martedì 26 febbraio 2019

Magical Girl - Carlos Vermut


quando il professore di matematica afferma che sempre 2+2 sarà uguale a quattro non aveva visto queste due scene (qui e qui), le cose non sono logiche, razionali, prevedibili, univoche, ma molto più complicate, imprevedibili e misteriose.
misterioso e doloroso, inquietante e destabilizzante.
il Male vince su tutto e tutti, quel Male che non si vede, ma esiste.
un film che merita moltissimo, secondo me.
metto sull’avviso chi lo vedrà, è un film che fa stare male, cercatelo - Ismaele



Mi è piaciuto tantissimo come il regista non abbia mai svelato cosa Barbara fosse costretta a fare in quella villa. E il non averci detto nulla del suo passato, nè quello in questo girone demoniaco (le cicatrici parlano) nè quello riguardante il suo rapporto col professore (lontanamente ricorda il rapporto tra l'uomo e la bimba di Lasciami Entrare).
E quella porta maledetta chissà cosa nascondeva (inquietante quel foglio bianco, l'impossibilità di fermarsi e rifiutare), chissà cosa c'era dentro, scelta molto simile a quella che vedemmo nel bellissimo Darling.
Ma del resto lo stesso Luis è personaggio al tempo stesso profondamente tragico ed enormemente negativo (chè anche il gesto più bello del mondo non giustifica quello che fa).
Davvero, lo spettatore si ritrova in questo film di cui fatica a trovare il baricentro, in cui si innescano anche molti sottotesti, sia metaforici (2 + 2 fa 4, a ricordarci che l'unica verità non confutabile è questa, le altre sono tutte interpretabili) che sociali (i continui riferimenti alla Spagna, dalla situazione culturale alle corride viste come metafora di un popolo, dalla costituzione ormai dimenticata alla crisi finanziaria contrapposta ad un mondo ricco e sprezzante).
Alla fine i "due film" si incontrano per la seconda volta (dopo la notte di sesso tra Barbara e Luis) e ci portano a un quarto d'ora finale nerissimo, spietato e straziante.
E, anche qui, il regista gioca con lo spettatore attraverso quel professore che prima voleva farsi uccidere se quell'uomo aveva violentato Barbara, poi preferisce ucciderlo quando scopre che invece è lei ad averlo scelto, come un raptus di gelosia.
Impressionante, strano, ambiguo…

Trascinante e torbido, cieco e plumbeo, Magical Girl è un'opera con la capacità di stimolare lo spettatore attraverso una calibrata e subliminale scelta da parte del regista di non mostrare l'orrore filmico, o ciò che dovrebbe essere. Un film preciso, matematicamente abissale, velatamente infernale, in cui il dolore presente nella pellicola risulta avere una forza cicatriziale, quasi cadaverica, quindi, rapportato al pubblico, il dolore si manifesta in maniera doppiamente incrollabile e dilatata, presente e pesante, nonché incontrovertibile.
E ogni volta che la soluzione al male, la prova dell'atto malvagio e del ricatto esistenziale sono a portata di mano, ecco che improvvisamente svaniscono, come per magia. Ed il male viene invisibilmente eternizzato. Al di là delle immagini, dietro (o dentro) di esse. Insomma, nel finale il cerchio si chiude illusoriamente, di conseguenza, in realtà, si palesa un'effettività relativa all'impossibilità di far cessare il dolore, il male, l'orrore, se non, appunto, attraverso una semplice gioco di prestigio, una gesto ingannevole. Il Cinema che illude lo spettatore di poter eliminare, far sparire, debellare il male indebellabile.
Un altro grande pregio di Magical Girl è che, in un certo senso, non assomiglia a nient'altro, nonostante non sia un'opera prettamente rivoluzionaria.

lunedì 25 febbraio 2019

La paranza dei bambini - Claudio Giovannesi

ragazzini senza nessuno, se non loro stessi e il gruppo.
hanno un'idea di giustizia, ma non si cerca più coi pugni o con i bastoni, come nella guerra dei bottoni, ma direttamente con il kalashnikov.
la potenza delle armi è piena di fascino e di morte, ma quei ragazzini non ci pensano, o meglio il bisogno di rispetto, vittoria, amicizia, e anche amore, è più forte del rischio di morire.
gli adulti sono i cattivi esempi, crescere è molto difficile.
interpreti davvero bravi, e convincenti.
il film è ancora in sala, non perdetevelo - Ismaele






Infinite guerre, da quella di Troia in poi, sono iniziate per un dispetto, per una sciocchezza, per un gioco. Anche i bambini della paranza iniziano la loro guerra come se fosse un gioco. Si trovano in mano armi letali che non avevano mai visto prima, imparano a usarle guardando i tutorial su youtube. Come in un gioco abbattono l’albero di Natale della Galleria Umberto e lo ardono come ossessi in una folle danza tribale.  Ma è un gioco che non dà scelta né via di scampo. Vanno inconsapevolmente verso la morte a quindici anni, in un percorso breve, spesso brevissimo, nel quale concentrano una intera esistenza e perdono in fretta l’innocenza.
Il protagonista, e gli altri come lui, inizia volendo fare del bene, alla mamma e al suo quartiere, taglieggiati brutalmente dalla camorra, dove dei disgraziati pretendono il pizzo da chi è ancora più misero di loro. “Il paradosso – spiega con lucida semplicità Francesco Di Napoli (Nicola) – è che cercano di fare del bene attraverso il male”…

…Con l’ottima direzione della fotografia di Daniele Ciprì, il film racconta questa “ascesa agli inferi” che si consuma quasi con una sconcertante semplicità, in un’ascesa e declino all’interno del comando sul quartiere fatta di alleanze, di tradimenti, di attentati, di drammatiche rinunce e di ancor più drammatici epiloghi. Senza il furore né il rumore di molti film sul genere, rievocati giusto al momento di provare le armi al fiume e nella scelta di scritturare fra i boss il feticcio garroniano ed ex-camorrista Aniello Arena, i quindicenni protagonisti sono però profondamente inadatti alla guerriglia che volontariamente intraprendono, costretti a guardare tutorial su youtube per capire come usare una mitragliatrice e disastrosi nel fare inceppare la pistola e poi schiantarsi in motorino proprio nel momento in cui si dovrebbe scappare più velocemente. Più che minacciare, sparare e uccidere sembrano quasi giocare con le armi, quando si esercitano sui tetti della città, ma il loro percorso sembra lo stesso inevitabile, avviluppati come sono da una società soffocante e criminale, spietata, pericolosa e mortifera…

Giovannesi ama i suoi personaggi, profondamente, e per questo non li giudica. Li accompagna nel loro inesorabile declino lasciando che la frenesia di una scelta insensata si realizzi, pian piano, davanti ai nostri occhi, rendendo la messa in scena verosimile e credibile. La purezza che scivola via è negli occhi del suo protagonista, Nicola: quando, per un breve istante, crede di avere il potere nelle sue mani, cerca di restituire una qualche forma di etica alle sue azioni criminali: niente più estorsioni nel quartiere, un vero campetto da calcio e magliette per la squadra del fratellino, mobili nuovi e sfarzosi per la mamma. Buone azioni perpetrate attraverso il male. Ma è, ancora una volta, un equilibrio precario, illusorio, tipico di chi non conosce le regole del “gioco” – perché è proprio così che viene percepito da Nicola e i suoi amici – e di chi è troppo giovane per comprendere quanto possa essere profonda e irreversibile l’oscurità. Capirlo, per quelli che sono poco più che bambini, suona come un paradosso ma, come ci lascia intendere il finale, ad un certo punto saranno costretti a farlo. Sarà troppo tardi, ma comunque troppo presto.

sabato 23 febbraio 2019

Ils (Them) - David Moreau, Xavier Palud

Them precede di due anni Eden Lake, un'altra storia simile e diversa.
Them non fa vedere (quasi) niente, e quell'ansia, attesa, paura, angoscia, terrore un po' li senti anche tu, quelli di Clémentine e Lucas.
un film che non tistacchi dalla poltrona, in un crescendo di minacce sconosciute.
questo è un film imperdibile, se ti vuoi bene, sapendo che ci sarà da soffrire - Ismaele


l'horror europeo è al femminile, non ci sono cazzi. Sarà una casualità o no ma tutti i più grandi capolavori del genere negli ultimi 10 anni avevano una donna come protagonista, magari affiancata da degli uomini, ma comunque regina indiscussa della scena. Tra l'altro, un'attrice migliore dell'altra. E non è un caso che anche in Them ad avere le palle sia lei, vero uomo della "famiglia" mentre lui è di una indolenza unica - basta vedere come ci viene presentato al "lavoro"- piagnone all'inverosimile (ma corri! al diavolo la ferita!) e capace di mostrare un minimo di carattere solo nel finale.
La narrazione è scandita in maniera mirabile con i 10 minuti iniziali del prologo -ottima la scena in soggettiva dall'interno della macchina col cofano alzato-, altri 10 minuti di presentazione dei due personaggi nella loro casa e i restanti 50 a raccontare, nel classico climax ascendente, il terrore dato dall'attacco degli "invasori"…

Onore ai due registi che, invece di puntare al cosa raccontare, si concentrano sul come raccontarlo e senza virtuosismi creano una pellicola godibile e molto ben girata. Interessante anche la scomposizione della struttura classica del lungometraggio horror. Il ritmo thrilling di questo "Them" si palesa fin dall'inizio stoppandosi solo per poche scene del film, per favorire narrazione e conoscenza dei personaggi, riprendendo poi la rincorsa addirittura prima della metà del film verso una nuova ondata di ansia e brivido, producendo nel complesso un'alternanza di questi elementi veramente appassionante.

Film dopo film l’Europa (o perlomeno alcune nazioni europee) rosicchia sempre più spazio e attenzione alle ipertrofiche produzioni statunitensi ribadendo, se ce ne fosse ancora bisogno, che horror e thriller possono essere girati con molti meno soldi e molta più intelligenza. Them - Loro sono là fuori (Ils) è un esempio lampante di tale situazione.

La tensione è questione di gestione degli spazi, del ritmo, del sonoro e, talvolta (ma Alfred Hitchcock non sarebbe d’accordo), del riuscire a mantenere la minaccia indeterminata e misteriosa fino a pochi passi dalla fine.

In Them - Loro sono là fuori il duo formato da David Moreau e Xavier Palud (The Eye) sembra voler realizzare un manifesto cinematografico di quanto asserito prima e mette in scena, dopo una intro superflua, una lenta carburazione della suspense attraverso qualche quadretto di vita famigliare che raggiunge obbiettivi molteplici: ci vengono fornite informazioni importanti sulle psicologie dei due personaggi principali (anzi, unici), quindi conosciamo meglio l’ambiente principale nel quale si svolgerà buona parte dell’azione e si crea attesa per l’irruzione del Male senza volto, del caos gratuito e immotivato in grado di sconvolgere qualsiasi vita.

Da quel momento, sfruttati gli ingredienti iniziali (luci che si accendono e spengono, fugaci passaggi di ombre, telefonate e rumori molesti), la coppia di filmaker alza il tasso di adrenalina con invidiabile senso del ritmo, sfruttando la bassa definizione digitale per incupire e rendere più claustrofobica la labirintica magione.

La sceneggiatura di Them - Loro sono là fuori, denudata di ingombranti sottotesti e priva di alternanza fra momenti di quiete/spiegazione e istanti di orrore/azione, diventa così un’unica e concitata sequenza di inseguimento a basso tasso emoglobinico ma dotata di altissima tensione che non mostra segni di cedimento fino alla conclusione…

…Il budget ridotto all'osso non risulta un limite per “Ils” che anzi dimostra, come se ce ne fosse ancora bisogno, di come sia possibile creare un ottimo prodotto senza mezzi colossali ma solo con idee ed abilità. Nei suoi scarsi 80 minuti di durata il film è in grado di regalarci un'ottima dose di brividi ed un finale che svela, in modo particolarmente inquietante, l'identità delle presenze assassine che risultano spaventosamente vicine alla realtà quotidiana. Se si unisce questo al fatto che, nella mente dello spettatore, aleggia sempre la scritta d'apertura del film “ispirato a fatti realmente accaduti”, il gioco è fatto e l'effetto finale è ancora più forte e duraturo. Una mossa furba, senza dubbio, ma efficace in questo caso, come in pochi altri…

Ciò che però ha fatto, e farà ancora, più saltare dalla sedia gli spettatori è sicuramente il colpo di scena che fa partire l’ultimo atto. La scoperta di chi, e anche cosa, siano gli invasori contribuisce certamente a vedere Them sotto una luce diversa. È pacifico che l’effetto sorpresa sia l’elemento su cui si investe la buona riuscita di un film presso il pubblico medio, ma è altrettanto vero che esso necessiti di costruzione e coerenza. Cosa che Moreau e Palud dimostrano di saper fare, avendo insistito precedentemente sul tono ludico di quell’irruzione notturna, senza però dimenticarsi di quello che è l’obiettivo: un finale spietato, freddo e di impatto. La sequenza che chiarisce definitivamente il destino di Clémentine e Lucas ha l’effetto di una secca staffilata, l’ultima inquadratura, fissa, un sapore amaro. Liberamente ispirato a fatti realmente accaduti, Them si impone brutalmente come thriller dai toni veristi a cui però non si può e non si vuole umanamente credere.

venerdì 22 febbraio 2019

Il diritto di uccidere (In a Lonely Place) – Nicholas Ray

titolo perfetto, per un altro film.
In a Lonely Place un film sul cinema, sull'amore, su un assassinio, con Humphrey Bogart e Gloria Grahame indimenticabili.
sceneggiatura perfetta, senza tempi morti.
non perdetevelo, se vi volete bene - Ismaele





Sono nato quando lei mi ha baciato. Sono morto quando lei mi ha lasciato. Ho vissuto le poche settimane in cui lei mi ha amato.
Dixon Steele nel film In a Lonely Place, citato anche dai The Smithereens nell’omonima canzone
Nel film In a Lonely Place, Humphrey Bogart e Gloria Grahame sono ancora abbastanza vicini al noir. “Era molto più di un attore. Era l’immagine stessa della nostra condizione. Il suo volto era un rimprovero vivente” disse Nicholas Ray di Bogart. Il film è un riflesso delle fratture postbelliche. Dix Steele, reduce di guerra, tenta invano di far ripartire la propria carriera di sceneggiatore. La mitologia dell’amore viene riscritta e ha il suono della paranoia. Nel gotico femminile una donna innocente entra nel palazzo stregato di un uomo ma presto i due si rivelano perfetti estranei. Per gli uomini il matrimonio è una continuazione della guerra con altri mezzi. In a Lonely Place fu prodotto dalla Santana Productions di Humphrey Bogart, e fu lui a scegliere come regista Nicholas Ray. Mai il linguaggio del corpo di Bogart è stato più convincente: il mito hollywoodiano si smonta rivelando un personaggio pericoloso. Il film è una versione diluita del romanzo di Dorothy Hughes ma si conserva fedele alla sua ambiguità; è stato cambiato a favore di una più profonda inquietudine. Anche se non vediamo mai gli studios, In a Lonely Place è uno dei più grandi film su Hollywood. La commissione per le attività antiamericane e la lista nera non vengono mai nominati, ma In a Lonely Place parla anche di loro.
Dagli scritti postumi di Peter von Bagh (2014), a cura di Antti Alanen
Nicholas Raymond Kienzle è un autore nel senso che ci piace dare a questa parola. Tutti i suoi film raccontano una stessa storia, quella di un violento che vorrebbe cessare di esserlo, i suoi rapporti con una donna moralmente più forte di lui perché il duro, protagonista dei film di Ray, è un debole, un uomo bambino, quando non è semplicemente un bambino. Sempre la solitudine morale, sempre gente disposta a braccarti, linciarti. […]
Se è vero che si possono distinguere due tipi di registi, i cerebrali e gli istintivi, io metterei senz’altro Ray nel secondo gruppo, in quello della sincerità e della sensibilità. […]
Nicholas Ray è un po’ il Rossellini hollywoodiano. […] Nel regno della meccanica, amorevolmente, Nicholas Ray da artigiano fabbrica graziosi piccoli oggetti in legno di pungitopo. Dagli al dilettante! Non è un film di Ray se è senza un tramonto. È il poeta della notte che scende e tutto è permesso a Hollywood tranne la poesia. […]
Si può rifiutare Hawks in nome di Ray (o viceversa), rifiutare anche Il grande cielo in nome di Johnny Guitar o accettarli tutti e due, ma a chi rifiuta l’uno e l’altro arrivo a dire: non andare più al cinema, non vedere più film, perché non saprai mai cosa sono l’ispirazione, l’intuizione poetica, un’inquadratura, un piano, un’idea, un buon film, il cinema.
François Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, Venezia 1978

Nicholas Ray, grazie alla superba interpretazione di Humphrey Bogart, mette in scena un personaggio ambiguo, del quale lo spettatore non saprà mai nulla fino in fondo, se non un’innata brutalità. Dixon è un personaggio in cerca di una stabilità risolutiva che però gli è costitutivamente preclusa. Non si tratta di un uomo alla ricerca di un’identità – che è invece ben definita, seppure scissa e anormale, tipica di chi soffre di un disturbo psicologico – bensì alla ricerca di una stabilità esterna capace di arginare i suoi feroci squilibri e di alleviare dolori ignoti di un ego violento. In a Lonely Place è un luogo dell’anima, dove ci si ritrova a fare i conti con se stessi, con i propri dubbi, i timori e le incertezze. 
“Sapevi che era dinamite! Deve pur esplodere ogni tanto” dice Mel Lippmann (Art Smith), l’agente di Dixon a Laurel in preda alle lacrime, combattuta tra i dubbi sulla sua innocenza e l’istinto a fuggire ed evitare il frettoloso matrimonio. A poco varrà venire a sapere che l’assassino di Mildred è un altro uomo; la rabbiosa ossessione di Dix si è ormai già consumata in una violenta aggressione ai danni della povera Laurel, che disperata e tra le lacrime non potrà che dirsi “vissuta nelle sole poche settimane in cui Dix l’ha amata”.

mercoledì 20 febbraio 2019

Red Riding - Julian Jarrold, James Marsh, Anand Tucker

questa non è una serie, si compone di tre film, girati con mano e tempi diversi.
sono, nell'ordine:
Red Riding: 1974 - Julian Jarrold
Red Riding: 1980 - James Marsh
Red Riding: 1983 - Anand Tucker
in tutti e tre i film, tratti da romanzi di David Peace, appare alla sceneggiatura Tony Grisoni.
omicidi, pedofilia, torture, sparizioni e sequestri di bambine, nel terreno fertile di una polizia corrotta e da mettere in galera, buttando la chiave.
storie bruttissime, in film imperdibili.
vedere per credere - Ismaele




Chiariamo preliminarmente che The Red Riding si compone di tre film che pur avendo un’impronta antologica forse è meglio dire che la struttura è semi-antologica, poiché pur potendoli vedere separati, solo con l’intera visione della serie si avrà un quadro chiaro dell’affresco composto dai creatori. Per intenderci, Black Mirror si può vedere in ordine sparso senza danni enormi alla comprensione, The Red Riding va visto in ordine, anche perché il lasso temporale rappresentato è di fondamentale importanza per capire il contesto storico. Quanto appena detto risulta evidente già dai titoli dei film: Red Riding 1974Red Riding 1980Red Riding 1983. Protagonista della serie, infatti, è l’Inghilterra del nord (precisamente lo Yorkshire) in un determinato periodo storico che incomincia alle porte dell’epoca thatcheriana e termina nel cuore di essa. Non so se è capitato anche a voi, a scuola, mentre studiavate Storia, di collegare determinate epoche storiche a determinate sensazioni, come ad esempio può capitare di accostare Rinascimento e sensazione di luminosità, a me capita quasi sempre e all’epoca thatcheriana ho sempre accostato sensazioni di tristezza, cupezza, ansia, grigiore, austerità, violenza, frenetica industrializzazione, in sostanza una diffusa sensazione di malessere. Della cosa ho avuto conferma da numerosi film britannici e anche da questa serie, che dipinge esattamente come poco sopra descritto il contesto storico di riferimento. La trasposizione di tale periodo è il più fedele possibile, segno che i fatti raccontati sono importanti ma la Storia di più, nel senso che senza il riferimento a quella Inghilterra i fatti sarebbero un po’ svuotati di senso. Quindi è naturale che in alcune scene si trovino scritte sui muri come: “fanculo gli argentini” (riferimento alla guerra delle Falkland/Malvine) o “fanculo IRA” (riferimento alla lotta tra il governo inglese e la cellula terroristica irlandese). L’affresco storico non viene abbandonato neppure nel delineare i casi di cronaca nera descritti dalla serie che sono ispirati a fatti realmente accaduti (con anche immagini di repertorio), ciò si nota fortemente soprattutto nel secondo film, ove fa da sfondo alle vicende raccontate il caso dello Squartatore dello Yorkshire (1975-1981)…

martedì 19 febbraio 2019

La scomparsa di Alice Creed - J Blakeson

un film poco adatto a chi soffre di claustrofobia, un lavoretto ben preparato, un incasso spropositato, tutti si conoscono, ma il gioco finisce male, come sempre il diavolo fa le pentole, ma poi mancano i coperchi.
solo tre attori, e quella che sembrava una passeggiata diventa un incubo, per tutti.
un film che ti trattiene sulla poltrona fino all'ultimo minuto, con una sceneggiatura senza tempi morti, in un terribile crescendo.
buona visione - Ismaele




La scomparsa di Alice Creed non è un film, bensì un circuito sociale a tendenza degenerativa. È la storia di un sequestro di persona, ma è anche e soprattutto un condensato di pulsioni (sessuali e non) represse, desideri strani e cupe ossessioni che per un motivo o per l’altro vengono a galla sottoforma di incubi atroci. Ed è un film essenziale, minimale e minimalista, a suo modo dissanguato da quel coté di orpelli e storie parallele che, intersecandosi tra loro, appesantiscono il plot con artifici ridondanti. Il rapimento, per esempio, narrato in ellissi, altro non è che il portello di un furgone che s’apre e chiude nello spazio di un taglio di montaggio; la detenzione della bella Alice (Gemma Arterton), una stanza spoglia con una figura di donna (nuda perlopiù) ammanettata a un letto e una palla sadomaso ancorata alla bocca; la relazione (omosessuale) tra i due rapitori, tutto un fermento di sguardi tra il geniale Vic (Eddie Marsan) e lo psicolabile Danny (Martin Compston), sguardi grevi, plumbei che acuiscono la tensione, che rendono la claustrofobia dell’insieme a tratti insostenibile, e che con azzeccato gusto del paradosso regalano persino alcuni mai scontati attimi di tenerezza…

Vic inizialmente sembra avere la situazione in mano, ma la sua continua vigilanza non potrà impedire la degenerazione, dal momento che Danny conosce già Alice e che lei non è affatto intenzionata a restare inerme in attesa di esser salvata. Il lento spostarsi degli equilibri all'interno della stanza in cui Alice giace immobile, ma straordinariamente attenta a non farsi sfuggire nessuna opportunità, è la parte più interessante dell'intero plot. E sarà con una sorta di complicità che lo spettatore seguirà l'evolversi delle infinite possibili combinazioni, le quali finiranno per sovvertire un piano non così accurato come poteva apparire. La paranoia, che permea il pensiero di Vic e come un contagio si propagherà anche agli altri, rende scivoloso ogni possibile appiglio e difficile ogni decisione che si dovrà prendere. Presto lo spettatore intuisce che, nonostante lo svantaggio iniziale, Alice è attivamente protagonista dell'evolversi dei fatti nella stessa misura in cui lo sono i suoi rapitori, e che le sue scelte avranno un peso molto grosso sul finale non previsto che aspetterà i tre.
La recitazione, solitamente punto forte dei thriller a basso costo e con una location limitata, anche in questo caso regge bene l'intero peso della riuscita rappresentazione, mentre fotografia e regia risultano piuttosto routinarie. Ma nel complesso l'opera regge bene, quanto basta perché allo spettatore importi di sapere come andrà a finire. E di questi tempi è molto più di quel che ci viene solitamente offerto, purtroppo ormai nella maggioranza dei casi.
Parte col botto il primo lungometraggio dell’inglese J Blakeson. Secondo uno schema lineare e una messa in scena ridotta all’osso (anche nel budget) la mdp si focalizza da subito sulle gesta di due uomini che si riveleranno presto essere due delinquenti con un piano criminale infallibile. Tre attori, una location. Due sequestratori, una ragazza sequestrata e un’abitazione sperduta in chissà quale angolo di mondo. Per la semplicità e per la forza persuasiva delle immagini, l’incipit e le prime fasi di studio del film ricordano molto “Panic Room”, seppure i contesti siano chiaramente differenti. L’adrenalina e la velocità delle immagini montate implodono nei cinquanta metri quadri dello scarno appartamento e in breve tempo lo spettatore intuisce agevolmente come il piano inattaccabile dei sequestratori cominci a sgretolarsi sotto le loro stesse mani. I tre protagonisti dovranno allora fare i conti con la resistenza e la fisicità delle scene di azione, ma soprattutto con il pericolo di un ribaltamento psicologico (e sessuale) tanto sconvolgente quanto determinante…

domenica 17 febbraio 2019

Journeyman - Paddy Considine

Paddy Considine non sbaglia un colpo, riesce a colpirti e a commuoverti.
le storie di pugili sono sempre forti e sincere, c'è un corpo nudo e fingere è impossibile.
Matty è una brava persona, ma nell'ultimo incontro prende troppi colpi.
e inizia una vita triste, di malattia, dolore e solitudine.
e quando stava per mollare arrivano gli amici, quelli veri, e la musica cambia.
una gran bella storia, con attori eccezionali.
non perdetevelo - Ismaele



La segunda película del actor y director británico Paddy Considine (luego de la inquietante Tiranosaurio), es un drama boxístico que cuenta la historia de Matty Burton, un esposo y padre de familia. Después de mantener su título mundial, Burton se enfrenta a un ataque cerebral que lo convierte en alguien muy diferente a la persona que solía ser para sus amigos, su esposa y su pequeña hija.
Este trabajo, producto de la ficción, logra alejarse de los tratamientos edulcorados y cursis característicos de los dramas de superación personal, y logra conmover al espectador gracias a su tratamiento directo y humano, que se enriquece gracias a las estupenda actuación de Considine, así como de Jodie Whittaker (la actriz que próximamente encarnará a Dr. Who y quien aquí interpreta a Emma, la esposa de Matty) y Anthony Welsh (actor a quien vimos en el episodio Crocodile de la serie Black Mirror, y quien encarna al orgulloso y agresivo rival de Matty, el boxeador Andre “The Future” Bryte).
Fuera de combate o Journeyman (cuyo título en la jerga boxística se refiere a un peleador que nunca llega a evidenciar todo su potencial), vuelve a demostrar el gran talento interpretativo de Considine, quien también se luce en cintas como Dead Man’s Shoes y En America. En Fuera de combate logra una caracterización compleja –y de gran expresión corporal– con la que nos cuenta la tragedia de Burton, sin siquiera explicarle al espectador en qué consiste realmente. Su modesta historia de caída y redención, logra tocar las fibras más profundas, posee un espíritu noble y nos muestra esa maraña de emociones encontradas que hacen parte de nuestra efímera existencia.

There is little doubt that the film’s greatest achievement is in the ensemble acting, spearheaded by Considine himself, though equally affecting by Whittaker. While the screenplay capitalizes on the emotional depth of Matty’s predicament, it also lacks certain elements in expanding on the actual world in which the story takes place – and in this respect, what we miss is the translation of the socially relevant poverty and despair depicted in Tyrannosaur into the conditions of a relatively well-off middle class in the same rugged environment of Northern England. But the film boasts technical merits, particularly the razor sharp editing, which disorients the viewer through rapid and startling inserts of violent punches swung at Matty, altogether a fierce reminder of his misery and the nature of the sport…
Tutto in una notte. Rimanere in cima al mondo e precipitare nell'abisso dell'invalidità. Il viaggio che compie Matty Burton non è quello di ritornare il pugile campione del mondo, ma di ridiventare un uomo. Rimettere in piedi un matrimonio, riallacciare i rapporti con il mondo esterno, troncati dalla malattia. A differenza di Tyrannosaurus, Journeyman strizza più l'occhio al cinema mainstrem, ma la bravura di Considine, come attore e regista, è quella di farci sentire la sua sofferenza nella caduta e nella sua difficile risalita. Da questo punto di vista la boxe, al cinema, riesce sempre a raccontare delle belle storie.

sabato 16 febbraio 2019

Quién mató a Bambi? – Santi Amodeo

Santi Amodeo è amico e "complice" in qualche film con il più famoso Alberto Rodriguez.
in questo film il ritmo è davvero sostenuto, si corre senza freni, in una storia un po' folle, e unica.
una commedia degli equivoci, e dell'avidità umana, divertente quanto basta.
e alla fine, per premio, scoprirete chi è Bambi 
buona visione - Ismaele




Cuando una comedia tiene partes sublimes, como le ocurre a ¿Quién mató a Bambi?, especialmente en el entramado narrativo (bien por Amodeo) y en sus intérpretes (Alterio, sensacional), uno se queda más decepcionado con sus puntos flacos: ese inicio renqueante y más bien bobo, y algún intermedio tan chirriante como innecesario: ¿qué hace ahí Iniesta? La risa, su estallido, llega tarde. Pero llega. Y luego ya no cesa, y así te instalas en un juego transgresor y gamberro.

El peso de la película estará sostenido por las aventuras y desventuras de las dos parejas de amigos/ socios que, con o sin quererlo, tienen a un rehén en su coche. ¿Lograrán llevar al jefazo sano, salvo y vestido a la fiesta? ¿Conseguirán el ansiado rescate que les libre de sus deudas? Las adversidades para nuestros protagonistas sólo acaban de comenzar… desde ese mismo momento la trama de ¿Quién mató a Bambi? se desarrollará en una escala ascendente y surrealista de catastróficas desgracias que, sin lugar a dudas, provocarán la carcajada en el espectador…

De todas formas es cierto que es una película que no promete otra cosa. ¿Quién Mató a Bambi? es exactamente lo que podría esperarse de ella tras ver el tráiler, momentos locos y actores que saben sacarles buen partido a los mismos. Actores que te levantan cualquier gag por flojo que pueda resultar. Tampoco hay que desmerecer que dentro de lo arbitrario que pueda ser todo, la película tiene un ritmo y tono perfectamente medidos. Falla, por tanto, un guión al que, partiendo de la misma idea, se le podría haber sacado más jugo.
Suficiente para pasar un rato divertido, que no es poco.

ricordo di Bruno Ganz

giovedì 14 febbraio 2019

El mundo sigue - Fernando Fernan Gomez


un film trascurato per molti anni, al fascismo non piacciono i film che non sono trionfalistici e patriottici, e che raccontano cose poco liete, segno che non tutto va bene.
Fernando Fernan Gomez si ritaglia una parte di cattivo marito, cattivo padre, e dipendente dal gioco.
ci sono tanti colpi di scena, in un mondo che sembra quello dell'ottocento, ma è appena degli anni sessanta del novecento.
un film da non perdere, un piccolo capolavoro da vedere e rivedere, meglio in spagnolo - Ismaele




El
mundo sigue, joya incontestable del cine español, es conocida por ser la “película maldita” del reconocido director de culto Fernando Fernán Gómez. Maltratada y olvidada en su limitadísimo estreno, ha tenido que pasar medio siglo para poder verse ensalzada al lugar que merece dentro de nuestra cinematografía. Una película que destaca ante todo por la valentía de poner sobre la mesa una realidad imperante en la época y que, pese a lo que se pudiera pensar, ha llegado maquillada hasta nuestros días.
Es lógico que suscitara el recelo de los órganos censores del Franquismo, no solo por poner sobre la mesa temas tan peliagudos como la violencia de género, el aborto, la ludopatía o el abandono conyugal, sino por su fiel retrato de la miseria, una pobreza económica y social que hace proliferar los más profundos y arcaicos de los sentimientos: la envidia, el odio y el rencor. En una época donde el cine de charanga y pandereta, que ensalzaba las glorias nacionales y dejaba a un lado cualquier atisbo de crítica a la difícil situación imperante, llegó ‘El mundo sigue’, intenso melodrama de corte costumbrista inspirado en una novela de Juan Antonio Zunzunegui que retrata la historia de rivalidad entre dos hermanas que buscan el ascenso económico y social…

Fernán Gómez consigue mezclar un cine amargo con el surrealismo de Berlanga para enseñarnos las miserias de las personas, nos hace sentir incomodos a la vez que comprobamos como se nos encoge el corazón.
Todas y cada una de las actuaciones son inolvidables, no hay un solo papel que esté por debajo del resto, todos mantienen el tipo, nos emocionamos y odiamos con los personajes.
Si hay que poner alguna pega a la película pondría la duración, unos 10 o 15 minutos de menos hubiera sido perfecto para una película prácticamente redonda.
Sin duda El Mundo Sigue es una de las mejores películas españolas de todos los tiempos, quien no se  emocione viendo está película es que no es de este planeta. Esperemos que este reestreno ponga al film donde se merece.

Digámoslo claro: El mundo sigue es la más feroz y menos domesticable expresión de una España tenebrosa, violenta, ruin, machista, ignorante y empobrecida; en definitiva, la España que el Nuevo Cine Español de los años sesenta nunca llegó a retratar con tan descarnados perfiles, la España que el desarrollismo franquista pretendía ocultar bajo la engañosa alfombra del turismo. No es una película de humor negro, pero sí es la radiografía más negra que existe de aquella España. Y tampoco es un esperpento valleinclanesco, pero la exacerbación deformante de su naturalismo genera el más atroz y sombrío de los esperpentos que cabe imaginar.
Su recuperación nos recuerda de dónde venimos y vuelve a echar vinagre en algunas de las lacras más hirientes que todavía sangran entre nosotros (la violencia de género, la explotación de los humildes, la humillación clasista). Nos recuerda que el mundo sigue, que nada se para, que nos queda mucho camino por recorrer y que aún tenemos muchas asignaturas pendientes.

es una regresión vista casi desde una mirada actual de la realidad de un tiempo marcada por las miserias de la necesidad unidas al desgaste moral y a la búsqueda incesante de una salida. La envidia, la obcecación, el machismo o la impotencia serán algunas de las pasiones humanas más malsanas con las que tendrán que convivir unos personajes atormentados por un tiempo convulso y que Fernán Gómez sabrá materializar mediante un uso magistral de las claves del melodrama unido a un guión cargado de humor en un contexto neorrealista que catapultan a “El mundo sigue” al Olimpo del cine clásico español. Inadmisible dejar pasar la ocasión de disfrutar de esta obra hasta ahora casi perdida.

martedì 12 febbraio 2019

Il Corriere - The Mule - Clint Eastwood

a proposito di giovani, dopo Harry Dean Stanton e Robert Redford torna il vecchio Clint, in una storia di droga e di buoni sentimenti.
Earl deve anche fare i conti con la sua vita e i suoi familiari e questo rende il film adatto a ogni spettatore, tutti capiscono.
e siccome vedere il film è meglio che farselo raccontare, il cinema vi aspetta.
buon viaggio, su quella macchina nera - Ismaele





Clint Eastwood non delude mai, è impossibile. A quasi novant'anni, torna sullo schermo come regista e come attore e dà vita a un gioiellino drammatico che, seppur non al livello dei suoi capolavori, è assolutamente apprezzabile. C'è una certa tendenza ad assecondare i miti più abusati della cinematografia americana (su tutti, l'amore per famiglia da mettere al primo posto) ma Clint ha una narrazione così poetica e delicata da farci scordare ogni possibile difetto. La sua regia è carezzevole, la sua interpretazione è straordinariamente umana e credibile e genera un'empatia solidissima con lo spettatore, gli attori secondari funzionano benissimo e non manca qualche sequenza ricca di pathos e di tensione.
Per quanto il contesto in cui il film è ambientato sia negativo, Clint sembra volerci mostrare che anche gli uomini 'peggiori' possono avere un'anima e sono spesso vittime di circostanze più grandi di loro. E come il magnifico finale ci mostra, anche in un carcere possono sbocciare dei fiori.
E' un'altra piccola grande opera del maestro Clint Eastwood.

Ieratico e catartico come non mai, Eastwood regala con "The mule" una parabola struggente, un analisi della società liquida dell'oggi, tra smartphone e iperconnessioni il vecchio Earl rincorre il tempo perduto, tra rancori famigliari mai sopiti , inseguendo la (ri)lettura di temi a lui cari.Patria, famiglia e morte, letteratura da cinema classico qui inserita in un contesto puramente americano. Come in "Gran Torino" è la catarsi dell'uomo che conta, non importa se egli è sceso a compromessi con la propria morale, lui è lì per compiere il suo dovere sino in fondo. L' umanità è tutta nei compromessi e nelle contraddizioni di Earl Stone,  e nel suo amore per la vita."The Mule" è un opera classica e morale di altissimo livello, una lezione di vita che un grande autore ci legge ad alta voce. Eastwood a differenza di "Gran Torino" dipinge un personaggio che mantiene  dei tratti conservatori, mantenendo comunque un personaggio umano, godereccio e amante delle belle donne che  suscita tanta simpatia…

…Insomma, pregiudizi che dettano il nostro agire, decadenza di una società, i capricci dell'io, la nostra dimensione umana. Argomenti leggerini a cui il regista aggiunge infine il carico da novanta: la famiglia e lo Stato. Il messaggio è semplice, ma qui vive della drammatizzazione toccante più che della raffinatezza dei concetti: The Mule non è un film che lavora di fino, al contrario, affastella argomentazioni per sostenere tesi semplici, ma che pur capendo molti faticano a mettere in pratica.
E allora c'è la famiglia, trascurata per il lavoro, per le donne, per il successo, per ogni capriccio possibile e immaginabile. Serve la morte per portare a maturazione un padre inadeguato come Earl. Non dico altro. E alla fine arriva pure lo Stato, tanto aspramente criticato da Eastwood. Non è fatto di leggi, non è fatto di giudici e avvocati: è fatto di uomini, più o meno meschini, più o meno forti, coi coglioni di ferro o le palle mosce, più o meno onesti, responsabili e obiettivi di fronte ai propri errori. Il cittadino perfetto condanna se stesso per ciò che ha fatto. Non è un mostro perché ha commesso dei crimini, anzi, è sollevato quasi perché abbraccia serenamente la necessità di essere punito.
Nel suo percorso di redenzione Earl-Clint traccia la strada verso un “mondo perfetto”, il suo mondo perfetto. A volte è bacchettone, sbaglia tantissimo, quasi tutto, ma a novantanni arriva a capire. Ha voluto dircelo, rivelarcelo con un film, per darci una mano a vivere.

La vera meraviglia in Il corriere – The Mule non proviene dalla riuscita o meno del film né dal suo presunto (ci auguriamo) status di opera-testamento, bensì dall’esistenza, fuori e dentro la scena, di una creatura testimoniale, incarnazione di un frammento di storia del suo paese, del cinema, americano e italiano, e in ultima istanza dalla sua disponibilità a mostrarci gli effetti del trascorrere degli anni sul suo volto e sul suo corpo. Non lo abbiamo coltivato noi, come i fiori di Earl, ma certo desideriamo, egoisticamente e proprio come i narcotrafficanti del film, che non si fermi, continui a viaggiare, che viva, ci intrattenga ancora, riecheggi epoche che non abbiamo vissuto, costi quel che costi.


domenica 10 febbraio 2019

Non torno a casa stasera (The Rain People) - Francis Ford Coppola

Nathalie e "Killer" sono persone senza troppa importanza, Nathalie non riesce più a convivere col marito, è anche incinta, sa cosa non vuole, ma ancora non sa cosa vuolo, Killer era una giovane promessa del football americano, adesso è solo un ritardato nel mondo impietoso degli adulti, è come un bambino, preso in giro e sfruttato da tutti, tranne che da Nathalie. 
i due si affezionano, senza un motivo particolare, se non che l'uno/a sente di dover proteggere l'altro/a.
Roger Ebert vede nel film una storia come quella di Easy rider, a partire da Huckleberry Finn.
un piccolo capolavoro, imperfetto, secondo alcuni, con grandi attori nelle mani di un grandissimo Francis Ford Coppola.
non perdetevelo - Ismaele





The Rain People (questo il titolo originale) è un viaggio prima interiore che reale anche se l'incontro con un ex giocatore di football universitario ora mezzo ritardato condizionerà parecchio le sue scelte. Pur sapendo che è meglio abbandonarlo non riesce a staccarsene. Empatia,affetto materno, sindrome del buon samaritano. Il perchè della loro vicinanza affettiva non è svelato neanche nell'ultimo disperato pianto di Natalie. Coppola più che ai luoghi,più che fotografare l'America che si srotola pigramente nei finestrini della macchina sembra interessato a Natalie e al suo processo di emancipazione,al suo tormento. Se vogliamo  è un punto di vista radicalmente opposto a quello assunto da Spielberg in Sugarland Express in cui i finestrini dell'auto erano occhi aperti sul mondo...

Nathalie e "Killer" sono due inadatti (Killer porta la sua disabilità in giro come una specie di pietra di paragone di coloro che gli si accostano).
Sono inadatti alla vita in generale e alla vita che la società o il caso hanno preparato per loro. 
La fuga di Nathalie corre attraverso l'America rurale, che dagli anni 60 in poi non era già più l'autentico paradigma dell'American way of life ma - vero o no che fosse (e c'è ovviamente del pregiudizio nei registi di quegli anni) - un territorio già fin troppo esplorato e allo stesso tempo non (più) conosciuto, ostile.
E' una fuga senza scopo perchè, appunto, la frontiera non c'è più e gli spazi che si aprono davanti ai due non sono più pieni di promesse e di speranze…

Basically the search is the same no matter how you undertake it. The young wife (Shirley Knight) In "The Rain People" and the Peter Fonda character in "Easy Rider" are lineal descendants of the most typical American searcher of them all, Huckleberry Finn. The rules of the game say these searches are always undertaken by two companions: a sophisticate, and an innocent. So Huck Finn takes along the slave, Jim. And Peter Fonda takes along the pothead (played by Dennis Hopper). And Shirley Knight picks up a hitchhiker (James Caan) who was a college football player until he got banged on the head and that made him an innocent.
The function of innocents is to be satisfied and ask obvious questions. They dig things. They like catfish (Jim) and getting stoned (Hopper) and they love a parade (Caan). And they can't understand why their companion on the quest doesn't just settle down and take it easy…

Coppola a adopté un rythme lent, soutenu par une ballade mélancolique dont il n’abuse pas, mais le film recèle des scènes marquantes dans lesquelles il sait instaurer un malaise persistant : que ce soit dans l’hôtel où Natalie joue à « Jacques a dit » avec Killer, jusqu’à l’humilier (magnifique plan-séquence vue dans un triple miroir) ou dans la rencontre avec Ellen, l’ex-petite amie de Killer qui le rejette violemment, le spectateur ne peut qu’être troublé par des jeux de pouvoir brutaux. 
Même si les raisons du départ de Natalie restent confuses, le scénario prend soin de la définir par des caractéristiques récurrentes, comme le fait de parler d’elle à la troisième personne. Mais son départ sonne surtout comme le symbole d’un mal-être, qui imprègne toute une génération ; il n’est d’ailleurs pas indifférent que la même année, Dennis Hopper tourne Easy rider et que, au détour d’un plan, on voie le titre Bonnie and Clyde : consciemment ou pas, Coppola s’inscrit dans ce qui va devenir le « Nouvel Hollywood » et remet en cause, le temps d’un beau film, aussi bien la morale traditionnelle que la mise en scène classique. Il se lancera ensuite dans l’opulence opératique triomphante avec les Parrain ou Apocalypse now, mais sa veine intimiste ne mérite ni dédain ni condescendance : Les gens de la pluie est un grand film.