martedì 28 aprile 2020

Uncut Gems (Diamanti Grezzi) - fratelli Safdie

se guardate questo film (e spero che lo facciate, se almeno un po' vi volete bene) cercate una poltrona con le cinture di sicurezza.
vi farà correre a 100 all'ora, come nelle montagne russe, seguirete Howard nelle poche ore e giornate in cui è concentrata la storia.
Howard ha mille difetti, il primo è che non sa stare solo con se stesso, e quando ci riesce è solo perchè si nasconde, ma lo trovano sempre, un altro grande difetto è che è un giocatore d'azzardo come pochi, e il tempo, che lui vorrebbe amico, è una clessidra implacabile.
se fosse diverso non sarebbe così, e Dostoevskij ne trarrebbe grande ispirazione, se volesse conoscere un giocatore nel nostro mondo di oggi, nell'ombelico del mondo che è una New York che non dorme mai, dove tutto si può avere e perdere in un secondo.
buona, immancabile, visione - Ismaele











questo è uno di quei casi in cui la velocità del tutto non crea noia ma, al contrario, attenzione, atmosfera, tensione.
Magari ci sono anche altri film "veloci" che danno queste sensazioni agli spettatori (altrimenti i botteghini non premierebbero solo la spazzatura) ma qui siamo davanti ad una rapidità di cinema volta a chi il cinema lo ama, non agli estimatori- legittimi eh - dei Luna Park.
Credo di trovarci davanti ad una specie di miracolo di sceneggiatura e di regia perchè girare un film videoclipparo (madò se è abusato sto termine... ma ancora oggi mi sembra uno dei più azzeccati) che causa nello spettatore le stesse sensazioni del grande cinema d'autore è impressionante.
Il film comincia e poi finirà senza che te hai quasi respirato. E in tutto questo fai pure in tempo a provare tensione, ad apprezzare la recitazione, la sceneggiatura, le musiche.
Magari non ci sono tante tematiche, quasi nessuna, ma che cazzo ce ne frega, intanto siamo entrati in una Ferrari e abbiamo fatto un giro della città, una bellissima città, con alla guida Michael Schumacher.
Sempre un lettore ha tirato fuori (se l'abbia letto da qualche parte non so), il termine "multitasking".
Perfetto.
Questo è il prototipo di un cinema multitasking, un cinema che contemporaneamente racconta di più cose, un cinema in cui i dialoghi, diversi dialoghi, si intervallano continuamente uno sopra l'altro, in cui le vicende, diverse vicende, si intervallano continuamente una sopra l'altra, un film dove noi non siamo altro che il nostro protagonista, ovvero uno che deve portare avanti 5 cose contemporaneamente cercando di non impazzire, ascoltando tutto con le orecchie, seguendo tutto con gli occhi, elaborando tutto con la testa.
Se c'è spaesamento, se a volte non capiamo chi parla, chi è quello, che voleva l'altro, tutto questo caos non è un errore ma, anzi, la perla del film, un film che racconta la confusione di una vicenda, di un uomo, di un'intera città che non riesce a dormire o pacificarsi.
Tutto è così overload che la coscienza alla fine si perde, che se hai fatto 30 non fai 31 ma 200…


Scandito dalle musiche ipnotiche di Daniel Lopatin (conosciuto anche come Oneohtrix Point Never e già autore dello score di Good Times), costruito attorno agli spostamenti frenetici di Howard, alle sue conversazioni sguaiate, alle sue disavventure che esplodono in improvvisi picchi di violenza, aperto da una sequenza in una miniera etiope a cui segue un flusso di immagini lisergiche che dalle viscere della Terra conduce (letteralmente) alle viscere del protagonista, Uncut Gems - cioè gemma grezza, non tagliata e forse senza valore come la vita di Howard - è un trip visivo e sensoriale che per più di due ore conduce nel caos di uomo irresistibilmente e stupidamente attratto dall'azzardo e dalla sfida a sé stesso («Questo è il bello di scommettere, cazzo: io, un fan dei Knicks, che punta tutto sui Celtics...»).
Come ammesso dagli stessi registi, per cui «ogni film precedente è stato una tappa d'avvicinamento a questo film», Uncut Gems è la summa del cinema dei fratelli Safdie, mai così bravi a richiamare i loro modelli (i soliti Cassavetes e Scorsese, qui produttore esecutivo, ma anche PT AndersonJames Gray o il JC Chandor di 1981: Indagine a New York); mai così precisi nel raccontare il legame fra un personaggio e il suo ambiente; mai così attenti, ancora, a legare le loro vicende paradossali alla realtà (la straordinaria scena finale ruota attorno alla gara 7 delle semifinali di Conference della NBA del 2012 tra Boston Celtics e Philadelphia 76ers).
E finalmente maturi abbastanza da allargare il loro sguardo da un mondo di disadattati e sconfitti a un'intera città, o un intero paese, in perenne movimento, violento, spietato, grottesco, disperatamente legato al denaro.

Non è tanto un film sull'avidità, come si potrebbe pensare dato il contesto, quanto sull'innato bisogno degli esseri umani di trovare una sfida adeguata che dia loro la forza di proseguire. A volte questo istinto può portare all'eccesso, come nel caso di Howard Ratner.
Diamanti grezzi è dunque anche un film sulla dipendenza dal gioco: Howard non smette mai di scommettere, anche quando vince. Anzi, una vittoria per lui è solo un risultato su cui investire ulteriormente, alla ricerca costante dell'adrenalina che deriva dalla consapevolezza di aver battuto le probabilità…

…La regia è perfetta nel mostrare la caotica ed alienante New York, la sceneggiatura è perfetta nel raccontare questo progressivo e grottesco delirio, dove anche la sacralità pagana viene posta al centro della discussione con un fare quasi comico, incarnato proprio nello scaramantico Garnett. Un costante gioco di microcosmi che si incontrano e si scontrano inevitabilmente, sempre con il sorriso di Sandler stampato sul volto, nonostante l’effetto domino è sempre in procinto di schiacciarlo. 
Diceva Newton che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Ebbene, Diamanti Grezzi prende in prestito il cinema delle due coste statunitensi per raccontarci la storia di un mondo, il nostro, dove l’unica cosa che rispetta un ordine è il caos. Che in fin dei conti, come ci dice Saramago, è solamente ordine che dev’essere ancora decifrato.

È impressionante la sicurezza con cui Benny e Josh manovrano la camera, lavorano sui primi piani, sul montaggio e sulla musica – grazie specialmente alla grande colonna sonora di Onethrix Point Never -. Uncut Gems funziona perché come spettatori entriamo dall’inizio del film all’interno dell’azione, simpatizziamo con Howard e sentiamo il tempo come lo sente lui…

…Le riprese forsennate e il montaggio serrato danno un senso di fluidità frammentaria, tutto avviene con una consequenzialità chiara che in ogni istante fornisce informazioni sulla mentalità o sul retroscena culturale di Howard, e su come la sua storia può essere rappresentativa di qualcosa per capire il genere umano e il nostro mondo. Ma succedono tantissime cose, e molto velocemente, è un po’ un attacco d’ansia e un po’ una montagna russa nella cocaina. Due ore e un quarto sembrano tre quarti d’ora. Usando la cinepresa in modo così grezzo ma senza mai dimenticare le lezioni del cinema classico (e di Scorsese, produttore esecutivo) sulla relazione nello spazio tra la macchina da presa e la reale intenzione simbolico-narrativa della scena, questa tachicardia cinematografica diventa un’esperienza incredibilmente soddisfacente…
…È un film totalmente dentro alla contemporaneità e ci arriva con una naturalezza che fa quasi paura, come se stesse raccontando il tipo di personaggi psicologicamente, moralmente e socialmente ambigui del neorealismo, gli abbandonati che decidono di andare verso la perdizione, ma sotto un’ottica pop e americana. Non commercializzando uno stilema ma cercando di innovare un linguaggio, e peraltro in modo sottile. I Safdie sono colti, amano Mike Leigh ed Ermanno Olmi, il loro immaginario sarà stato percorso negli anni da migliaia di film e di vite da spiare e raccontare. I loro protagonisti sono reietti autodistruttivi, ma che in qualche modo persistono, e forse meritano una qualche trascendenza. E magari finiscono come vittime, e il mondo direbbe che è giusto così, ma per come il film è raccontato sembrano perlopiù dei martiri. Sembrano trascendere. La storia di Howie è la storia di uno sfigato, qualcuno direbbe persino di un mostro, ma che sopporta una vita, un ritmo, e una propria essenza talmente incasinate che si merita una redenzione, una soddisfazione, una vittoria. Anche a costo di tutto il resto. Perché lui è nato in un mondo che ha permesso che una persona come lui potesse esistere. I Safdie lo sanno scrivere, raccontare, mostrare, accordare. Sanno mettere in scena la confusione della quotidianità, l’irrefrenabile natura ansiogena della ripetitività, la noia irritante della routine e la volatile fugacità dell’adrenalina. Con un prologo e un epilogo di natura ciclica che suggeriscono una dimensione spirituale/esistenziale che è giusto che sia solo accennata e mai approfondita vista la natura del protagonista, Uncut Gems è l’instant-cult americano di cui avevamo bisogno, non il grande ritorno di un maestro conclamato, non il film ben fatto ma la cui ambiguità lo rende interpretabile in troppi modi distanti, non il film sperimentale, non il film sociale, non il grande dramma classico, non l’esordio che fa discutere: è un film di genere e d’autore, che saltella tra il sapore dell’amatoriale e la sovrastruttura del film ad alto budget, che racconta una storia stratificata e spudorata. Mostra un mondo con un’estetica definita e delinea un personaggio unico e indimenticabile.

lunedì 27 aprile 2020

Cuerpo a cuerpo - Paulino Viota

definirlo un film d'amore sarebbe troppo semplice, è un film più complesso e più profondo.
quegli spagnoli di Paulino Viota sono i conterranei degli spagnoli dei primi film di Almodovar, ma sembrano di un altro pianeta.
Cuerpo a cuerpo è un film strano, a cui voler bene - Ismaele


QUI il film completo, in spagnolo, con sottotitoli in italiano, da Raiplay
QUI il film completo, in spagnolo



Las consecuencias del amor
Oí hablar de Paulino Viota relativamente tarde, cuando los tres largometrajes que componen su filmografía comenzaron a circular por la red como objetos preciados a pesar de la mala calidad de las copias, ripeadas directamente de VHS. Creo que parte de la culpa la tuvo Augusto M. Torres, cuando se le ocurrió rescatar del olvido al director cántabro incluyéndole en su libro Directores españoles malditos. Porque, como sabemos, todo lo que aparezca de forma legendaria, envuelto por un halo de invisibilidad, rareza o malditismo se convierte al instante en un fetiche referencial para la comunidad cinéfila aunque, por lo general, cada novedad termine convirtiéndose en una decepción proporcional al grado de entusiasmo con que se recibe. Por esa razón me aproximé a Cuerpo a Cuerpo (al ser la primera que logré descargar) temiendo encontrarme con una desilusión no muy diferente a la que había experimentado con otros cineastas españoles “imprescindibles”. Me equivocaba. Enseguida me topé con la misma madurez que había encontrado en otros cineastas españoles tan diferentes como Edgar Neville, Ángel García del Val, Julio Salvador, y un poco después en Albert Serra o Jo Sol. Una madurez que entiendo para los cineastas españoles como una actitud capaz de negociar con esos dos estigmas que siguen asolando a todo el cine producido en España: o bien el impulso de intentar representar la realidad social ajustándola a una posición política muy determinada. O bien aprovechar ese acontecimiento que no cesa de reproducirse entre imágenes después de haber sido trasmitido de generación en generación, involuntariamente, desde el final de la guerra civil hasta día de hoy. Es decir, un desgarro tan presente como rentable.
Pero situémonos en 1982, justo al final de la Transición, si asumimos que esta llegó cuando UCD abandonó el gobierno dando relevo al PSOE. En un tiempo que ofrecía un horizonte luminoso y esperanzador, pero que al mismo requería la reformulación y modernización de unos cuantos puntos de vista. Entre ellos del amor, los asuntos de pareja y su representación. Viota había tomado ventaja con respecto a otros cineastas perdidos en laberintos de pasiones, volver a empezar o en la búsqueda de un sur imaginario, porque su cine disponía de plena conciencia de que el futuro era aquello que tenía que haber sucedido ya, y que por lo tanto, la tarea que se le exigía pasaba por hacerse cargo de algo irreparable; de una irreconciliación estructural situada más allá del tema y la realidad tomada como sustrato. Hablamos de un combate entre la forma y el contenido producida años antes en el seno de las cinematografías europeas durante la modernidad, dejando al descubierto, y como daño colateral, un vacío en el que se fundaba el nuevo sentido de las imágenes, equiparable a aquel que une y separa al mismo tiempo a una pareja, donde se fragua un combate cuerpo a cuerpo sostenido por el amor en su forma más pura: la que pretende solamente poseer al “otro” y eliminar a cualquier enemigo.
Carlos ha muerto y Mercedes, su mujer, se queda sola. Su amigo Faustino acude al entierro y de camino se cruza fortuitamente con su prima Pilar. Esta nos presenta a Ana, que al final del metraje volverá a encontrarse con Iñaki. Explicado de esta manera da la impresión de que nos encontramos ante una de tantas películas cuyo diseño narrativo bascula sobre una serie de historias cruzadas. Pero nos equivocamos; estamos ante el choque, la colisión de generaciones muy diferentes, cada una con sus vivencias. Frente a un amplio catálogo de miedos, impotencias, inseguridades y derivas existenciales combatiendo entre dos espacios diluidos en el tiempo: Santander en verano. Madrid en invierno. ¿Cuánto ha pasado entre cada serie de encuentros insatisfechos en los que se mueve la película? Poco importa, lo realmente interesante es el vagabundeo de los cuerpos atendiendo sus vaivenes emocionales, revelando el déficit emocional que los agita internamente. Algunos de esos personajes pueden mantener la relación deseada aunque rehúsan todo tipo de ataduras. Otros son, han sido y serán unos completos castrados emocionales aunque vivan en total libertad. Y, además, daría lo mismo que desfilaran otros 150 personajes por la escena “mostrando” su caso: el encuentro, la compresión, seguiría resultando imposible. Ese “vacío” siempre se presentaría como un resto extraño, y cada tentativa de abrazarlo a partir de cierta “política del amor” se materializaría en un nuevo fracaso. Como alguien dejó escrito: el amor no colma el vacío; lo realiza, le da un cuerpo. Precisamente para que pueda establecerse ese combate cuerpo a cuerpo.
El estudio y negociación con ese “espacio indeterminado” puesto al descubierto y devenido en nuevo contexto, pasaba por inventar nuevas formas de representación que debían asumir su impotencia para volver a adecuarse a lo real representado. Desde Contactos (1970), Viota lo tuvo bastante claro: La forma tiene que estar desajustada del contenido, porque ese vacío solo puede ser acotado por una materia que se enfrente a él. En su opera prima, dividió el metraje en 33 largos planos secuencia que conseguían revelar la impotencia fílmica para captar sincrónicamente todo lo ocurrido en cada uno de los lugares donde se producían esos contactos a los que hace referencia el título del film. Un gesto que continúa entendiéndose como extremadamente radical, pero que quizás no lo sea tanto porque, en su fondo, no dejaba de enfrentarse al cine con herramientas puramente cinematográficas. Cuerpo a Cuerpo estira y depura la idea revolviéndose ante el propio cine partiendo de una idea teatral: los actores antes de pasar a la acción tuvieron que “escribir” el guión improvisándolo. Como reconoce el propio Viota en la entrevista que acompaña el excelente dossier que El viejo topo dedicó a su figura, “en Cuerpo a cuerpo decidí hacer un experimento: trabajar como a veces se hace en el teatro, a partir de improvisaciones con los actores, pero en este caso sin un guión previo, de modo que la improvisación creara los personajes, el guión, todo. Las improvisaciones se grababan en audio y al final transcribimos todo el material, unos 500 folios, que luego convertí en un guión de 50, montando las partes que me parecía que combinaban mejor”.
Pese a todo, el amor retorna siempre como una potencia vedada para recordar lo inaprensible que toma como objeto. Como la aparición, casi al final del metraje, de las imágenes en blanco y negro de Fin de un invierno, mediometraje rodado en 1968 por el propio Viota, en las que Carlos y Mercedes se declaran su amor siendo jóvenes. Susurros fantasmales multiplicados de ficción en ficción gracias a la extraña paradoja del dispositivo que la soporta: es capaz de mostrar las consecuencias de la dolorosa indiferencia gestada en la frágil deuda heredada en cada una de las variaciones sobre las que pivota cada encuentro, sin que “nada” haya tenido lugar.

domenica 26 aprile 2020

Tiro al piccione - Giuliano Montaldo

nel 1961 il film fu stroncato dai critici di allora.
era una storia difficile, raccontare la guerra degli sconfitti, senza comunque farne l'elogio, anzi.
Marco si arruola nell'esercito dei repubblichini, illuso fino alla fine, ed Elia, il suo migliore amico, non riesce a convincerlo che la loro è una storia sbagliata.
un'opera prima forse immatura, forse didascalica, sicuramente buon cinema da recuperare - Ismaele 

QUI la puntata di Hollywood Party - Il cinema alla radio dedicata al film


dice Giuliano Montaldo:
…Tiro al piccione fu girato tra Vercelli, Varallo Sesia e l’alta Val Sesia. Mi ricordo la bellezza dei luoghi visitati per i sopralluoghi con Carlo Di Palma. Gli anni Sessanta non erano lontani dal periodo del film e quindi le location non risultano ancora troppo ‘datate’. Fu determinante la collaborazione tra me e Moscatelli, il comandante partigiano piemontese che mi aiutò nel lavoro di documentazione. Il film creò delle forti polemiche: era basato sui condizionamenti che la società fascista imponeva ai giovani dell’epoca, sul trauma dei giovani che si accorgevano che i loro sogni di conquista sfumavano e che la Repubblica Sociale era contraria a una vera democrazia. Avevo letto il romanzo di Giose Romanelli, molto autobiografico, e mi aveva sconvolto e appassionato questa storia vista “dall’altra parte”, la storia di un giovane che in quegli anni aveva fatto la scelta sbagliata. Pensai che il film potesse dare vita a un dibattito su chi durante la guerra aveva sbagliato in buona fede, invece si trasformò in un boomerang contro di me, per il carico di polemiche staliniste che seguì l’uscita del film. Io avevo tanto investigato, avendo già fatto film sulla Resistenza, e avevo maturato l’idea che bisognava rivisitare anche “le altre parti” della guerra. Forse ho anticipato troppo… ma il film venne tacciato di ambiguità e se c’è una ferita che brucia ancora è questa, perché non era vero, e più tardi tanti me lo hanno confermato. Mi ricordo che il film fu invece una sorta di atto liberatorio per tutti i giovani che, come il protagonista, erano rimasti invischiati nel regime fascista. Solo oggi Tiro al piccione torna a essere mostrato nelle scuole e può dare il via a dibattiti costruttivi sulla demagogia usata in certe ideologie

Notevole non solo poiché è un'opera prima, ma anche per il grande coraggio di girare un film così, cosa assolutamente non facile per l'epoca. Piace per la sobrietà e la secchezza (forse si poteva tagliare qualcosa della storia d'amore) e per l'assenza di retorica. Ma soprattutto colpisce per la costruzione e la descrizione dei personaggi, che è priva di ovvietà e di manicheisimi, al punto che alla fine si finisce quasi con l'identificarsi o quantomeno per l'empatizzare con alcuni di essi. Efficace e sincera anche la descrizione di mentalità, atteggiamenti, dubbi, pensieri e orrori.

Negli anni della narrazione antifascista (Tutti a casaLa lunga notte del ’43Era notte a RomaUn giorno da leoni per citarne alcuni esempi), Montaldo si dimostra subito cineasta di grande tolleranza e dallo spirito sinceramente democratico: ciò che gli sta più a cuore è capire l’orizzonte umano di un ragazzo, arruolatosi volontario a Salò, che non ha mai conosciuto altro mondo all’infuori di quello fascista. Pur basata sul testo di Rimanelli, è un’operazione complessa, perché il regista si ritrova a dover costruire un personaggio nuovo per un cinema italiano invece molto ferrato sulla mitologica rappresentazione dei partigiani e su quella spregevole dei fascisti. Nello scandagliare il reparto, Montaldo sottolinea l’eterogeneità di una compagine nella quale convivono la violenza squadrista (Gastone Moschin) e la codardia delle élite (il comandante Carlo D’Angelo), l’ottuso militarismo (Sergio Fantoni) e il disincanto di chi ha cambiato idea (Francisco Rabal).
“Elia, ma perché le donne non ci vogliono più bene?” chiede Marco Laudato, il giovane protagonista interpretato da Jacques Charrier, ascoltando per l’ennesima volta quell’inno sempre più simile a un canto funebre. Marco, il cui padre morto in Africa si staglia quale motivo principale della scelta repubblichina, è la vittima più nascosta del Ventennio, anche perché si trova fino alla fine dalla parte sbagliata della Storia: illuso da un mondo apparentemente votato all’ordine e alla disciplina, intransigente per non tradire se stesso e i suoi ideali, costretto a capire di essere una delle tante pedine di una guerra che nessuno vuole guidare, compreso il Duce che da lontano lancia parole sempre più vuote.
E via via chiamato ad accettare una deriva nichilista, con prove estreme sospese tra la vita e la morte, che non risparmia l’amore mal riposto verso una donna misteriosa, incarnata da quella Eleonora Rossi Drago qui enigmatica signora lacustre a cui manca l’effimera speranza di salvarsi ancora da un’altra estate violenta. Rivisto oggi, Tiro al piccione – che si avvale di un cast tecnico prestigioso, da Carlo Di Palma alla fotografia a Nino Baragli al montaggio passando per il compositore Carlo Rustichelli – non emerge solo come uno dei migliori film di Montaldo, ma anche per la sua inquietante dimensione da coming of age disperato e cupo. E in pochi hanno raccontato quel pezzo di storia con tale intelligenza.

…Protagonista dapprima eroico della vicenda, poi disilluso fuggiasco per amore, un intenso Jacques Charrier, attore di gran classe – fu anche marito della Bardot - che ha quantitativamente lavorato poco, abbandonando prematuramente il mestiere, ma sempre con i più grandi nomi della cinematografia europea (Carné, Jacque, Demy, Chabrol, Cayatte, Deville, Varda).
Lo affiancano Eleonora Rossi Drago nella parte di Anna, amante al servizio degli alti ranghi militari, Gastone Moschin e Francisco Rabal, oltre ad una apparizione di un giovanissimo Enzo Cerusico, nel ruolo del pastorello sacrificato dai tragici eventi.

…In un’intervista rilasciata a «Il Secolo XIX», parlando di Tiro al piccione il regista ha detto che nei primi anni Sessanta “ancora non era il momento per trattare certi argomenti”.
Ma oggi, con la presentazione della versione restaurata a Venezia, si può dire che si sia preso la sua rivincita. “Penso che in Italia ci sia da sempre la brutta abitudine di cercare di dimenticare il passato – ha dichiarato Montaldo, – o perlomeno la parte scomoda del passato. A mio parere, invece, i conti con la storia vanno sempre fatti, senza dimenticare quello che è successo”. Poi ha voluto lanciare una provocazione: istituire una mostra dei martiri della qualità, ovvero una selezione di film stroncati da una critica troppo snnob ma acclamati da un pubblico soddisfatto. “Ci sarebbe da imparare molto”, ha ironizzato il maestro. Parole sacrosante, se si pensa a quante volte in Italia si è dovuto attendere le solite riabilitazioni postume (tardive e di comodo) per rimediare agli eclatanti errori della critica militante.

giovedì 23 aprile 2020

Il nome del padre - Paola Settimini, Daniele Ceccarini e Mario Molinari

il film è dedicato a tutti i martiri della stragi nazifasciste.
una storia sconosciuta e sorprendente.
buona visione - Ismaele





Un documentario per raccontare la storia di Udo Surer, avvocato tedesco di Lindau (Baviera), figlio di Josef Maier, uno dei soldati tedeschi che partecipò alla strage di San Terenzo Monti e Vinca. Nell’estate del 1944 il 16° Battaglione Panzergranadieren SS sterminò nella sola Lunigiana più di 400 civili, compresi donne e bambini. Nel 1992 Josef Maier muore e Udo e la sua famiglia (madre, sorella e fratello), incontrano “l’altra famiglia”, ovvero i 5 figli che il padre ebbe dalla prima moglie. Nel 2002 inizia a interrogarsi sulla partecipazione di suo padre al Reich e nel 2004 scopre che era arruolato nelle SS nel 16° plotone della Divisione Reichsführer, conosciuto come “il battaglione della morte”, comandato dal famigerato Walter Reder. Joseph Maier non fece mai parola dei suoi trascorsi, ma le carte che Udo trova confermano le sue responsabilità. Udo decide allora di cambiare cognome e di venire in “pellegrinaggio memoriale” in Italia, “per cercare di fare qualcosa”. Fare qualcosa, per Sürer, voleva dire intraprendere un percorso di riconciliazione e ricucire le ferite di una memoria storica che ha continuato a gettare ombre sul presente. Da allora ha visitato Marzabotto, Guardistallo, Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo-Monti, Valla, Bardine e Vinca di Fivizzano, raccogliendo le testimonianze dei parenti di coloro che furono barbaramente uccisi dai nazisti. Udo Surer si è impegnato per anni a rintracciare superstiti e famigliari delle vittime delle stragi nazifasciste in Lunigiana ma anche in altre parti della Toscana e dell’Emilia, martiri nelle località dove erano stati commessi eccidi dalle truppe naziste, per intessere con loro un dialogo ispirato a profondi sentimenti di pace e di amicizia volti alla conoscenza della verità dei fatti tristemente accaduti. E’ stato insignito della cittadinanza onoraria dal comune di Fivizzano dal sindaco Paolo Grassi che ha dichiarato “da molti anni, l'avvocato Surer, viene in visita da noi con umiltà e rispetto. Non ci è passato inosservato il suo coraggio, la determinazione di volere incontrare famigliari e superstiti delle stragi avvenute sul nostro territorio intraprendendo un meritevole percorso di riconciliazione che serve a costruire ponti d'amicizia fra i nostri popoli

da qui


Un giorno da leoni - Nanni Loy


l’opera seconda di Nanni Loy è un film sulla Resistenza, il cui ricordo era freschissimo, nel 1961.
non c’è nessuna retorica, ed è chiarissimo che essere da una parte o dall’altra non era la stessa cosa.
la storia è ambientata dopo l’otto settembre del 1943, quando partecipare alla Resistenza era un dovere morale per molti giovani, imparando in fretta che la tortura e la morte erano un rischio quotidiano.
Un giorno da leoni è un film poco visto, purtroppo, ma è un gran bel film che non sfigura davanti ad altri grandi pellicole italiane sulla Resistenza che stanno nella storia del cinema.
vogliatevi bene, e guardatevelo, con attori spesso alle prime armi, che nelle mani di un regista ingiustamente sottovalutato come Nanni Loy, sono bravissimi.
buona visione - Ismaele
  

ecco il film completo, in quattro parti:






Intenso dramma bellico girato con molta professionalità da Nanni Loy. La storia è la graduale presa di coscienza di diversi giovani (per vie traverse ed esperienze personali) che rende inevitabile la ribellione contro il regime nazifascista.
Il film non riesce sempre a reggere il ritmo con alcuni cedimenti nel ritmo narrativo. Non tutti i personaggi convincono: Tomas Milian è eccessivo e sovraccarico, Leopoldo Trieste macchiettistico, Nino Castelnuovo acerbo. Molto più riusciti i ruoli di Renato Salvatori e Romolo Valli.
Molto belle la fotografia di Marcello Gatti e la colonna sonora di Carlo Rustichelli.


Il Film prodotto dalla Lux Film di Franco Cristaldi,
racconta di quell'Italia che aveva difficoltà durante
la guerra e lo fa con un soggetto scritto da Alfredo Giannetti
e dal regista Nanni Loy,di 4 uomini che di per sé non
sono eroi,ma il loro senso del dovere e della patria
le faranno cambiare e fare quello che bisogna fare.
Il loro obbiettivo e di raccontare una storia
di uomini e descrivere l'Italiano di allora,
e questi sono soprattutto Danilo e Michele,
gli unici personaggi che capitano lì per caso,
che sono uomini semplici e umili,e anche fifoni
in alcune cose,ma dopo pronti al sabotaggio al
ponte,che sono incarnati dai veri protagonisti
della vicenda che sono Leopoldo Trieste e
Nino Castelnuovo,qui tra le sue interpretazioni
che sono rimaste nella storia.
Con loro anche un disertore Gino Migliacci,
che sposa la loro causa dopo essere scappato
dall'arruolamento,interpretato dal mitico
Tomas Milian,che è un personaggio che
ha un suo perché,è l'attore nonostante
il ruolo non sia principale,lui ci mette
l'anima e lo veste a pennello…
…In conclusione uno dei capolavori di Nanny Loy
e uno dei migliori Film Italiani,e che purtroppo
è lo specchio di un Cinema che non si fa più
e che l'obbiettivo era di inculcare una mentalità
antifascista e di far vedere i meriti dei partigiani
durante la guerra,e lo descrive in un modo intenso
e la drammaticità per come si viveva durante il
conflitto mondiale e coglie benissimo le atmosfere
tristi e malinconiche che ti trasmette.
da qui

Un’improvvisata banda partigiana prepara un attentato a un ponte presso Roma, per bloccare il flusso di truppe verso il fronte di Cassino. Primo film dedicato da Nanni Loy alla Resistenza. A differenza del successivo Le quattro giornate di Napoli, che è una celebrazione della folla anonima, qui l’attenzione si concentra su un bel campionario di personaggi: eroi per scelta, come l’ex militare Renato Salvatori e l’ex prigioniero politico Romolo Valli, che non hanno mai avuto una normale vita familiare; eroi per caso, come lo studente universitario Nino Castelnuovo, il borsaro nero Tomas Milian e il ragioniere Leopoldo Trieste, che si fa uccidere per dimostrare di non essere il vigliacco che è. Un gruppo eterogeneo di persone che, in tempi diversi e con maggiore o minore consapevolezza, hanno detto no al fascismo: un attendibile spaccato sociale di un momento tragico della storia nazionale. Nel mezzo del film una prova da superare per lo studentello idealista, il suo primo vero contatto con la crudezza della guerra: l’uccisione dell’ex compagno di scuola Corrado Pani, non proprio un amico (anzi) ma comunque una persona conosciuta. C’è da lustrarsi gli occhi a guardare i titoli di testa, che danno l’idea della potenza di fuoco che poteva schierare il cinema italiano nell’anno di grazia 1961 anche per coprire i ruoli minori: Carla Gravina, Saro Urzì, Valeria Moriconi, Anna Maria Ferrero, Regina Bianchi (alla quale è affidato un toccante monologo in memoria del marito ucciso).

Narrazione picaresca di un episodio resistenziale, per la prima regia completamente affidata a Nanni Loy. La trama si snoda lungo una direttrice seria (salvare la pelle dai nazisti, compiere una missione per la Resistenza), ma con modi satirici, se non propriamente comici, soprattutto riguardo alla maniera italiana di affrontare la nuova situazione bellica. Il tono, insomma, sta fra Rossellini e Monicelli e ricorda per qualche verso il Comencini di Tutti a casa, se fosse pensabile senza Sordi.
Lo spettacolo, in ogni caso, c'è, è di robusta struttura e dimostra fin dalla sua prima opera "solista" che Nanni Loy è un regista vero, cosa che sarà confermata dal film successivo, Le quattro giornate di Napoli.
Se il rischio di un film come Un giorno da leoni è quello di non riuscire a mettere bene a fuoco nessuno dei personaggi, la sua struttura - come quella del citato lavoro successivo - si dimostra congeniale alle corde artistiche del regista, quanto meno in questa fase della carriera: come pochi altri, Nanni Loy sa comporre affreschi pieni di personalità diverse, come i quattro protagonisti SalvatoriCastelnuovoMilian e Trieste.

Un ottimo film visto solo ora in TV. L'Italia dell'8 settembre 1943, il disfacimento del paese, la guerra che dovrebbe essere finita e invece ci sono i tedeschi, i bombardamenti angloamericani, la guerra civile tra italiani. In questo scenario tragico è la storia di varie persone, di diversa estrazione che finiscono in questo tritacarne della storia ed ognuno ha una sua dignità. Il ragioniere statale fantozziano alla fine troverà il coraggio di un gesto estremo ed eroico, lo studente di buona famiglia rifiuta di nascondersi ed aspettare che passi, il popolano de Roma borsaronero per necessità, i contadini (la giovane Carla Gravina) tutti questi combatterranno contro i tedeschi e i repubblichini. Ogni personaggio vive il suo ruolo con grande dignità e sofferenza ed anche il giovane fascista ucciso viene visto con pietà dal regista come uno preso in cose più grandi di lui. Grandi attori, tutti ottimi e in particolare Renato Salvatori e tutti gli altri anche Tomas Milian prima che iniziasse la terribile saga del monnezza. Anche la scena di chiusura del film, con il capomanipolo fascista che fa gli esercizi alle reclute sembra essere visto con la pietà e la stanchezza di una vittima. Ottima regìa, anche migliore delle Quattro giornate di Napoli che indulgeva ad una napoletanità esibita e forse costruita, qui mi sembra tutto più sincero e vero.

martedì 21 aprile 2020

La fuga di Martha (Martha Marcy May Marlene) - Sean Durkin

il film è tutto sulle spalle di Elizabeth Olsen, Martha, un po' forte, ma di più fragile, in fuga da se stessa, e anche dagli altri.
è comodo che decidano per lei, ma non è quello che vuole.
Martha vede sempre minacce, non riesce a essere tranquilla, è una corda di violino, nei suoi pensieri e nelle sue parole, non può mai essere controllata.
vaga per il mondo in cerca di qualcosa che non trova mai, quella setta schifosa sembrava una soluzione, è solo uno schifo in più, e lei non sarà mai pacificata.
la colonna sonora è inquietante, per una storia che di sereno ha poco e niente.
non sappiamo come finirà il film, dopo la parola fine.
film da non perdere - Ismaele

ps; Sean Durkin è il regista di un altro gran film che ho visto, Southcliffe







Un titolo. Tre nomi. Una protagonista.
Basterebbe questo per spiegare come l'esordio di Sean Durkin, regista e sceneggiatore di Martha Marcy May Marlene (titolo originale de La fuga di Martha) non è la storia di una ragazza in fuga da una sorta di setta della quale era stata volontaria prigioniera per due anni, ma quella di una ricerca identitaria. Disperata e universale…

…Durkin si concentra sulla perdita di identità, sulla decostruzione sociale di un essere umano, sull’effimero e innocente sentimento di famiglia, che sfocia in atrocità e violenze imponderabili e sulla riproposizione forzata della distinzione di gender, nella quale l’uomo può permettersi di sottomettere la donna. Martha compie, attraverso un rito di purificazione, un percorso di vita disdicevole e non è consapevole della sua situazione estrema, che non gli permette di valutare lucidamente la sua condizione umana. Difatti la rabbia ribollente, che si riversa in atti di follia distruttiva, monta lentamente e in modo evidente si manifesta nelle sequenze conclusive della pellicola. Infatti si rimane abbastanza basiti e interdetti nel momento in cui Martha non esplicita il suo turbamento nelle scene iniziali, come se quei ricordi rappresentassero la normalità.
Durkin, accompagnando la sua pellicola con lunghissimi silenzi, non permette alla musica di far capolino in questo dramma straziante, che rimane abilmente sospeso in un finale che indugia sul volto spaventato e privo di certezze di Martha. In conclusione si può affermare che La fuga di Martha è un angosciante spaccato vitale, una compiuta opera prima, che fa sfoggio di uno stile che rifugge una ripresa instabile per concentrarsi con assoluta fermezza sui dettagli funzionali e necessari per sviluppare la vicenda. Durkin mette in mostra una giovane senza identità destinata alla completa privazione di una possibilità di costruirsi serenamente la propria vita. Un personaggio che sarà per sempre Martha, Marcy May e Marlene.
da qui

Her early life made her insecure in her self-image. First she was taught the sunny good things (working on the farm, preparing meals, caring for babies, meditating) and then, slowly, introduced to the bad ones (all the women are expected to sleep with Patrick). This is rape in the sense that they have no choice, but Patrick is so effective that they are mind-controlled into the illusion that it is their desire. Later, Martha even helps prepare another girl for the initiation. Group unanimity is the overarching reality; there is enormous pressure to fit in and go along. And it is very hard, Martha discovers, to leave.

Ottima pellicola sul disagio psichico di una ragazza fuggita da una comunità "alternativa", sulla difficoltà di tornare indietro ad un modo di vivere che si era rifiutato, per doverlo successivamente ricercare per la durezza psicologica di quello alternativo. E' il ritratto di una ragazza profondamente sola, manipolata fin nel suo intimo, che ha troncato il suo passato tormentato per dedicarsi anima e corpo alla comunità.
E' lo svuotamento di una volontà incapace di ricominciare dopo una pausa lunga due anni, incapace di comunicare il suo disagio condannandola ad una eterna fuga.
Notevole esordio di questo Sean Durkin che descrive a 360 gradi il disagio di questa ragazza alternando per assonanza immagini presenti con il passato recente di Martha. Eccellente la prova della protagonista esordiente Elisabeth Olsen capace di rendere appieno con il solo sguardo il trauma violento della sua esperienza vissuta. Un esordio non facile, superato a pieni voti.

Quella di non dare risposte è una scelta audace e assolutamente rispettabile; ma se a latitare sono anche le domande e quegli interrogativi necessari per andare al di là di ciò che stiamo vedendo, la delusione è una conseguenza quasi inevitabile.
Non basta una confezione impeccabile e delle interpretazioni di tutto rispetto (se Elizabeth Olsen è una scoperta, John Hawkes è o almeno dovrebbe essere una conferma).
Il film attende per tutta la sua durata un cambio di passo che non avviene mai: l'eterna attesa è affascinante, ma resta in zone ombrose che non riusciamo a cogliere. Scegliere la strada del non detto non dovrebbe equivalere alla realizzazione di un film che dice poco.

Batte sentieri impervi l’opera prima di Sean Durkin, viottoli cinematografici contraddistinti da trappole nascoste alle quali è quasi impossibile sottrarsi, nonostante la buona volontà. E il talento. Ultima next big thing in ordine di tempo a presentarsi con il tagliando di made in Sundance, Martha Marcy May Marlene è un film che fa del suo fascino elementare l’elemento maggiormente forviante: la dimostrazione pratica di una promessa precocemente già etichettata come fuoriclasse. Il primo Durkin è patrimonio sfuggente, invitante e al tempo stesso incompiuto, in quanto saturo di ogni caratteristica propria di certe pellicole festivaliere: pregi molti, difetti altrettanti. Se non di più. La fuga di Martha s’impossessa di quasi tutto l’alternative statunitense che conta(va?): una protagonista che sembra arrivare dritta dall’esordio di Sofia Coppola, una macchina da presa che la guarda fuggire di spalle alla maniera di Aronofsky, una cabina telefonica qualunque in un esterno giorno qualsiasi stile Van Sant: da qualche parte, poco lontano da New York. E poi (tanto) altro

La fuga di Martha conta su una messa in scena ineccepibile, fatta di lunghi silenzi, regia rigorosa, musiche minimaliste. Un crescendo di tensione che mantiene vigile l'attenzione dello spettatore nonostante la lentezza del ritmo. L'inquietudine non lascia mai spazio alla risoluzione: è impossibile capire le motivazioni di Martha, divisa tra il terrore muto che prova nei confronti di Patrick e l'ammirazione verso l'unico uomo che le abbia mai dato fiducia. Il finale lascia tutto in sospeso: starà al pubblico capire se Martha sia finalmente libera e proiettata verso il futuro, oppure se “qualcuno” le stia ancora dando la caccia…

domenica 19 aprile 2020

Nowhere - Luis Sepúlveda

tratto da un racconto di Luis Sepúlveda, che qui è anche regista.
certo non è un regista che resterà, ma riesce a fare quello che sa fare meglio, raccontare.
con attori bravi ricrea una storia nella quale ci sono tutti i suoi ingredienti di scrittore, umanità, ironia, dramma, utopia, memoria e passione.
oppressi e oppressori si confrontano in un mondo di fantasia, ma non troppo, nel deserto del nord del Cile.
e sono. nelle mani dei potenti, oggetti a perdere della Storia.
il film è del 2002 ed è stato visto poco e niente, ma si può recuperare.
non dispiacerà a chi ama le storie di Luis Sepúlveda.
buona visione - Ismaele



QUI il film completo in italiano




"Lo scrittore cileno cinquantaduenne Luis Sepùlveda debutta come regista con una storia ispirata a un proprio racconto contenuto nel volume 'Incontro d'amore in un Paese in guerra'. Anni Ottanta, una dittatura latinoamericana, un gruppo di oppositori sequestrato in una vecchia stazione ferroviaria, una fuga indimenticabile, lo spirito della libertà, 'un lungo viaggio nel cuore della più meravigliosa utopia': e la coerenza di un autore che ama narrare vicende piene di ottimismo". (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 1 marzo 2002)"Il primo film di Luis Sepùlveda, 'Nowhere', è diviso in due: metà tragedia, metà commedia. La parte tragica è pessima, convenzionale, pomposa malgrado nomi come Angela Molina e Harvey Keitel. La commedia, sorpresa, ha vari momenti spassosi. Basta accontentarsi". (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 1 marzo 2002)"Luis Sepùlveda, autore amato della 'Gabbianella e il gatto', ispirandosi al suo libro 'Incontro d'amore in un paese di guerra', debutta nel cinema con un film politico anni '70, molto militante, 'Nowhere'. Il regista ha una gran voglia di metaforizzare la terra di nessuno, gli incubi di ieri ma soprattutto di oggi e va salvata la sua buona fede. Purtroppo l'operazione è nobile ma datata, retorica, un poco manichea, qua e là sostenuta da attori vitali e simpatici come Jorge Perrugorria, Burruano, Prodan e la Molina, ma dedita a slogan che, anche se sono eticamente ancora validi non vengono espressi da un cinema al passo coi tempi. Personaggi squadrati, gringos, inni alla libertà, offerta di stereotipi paghi uno prendi dieci, citazioni annunciate e ripetute, come quella di Van Gogh, anche quattro volte. Trattasi di vedere chi vince nel match fra Prepotenza e Ragione e Sepùlveda si permette anche un lieto fine. Speriamo porti bene". (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 2 marzo 2002)"Il 'nessun posto' del titolo è il luogo, affogato nel deserto di un paese latinoamericano, nel quale vengono confinati alcuni oppositori del governo e affidati alla sorveglianza di un plotone di soldati. Alla loro storia e alla loro progressiva 'fraternizzazione' con i soldati, si mescolano quelle di altri oppositori, in città, e di un "gringo" che nel deserto vende birra e consulta maghe locali. Quello che nella narrazione letteraria può essere poesia ed epica quotidiana, nel cinema si scontra con la 'materia' dell'immagine, che non aumenta la libertà del narratore, ma se mai la limita. Luis Sepùlveda, esordiente nella regia, si scontra con un nuovo linguaggio e non ne domina le regole. 'Nowhere' è un racconto piatto e a rischio continuo del ridicolo, con una sceneggiatura troppo chiacchierata e troppe suggestioni affastellate e sprecate. Si rimpiange che una storia così, a loro tempo, non l'abbiano avuta per le mani un Aldrich o un Peckinpah". (Emanuela Martini, 'Film Tv', 6 marzo 2002)

Nowhere... un posto che potrebbe essere ovunque.
Un luogo in cui la terra è rossa, ci sono crepe, rocce, cactus e arbusti coperti di spine, un pezzo di deserto nel mezzo del nulla e... un treno.
Nowhere.. il "non luogo" per eccellenza che diventa punto di partenza per ricostruire la rivalsa e la libertà umana.
sepulveda passa dietro la macchina da presa e ci regala un piccolo gioiellino di disperata ironia: arma incredibilmente sovversiva contro la dittatura.
bellissima la figura di keitel "el gringo" un uomo spinto dalla ricerca di un atto di dignità "voi lottate per una libertà che non conoscete, io lo faccio per non dimenticare che sono un uomo libero"

Massimo Vigliar, produttore di Nowhere, regia di Luis Sepúlveda realizzata nel 2002, ricorda una frase che lo scrittore cileno, oggi scomparso, amava tanto: "La libertà è uno stato di grazia e si è liberi solo quando si lotta per conquistarla'. È inutile ed ovvio parlare del combattente, del suo impegno per l’ambiente, della sua grandezza di scrittore o della sua generosità con i colleghi, specialmente latino-americani. Mi piace ricordare due momenti personali: l’emozione nel conoscere Ettore Scola e la sua gioia nel leggere Sandokan ai miei figli. Salgari era uno dei suoi miti".

“Nowhere”, infatti, storia/metafora delle dittature di tutto il mondo capaci di soffocare le libertà individuali e di chiunque vi si oppone, sa poco di cinema e molto di letteratura: i personaggi del film parlano come un libro stampato ed in alcuni casi (vedasi il personaggio del Gringo interpretato da un monolitico Harvey Keitel che si esprime per frasi fatte) si rasenta il ridicolo.
Più a suo agio Sepùlveda regista quando tira fuori, dal suo bagaglio culturale cinematografico e letterario, toni sarcastici, ironici e surreali (come la visione divertente e canzonatoria del mondo militare), che meglio si addicono a ciò che si propone di essere un apologo sulle libertà violate degli uomini. Temi così alti non necessitano sempre di parole pompose o edulcorate, ma più spesso di un rigore, di una “pulizia” d’immagini e di un rispettoso e doveroso silenzio a volte più frastornante di mille parole messe insieme.
Luis Sepùlveda, al quale si riconosce un intento così sinceramente morale ed etico da sembrare anacronistico, sceglie sicuramente la strada più tortuosa per il suo debutto che, pur nelle sue imperfezioni, rivela l’indubbio spirito critico e d’osservazione e la viva sensibilità di un uomo profondamente partecipe delle vicende e miserie umane.

Las dictaduras latinoamericanas han propiciado una abundante literatura política, marcada, para bien y para mal, por la urgencia del testimonio, por su naturaleza de cicatriz de una herida sufrida en carne propia. Con ella ha contraído demasiadas deudas este salto al cine del escritor Luis Sepúlveda, preso y exiliado por culpa del bárbaro delirio pinochetista y autor de culto en Alemania o Italia, antes que en España.
Nowhere es un pastiche muy bien intencionado y muy mal resuelto. A fuerza de esquivar desde su título las referencias concretas, termina siendo un repertorio de vaguedad y tópicos, un cutre puzzle de acentos y caracteres que, lejos de responder a su vocación de parábola universal sobre el poder y sus excesos, anula cualquier atisbo de sinceridad movilizadora para disolverse en una estética kitsch de western panfletario…
On the subject, the movie "Missing" shows a different view, but at least, more real. If you want to know more about that period in our history, search for the The Rettig Report, which states the thousands of disappearing and atrocities that took place those days.

Anyway, the movie is not too bad, maybe a little slow. Probably the fact that is both English and Spanish spoken, stopped it from more exposure. Keitel is not brilliant, far as usual, but it's remarkable that he wanted to participate in this project. (probably a very low budget movie). Too much emphasis on the potato cooking... while in the reality, those guys were probably more worried about being killed in cold blood than potato recipes. Good caricature of the "general", that one made me smile. But that doesn't make it qualify for a comedy.

“Un apologo sulla libertà e sulla dignità umana”: così, Luis Sepùlveda, scrittore e sceneggiatore da qualche anno attivo nel mondo del cinema, definisce il suo film d’esordio. La storia di cinque presunti dissidenti cileni tenuti prigionieri in un luogo-non luogo (“ninguna parte”, appunto) ha infatti tutti i connotati di una favola, di un’allegoria scritta (e circoscritta), imbevuta di quel realismo magico che dissolve i più sicuri riferimenti spazio-temporali e contraddistingue gran parte della letteratura latino-americana. Peccato solo che la metafora sulla condizione del popolo cileno, oppresso dalla prigionia della dittatura non riesce a costituirsi come figura metonimica. Anche dietro la macchina da presa, infatti, lo sguardo di Sepùlveda resta quello di uno scrittore e “Nowhere”, lungi dall’essere un romanzo visuale, procede sotto il segno della frontalità, con i suoi gelidi tableaux vivants e le sue esotiche scene dipinte dinnanzi a cui i corpi si animano solo se sfiorati dalla luce di un riflettore. Scevro da ogni ambizione di denuncia, “Nowhere” soffre quindi di un duplice male: se da una parte, infatti, si trascina con la pesantezza didascalica di un’opera letteraria, dall’altra non riesce a serbare le suggestioni che solo la pagina scritta riesce ad evocare, quando nelle nostre menti le parole sfogliate e sussurrate si fanno immagini e d’un tratto il nostro corpo diventa spazio fisico, teatro della rappresentazione, territorio d’ombra su cui proiettare il nostro cinema…

Dopo giorni di atroce prigionia e di viaggio su di un treno scassato, i rapiti finiscono in un piccolo campo militare in mezzo al deserto, dove i militari alla fine mostrano di essere allo stesso tempo esseri umani caritatevoli e spietati aguzzini. In loro aiuto si prepara però ad agire un piccolo manipolo di rivoltosi, capitanati da un americano che si fa chiamare Gringo (Harvey Keitel). Alla fine il confine tra la brutalità dei militari e la loro stessa umanità verrà sempre di più ad assottigliarsi, lasciando spazio anche alla compassione ed alla fratellanza. Esordio alla regia dello scrittore cileno Luis Sepulveda, il film è tratto da un racconto che lo stesso autore ha inserito nella sua raccolta Incontro d’amore in un paese di guerra. Essendo un’opera prima, Nowhere soffre a livello cinematografico di tutti i difetti di chi si trova a maneggiare per la prima volta un mezzo di comunicazione che non gli è proprio: la regia di Sepulveda è infatti piuttosto calligrafica, e il ritmo del film non acquista mai incisività…