che differenzia American Honey dai precedenti lavori di Andrea Arnold è la ricerca estetica. Fantastico il lavoro nel montaggio e nel sonoro, ma a sbalordire è soprattutto la fotografia sfolgorante dello scozzese Robbie Ryan. Il formato a 4:3 serve forse a ricordarci che quella che abbiamo davanti è la generazione di Instagram e degli smartphone, ma questo film non è un selfie, anzi questi ragazzi degli smartphone fanno per lo più a meno; probabilmente perché non se li possono permettere, ma forse anche perché non ne sentono il bisogno. American Honey, con il limite forse di non osare più di tanto, di non essere abbastanza provocatorio, non racconta i millennial con la freddezza raggelante di Sofia Coppola di Bling Ring. Non mostra il vuoto cosmico di un party senza fine come Spring Breakers - Una vacanza da sballo di Harmony Korine. Racconta la bellezza nonostante tutto, la speranza abbandonata sul fondo del vaso di Pandora. O nelle braci di un fuoco intorno al quale ballare fino all'alba.
da qui


E’ però proprio l’aspetto visivo, la parte migliore di American Honey, perché campagne, strade e città sono riprese senza artifici (nemmeno quelli legati al formato dell’immagine) e per questo colpiscono maggiormente. La Arnold è brava anche a non farsi prendere troppo la mano dagli ambienti, evitando così un effetto turistico che sarebbe stato davvero fastidioso. Il suo sguardo è anzi molto asettico, quasi documentaristico, che non tradisce affetto né astio ma solo interesse e curiosità. Come detto, però, il viaggio si dipana troppo lungamente per le poche cose che vuole illustrare ed è veramente incredibile pensare che manchi ancora più di un’ora quando tutto sembra essere arrivato alla sua conclusione. La conclusione vera, invece, è quanto di più banale e telefonato si poteva pensare. Proprio per questo è perfettamente coerente, certo, ma contribuisce a dare l’impressione di non aver visto nulla che meritasse il tempo speso per vederlo.




qui uno straordinario cortometraggio di Andrea Arnold, premio Oscar nel 2005:

venerdì 28 febbraio 2020

1917 - Sam Mendes

chi ha avuto un nonno soldato in quella guerra, come il regista, potrà capire una volta in più, e vedere e sentire e ascoltare lo schifo di quella guerra, che infiniti lutti addusse agli europei, anche nei decenni seguenti.
il film è una corsa anche per chi guarda, l'occhio è sempre su Blake e Schofield, e poi solo su Schofield (l'attore è George MacKay, anche protagonista di Marrowbone).
un film da non perdere, e al cinema rende sicuramente più che a casa, è sicuro - Ismaele









È vero, la scelta di basare il film sostanzialmente su due enormi piano sequenza può a tratti far pensare a un videogame, ma in verità si tratta di una scelta stilistica coraggiosa che, se da una parte ha il merito di favorire l’avvicinamento dello spettatore alla vicenda, di portarlo dentro, di coinvolgerlo, dall’altra rischia però paradossalmente di distrarlo dalla storia stessa, con movimenti di macchina a volte troppo audaci e dinamici. Ma è comunque divertente, per lo spettatore più attento, cercare di di individuare i punti in cui sono state cucite insieme le varie sequenze.
Certo, forse la scelta di puntare gran parte delle energie sui virtuosismi stilistici ha finito per sacrificare qualcosa sulla sceneggiatura, che in più punti denota alcune debolezze, sia in termini di snodi della vicenda (forzata e pretestuosa in questo senso appare la scelta ad esempio di mettere in ballo la questione del fratello di uno dei due soldati protagonisti tra i 1600 commilitoni da salvare), sia e sopratutto in termini di dialoghi (prevale la noia quando l’azione latita).
Ad ogni modo, guardare questo 1917, e guardarlo al cinema, è una esperienza cinematografica importante, che merita di essere fatta

Mendes dedica il film al nonno Alfred che ha combattuto per l’esercito britannico nella Prima Guerra e “che ci ha raccontato le storie”. Eppure, paradossalmente, a mancare qui sono proprio le storie, sovrastate dalle modalità del raccontare, dal… come.  Assecondando un automatismo militaresco, 1917 non prevede la possibilità di altri sguardi, né l’esistenza di altri mondi da configurare e desiderare in un fuori campo. Per quanto ambizioso, difficilissimo da realizzare e “stupefacente”, appare senza immaginazione. Come se avesse dimenticato la propria anima da qualche parte nella perfezione tecnica, nella maniacalità del backstage. La recupera in alcuni momenti di sospensione, che hanno un po’ la valenza delle soste ai box, come nella ineluttabilità della morte dissanguata di Blake o nel finale in cui il revenant Schofield contempla le foto di famiglia appoggiato a un albero, fermando finalmente la sua corsa estenuante. Forse la Storia inizia dove finisce il film. O forse, semplicemente, questo non è un film, ma il miglior software in circolazione.
Per portare a casa una missione può anche funzionare. Per il resto dipende, come sempre… dai punti di vista.
Game Over.

…Spogliandosi di ogni forma stilistica legata all’epica, 1917 racconterà gli orrori della guerra in un gioco di antitesi dove non c’è spazio per l’umanità. Lande desolate caratterizzate da morti in ogni dove, in cui l’unica regola che vige è quella del mors tua vita mea, come dicevano i latini. È per questo che non c’è la necessità di focalizzare l’attenzione su una storia inutilmente intricata o che lasci la guerra esclusivamente sullo sfondo. 
Mendes catapulta lo spettatore in quei paesaggi freddi, distaccati da ogni concezione di umanità, raramente presente nel contesto bellico. La morte predomina sulla vita, anche quand’essa si mostra nel sorriso di un neonato nascosto nei bassifondi di una città devastata. Non c’è tempo da perdere, quel messaggio va recapitato. E l’impresa è, per definizione, ardua. Il pericolo tedesco è dietro l’angolo, pronto a sparare o accoltellare. 
1917 è un racconto asciutto, in cui l’unico celebrato è un semplice soldato che porta un semplice ordine di ritirata. Non ci sono tiranni da detronizzare, tantomeno vittorie da conquistare. Ciò che conta è obbligare un generale a fare un passo indietro affinché si eviti la morte di 1600 soldati. 
Non un semplice esercizio di stile, la regia di Mendes, oltre a rasentare una perfezione da Oscar, trova un fedele alleato nella fotografia di Deakins, mozzafiato e ricercata più di sempre giacché riesce a restituire alla perfezione quell’idea di realismo, tanto orribile quanto crudo, legato alla guerra…

mercoledì 26 febbraio 2020

L'hotel degli amori smarriti (Chambre 212) - Christophe Honoré

se qualcuno non sa cosa vuol dire vedere un film francese, L'hotel degli amori smarriti è davvero quello.
la storia, gli attori diretti benissimo, il suo essere un film reale/surreale, senza effetti speciali, è proprio quello che si vede sullo schermo.
Chiara Mastroianni (vincitrice di un premio a Cannes) è davvero brava, sempre più somigliante al padre.
di cosa parla il film lo vedrai, sappi che un po' (molto o poco, dipende) riguarda tutti noi, nessuno si senta escluso.
buona visione - Ismaele






…Tra situazioni anche divertenti tutte giocate sul filo del paradosso temporale e memoriale, L’hotel degli amori smarriti conduce in realtà un discorso nient’affatto banale sulla fatica del sacrificio e delle rinunce, e sul desiderio universale, più o meno sottaciuto e disperatamente impossibile, di non smarrire mai nulla del proprio vissuto. Verso la fine, i quattro protagonisti esprimono il desiderio di fare un matrimonio poligamico e inter-temporale, allargato poi a tutti gli amori passeggeri di Maria. Si dà piena evidenza insomma alla fatica delle scelte, e al loro inevitabile tramutarsi, prima o poi in un punto della propria vita, in rimpianti, rabbie e riflessioni. Sarebbe tutto più facile se la vita ci permettesse di abolire il tempo, stringendo in un unico abbraccio le perdite di vita frutto di inevitabili scelte. L’abbraccio ecumenico di un matrimonio che sposi tutti i protagonisti della propria esistenza e le loro cangianti immagini nel tempo sembra contenere il senso profondo del film di Honoré, un malinconico inno innalzato alla dolorosa impossibilità di non compiere alcuna rinuncia lungo il corso dei propri anni e di rifiutare il divenire dell’esistenza con i suoi inevitabili mutamenti…

L’hotel degli amori smarriti inizia con un pedinamento per le strade di Parigi che sembra un’altra dichiarazione d’amore di Christophe Honoré a Chiara Mastroianni. È la stessa immagine con cui il film si chiuderà, con un fermo immagine di lei che cammina su un marciapiede dopo aver salutato Richard, il marito con cui è in crisi. Maria (Mastroianni) lo tradisce con ragazzi più giovani. Lui una sera lo scopre e si va alla resa dei conti. “Siamo sposati da 20 anni è impossibile rimanere sessualmente fedeli” dice lei. Lui è deluso, forse ancora innamorato. Si chiude in camera. Maria rimane a guardare fuori dalla finestra, poi improvvisamente si illumina. Abbandona la casa e prende una stanza nell’hotel di fronte. È la numero 212.
È la stanza della magia, dei ricordi, del tempo. Incontra Richard più giovane. “Eri innamorata di me quando avevo vent’anni”. Lui è bello e la desidera ancora. Poi arriva la maestra di musica di Richard, che ha lo stesso aspetto di quando lui se ne innamorò a 15 anni. Le coppie si incrociano e anche le età della vita. Il giovane Richard è con Maria, la pianista è con Richard adulto. In una sola notte ognuno prova a ridarsi una seconda possibilità con l’altro: l’attrazione sessuale per la giovinezza, la nascita di un figlio, la vita da single. E tutti incontrano il proprio alter-ego tranne Maria, che rimane magnificamente sospesa nelle sue contraddizioni e imprevedibilità, perfetta incarnazione del caos e della promiscuità che spesso anima il cinema di Honorè….

L'hotel degli amori smarriti è brioso e spumeggiante senza cercare di essere simpatico a tutti i costi, proprio come la sua protagonista, e la loquacità imperturbabile dei suoi personaggi è svolta con molta disinvoltura in un solco inusuale fra il filosofico, l'ironico e il surreale.
Richard attribuisce l'infedeltà di Maria all'essere diventata cinica, utilitarista, una che non pensa più che 2+2 possa fare 5 come quando si erano conosciuti, Maria dal suo canto pensa che gli altri uomini le siano sempre piaciuti punto e basta, e in ogni caso non si capacita del fatto che Richard abbia smesso di suonare il piano, si sia messo a chiamare gli amici “mister” e addirittura ora ammiri il “modello tedesco”. Tutto viene messo sul piatto per cercare di sciogliere il rompicapo sentimentale: chi ha ucciso l'amore appassionato, lei, lui, entrambi, o la consunzione naturale delle cose?
La domanda non riceve risposta, ma viene esplorata da ogni punto di vista possibile, non ultimo quello di una manifestazione della volontà di Maria personificata in un simil Charles Aznavour in giacca di leopardo. Honoré parla del serio pescando da tutti gli anfratti del faceto, utilizzando in primis l'ironia, a partire già dal titolo originale alla pellicola, quella “stanza 212” il cui numero si riferisce anche al codice civile francese nella parte relativa agli obblighi coniugali, ma anche un certo grado di bizzarria a volte straniante (il bambino e il manichino) a volte poetica (le foglie d'autunno sul letto), e un gusto dichiarato per la citazione scoperta (il ristorante Rosebud come lo slittino di Quarto potere, la neve che, appena scoperto il tradimento, copre tutto come ne I morti di James Joyce).
Honoré si bea del suo divertimento e gioca godardianamente con l'ammissione dell'artificio: gli scenari non nascondono il posticcio, Maria e Richard dominano come figure giganti sul plastico dell'ambientazione, il sonoro si distacca inopinatamente dal visivo. Per interpretare una coppia in crisi, sceglie la sua attrice favorita Chiara Mastroianni e il di lei ex marito nella realtà Benjamin Biolay, esattamente come in Les bien-aimés aveva coinvolto la sua vera madre Catherine Deneuve per rappresentare un rapporto genitore-figlia. Si diverte a ribaltare le convenzioni sentimentali, sessuali e di genere non tanto a fini politici quanto d'effetto, nel solco peraltro di tanta commedia sentimentale francese degli ultimi decenni. Ne esce un divertissement intelligente e spiritoso, e scusate se è poco.

lunedì 24 febbraio 2020

due corti animati di Illogic

 

Honor de cavalleria - Albert Serra

Sancho e Don Quixote stanno in campagna, hanno fatto le loro avventure, difendendo l'Honor de cavalleria, parlano, sopratutto Don Quixote, aspettano (una nuova avventura?), Sancho è il servitore, ha fiducia, è fedele, e quando Don Quixote sparisce lui lo aspetta, e quando Don Quixote gli chiede di portare avanti i loro ideali, Sancho accetta.
tutto è concretamente reale, nel film, Sancho sembra un po' scemo, ma è solo uno introverso, che si sacrifica per il padre-padrone, pende dalle sue parole.
un film diverso dal solito, con una trama che non esiste, te la fai tu - Ismaele





Un film privo di trama, sceneggiatura e attori professionisti, che procede in maniera beckettiana, come una rappresentazione impalpabile dell'esistenza di un visionario. Il Quixote di Serra parla di alberi, insetti, della fatica e dei temporali, trovando nella semplicità del quotidiano il senso ultimo di un viaggio, di cui comprendiamo il sinistro esito cammin facendo, man mano che l'hidalgo e il suo scudiero imparano a comprendersi e a capire di non poter fare a meno l'uno dell'altro.
Per Serra, Honor de Cavalleria è l'inizio di un percorso negli interstizi del mito, negli angoli che nessuno rischiara ma in cui è facile trovare gli indizi più rilevanti. Con Quixote, il regista sceglie il re dei perdenti e il più lucido dei pessimisti. Una figura in sé crepuscolare, di malinconia e di morte, di passaggio di un'epoca, di tramonto di un'era. Che non a caso il regista ama girare proprio al calar del sole, quando le figure di Sancho e del Don si fanno buie e confuse, ai limiti dell'intelligibilità.
Honor de Cavalleria infatti non solo è girato in esterni e in presa diretta, ma in un digitale volutamente povero e poco leggibile. Quasi Serra voglia confondere il limite tra realtà e immaginazione, ossia aiutarci a guardare il mondo attraverso gli occhi di Don Quixote.
Il digitale, con la sua bassa fedeltà, acquisisce così una valenza duplice. Di giorno sembra di assistere a un documentario sulla quotidianità di Quixote e Sancho, dove di notte il senso di vaghezza soverchiante avvicina a quel sentore di morte che accompagna costantemente il cavaliere sognatore…

…La película llamó la atención de la crítica y los programadores de festivales. De algunos, claro. Otros la rechazaron violentamente: el cine radical provoca enojos aunque la clave de una película como esta es la simplicidad absoluta. Serra se propuso nada más que instalar unos pasajes de El Quijote en el campo catalán y hacerle jugar los papeles del Quijote y Sancho a dos tipos comunes de su pueblo. El resultado es uno de los films más poéticos —y al mismo tiempo más en prosa— del cine contemporáneo. Esa es una de las capacidades secretas del cine: ser para la literatura no una ilustración sino un complemento, una extensión que la mantiene viva. No es que los actores vayan a encarnar físicamente a los personajes y hacerlos visualmente inolvidables, ni que los diálogos revivan para el oído el estilo del original. Se trata de otra cosa: la creación de un espacio en el que la obra puede renacer en tiempo presente sin dejar de nutrirse de la materialidad del pasado literario…

,,,El film tampoco tiene buena fotografía (ha sido iluminado por el sol, pero en sentido estricto: a la buena de Dios, como si el astro rey fuera su director de fotografía… y cuando el sol se apaga –cosa que ocurre muchas veces, porque abundan los crepúsculos– ya no se ve casi nada), ni ha sido bien rodado (la cámara en mano se mueve sin ton ni son, como en las filmaciones hogareñas, y campean los desenfoques).
¿Estamos ante el producto de un imbécil que sólo intenta decirnos que el Quijote era un imbécil? Ay, yo no sé. He buscado y rebuscado en Internet, en críticas, en reportajes y en declaraciones del realizador, a ver si aparecían las ideas, la inteligencia o la poesía ocultas, tan ocultas que se me escapaban por completo, detrás de esta película de 100 minutos a la que a la media hora yo ya le perdonaba todo, absolutamente todo, con tal que terminase lo antes posible. Pero no aparecieron. Lo que sí encontré son renovadas pruebas de un sistema perverso, constituido por funcionarios, "cineastas" y "expertos" que confunden mediocridad artística con independencia artística, y lo hacen con tanto ahínco que logran instalar engendros como éste en las competencias oficiales de festivales internacionales como el de Mar del Plata.

La decodifica dello stile di Albert Serra serve ad entrare all’interno di un mondo visivo sconosciuto e affascinante. Per quanto Honor de cavalleria sia un film di una lentezza quasi esasperante, la composizione delle inquadrature fa pesnare che il cineasta catalano sia un artista onesto e spregiudicato. Serra organizza le sequenze in quadri autonomi dove l’azione è limitata alla registrazione del gesto quotidiano. Gli unici movimenti servono ad adombrare il carattere di ogni personaggio. Nel suo cinema il silenzio è d’oro. Di fatto, nei suoi film, il sound design è un’opera d’arte a se stante. La presa diretta istallata su immagini magicamente evocative da l’impressione di essere entrati in un’altra dimensione, l’arte di Serra è la totale mise-en-abime di luoghi e corpi dove il linguaggio viene adoperato come corollario stratificato di emozioni indescrivibili.

La vera novità di questo film, coraggioso e meditativo, sta nell’uso delle riprese digitali, tutte in esterni, con luce naturale, senza scenografie.
Albert Serra dimentica gli effetti speciali e le ambientazioni urbane, comuni tra i registi della sua generazione, si rivolge al passato letterario e crea un film, per sua stessa definizione “atmosferico”, in cui dominano i paesaggi: “Il tema non è interessante, le avventure non sono interessanti, quindi dov’è la sostanza? In tutto quello che non si vede, che non è apparente, cioè, l’atmosfera e la quotidianità“.
E in effetti l’immediatezza dei dialoghi, e la semplicità dei gesti, in qualche sequenza ripetuti ossessivamente, sono i punti di forza della scenggiatura.
Il film è stato girato in quindici giorni, nel mese di agosto del 2005, a Sant Clement, in Catalogna, con tre camere digitali e attori non professionisti, tra i quali spicca Lluís Carbó: un Chisciotte teneramente pazzo, che tuttavia non potrebbe esistere senza il rotondo Lluís Serrat, un silenzioso e incisivo Sancho Panza.

sabato 22 febbraio 2020

Gli anni più belli - Gabriele Muccino

una storia del tipo "come eravamo e come siamo diventati".
tre amici (Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria, i migliori attori italiani) crescono insieme e non si perdono mai di vista.
addirittura due stanno con la stessa ragazza (Micaela Ramazzotti), quasi sempre in tempi diversi.
c'è chi ha fatto carriera, chi arriva al posto fisso, chi, ancora, fatica ad avere un reddito decente, quasi tre storie emblematiche di tre categorie sociali.
non sarà un capolavoro, ma si vede bene, Muccino sa bene come si fa questo tipo di film, e gli attori sono un valore aggiunto - Ismaele






dopo l'entrata in scena di Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria, il film comincia a prendere quota e a trovare un'identità che si smarca gradualmente dai cliché, rivelando un'onestà artistica credibile. Il merito è certamente degli attori, che trovano la loro misura anche all'interno dello stile dominante, ma anche di una regia che riesce a contenere i propri "difetti fatali", anche facendo leva su professionalità ben definite come Eloi Mori alla fotografia, Patrizia Chericoni ai costumi o Tonino Zera alle scenografie. Particolarmente notevole è il lavoro di montaggio di Claudio Di Mauro, specialmente nella scena del ristorante vicina alla conclusione, che destruttura magnificamente il meccanismo del campo e controcampo, e in quella dove Gemma, nelle sue varie incarnazioni, sale di corsa le scale, una delle più belle del film.

Gemma è invece il tasto dolente, non per via delle belle interpretazioni della già citata Noce e di Micaela Ramazzotti, ma per lo scarso lavoro di scrittura del suo personaggio, del quale si faticano a capire le motivazioni, e dal quale traspare la consueta visione del mondo mucciniana in cui le donne "la danno via con la fionda", di solito per ragioni di sicurezza economica.
Molto ben scritti invece (dallo stesso regista e dal cosceneggiatore Paolo Costella) i tre personaggi maschili che corrispondono ad altrettante identità degli autori, e soprattutto delineano insieme il profilo di una generazione.

È proprio il ritratto di chi oggi è arrivato ai cinquant'anni il punto di forza e il cavallo di Troia che si insinua nella coscienza degli spettatori, de Gli anni più belli: un ritratto che finora nessuno aveva portato al cinema con altrettanta compiutezza, mettendo a fuoco una generazione sfocata, travolta da una "metamorfosi socioculturale", umiliata dal precariato e schiacciata dai padri. In questo senso il modello di riferimento dichiarato del film, C'eravamo tanto amati, fa da efficace pietra di paragone, perché i protagonisti di Gli anni più belli, smarriti e spaesati, sono l'ombra di quelli del capolavoro di Ettore Scola, ed è giusto così, perché non possono avere lo spessore e la definizione di chi ha vissuto un'Italia molto diversa dalla nostra…

il vero spirito del film di Ettore Scola era profondamente politico (difatti iniziava con la Resistenza), mentre Muccino è più interessato al tradimento degli affetti, uno dei punti cardine della sua filmografia e snodo centrale delle vite dei suoi personaggi.
Dunque perché far parlare i protagonisti in macchina se poi si abbandona per strada questo (trito) escamotage? Perché utilizzare precisi momenti storici di raccordo in maniera grossolana ed elementare (Favino diventa praticamente un berlusconiano, Santamaria un grillino in quella che è una fiera di banalità assolutamente non necessaria allo spettatore), per poi dimenticarsi delle colpe e assolvere tutti dall’alto? Si dirà che il perdono è un’arma efficace contro l’oscurantismo contemporaneo, ma in questo caso risulta completamente incoerente con le azioni dei personaggi, impedendo tra l’altro il raggiungimento di quella catarsi definitiva inseguita per tutta la narrazione.

benché non sia di certo privo di difetti o eccessi di sentimentalismo, alla fine il grande vortice di Gli anni più belli schiaccia ogni difetto a colpi di immagini e cinema. Non tutto quel che viene detto o come viene detto è memorabile e la scrittura non può di certo essere considerata inattaccabile. Gli anni più belli però la sua partita la gioca su un altro campo, nel trascinare il pubblico dentro un’epopea personale e privata, usando il comparto visivo, spiegandosi con i colori, i costumi, il montaggio e la fotografia, usando le immagini come pallottole. Un arrivo in vespa disperato in una Roma deserta durante i mondiali per trovare il proprio amore, una visita nella vecchia casa povera e una corsa su per le scale che sembra un viaggio nel tempo e nei costumi del film (la trovata migliore di tutte, quella che riassume il senso di quello stile furioso e sentimentale e forse racchiude un’intera carriera) sono solo alcuni esempi della capacità di Gli Anni Più Belli di lavorare sulle immagini e sull’efficacia visiva a livelli che il cinema italiano commerciale non conosce.

Gli anni più belli vorrebbe essere un‘analisi del fallimento di una generazione, ma è soprattutto l’immagine del fallimento del cinema di Gabriele Muccino.

Muccino viene ad un certo punto meno anche alla fedeltà con se stesso, perché alla fine non se la sente di condannare tutti (il personaggio di Favino in primis) e decide in maniera improvvida di dirazzare verso il “volemose bene”, verso il “c’eravamo tanto amati ma in fin dei conti ci amiamo ancora”, che risulta ben poco coerente con premesse e svolgimento del racconto. E allora è qui che tornano alla memoria anche tutte le grossolanità su cui fino a quel punto si era chiuso un occhio, tutte quelle forzature narrative che avevano spinto i personaggi ora da una parte ora dall’altra, debolezze che per larga parte si era deciso di perdonare sia per l’istintiva foga con cui venivano messe in scena, sia per una recitazione decisamente convincente e tutt’altro che facile; infatti gli attori – dalla Ramazzotti a Favino, a Santamaria a Kim Rossi Stuart – danno tutto, giocando continuamente sui sovratoni e muovendosi in miracoloso equilibrio tra il sublime e il grottesco. Tutte queste perplessità finiscono allora per riemergere inevitabilmente di fronte alla raggiunta maturità dei personaggi, dove il racconto si fa più posato, più malinconico, più tenero, più affettuoso, più ciondolante e sussiegoso, e dunque meno convincente e meno adatto alla macchina-cinema mucciniana, che vuole per sua consustanziale necessità il sopra le righe, l’urlo lo schiamazzo e il pianto, e che senza questi elementi appare in fin dei conti poco interessante, e anche trascurabile.

Da grandi sono Pierfrancesco Favino, avvocato di successo. Ma nel frattempo ha perso l’anima, segnatevelo, ha cominciato difendendo d’ufficio i bisognosi e ora sta dalla parte dei corrotti (anche il regista più borghese di tutti, che proprio per questo e per la sua bravura tecnica si era fatto amare, disprezza la borghesia). Kim Rossi Stuart dopo anni di precariato ha finalmente un posto da insegnante (con quel sovrappiù di noia e di tristezza che sempre hanno al cinema i lettori di libri). Claudio Santamaria aveva ambizioni da critico cinematografico (comincia su una rivisita chiamata Zapruder) e dopo molta disoccupazione si fa grillino, perdendo le elezioni. Donne, una soltanto: Micaela Ramazzotti (già da piccola, quando l’attrice è Alma Noce, ha già tutti i birignao che svilupperà da grande). Dallo stereotipo “fragile, svampita, poco amata da piccola, sempre sull’orlo della crisi di nervi, pasticciona nelle relazioni e generosa delle proprie grazie” proprio non si esce. Sullo sfondo, il crollo del Muro di Berlino, Mani pulite, la discesa in campo di Berlusconi, le Torri gemelle. Per festeggiare i centenario di Federico Fellini, un bagno nella fontana di Trevi.

…Di trovate che non trovate siano una tranvata dritta nei denti? Sì, tipo i tipi che parlano in camera, così, a cazzo. Ma che cazzo, su. Ribrezzo.
Di performance attoriali che, ebbene, sì, ti scartavetrano le pareti neuronale e anale con chirurgica, gravida, perfida precisione: Santamaria il “sopravvissuto” (al parrucco da denuncia alla corte dei diritti dell’uomo), Rossi Stuart l’intellettuale sfigato e cornuto, Favino il berlusconiano che si è fatto da sé, Ramazzotti la zoccola coatta di buon cuore. Letali.
Ah, ve prego (luridi dei del cinema): l’accoppiata Muccino-Ramazzotti mai più. La xylella fa meno danni.
Di storie amicali lunghe quarant’anni che abbracciano il nostalgico letargico giovanilismo mucciniano, i trentenni in crisi, i quarantenni in crisi, i cinquantenni in crisi. Prossimo passo: i cimiteri in crisi.
Di randomici accenni bignamici sul Paese che cambia, così, per darsi un tono da intellettuale che ne sa e ne sa dire, eh, in filigrana. Solo che la valuta è fasulla.
Di canzonette urlate a squarciagola: l’orrore, l’orrore (che poi, è tutto sempre fintissimo da un chilometro e mezzo).

Di movimenti ariosi-stretti-fuffosi della mdp, carrelli, giravolte, svolazzi, primi piani, campi e controcampi e contropiedi telefonati: uè, so’ il regista, esisto, ho girato in America, fate caso alla forma! (di caciotta flaccida-rancida pure se è di plastica).
Di cose remakkose: da Scola a Risi che bell’omaggio al cinema italiano. Un omaggio di merda.
Di due ore e dieci di muggenti muccinismi che trovano (incredibile) riscontro positivo in (molti) critici esaltanti: esalato l’ultimo afflato di libero pensiero critico …

martedì 18 febbraio 2020

Alla mia piccola Sama – Waad Al-Kateab, Edward Watts

miracolosamente questo documentario arriva in sala.
una ragazza riprende con la sua videocamera quello che vede ad Aleppo. 
e quello che vede è la guerra, contro Aleppo, l'assedio, le bombe, i feriti e i morti.
il marito, il padre di Sama, è un medico che lavora come e quanto si può, in ospedali di fortuna, con bombe che piovono in testa.
Waad registra e quello che vediamo è un pezzo di una guerra schifosa, dove muoiono moltissimi civili, bambini compresi.
chi ti lancia le bombe spara sul mucchio, tutto è danno collaterale.
nel film non si vedono soldati, solo sangue.
Sama, che, forse, non capisce, sorride, e diventa l'àncora a cui si aggrappano i genitori.
il film non è un libro di storia, chi cerca di uccidere te e i tuoi amici è il Diavolo, senza aggettivi.
la guerra, la distruzione, l'esodo non hanno mai fine, purtroppo.
come sempre Bertolt Brecht ha le parole giuste:


La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
egualmente.

non perdetevelo, se riuscite a trovarlo - Ismaele





il film non si configura solo come un potenziale testamento privato e collettivo in fieri, ma anche come il racconto urgente e umanissimo di una crescita personale, accelerata dagli eventi, che trasforma una ragazza in una donna e madre, e una giovane filmaker in una giornalista coraggiosa e rispettata, una voce dalla primissima linea, tutto senza pregiudicare l'intimità del suo obiettivo, inteso nel duplice significato di mezzo e fine.
Al centro di ciò, e dell'immagine e del sentire dello spettatore, c'è la piccolissima Sama, cuore pulsante della rivoluzione, termometro di sopravvivenza, miracolo incastonato nell'orrore della tragedia nella tragedia: il genocidio dei bambini siriani. Della loro sofferenza, ma anche della loro resistenza, Sama è il simbolo toccante e universale.
La camera di Waad inquadra i morti, lo strazio, il lutto, il terrore, senza censurarsi ma senza indugiare: c'è una bontà dello sguardo, che il lavoro di editing pensato con Edward Watts incornicia ed illumina, che fa sì che, laddove la denuncia è necessaria ma la visione intollerabile, sia la commozione a prevalere infine sull'orrore, il desiderio di vita su quello di morte, il sogno del futuro sul rimpianto del passato e sull'oscurità del presente.
Un film destinato a entrare nella storia del documentario e delle colpe collettive di un secolo.

Come giornalista, Waad era una fonte molto rispettata durante l’assedio. Lavorava per il canale britannico Channel 4 per cui ha prodotto video potentissimi. Quando parla inglese nei suoi video è ancora più straziante, si percepisce che attraverso l’inglese prova ad attirare l’attenzione del mondo sull’orrore che stanno vivendo i siriani. Come lei, molti aleppini credevano che il mondo li avrebbe aiutati se avesse saputo la verità. Invece, il mondo è rimasto in assoluto silenzio.
Per noi, spettatori di For Sama, c’è però una consolazione. I membri di questa piccola e bellissima famiglia coraggiosa sono vivi. Il loro coraggio e la loro speranza fanno ricredere nell’umanità. Come molti siriani scampati ai bombardamenti ci ricordano quello che in Europa si ricordano ormai solo pochi anziani, spiega Waad: il solo fatto di essere vivi ha valore.

Lo sguardo di Al-Kateab esce solo raramente da dietro la videocamera, azzerando così il gioco di specchi della più classica finzione cinematografica. I corpora Christi delle vittime dei bombardamenti sono scioccantemente reali. La regista lo sa, e ne evita la trasformazione in feticcio, presentandoli non come risultato di voyeurismo per accumulazione, ma come simbolo di riconoscenza per il valore della vita. E affermare, come fa Al-Kateab, che un’esistenza spesa intrappolati come topi in fatiscenti edifici di calcina abbia un significato ha la forza rivoluzionaria della verità più appassionata e impenitente.
Grazie a un voice-over puntuale, mai petulante, e all’intelligente lavoro di montaggio e rimaneggiamento dei filmati di Al-Kateab ad opera di Chloe Lambourne e Simon McMahon,  Alla mia piccola Sama fluisce libero al confine tra vlog e diaristica intima, consegnando alla posterità un complesso, ipnotizzante resoconto dei mesi di quarantena bellica trascorsi nell’ancor libera Aleppo nella speranza di un futuro luminoso. E in quel barlume di vita inossidabile danza la fragile, minuscola figura di un infante. E forse, un giorno, Sama verrà a conoscenza di essere stata la più assurda tra tutte le ragioni di sopravvivenza, ma anche la più desiderata; la più azzardata; la più umana.
Se dunque il filosofo tedesco Theodor Adorno si era solennemente pronunciato contro la possibilità di tornare a scrivere poesia sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale e dei suoi orrori, Waad Al-Kateab sembra giunta per aggiornarne la lezione, e dimostrare che non solo l’arte, nella disperazione, è ancora possibile, per non dire essenziale; ma anche che l’unica via d’uscita è, come Sisifo, essere un po’ assurdi, e appassionati. Perché tutto questo, Sama, per dirla alla Jane Austen, è stato fatto per voi. Che il masso continui a cadere. Ora l’assurdo non fa più paura. Bisogna immaginare Al-Kateab felice.

Lo sguardo spaventato ma amorevole di Waad ci racconta il disperato tentativo di protendersi verso un’esistenza normale in un contesto agghiacciante e disumanizzato. Difficile non provare un moto di tormento e commozione nell’assistere a scene di ordinaria vita casalinga interrotte dai suoni dei raid aerei e delle bombe o nel vedere la semplicità con cui i genitori, attraverso il classico meccanismo del racconto, istruiscono i propri figli sulla pericolosità di ciò che li circonda e sulla necessità di mettersi al riparo il prima possibile in caso di attacco. Come difficile è del resto pretendere dalla regista e dal collega Edward Watts, che l’ha aiutata nell’assemblaggio dei suoi filmati, uno sguardo lucido e critico su un dramma come quello siriano, che la tocca troppo nel profondo ed è ben lontano da una conclusione.
Alla mia piccola Sama dipinge Assad e i suoi alleati (in particolare i russi) come il male assoluto, mentre i ribelli sono, senza distinzioni, il simbolo della rivoluzione e della lotta contro il regime. Buoni da una parte e cattivi dall’altra, senza chiaroscuri o un’analisi più distaccata degli avvenimenti, magari in correlazione al fenomeno più ampio della Primavera araba. In documentari di altro genere, la scelta di Waad e la sua partigianeria (peraltro del tutto motivata e comprensibile) sarebbero state limitanti per il risultato finale. In Alla mia piccola Sama invece, questo trionfo della soggettività e la totale sovrapposizione fra sguardo e racconto diventano il valore aggiunto di un direct cinema davanti al quale non si può che restare attoniti.
Chi cerca da Alla mia piccola Sama una vera e propria inchiesta giornalistica che delinei un quadro preciso e accurato della situazione siriana, potrebbe rimanere deluso da una narrazione fortemente intima e personale, che non si pone neanche il problema di analizzare i fatti da un punto di vista diverso da quello ribelle. Per quanto ci riguarda invece, ci saranno tempi e modi diversi per contestualizzare e approfondire il dramma umano e sociale che sta vivendo la Siria. Accogliamo quindi con sgomento e partecipazione questo rarissimo esempio di coraggio e tenacia, che, col pensiero sempre rivolto verso il futuro e verso chi verrà dopo di noi, ci porta dentro al campo di battaglia, senza mai indietreggiare o voltarsi dall’altra parte, mostrandoci sangue, morte e devastazione e lasciandoci con la flebile speranza che un giorno non lontano questo orrore possa terminare.