domenica 31 marzo 2019

A Date for Mad Mary – Darren Thornton

Mary è uscita di galera giusto per poter fare la damigella di matrimonio a una sua amica.
ma Mary è troppo grezza per un compito così diplomatico.
ed è destinata a stare sola e triste, vive con la mamma e la nonna, conosce per fortuna una ragazza che non la disprezza.
prova a metterti nei panni di Mary e a sentirti rifiutata da tutti o quasi.
un'opera prima davvero di valore, da non perdere - Ismaele




…il merito del film è quello di non voler raccontare né una storia di ribellione né una parabola di normalizzazione. Ma bensì, come si diceva, il passaggio verso la maturità. Che per Mary significa fare i conti con se stessa prima che con gli altri. Significa confrontarsi con i cambiamenti senza pensare necessariamente che siano ostacoli, trappole o insidie che le vengono lanciate addosso. E anche quando gli altri sembrano non capirla, respingerla, abbandonarla lentamente la ragazza si scrolla di dosso la rabbia e l’avversione per ciò che non va e non è come dice lei. Diventare grandi significa capire che le persone cambiano e se non ci somigliano più vanno semplicemente lasciate andare e comprese per quello che sono: anche quando la tua famiglia non ti protegge più dal mondo esterno, quando le persone con cui sei cresciuto non fanno altro che giudicarti e quando persino la tua migliore amica è diventata una vera stronza…
Il fascino di Mary è innegabile in questo ritratto irlandese di un passaggio complicato dalla giovinezza all’età adulta.
Mary è stata appena rilasciata dopo sei mesi di carcere per una rissa scatenata da ubriaca in un bar. Tornata a casa, tutto e tutti sono cambiati.
La sua migliore amica, Charlene, sta per sposarsi e Mary sarà la damigella d’onore. Quando Charlene le rifiuta un invito per due al matrimonio, dicendole che tanto non troverà qualcuno con cui andare, Mary decide di dimostrarle che sbaglia… A date for Mad Mary è una storia al contempo dura e tenera sull’amicizia, sul primo amore e sull’andare avanti.

mercoledì 27 marzo 2019

1945 - Ferenc Török

a guerra non ancora finita riaffiorano le storie indecenti successe in quel piccolo villaggio.
basta l'arrivo di due sconosciuti per far scoppiare storie di denunce furti e lager.
in un bianco e nero splendido la resa dei conti, soffia un'aria da western.
non perdetevelo, non vi deluderà - Ismaele





 …La fotografia di Elemér Ragályi regala al film una veste raffinata e glaciale, dove il bianco e il nero sono definiti con una decisione che lascia poco spazio alle sfumature. Nelle inquadrature, sempre ben studiate, il regista e il suo entourage non perdono mai il controllo della narrazione che procede scandita sulle lancette dell’orologio. Come in una tragedia greca, si conserva l’unità di azione, tempo e luogo lasciando che sia il coro a raccontare tutto ciò che è avvenuto prima dei titoli di testa.
1945 fa parte di un cinema che non racconta, ma mostra gli effetti di una catastrofe e i segni che lascia sui superstiti. Gli autori Ferenc Török e Gábor T. Szántó si dedicano a uno spaccato di microstoria attraverso cui costruire un’attuale coscienza politica e  lanciano un appello alla presa collettiva di posizione e all’assunzione di responsabilità come patrimonio individuale di ogni cittadino. L’indifferenza è sempre dietro l’angolo, ma film come 1945 sono secchiate d’acqua gelida per chi crede che basti coltivare il proprio orticello per potersi dire brave persone.

La Shoah vista dalla parte di chi ha denunciato, tradito, rubato. Un taglio poco praticato finora al cinema, e tocca a un altro giovane regista ungherese, dopo il Laszlo Nemes di Il figlio di Saul, riprendere e riscrivere in parte il paradigma della rappresentazione della Shoah. Anche se qui non siamo al livello di Nemes. Nella sua prima parte 1945 stenta parecchio, è confuso e indeciso sulla pista narrativa da imboccare, affolla disordinatamente troppi personaggi, oltretutto con un montaggio non impeccabile. Ma è un film perturbante, vivaddio, che osa e sbanda, e però ti lascia un segno addosso. E quella campagna ungherese percorsa dall’avidità, dalla rapacità, dalle miserie umane ricorda non solo il più livido e sconsolato Bela Tarr ma anche, soprattutto, altri film del passato sull’Olocausto e sull’antisemitismo nell’Europa centrale, film girati nello stesso cupo bianco e nero, negli stessi paesaggi e ambienti polverosi e soffocati: il cecoslovacco Il negozio al corso (allora c’era la Cecoslovacchia) e Il processo di Georg Wilhelm Pabst. E quando vedi – rivedi – i bravi contadini del villaggio raggiungere minacciosi con i forconi i due misteriosi ebrei pensi ai pogrom, a quell’orrendo rito sacrificale che per secoli ha infettato quei paesi, e che forse ancora continua. E come i fa a non pensare all’Ungheria di oggi, di adesso, con i suoi nazionalismi risorti e le chiusure identitarie e gli aroccamenti, con i suoi rigurgiti antisemiti? Si pensi solo agli attacchi continui a George Soros, di radici ebraico-magiare.

La struttura classica del film conferisce un’aura di solenne tragicità alla narrazione, che procede a fasi alterne. Alla frenetica situazione vissuta in città fa da contraltare la ieratica e taciturna processione dei due ebrei. Il panico scatenato dalla presenza di queste sconosciute figure fa riemergere segreti e menzogne, mentre si palesa inequivocabilmente la colpa e la complicità degli abitanti nella deportazione dei propri concittadini. In questo psicologico gioco al massacro si fanno importanti i dettagli di 1945, ai quali Ferenc Török attribuisce abilmente dei suggestivi espedienti narrativi. Le posate d’argento nascoste in fretta e furia, i mobili semplici ma raffinati, la radio che annuncia i giochi di potere dei partiti che si contendono l’Ungheria. Tutto acquista un valore simbolico, mentre la tensione sale fino al fatidico incrocio: un piccolo barlume di speranza per quei pochi personaggi ritenuti meritevoli.

Sfruttando ancora una volta i topos del western, Török ci presenta da una parte i ladri della refurtiva, ovvero gli abitanti del villaggio, e dall’altra gli appartenenti all’ordine e alla giustizia, coloro che hanno perduto tutto, gli ebrei. Ma a differenza di un film con John Wayne, questi ultimi non sono pistoleri che tentano di risolvere i loro problemi adoperando l’arma della vendetta, bensì essi fungono come da espediente narrativo per dipanare la matassa di una storia che, come in un thriller, tesse i fili dell’incertezza e della suspense, verso una lenta e sempre più decisa risoluzione. Basta il loro incedere sicuro e gravoso, la loro presenza muta e solenne, a rompere l’equilibrio di un villaggio, a farne fuoriuscire, come da un inconscio collettivo, gli sbagli ed i sensi di colpa…

sabato 23 marzo 2019

Attenzione alla puttana santa - Rainer Werner Fassbinder

Rainer Werner Fassbinder gira in pochi giorni un gioiellino, un film sul cinema e i suoi protagonisti.
ci sono dinamiche relazionali e umane che condizionano la lavorazione del film, ottimi attori, in ptimis Lou Castel, ottime musiche, insomma un film che non lascia indifferenti, se uno inizia a vederlo.
appare anche Rainer Werner Fassbinder, sempre con la sigaretta accesa.
buona visione - Ismaele







Con la creazione dell'Antiteater, Fassbinder immaginava di poter dar vita a un movimento e un gruppo autonomi e liberi da qualsiasi schema imposto dalle "regole" del cinema e produrre un'arte in modo democratico.
Poi si accorse di aver creato pellicole, in 5 anni, che avevano disatteso in qualche maniera questa volontà.
La sua era stata solo una chimera, un ideale destinato a scontrarsi con la realtà. Non gli rimase altro che fare i conti con sé stesso, girando questo "Otto e mezzo" sbiadito, non sempre lucido, sofferto e un po' autoreferenziale.
Il nocciolo del film, la sua equivocità e il suo carisma stanno in questa antinomia: riscontrare che un insieme di esseri umani gretti, sfrenati, irritabili e prepotenti è nella condizione, grazie all'apporto e al comando di un solo regista, di generare qualcosa di completamente difforme e contrario al proprio modo di essere.
Il fallimento esistenziale dei singoli può essere conglobato e rinnovato nel loro inverso grazie al cinema, "puttana santa" per eccellenza.
Omaggiato dalle musiche di Peer Raben, Gaetano Donizetti, Elvis Presley, Ray Charles e Leonhard Cohen, Fassbinder tesse una specie di "Morte a Ischia" indolente e decadente. Anche se una didascalia dal "Tonio Kroger" di Thomas Mann rivelerà un desiderio di cambiamento:
"E io ti dico che sono stufo di ritrarre la natura umana senza parteciparvi"…

È Fassbinder, ci mancherebbe anche di perderlo. Un Fassbinder aurorale, anno 1971, molto prima del gran successo di Il matrimonio di Maria Braun, ma già autore enorme e smisurato. Una troupe sta girando un film a Sorrento. Però mancano i soldi, la tensione sale, ci si sbrana tra colleghi nel chiuso dell’albergo. Quasi una citazione del magnifico, indimenticabile Disprezzo di Godard (quello era ambientato a Capri, poco lontano) e un’anticipazione del miglior film di sempre di Wim Wenders, Lo stato delle cose (che WW abbia un po’ copiato?). Con Lou Castel, e già questo lo rende imprescindibile, e poi Hanna Schygulla, Margarethe von Trotta, Eddie Constantine, Marcella Michelangeli, lo stesso Fassbinder. Per un cinefilo una sfilza di nomi che è un’emozione. Ah sì, dimenticavo: la puttana santa del titolo è il cinema. Also sprach Fassbinder.

This whore of a film is a film within a film about making a film the avant-garde way, perhaps in a more brutal way than how Warhol worked at the Factory. It could be construed as the rabid 25-year-old Rainer Werner Fassbinder's more amusing and brutal version of Godard's "Contempt," as it supposedly tells it accurately about Fassbinder's bad experiences shooting Whity in Spain. There's a madness, a serpentine sense of movement, a chaotic despair and self-indulgence to the fascinating plotless film, that makes it an indescribable film experience with too many characters to keep track of and not much to draw on to try and piece things together without being an insider…

Per tutto il film aleggia un'atmosfera di disfacimento, un vuoto pneumatico che avvolge tutti i personaggi; Fassbinder descrive un mondo sfatto, privo di volontà o voglie, in cui non ci sono ideali (il tema politico alla base del film che Jeff e soci girano è solo un pretesto); tutti i personaggi si muovono come al rallentatore, persi nelle loro manie e nelle piccole voglie; tutti sono schiavi dell'attrazione reciproca, che li porta a soffrire e a piangere, a desiderare più partner come se niente fosse (Jeff, ma anche il divo Eddie Constantine, che interpreta sé stesso), come a colmare il vuoto esistenziale che si portano dietro; e l'omosessualità, all'epoca ancora un tabù nel cinema, viene ritratta dall'autore in modo spontaneo, senza sensazionalismi: l'attrazione tra Jeff e Ricky e tra gli altri membri della troupe viene messa in scena in modo diretto, candido, senza cattiveria né voglia di stupire, atteggiamento che, in futuro, farà la fortuna dell'autore…

martedì 19 marzo 2019

Martyrs – Pascal Laugier

il film inizia con una bambina, Lucie, che fugge dall'orrore come un'altra bambina, quella volta vietnamita.


il film è doloroso e inquietante, pieno di colpi di scena che danno benzina alla storia, quando sembra ormai arrivata a una fine, ecco che riparte, lasciando senza parole.
mi ha ricordato un film, del tutto diverso, con un'ambientazione, un'aria, una tensione, quel film era, ed è, 13 Tzameti (di Gela Babluani) e magari poterbbe anche essere, mutatis mutandis, Kill List, di Ben Weathley, c'è sempre qualcuno che organizza tutta la storia, è uno è un oggetto del teatrino di qualcun altro.
Martyrs è film impossibile da raccontare, qualsiasi racconto sarà molto meno forte e avvincente della visione del film.
il film forse non è per tutti, naturalmente, trasuda violenza in ogni scena, violenza mai inutile, e sempre funzionale a una sceneggiatura straordinaria.
non perdetevi questo film, soffrirete come raramente vi succede, al cinema, ma non ve ne pentirete.
buona visione - Ismaele
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La particolarità del film di Laugier (anche autore della sceneggiatura) risiede nel riuscire a svoltare velocemente ogni volta che ci si ritrova dinanzi ad un vicolo cieco. La sua versatilità nel mutare l'atmosfera orrorifica è tanto eccessiva quanto originale. Se la prima parte sembra essere una sanguinaria spedizione punitiva (sulla falsariga di Old Boy), la seconda parte capovolge completamente le regole del gioco, avvolgendo di luce nera una simbolica tematica sul "mostro (dis)umano". Ci si ritrova in un abisso di dolore ancestrale che parte in schiaffi e termina in scuoiamenti completi. Flashback improvvisi e dissolvenze in nero sostengono la struttura incalzante della storia mentre gli scatti fulminei della mdp sono abilissimi a tenere sempre sott'occhio i primissimi piani delle due brave protagoniste.
Insomma, "Martyrs" è un film che raggiunge a pieno il suo obiettivo: quello di far paura. Paura che filtra tra famiglie apparentemente tranquille e tra sette di sperimentatori mistici. Paura che filtra sempre e comunque dall'uomo.

Il film di Pascal Laugier richiede uno spettatore preparato: avvicinarsi a Martyrs con gli stessi occhi che potrebbero sollazzarsi di fronte alla mostra delle atrocità dei già citati film di Eli Roth o dei vari prodotti dozzinali che invadono il mercato estivo nel nostro paese, equivarrebbe a compiere un errore strategico tutt’altro che trascurabile. Laddove molto del panorama orrorifico contemporaneo, soprattutto di marca statunitense, sembra soffrire spesso del perseguimento di un codice di autocensura perfino castrante nella sua standardizzazione – e non si parla solo di un’edulcorazione di ciò che viene mostrato, ma più che altro del modo in cui si decide di mostrarlo – la pellicola di Laugier azzanna al collo lo spettatore, senza concedergli un attimo di tregua. Un gioco al massacro che diventa, nel crescendo etico ed estetico del film, una sfida aperta alle convenzioni del genere, in una spinta verso l’alto che non ha paura di mostrare le sue derive più materialmente basse. Un pugno allo stomaco duro e senza compromessi che sconvolgeva sul grande schermo e mantiene intatta tutta la sua lucida eversione filosofica anche nel supporto video…

Perchè il finale di “Martyrs” è così perfetto?
1) Se analizziamo la scena, possiamo osservare numerosi dettagli “minori” che aiutano a rendere il significato finale più aperto e misterioso possibile (spiegheremo poi perchè): la società che si occupa delle martirizzazioni è principalmente composta da anziani, dunque persone vicine alla morte e, in questo caso, ossessionate dallo scoprire cosa li attende “dopo”, nell’Altro Mondo. La stessa leader Mademoiselle, quando nella stanza si toglie trucco e parrucco, sembra dimostrare i sintomi fisici di una qualche malattia terminale (dunque l’atto del suicidio assume una notevole ambiguità). Quando Anna sussurra a Mademoiselle le inaudibili parole su cosa ci sia nell’altro mondo, il viso dell’anziana non sembra terrorizzato o felice, piuttosto sorpreso (ma non felice né deluso, quasi indifferente). Altro carattere ambiguo. La stessa estasi di Anna suggerisce che ci sia effettivamente qualcosa, ma non si capisce bene cosa (la luce in fondo al tunnel? Dio? il dolore l’ha resa silenziosamente folle e in preda ad allucinazioni?). Tutta la scena nella stanza di Mademoiselle avviene nella più completa freddezza possibile: la donna non lascia trasparire quasi nessun sentimento. E il livello di voluta ambiguità sale ancora. L’idea della sceneggiatore è geniale, poichè insegue la scelta di rinunciare ad inutili spiegoni filosofico-religiosi (sarebbero stati fuori luogo e pretenziosi, visto il clima dell’intero film) a favore in una costruzione ambigua che si, suggerisce una risposta all’eterno quesito “Cosa ci aspetta dopo la Morte?”, una risposta “precisa, che non lascia spazio ad interpretazione” (citando Mademoiselle), ma evita di caricarsi sulle spalle l’arduo compito di spiegarla. Lascia che sia il pubblico a fare congetture, come è giusto che sia visto che ognuno ha il suo credo e la sua fede (che sia in Dio o nel Nulla). Espediente eccellente per un raro caso di film che necessita assolutamente di rimanere “aperto”.
2) Il suicidio di Mademoiselle è un’altra scelta perfetta. Lei è stata la sola ad ascoltare la testimonianza di Anna. Lei è l’unica a sapere cosa c’è dopo la Morte. Che ci sia qualcosa (bello o brutto che sia) o nulla, i suoi “adepti” non lo scopriranno mai. Anni e anni di dolore e torture sprecate, mentre i “poveri” anziani si troveranno al punto di partenza, attendendo la Falce con ossessione e ansia. E’ la miglior vendetta che lo sceneggiatore potesse escogitare.
3) L’ultima frase è di una potenza unica. Mademoiselle esorta Etienne a “rimanere nel dubbio”. Cosa vuol dire? Probabilmente si rifersice alla cessazione degli atti di martirizzazione (come a dire “smettila di cercare una risposta torturando giovani donne, è inutile”) e anche se fosse solo questo avrebbe senso e neanche tanto banale. Ma Mademoiselle sottolinea il carattere dell’immaginare cosa ci sia dopo la Morte piuttosto che di cercarlo fisicamente. Su questo piano, il “rimanere nel dubbio” si configura come un’esortazione a vivere, poichè l’atto della Vita esclude necessariamente quello della Morte. E’ meglio non sapere cosa ci sia nell’Altro Mondo non perchè sia qualcosa di orribile, o gioioso, o inesistente, ma perchè non è pregorativa dell’uomo il “sapere con certezza”. L’uomo è destinato al dubbio finchè il suo cuore continuerà a battere.
Termina così questa dialettica Vita-Morte che per Laugier trova maggior fondamento nel dolore e nella sofferenza. Un film che disturba come pochi prima (e dopo) di lui, perchè ci spinge a riflettere e a cercare, in mezzo a tutto quel dolore, una spiegazione, un senso profondo.
Laugier consegna le chiavi per aprire l’Ultima Porta, ma ci esorta a tenerla chiusa.

Esistono dei film estremi, il cui assunto è più maledettamente tagliente di qualsiasi arma possa essere inclusa al suo interno. Film che colpiscono due volte, a fondo e in contemporanea: l’occhio, più superficialmente, con l’assolutezza della violenza in esse rappresentata; e la mente, più a fondo, attraverso la supposta ideologia che genera questa ferocia.
Martyrs di Pascal Laugier è uno di questi: non un semplice torture porn, anche se allo scatenarsi di questo sub-Genere è contemporaneo, e per certi versi affine, e allo stesso tempo, il più riuscito tra questi.
Pellicola del 2008 che, per assonanza di nazionalità e materia trattata, è stato accomunato a Frontier(s) [Xavier Gens, 2007] e À l’intérieur [Alexandre Bustillo e Julien Maury, 2007], è riuscito a scuotere in maniera più decisa le fondamenta dell’horror francese, e a ridargli linfa vitale.
Proprio a causa dei suoi contenuti eccessivi [non solo visivamente] Martyrs fu vietato, in patria, ai minori di diciotto anni, salvo poi venire “graziato” con un vietato ai minori di sedici, dopo le numerose proteste e i ricorsi dei produttori e del cast [da noi rimane VM18].
Martyrs è qualcosa di difficilmente collocabile, insindacabilmente riuscito nella sua spietatezza: iper-realistico ritratto del lato più oscuro della società contemporanea, è un film che non lascia spazio a possibili compromessi…

domenica 17 marzo 2019

Il colpevole - The Guilty - Gustav Möller

un film di parole, pensieri, immaginazione, storie.
Asger è l'unica persona che vedremo, uno che ha i suoi problemi, e si trova davanti a una storia enorme, difficile da capire, 
guardate il film senza sapere niente.
e poi pensare che siamo diventati un paese dove tutto può essere legittima difesa=licenza di uccidere.
un film attuale e contemporaneamente senza tempo, dove tutti siamo soli, e un telefono è una salvezza o una condanna.
Jacob Cedergren è Asger Holm, uno straordinario solitario interprete.
se vi volete bene cercate e trovate questo film al cinema.
non tutto è come sembra, piccole grandi sorprese vi lasceranno senza respiro - Ismaele

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Un thriller mozzafiato a basso budget ispirato da una storia vera: Moller e i suoi collaboratori sono rimasti particolarmente colpiti da una telefonata di una donna al 911 ascoltata da Youtube, con la vittima che ha parlato per 20 minuti in codice con le forze dell’ordine per non farsi scoprire dal suo aguzzino. Lo script, come dicevamo, ammalia ma anche la regia è degna di nota, con la macchina da presa che segue ogni singolo movimento di Asger, cogliendo tensioni e ansie di un caso che sembra sfuggirgli di mano e che lui prova in ogni modo a risolvere sfruttando le proprie abilità da stratega nonché oratore. Degna di nota la fotografia di Jasper J. Spanning, con il sound design firmato da Oskar Skriver che dà la giusta enfasi al susseguirsi degli eventi.
Una pellicola che centra l’obiettivo di offrire a ogni singolo spettatore un’esperienza del tutto unica. Le immagini che lasciano il segno sono quelle che non si vedono: de Il Colpevole – The Guilty ne sentiremo parlare ancora tra diversi anni.

Realizzato con mezzi minimi e capacità straordinarie, il film si svolge tutto nel chiuso di un ufficio delle chiamate di emergenza della polizia. Anzi, si svolge alla scrivania del poliziotto Asger Holm, di turno al 112 perché si calmi un po’: è un tipo alla Callaghan, pistola facile e modi bruschi. Ma quando il gioco si fa duro, Asger non si risparmia e va ben oltre l’orario e i compiti a lui richiesti. C’è infatti una donna rapita dal marito che chiede aiuto al 112. Le notizie che costei fornisce sono inevitabilmente frammentarie e approssimative, piene di angoscia e paura, ma Asger non lascia nulla di intentato. Le tracce della rapita conducono a nord , verso Elsinore, mentre giù, a Copenaghen, una bambina è a casa senza la mamma, sola e terrorizzata…

…Jacob Cedergren è Asger Holm: agente di polizia momentaneamente confinato al servizio di pronto intervento. Quando il film inizia, sembra una notte come un altra. Telefonate di ubriachi, piccole rapine: Asger risponde in modo astioso e svogliato, invia una pattuglia, chiude la chiamata. Il giorno successivo inizierà il processo che lo vede imputato. Sembra questa la sua unica preoccupazione. Almeno, finché non riceve la chiamata di una donna. Si chiama Iben: è stata costretta a salire su un furgone, che ora si dirige fuori Copenaghen. La disperazione nella voce della donna sembra turbare il poliziotto che, fino a un momento prima, sembrava assolutamente privo di empatia. Inizia così una folle corsa contro il tempo. Il furgone sembra impossibile da localizzare, Asger non può che gestire la situazione al telefono, ma combatte con ogni mezzo a sua disposizione. Peccato che le natura delle parole sia sempre ambigua. E dietro il racconto di Iben, si nasconda una storia ancora più disperata…

Il film vince in un’impresa in cui pochi sono usciti incolumi: raccontare qualcosa che regga, sia coerente e abbia senso, ma soprattutto non annoi, privandosi di cast, di fronzoli, di colonne sonore martellanti, di presenze sceniche stellari. Un solo protagonista che agisce per più comprimari, dando a ciascuno di loro giustizia: attraverso lui, per induzione vediamo una donna disperata, il suo sequestratore, la piccola Mathilda e gli agenti che, raggiunti al telefono, cercano di aiutarlo a salvare la donna. Per ammissione del regista, l’ispirazione arriva dal video di una donna rapita che parlava con un centralino del 911. Moller ha intuito che con la sua immaginazione poteva rappresentarsi una storia, anche senza viverla in maniera diretta…

venerdì 15 marzo 2019

Eldorado Road (Eldorado) - Bouli Lanners

un furto andato male e poi inizia una specie di amicizia fra il derubato e il ladro.
chissà perché, Yvan prende a cuore la sorte del giovane ladro, cerca di aiutarlo in tutti i modi, nel loro viaggio succedono un sacco di cose, qualche attimo si ride anche, ma è un film molto triste.
un film che vale, non dubitare - Ismaele






…Ci voleva, pare, Bouli Lanners per convincerci che il Belgio è il territorio adatto per un road movie. Ci voleva per forza Bouli Lanners per interpretare Yvan e riempire di sfumature un percorso altrimenti silenziosissimo, a bordo di una Chevrolet del '79, in compagnia di un ragazzino tossicodipendente che non si leva mai il cappello ma sembra aver qualcosa lì sotto, nel cervello, che funziona e che potrebbe aiutarlo a vivere meglio, se solo lui gli desse l'opportunità di uscire allo scoperto. Ci voleva sempre Bouli Lanners per spacciare per un piccolo film, all'apparenza pressoché disabitato, un saggio di ottimo cinema…

…tutto è preso con molta ironia pur nella realtà dei problemi trattati, sorprendendoci e rendendoci partecipi di quanto accade. Lo stesso finale pur se aspettato, rimane aperto e la speranza di una vita nuova non viene del tutto negata. È un film molto maschile, in cui il tema dell’amicizia tra uomini ha un posto importante assieme a valori quali la solidarietà umana e la fiducia reciproca (anche nel finale la fiducia di Yvan per Didier non viene meno nonostante gli accadimenti). Da citare la bella colonna sonora che riesce a sottolineare in modo appropriato i momenti salienti dell’azione senza mai risultare di troppo, come nei migliori road movie. Un’opera seconda matura che mostra un autore da seguire, espressione di una dinamica cinematografia quale quella belga.

Si les premières séquences évoquent un mélange entre Bertrand Blier mode Buffet froid et de Jim Jarmusch, Bouli Lanners réussit, comme il y a peu Kelly Reichardt avec Old Joy, à transcender ce qui chez d’autres ressemblerait à une déclinaison impersonnelle. La preuve avec toute la dernière partie où Bouli et son acolyte hagard tombent sur un pauvre clebs balancé sur le toit de leur bagnole, qui pourrait ressembler à une figure attendue (deux hommes, un chien, une fugue, peinards dans la nature) et qui ne le sera pas. Lanners détourne ce que l’on aurait dû (se contenter de) voir et communiquer une tristesse inconsolable au moment où l’on s’y attend le moins. Eldorado, c’est à la fois un point de non retour, un voyage absurde à destination inconnue entre ce que l’on a été et ce que l’on aimerait être (ou ce que l’on restera), une quête affective entre peur de l’autre et nécessité de se rapprocher de l’humain pour ne pas crever seul, comme un chien. C’est l’œuvre sincère d’un marginal qui donne envie d’aimer et d’être aimé.

giovedì 14 marzo 2019

Nordvest - Michael Noer

la discesa (o l'ascesa, dipende dai punti di vista) di Casper e Oscar nel crimine di serie A.
il salto è necessario, se vuoi arricchirti in fretta.
ci sono dei rischi, ma il fascino dei soldi, e della violenza, sono troppo grandi.
una vita di merda, girata bene dal giovane regista e interpreta drammaticamente bene.
buona visione - Ismaele






Thriller viril et efficace, le métrage est aussi un drame familial poignant porté par deux excellents comédiens. La relation qui unit ces deux frères est ainsi la véritable force du film, l’évolution de ces personnages introvertis étant capturée à la perfection par la caméra. D’une brutalité sans artifice, le réalisateur a choisi, avec succès, une approche naturaliste qui donne un moteur émotionnel réaliste à la descente aux enfers à laquelle le spectateur assiste. Fable très sombre, "Northwest" nous prend à la gorge, nous remue les tripes, car il n’oublie jamais sa dimension humaniste, nous plaçant au plus près des êtres…

Film choc, film coup de poing, NORTHWEST prend aux tripes. Le spectateur assiste un peu impuissant à la descente aux enfers d’un jeune banlieusard danois qui, de voleur à la petite semaine, va passer du côté obscur en devenant la seconde main d’un bandit de haut vol. Cependant, si le film ne s’en tenait qu’à cela, les choses se limiteraient facilement. Il n’en est rien. C’est alors cette part d’humanité qui surgit et s’exprime dans les rapports familiaux qu’entretient Casper, le héros “déchu” principal, avec les siens, à savoir son plus jeune frère Oscar, sa petite sœur et sa mère, tous vivant sous le même toit dans un des quartiers chauds de la banlieue de Copenhague…

martedì 12 marzo 2019

Ben X – Nic Balthazar

non capita spesso che un film ti faccia stare male, e ti lasci senza parole.
Ben X è uno di quei film.
Ben vive nel suo mondo, ed è l'oggetto delle attenzioni di una coppia di pezzi di merda, con la complicità di tanti altri, che purtroppo per Ben sono nella sua classe.
quello che passa Ben è un calvario, deve solo subire, e portare la sua croce.
la sua passione è un gioco al computer, ambientato nel Medioevo, gioco nel quale è bravissimo.
e una ragazza vuole conoscerlo, e questo, come tutto, è difficile da gestire.
conoscete anche voi Ben, non perdetevi questo piccolo capolavoro belga - Ismaele






E' difficile trovare le parole per descrivere le emozioni che questo autentico capolavoro ha saputo suscitarmi. E' difficile, ma doveroso, perchè non potrei trovarle a freddo, non sarebbero le stesse, è giusto che vengano ora, a cuore ancora pulsante, a viso ancora segnato dalle lacrime.
Ben X è uno dei film più toccanti che abbia mai potuto vedere anche se tale aggettivo rischia di sminuirlo, di limitare alla semplice (ma importantissima) componente emozionale quella che è una grandezza a prescindere dell'opera. Cercherò per questo di analizzarlo più completamente che posso anche se le dita, ancora tremanti, potrebbero portarmi a scrivere cose troppo di parte.
Partiamo dalla recitazione. L' interpretazione di Greg Timmermans (Ben) è semplicemente memorabile. Certo, il suo personaggio è straordinario, ma in 9 visi su 10 sarebbe risultato esagerato, forzato, macchiettistico. Lui passa da un registro all'altro, sopra e sotto le righe senza far mai perdere coerenza al personaggio. E che dire della madre, figura dalla straziante umanità, forza e debolezza, speranza e rassegnazione, amore sconfinato per un ragazzo che, solo apparentemente, non sembra ricambiare. E veri, veri, in un cinema che sembra non conoscere le persone e le dinamiche della vita, veri sono tutti gli altri personaggi, forse di contorno (perchè tutto in BEN X è di contorno a Ben, alla sua mente), ma allo stesso tempo tremendamente funzionali…

il vero punto di forza dell’opera di Balthazar (brillante esordiente alla regia), capace di caratterizzare in maniera commovente questo ragazzo incerto, insicuro, sfumato, psicologicamente allo sbando, senza per questo scadere nella ricerca della facile tragicità un po’ troppo costruita. C’è sincerità nel personaggio di Ben, e per questo grande merito va ovviamente anche all’attore esordiente Greg Timmermans. Riuscitissima anche l’alternanza tra immagini di vita reale e di “gioco virtuale”, costante necessaria per rappresentare la dualità psicologica di Ben.
Una dualità che nel finale sfuma sempre più, diventando indistinto e irreale, fino a toccare punte di lirismo sognante come in pochi negli ultimi anni hanno saputo regalarci (penso soprattutto al primo Michael Gondry). Funzionale l’utilizzo delle interviste, anche se queste sono inevitabilmente il punto debole della struttura complessiva, che trova invece il suo punto di forza nella narrazione sciolta e nella focalizzazione sul protagonista. Ultima nota prima della visione: preparate qualche fazzoletto.

domenica 10 marzo 2019

Appuntamento con il delitto (Un témoin dans la ville) - Édouard Molinaro

un classico del cinema francese.
senza poliziotti, poteri forti, complotti.
"solo" una storia di vendetta, ma Lino Ventura (che nel film si chiama Ancelin, e il suo primo nome di battesimo è Angiolino) non è fortunato.
belle e puntuale la colonna sonora, sceneggiatura perfetta, ci sono le mani dBoileau-Narcejac.
un gioiellino da non perdere - Ismaele




Ce film est simplement extraordinaire. Et ça tient à une seule chose : sa réalisation très bien maîtrisée, certes il y a quelques petits défauts, mais il est vraiment très très bon.
Réalisé par Edouard Molinaro, on a du costaud à la 'réal' ! En effet, Molinaro c'est De Funès avec HibernatusOscar, ou encore Delon avec L'Homme Pressé par exemple. Bref, c'est du tout bon et en plus il est assisté de Gérard Oury et Alain Poiré. On se retrouve donc avec une réalisation très efficace pendant tout le film, et qui assez bien rythmée : il suffit de voir la première scène du film dans le train, c'est efficace, même s’il y a un ou deux passages longuets un peu plus tard.
Lino Ventura a de nouveau le premier rôle et il est tout simplement impeccable du début à la fin du film. Il joue à merveille l'homme hésitant à tuer un innocent qui n'a fait que l'apercevoir, et avec brio l'homme traqué…

Au cours d'une dispute, Verdier a précipité sa maîtresse, Jeanne, hors d'un train en marche. Il passe en jugement mais est acquitté au bénéfice du doute. Ancelin, mari de Jeanne, décide alors de venger celle qui l'avait pourtant trahi. Il supprime Verdier, laissant croire à un suicide. Mais, en sortant de chez sa victime, il tombe sur un radio-taxi, Lambert, que Verdier venait d'appeler. Ancelin se rend compte qu'il doit, dès lors, éliminer aussi ce témoin malencontreux. Il le retrouve, le suit, mais hésite à le pousser sous une rame de métro.
Voyant Liliane, une fille du standard des taxis, amie de Lambert, rejoindre ce dernier avec un journal, Ancelin se doute qu'il va tout comprendre à propos de la mort de Verdier et qu'il faut donc agir vite. Il réussit à monter dans le taxi de Lambert, qui le reconnaît et branche discrètement son téléphone sur le standard. Là, tous, y compris Liliane, bouleversée, entendent une brève conversation entre les deux hommes, suivie d'un coup de feu. Commence alors dans Paris nocturne une chasse à l'homme mouvementée où les radio-taxis, qui veulent venger la mort de leur camarade, se relaient et s'informent sur le trajet d'Ancelin, traqué jusque dans le Jardin d'Acclimatation où il sera abattu par la police.

Un témoin dans la ville se caractérise d'abord par le faible volume de ses dialogues, élément traditionnellement majeur dans le cinéma policier. Ici, le silence se fait souvent dominant, notamment lorsque le personnage d'Ancelin est à l'écran. Dès son apparition, alors qu'il s'infiltre dans la demeure de l'assassin de sa femme, Molinaro filme une longue séquence sans le moindre mot, ce qui deviendra l'une des caractéristique du personnage d'Ancelin, quasi muet. Un élément qui plait d'ailleurs beaucoup à Lino Ventura, qui dans la suite de sa carrière interprétera de nombreux personnages peu diserts. Ancelin, qui a tout perdu dès l'ouverture du film et le meurtre de sa femme qui ne l'aimait déjà plus, n'a presque plus aucun contact avec l'humanité, comme s'il était un fantôme…
Un témoin dans la ville est un des plus beaux films noirs du cinéma français, l'un des plus tragiques aussi. Une vision quasi onirique, implacable, du funeste destin d'un homme seul face au monde qui a vu sa vie se détruire malgré lui. Ce sera l'impulsion d'une longue et formidable carrière pour Lino Ventura, et le premier grand film de Molinaro. on peut d'ailleurs légitimement penser qu'il s'agit de son chef-d'œuvre. Il ne retrouvera pas, dans ses célèbres comédies, la réussite de cette œuvre de jeunesse, même si sa carrière regorgera, dans des registres divers, de très beaux films…

sabato 9 marzo 2019

Sotto la sabbia - François Ozon

cosa succede quando dopo una vita insieme ci si trova soli, questo è il tema del film.
Marie, in conseguenza del fatto che il corpo non si trova, si comporta come se il marito fosse ancora vivo, se non c'erà in quel momento è perché era appena uscito.
Marie vive con un fantasma, c'è e non c'è, vivere soli liberi autonomi è praticamente impossibile.
il film non è pesante né fa annoiare, Ozon (e Charlotte Rampling, sono bravissimi.
da non perdere - Ismaele



SOTTO LA SABBIA non è certo un film spensierato, di sano intrattenimento o leggero (che dir si voglia) perchè colpisce al cuore, riflette la vita vera e l¹esperienza di chi ha deciso di non accettare la la fine, di una vita, dell'amore, dei sentimenti, dei sogni. Allo stesso tempo il film non rischia di essere uno dei "soliti deprimenti, incomprensibili film d'essai", perchè la forza magnetica di un'attrice come Charlotte Rampling non ci permette di staccare un attimo lo sguardo dallo schermo. E forse anche perchè Ozon è un regista giovane ed è sicuramente una promessa del nuovo cinema francese…

Gli attori sono straordinari, ma la Rampling è il perno di tutto il film, e la sua misuratissima recitazione lo rende ancora più drammatico. Il dolore della perdita è lucidamente folle, incomprensibile, quasi surreale: non cè spazio per le lacrime, se non nellultima scena su quella stessa spiaggia. Tutto è molto curato, non ce una pausa morta e la costruzione è elegante, come lo sono anche molte scene. Di notevole bellezza il contrappunto musicale reso da September, che sottolinea e fa da raccordo tra la rinascita sensuale di Marie e l'annuncio del ritrovamento del corpo. Inizialmente un po' lento, ma funzionale al plot, il film lancia indizi ed interessanti spunti. Intelligente, e fortunatamente non scontato, dal finale irrisolto (che potrebbe infastidire). Il giudizio: Ottima costruzione. Onesto ed elegante.  

Quanto fa male l'abbandono? Forse uno dei dolori più terrificanti e inconsolabili. Io li odio gli adii, detesto il disfattismo sentimentale, quelli - per intenderci-  del "nulla dura per sempre", " non faccio promesse", tutta questa paura di amare e farsi male anche per amore, mi nausea fortemente. Perchè dobbiamo lasciare che il tempo ci separi dalle nostre amiche e dai nostri amici? Perchè lasciare che l'amore finisca ,visto che deve finire?
La Resistenza esiste anche nella nostra vita privata e nelle scelte che facciamo. Mi piace tantissimo quella frase di Moretti: " io non divento amico del primo che passa, io scelgo di chi diventare amico. E una volta che ho scelto è per sempre"
Ecco, per me questa è la vita. Ho scelto te come amica o amico, ho scelto di amarti. Alti e bassi, modificazioni, cambiamenti, ma va avanti. Come la nostra vita.
Aggiungi a questo dolore, quella di una scomparsa senza motivazioni e un corpo che non trovi.
Troppo per la nostra mente e infatti Marie giustamente si inventa una vita quotidiana matrimoniale, che non ha più.
E diventa talmente pesante quella mancanza che nessuna verità sarà vera, meglio abbandonarsi a una visione di salvezza e correre incontro a essa. Perdersi nella follia, per sempre
Grandissimo film, davvero eccezionale, con una Charlotte Rampling assolutamente magnifica, emozionante, memorabile. Questo è il cinema che mi piace, questo è quello che voglio vedere.

… Il plot di Sotto la sabbia è semplicissimo, tanto che si ha l’impressione - specie nella prima parte della pellicola - che non accada nulla e mentre già scorrono i titoli di coda rimaniamo a domandarci che cosa è realmente accaduto. Marie (Charlotte Rampling) e Jean (Bruno Cremer) Drillon sono un’affiatata coppia di coniugi di mezza età: sposati da venticinque anni, partono come ogni anno per trascorrere le vacanze nella loro residenza al mare. Il viaggio, l’arrivo nel luogo di villeggiatura, la riapertura della casa, i primi momenti di riposo costituiscono un rituale rassicurante e ormai fin troppo consueto, sino ad arrivare alla noia, a quella silenziosa monotonia di gesti e di parole in cui trascolora dopo anni la felicità coniugale; la cinepresa si aggira lentamente fra loro, quasi senza stacchi, indagatrice e muta testimone dei loro atti, isolando le due figure in uno spazio assurdamente teatrale, emblematico. L’effetto straniante, lo stridore di un “nonsense” esistenziale si avverte fin da qui, dalla rappresentazione quasi documentaristica di un’estate tranquilla, dalla inspiegabilmente fastidiosa scoperta da parte di Jean di un covo di formiche nel tronco di un albero, durante una passeggiata nel bosco. L’imprevisto, il conturbante, l’inaspettato - pare voglia dirci Ozon - hanno in realtà radici assai profonde nella solo apparente impassibilità delle nostre esistenze: sono parte, a volte anche fondamento della nostra vita e a noi non resta che accettarlo o lasciarcene sommergere. Proprio come sceglie di fare Marie quando, in un giorno di sole come tutti gli altri sulla spiaggia, si risveglia e si rende conto con sgomento che Jean è sparito nel nulla, durante una nuotata. Senza senso e senza spiegazione…