Visualizzazione post con etichetta Mario Monicelli. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Mario Monicelli. Mostra tutti i post

giovedì 4 settembre 2025

Toh, è morta la nonna! – Mario Monicelli

molto prima di Parenti serpenti Mario Monicelli aveva girato un film pieno di parenti serpenti.

oggi sembra un film strano, ma quello era lo spirito dei tempi.

molte cose sono divertenti, prima di tutto il prete che parla solo con citazioni, spesso fuori luogo.

e poi la nonna morta che cita continuamente il libretto rosso di Mao è impagabile :)

un film divertente, e pieno di umorismo nero, purtroppo sottovalutato.

buona (serpentizia) visione - Ismaele


  

 

Inaspettata incursione di Monicelli nel grottesco (poco nota al pubblico ma in sospetto di essere invece ben nota agli addetti ai lavori), che realizza il suo film visivamente più ricercato (grandangoli deformanti, inquadrature dall'alto, montaggio serrato, un set di impianto incredibile). Film imperfetto, sia chiaro, che paga lo scotto della politicizzazione totale del suo tempo (i riferimenti al libretto rosso di Mao) e di un umorismo macabro assai più elitario e meno immediato di quello che sarà di Parenti serpenti (dalla tematica simile). Eppure magnetico.

da qui

 

La padrona di una fabbrica di insetticidi micidiali,Ghia (Capodaglio) accende la tv e muore.Poi accorrono i parenti,molti dei quali muoiono in bizzarri incidenti.C'e' di tutto,il giovane capellone (Lavelock) che avra' la meglio sull'avida zia Ornella (Valentina Cortese).pur considerato il minor film di successo del maestro Monicelli,il film rimane una farsa nera godibilisima  che anticipa il futuro "Parenti Serpenti" e non lesina aggiornamenti di costume molto divertenti.L'opera e' distribuita dalla Columbia e prodotta da Franco Cristaldi,alcune trovate sono geniali,come i titoli di testa e coda con insettoni in primo piano,super zoomati e i colloqui tra il nipote e la morta sul libretto rosso di Mao ,con sottotitoli impressi,per non parlare di voyeur dai tetti e situazioni,con siparietti a sfondo erotico.Insomma divertente...ecco il film di Natale-antiNatale....per ripararci dai cinepanettoni....qua si ride...amaro.

da qui

 

Uno dei divertimenti di Monicelli, un film decisamente pop (basti vedere l'oggettistica spesa qua e là) senza attori famosi ma con una sorta di raduno di vecchie glorie (Cortese, Tofano, Capodaglio) contrapposte ai giovani pseudo alternativi. Lo humour nero è molto (troppo?) raffinato, l'idea di fare un film quasi sperimentale girato a quadri non paga affatto e il risultato è uno dei pochi insuccessi di Monicelli. Però qua e là ci sono trovate divertenti, e poi a descrivere (e massacrare) i riti familiari come Monicelli non riesce nessuno, neanche Bellocchio.

da qui

 

 

sabato 14 giugno 2025

Risate di Gioia - Mario Monicelli

Anna Magnani, Totò e Ben Gazzara sono dei perdenti, in una notte, l'ultima dell'anno, vorrebbero svoltare, ma non cambia mai niente.

non sarà un capolavoro, ma vedere Anna Magnani e Totò insieme, per la prima volta in un film, è un regalo senza prezzo.

guardatelo e godetene tutti.

buona (ladresca) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, in italiano

 

 

Titolo chiave nella filmografia di Monicelli, regista che ha dato sempre il meglio di sè nell'agro, sensibile nel mostrar la tristezza che la risata comunque maschera. Eccolo qui, grazie all'aiuto in sceneggiatura della Signora Suso e dei grandi Age/Scarpelli, ricostituire la coppia Totò-Magnani per ridarceli non più come icone impresse nella pellicola ma come comparse della vita: soli, inadeguati, costretti a difendere la lorò dignità con unghie laccate e pochi denti. Un film in cui tutti "recitano" una parte dall'inizio alla fine. Crepuscolare e finale.

da qui

 

Il talento di due mostri sacri e la complicità della Magnani con Totò, frutto di anni di lavoro insieme a teatro, genera una commedia brillante dal sapore agrodolce, imperdibile per gli amanti del cinema puro. La cornice romana e una fotografia dai chiaroscuri di rara intensità, che ricorda un certo cinema antonionano, riflette ed evidenzia l'amaro di una vita dura ma che si ama comunque. Inutile tessere le doti della Magnani, un mito in grado di impressionare quanto a realismo delle sue interpretazioni, mentre Totò è magia pura. Grande cinema.

da qui

 

Anni fa, leggendo una biografia su Anna Magnani, rimasi colpito dalla riportata freddezza di cui parlava sui rapporti con Totò, con cui avevano iniziato la carriera nell'avanspettacolo. In particolare, del fatto che esistesse un solo film che li vede entrambi protagonisti ("Risate di gioia" di Monicelli),raccontando delle difficoltà di far lavorare insieme due "primedonne" del cinema. A dire il vero, avendo avuto recentemente la possibilità di vedere il film, questa difficoltà è ben dissimulata vuoi per la trama scoppiettante vuoi per l'estrema professionalità di due dei più grandi attori del cinema italiano. Inoltre il film è veramente gradevole, un insieme di equivoci e rocambolesche avventure di un terzetto di "disperati" (oltre a Totò e la Magnani, anche un ottimo Ben Gazzara) nella notte di Capodanno. Certo, non aspettatevi il Totò esilarante di altri film (d'altro canto buona parte dei suoi film cosiddetti tardi mostrano un attore diventato più maturo e posato, ma non per questo meno comico, solo di una comicità meno pirotecnica). Una commedia degli equivoci brillante, non eccezionale nella trama, ma sicuramente godibile dall'inizio alla fine.

da qui

 

C’è una distanza abissale tra Umberto e Tortorella e i vari commensali dei cenoni di fine anno, tutti arrivati, sicuri di sé e così sprezzanti. Risate di gioia, dove le risate si svelano rare nella crescente malinconia, è un film fatto di immediata semplicità che arriva dritto al suo senso più profondo, tutto controcorrente. In questa prospettiva tutti i registri sono alterati e dove ad esempio, il genio comico di Totò non si manifesta secondo i canoni consueti e forse solo Anna Magnani riafferma il suo talento multiforme nei panni però di un’altra popolana sconfitta dalla vita. È un altro controcanto di Monicelli e i suoi personaggi, che difendono la propria dignità pur nella povertà e nella sconfitta, sono il riflesso del lato oscuro di una società all’epoca opulenta. Paradossalmente questo film, dal titolo misuratamente e malinconicamente ironico, trova oggi una sua migliore collocazione temporale. In un’epoca di sconfitti solo il genio di Mario Monicelli poteva girare un film per il futuro, pienamente calato dentro la nostra società, oltre 50 anni dopo la sua (prima) uscita.

da qui

 

…il film non fu un successo commerciale malgrado la presenza dei due divi e la regia del sommo Mario, che veniva dagli exploit de I soliti ignoti e de La grande guerra. I motivi sono riscontrabili nelle caratteristiche più evidenti di quest’opera rischiosa e quantomeno particolare: è un film amarissimo, spesso cattivo se non addirittura acido, disincantato, disperato. Non mi sorprende che nell’Italia che entrava nel boom economico una storia come questa (tratta da due racconti di Alberto Moravia) non abbia incontrato l’interesse del pubblico. È giusto recuperarlo per almeno tre motivi. Il primo è la struttura, avvincente benché non sempre fluida: una notte di Capodanno (all’epoca si diceva ancora San Silvestro) che inizia nella miseria di vite piccole e spiantate, prosegue come in una grande fuga a tappe per mangiare e inseguire qualche sogno di seconda mano (ristoranti, metropolitane, palazzi nobiliari) e finisce nell’alba di un giorno che inevitabilmente inizia nel peggiore dei modi.

 

Il secondo è la messinscena di Monicelli, sciolta, complessa, capace di fotografare con maestria tanto le folle (le feste rappresentate sono quasi felliniane nel senso dei Vitelloni) quanto i singoli personaggi, contraddistinta da un tono sottilmente melodrammatico senza finire nel patetismo più spiccio. Il terzo, e il più importante, è il memorabile duetto dei due protagonisti: se Anna Magnani, di ritorno dall’Oscar e dai melodrammoni americani, conferisce alla sua Gioia Fabricotti detta Tortorella, comparsa di Cinecittà, tutta la disperata vitalità di chi spera comunque che il domani offra qualcosa di diverso (ma la più grande attrice italiana d’ogni tempo non amava affatto il film), Totò, nei panni del guitto Umberto Pennazzuto, un vinto assoluto, mette a segno una delle più belle e misconosciute interpretazioni del suo percorso recitativo (mai un eccesso, mai una smorfia di troppo, mai niente fuori posto: che attore stupendo).

da qui

 

 



mercoledì 23 agosto 2023

Padri e figli - Mario Monicelli

alcune storie che si inseguono e si intersecano, in una sceneggiatura (di Age & Scarpelli e del regista) equilibrata, con i tempi praticamente perfetti.

storie di padri e figli, che si ripetono da sempre e per sempre, la differenza con oggi è che allora, nel 1957, si guardava al futuro con fiducia, oggi no.

gli attori, grandi e bambini, sono tutti bravi e bravissimi, fanno ridere e commuovere.

un gioiellino da riscoprire.

buona (familiare) visione - Ismaele


 

QUI  si può vedere la prima parte

QUI  si può vedere la seconda parte

 

 

 

Molte le cose che colpiscono. La saldezza narrativa, nonostante i molti nuclei familiari le cui vicende si intrecciano; un cast di rara perfezione, con vertice assoluto nei duetti fra De Sica e Marchi; la verosimiglianza delle vicende, ora tristi, ora felici, che discendono dell'essere genitori; le trovate umoristiche, con particolare riguardo ai tocchi di "uomo di mondo" dell'immenso De Sica. Ne esce un film fresco, brillante, talora commovente, con tocchi che spesso colpiscono in modo particolare chi genitore lo è diventato per davvero. Monicelli dirige con indiscusso mestiere.

da qui

  

Gran bel film di Monicelli che dipinge un'Italia che fra mille contraddizioni diventava grande. Lo scontro generazionale nasconde un processo sociale profondo, tipizzato dalle famiglie molto diverse che nel film si incontrano (e a volte si scontrano). Grande cast dove vincono un intenso Mastroianni, la Merlini in stato di grazia e Carotenuto molto in ruolo. Dialoghi non banali con punte amare, anche se si sorride parecchio. Monicelli conferma il candore che gli permetteva di dirigere i bambini come pochi altri. Merita una visione attenta.

da qui

  

Buono e sottovalutato film del grande Mario Monicelli.

Commedia in pieno stile anni 50 con episodi che si intrecciano. Molto riusciti i duetti tra il grande Vittorio De Sica e l'ottimo caratterista Ruggero Marchi, bene anche Mastroianni,la Merlini,Memmo Carotenuto e la coppia di vita e di arte Antonella Lualdi e Franco Interlenghi.

Sceneggiato da Monicelli ed il mitico duo Age & Scarpelli.

Musiche di Alessandro Cicognini.

Premiato con l'orso d'argento per Monicelli al festival di Berlino. Da vedere assolutamente

da qui

domenica 19 settembre 2021

Marcovaldo (dal libro di Italo Calvino) - Giuseppe Bennati

siamo negli anni del boom economico, in una città del nord che si è riempita di manodopera arrivata dalle regioni del sud e non solo.

si trovano a fare i lavoratori precari in imprese che diventano sempre più ricche grazie allo sfruttamento degli operai.

nasce il consumismo, naturalmente a rate, come una nuova schiavitù.

il romanzo di Calvino mostra i miti di allora (non troppo diversi da quelli d'oggi), e in Marcovaldo la continuità temporale dei secoli passati, senza troppi scossoni, si rompe e appare la modernità, che ha prodotto l'oggi (possiamo dire purtroppo?).

Nanni Loy è perfetto nella sua parte (ma tutti sono bravissimi) di un uomo dei nuovi tempi a cui è impossibile spogliarsi dei vecchi abiti.

un gioiellino da non perdere, promesso - Ismaele


ps: Il frigorifero, di Mario Monicelli, ha, mutatis mutandis, molto in comune con Marcovaldo


 

 

QUI il primo episodio (su Raiplay ci sono i primi tre, i sei episodi completi si trovano comunque su youtube)

 

 


Come evidenziano i titoli di testa dello sceneggiato, il Marcovaldo trasmesso dal Secondo canale Rai tra il primo maggio e il 5 giugno 1970 è una riduzione televisiva dell’omonima raccolta di novelle pubblicata da Italo Calvino sette anni prima. Del testo originale, l’adattamento curato da Manlio Scarpelli, Sandro Continenza e dallo stesso regista Giuseppe Bennati conserva la rappresentazione in sei puntate in bianco e nero di alcuni episodi che vedono protagonista la numerosa e sempre unita famiglia di Marcovaldo, un manovale di un’imprecisata città industriale del nord Italia, che nello sceneggiato diventa Torino.

Da un libretto di poco più di cento pagine, è nata una sceneggiatura di milleduecento, che Calvino dice di aver letto tutta d’un fiato.

La versione televisiva di Marcovaldo è stata girata nei teatri di posa della città, ritenuti, all’epoca, i più grandi d’Europa.

Le musiche dello sceneggiato sono state composte da Sergio Liberovici ed eseguite dalla Traditional Jazz Studio Praha e da Silva e i Circus 2000; la sigla è cantata da Nino Ferrer e da Silvana Aliotta (Circus 2000).

Nel 1970, l’originale calviniano era già talmente popolare da essere adottato come libro di testo nelle scuole; Nanni Loy, interprete dello strampalato protagonista, inoltre, da quasi dieci anni era un volto molto familiare agli italiani.

Francesca Sammarco

da qui

 

I funghi, i reumatismi, i detersivi, il coniglio velenoso, la fermata sbagliata, Luna e Gnac, Babbo Natale, la neve… Certo non è come leggere Calvino, però Bennati ha fatto un buon lavoro intensificandone la vocazione anticonsumistica ed antimetropolitana ed affidando a Loy – magrissimo, stralunato, candido e dinoccolato - l’umile travet proto-Fantozzi Marcovaldo. Valore aggiunto l’ampliamento di personaggi secondari come la moglie Domitilla (Perego) e il caporeparto amico-rivale Viligelmo (Foà). La città è Torino, nel romanzo mai nominata ma assai intuibile.

da qui

giovedì 24 giugno 2021

La ragazza con la pistola – Mario Monicelli

una storia che nasce in Sicilia e arriva fino in Gran Bretagna.

una storia d'amore che amore non è, Monica Vitti  (straordinaria) è la ragazza che viene rapita e perde la verginità e la sua è una ricerca comica per (ri) avere l'uomo che l'aveva rapita.

e la ricerca la porta in capo al mondo, non è tipa da lasciare a quello lì l'ultima parola.

alla sceneggiatura c'è anche Rodolfo Sonego, un grandissimo sceneggiatore del grande cinema italiano di quegli anni irripetibili.

bravissimi anche Carlo Giuffrè e Stanley Baker (protagonista l'anno precedente di un gran bel film inglese).

non perdetevi questo gioiellino, non ve ne pentirete, promesso.

buona visione - Ismaele

 


QUI il film completo

 

  

Due culture si confrontano in questa divertente commedia di Monicelli. Da una parte una Sicilia stereotipata, socialmente ed economicamente arretrata, dall’altra la swinging London, la cultura moderna, allegra e spensierata di una Gran Bretagna in pieno boom economico. Un viaggio tra due mondi distanti, incomunicabili, che in quegli anni era fatto da migliaia di immigrati italiani in fuga dalla povertà e dall’arretratezza. Assunta Patanè (Monica Vitti) non lascia la Sicilia a causa della povertà, la lascia per riprendersi l’onore perduto a causa di una notte trascorsa con Vincenzo Macaluso (Carlo Giuffrè) che scappa per non sposarla. E lei è costretta ad inseguirlo per riportarlo con sé o per ammazzarlo. Così, con l’immancabile valigia di cartone, l’immagine di san Giovanni e una pistola abbandona l’assolata Sicilia. La ragazza bigotta, ingenua, ma dalla grande forza trasforma quello che doveva essere un brevissimo viaggio in una scelta di vita definitiva. Si lascerà alle spalle le stradine sterrate del suo paesino sul mare, i vestiti neri, la famiglia, la vergogna del disonore. Sono proprio questi stereotipi che Monicelli deride portandoli ad un tale eccesso da renderli ridicoli.

da qui

 

Di questo capolavoro del maestro Mario Monicelli non se ne parla mai abbastanza. Se è vero che forse l’ambientazione, e soprattutto le musiche e i costumi, sono strettamente legati agli anni in cui venne girato, la sceneggiatura, l’interpretazione dei protagonisti e la mano graffiante del regista sono ancora poderosamente attuali.

Scritto da Rodolfo Sonego e Luigi Magni, con la mano ovviamente di Monicelli, questa pellicola consacra definitivamente Monica Vitti fra le più grandi attrici comiche e brillanti della storia del cinema. Una grande attrice comica di una bellezza luminosa e seducente, con delle gambe e uno sguardo che ancora incantano…

da qui

 


mercoledì 19 maggio 2021

La brava gente del cinema italiano - Annamaria Rivera

 

Che il tema sia una pagina della storia coloniale italiana o che sia quello dell’immigrazione e del razzismo attuali, non poche produzioni cinematografiche nostrane sono (o piuttosto sono state) accomunate da una cifra comune, che salta agli occhi o almeno a quelli di chi abbia dimestichezza con le rappresentazioni dell’alterità. Intendo riferirmi all’esteriorità dello sguardo rivolto alle persone dette altre, l’irriflessa tendenza a oggettivarle secondo i propri cliché e categorie, in definitiva la difficoltà a immaginarle nonché rappresentarle come complesse e degne di rispetto al pari del Noi.

È doveroso aggiungere, tuttavia, che più recentemente si registra una certa inversione di tendenza, quantitativa ma per certi versi anche qualitativa. Da alcuni anni a questa parte, infatti, intorno al tema dell’immigrazione pure in Italia va delineandosi un genere, costituito tanto da film di finzione quanto da documentari. È soprattutto in questo secondo ambito che si colloca, mi sembra, il maggior numero di prove mature, interessanti, non conformiste. 

Per quel che riguarda il colonialismo, nonostante una tradizione, sia pur tardiva, di studi storici sul dominio coloniale italiano, assai debole e scarsa è stata – per qualche verso è tuttora – l’opera volta a decolonizzare la memoria pubblica, la quale continua a coltivare il cliché di un colonialismo italiano straccione, bonario e di breve durata, nonché il mito auto-assolutorio, a esso correlato, degli “italiani brava gente”

 

Quest’ultima espressione, divenuta assai comune, costituisce il titolo stesso del film del 1965 di Giuseppe De Santis, ove la ritirata dei soldati italiani, fino allora bloccati nelle steppe, è rappresentata come una sorta di via crucis e i soldati stessi come rispettosi, indulgenti, bonari nei confronti dei russi: all’opposto dei loro camerati tedeschi, raffigurati tout court come barbari e sanguinari.

Una tale rimozione o cattiva coscienza si è riflessa a lungo nella cinematografia italiana, in misura minore continua a riflettersi tutt’oggi. Uno dei pochi film ad aver affrontato il tema della memoria coloniale, non già brillantemente, ma almeno con un minimo di onestà, è Tempo di uccidere (1989) di Giuliano Montaldo, tratto dal romanzo omonimo di Ennio Flaiano del 1947. Per quanto non sia affatto un capolavoro, per lo meno cerca di prendere le distanze dalla retorica degli “italiani, brava gente”.

Allorché è stata la cinematografia altrui a narrare i crimini del colonialismo italiano, essa è stata occultata o censurata. Si pensi alla vicenda del Leone del deserto, film del 1981, voluto fermamente da Gheddafi: diretto da Mustafa Akkad, è incentrato su Omar el Muktar, il leader della resistenza libica contro il regio esercito italiano, il quale fu impiccato dopo un processo-farsa.

Come ho scritto altrove, rappresentati come oppressi anche allorché sono oppressori, quei soldati risultano tanto “umani” quanto i libici sono imbalsamati e semplificati nel loro irriducibile esotismo. Sono tanto complessi, tormentati, compassionevoli, perfino spassosi, gli italiani, quanto i tedeschi sono inflessibili, crudeli, duri, disposti a eseguire gli ordini più criminali.

Nonostante il cast eccezionale (da Anthony Quinn a Oliver Reed, da Rod Steiger a Irene Papas, da Gastone Moschin a Raf Vallone), il film fu bandito dalle sale cinematografiche italiane in quanto reputato da Giulio Andreotti come “lesivo dell’onore dell’esercito italiano”. Addirittura, nel 1987, la Digos ne bloccò la proiezione che si svolgeva in un cinema di Trento, nell’ambito di un meeting pacifista. Il film sarà trasmesso in televisione ben ventotto anni più tardi, nel 2009, e solo grazie a Sky, non già alla televisione pubblica.

Perfino Mario Monicelli ha concesso qualcosa a convenzionali cliché orientalisti: mi riferisco a Le rose del deserto, film del 2006, l’ultimo del grande e amato maestro.

In continuità con l’iconografia orientalista è Aisha, l’unico personaggio femminile di rilievo: sottomessa e segregata nella prigione del velo e della tribù, misteriosa e seducente, proibita e desiderabile, una volta ripudiata, non può che finire dietro le sbarre di un postribolo… L’estraneità delle persone altre, se non la loro riduzione ad alterità assoluta sono rivelati, fra l’altro, da numerosi dettagli.  E non bastano i felici tocchi da Maestro, quale Monicelli era, i gustosi siparietti comici e i momenti di drammatica intensità, esaltati all’ottima interpretazione di Michele Placido, ad attenuare l’impressione che neppure questo film sappia sottrarsi del tutto alla vetusta retorica di “italiani, brava gente”.

così si rischia – forse involontariamente – di legittimare i vecchi miti del colonialismo italico dal volto umano, immune da razzismo e violenza, e dei poveri italiani trascinati in guerra da quel folle di Hitler. Si aggiunga che la retorica innocentista è aggiornata alla luce di problematiche e luoghi comuni del presente: nel film risuona incongruamente l’eco dei topoi correnti sulle “missioni umanitarie”, sull’islam misogino, sulla democrazia da imporre con la guerra.

Certo, il film di Monicelli s’ispira volutamente al Deserto della Libia di Mario Tobino e a un brano (Il soldato Sanna) de La guerra d’Albania di Giancarlo Fusco. Gli sceneggiatori, tuttavia, avrebbero potuto consultare qualcuna delle corpose e documentate opere storiografiche dedicate al colonialismo italiano in Libia. In tal modo avrebbero potuto almeno alludere, sullo sfondo della vicenda, ai crimini orrendi – le deportazioni, i lager, l’uso di gas letali, i massacri, il genocidio – di cui esso si è macchiato, invece di annacquare le responsabilità del regime mussoliniano attraverso il personaggio farsesco di un generale che ha preso sul serio la propaganda fascista. 

Lo stesso Monicelli, presentando questo suo ultimo film, aveva affermato: “Noi siamo gente generosa, che non si perde mai d’animo (…). Riuniti in esercito gli italiani sono sempre gli stessi: positivi, felici, ottimisti e se devono morire muoiono senza farla tanto lunga. Non vogliono essere né eroi, né missionari”.

In realtà, il solo fatto d’avanzare dubbiosamente un tal genere di critiche o interrogativi ti espone all’accusa di settarismo e pedanteria: nel nostro paese il diritto all’esercizio della critica, soprattutto in campo cinematografico, è, mi sembra, o almeno era, un diritto alquanto limitato. Quando poi si tratta di opere partorite da milieu “progressisti” – come si sarebbe detto un tempo – è ancora più arduo avanzarne: esiste anche, infatti, anche un conformismo di sinistra.

Quanto alla rappresentazione delle persone immigrate o rifugiate, mi sembra che, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, una parte del cinema italiano inizi a rivelare maggiore maturità politica: forse più nei documentari che nei film di finzione. In ogni caso, si affaccia una nuova generazione di cineasti impegnati, anche politicamente, a rappresentare immigrazione, asilo e temi connessi in modo realistico, privo di cliché e luoghi comuni. Si pensi, tra gli altri e le altre, ad Andrea Segre e ai suoi non pochi documentari, il primo dei quali è stato Lo sterminio dei popoli zingari, del 1998; ma anche a Mohsen Melliti, autore di un film quale Io, l’altro, del 2007, nonché di un romanzo sulla vicenda della “Pantanella” (Pantanella. Canto lungo la strada, Edizioni Lavoro, 1992).

In entrambi i casi (che non sono gli unici), essi compiono un’opera assai meritoria, tanto più per il fatto che, da qualche anno a questa parte, negli stessi ambienti antirazzisti i cliché e i luoghi comuni vanno moltiplicandosi. Dovrebbero preoccupare, inoltre, la tendenza a ignorare la lunga dimensione diacronica del neo-razzismo italiano; nonché il progressivo impoverimento o decadimento dell’analisi e della riflessione, quindi del linguaggio e del lessico. Ripeto: perfino in ambienti antirazzisti.

Come ho scritto altrove e più volte, per quanto dotto pretenda di essere, uno degli esempi più lampanti è costituito dall’attuale tendenza a usare ossessivamente il lemma odio: ricordo che la formula hate speech si ritrova abitualmente anche in documenti e rapporti ufficiali. Ed è adoperata quale presunto movente degli atti di razzismo, verbali e fattuali, ma anche, in fondo, per nominare il razzismo stesso, che invece – come non mi stanco di ripetere – è un sistema assai complesso: anzitutto, istituzionale, ma anche ideologico, politico, sociale, simbolico, mediatico…

Ma lo stesso si può dire di paura, quale presunto movente del razzismo, a sua volta spesso ricondotto a “guerra tra poveri”; per non dire dello slogan “restiamo umani” e di altri luoghi comuni simili…

A proposito di “guerra tra poveri”: spesso questa locuzione mendace (come se fra “nativi” e migranti vi fosse simmetria di potere) serve a denominare forme di razzismo, anche assai violente, che accadono in quartieri popolari. In realtà a istigarle e a guidare all’assalto il più delle volte sono gli appartenenti a formazioni di estrema destra quali CasaPound, Forza Nuova e altre affini.

Tutto ciò per non dire dell’abuso del lemma “integrazione”, la quale, come dovrebbe essere ben noto, non basta affatto a proteggere dal razzismo.

A tal proposito, un caso esemplare è quello del sedicenne Giacomo Valent. Il 9 luglio 1985, a Udine, egli fu ucciso con sessantatré coltellate da due suoi compagni di un liceo assai elitario. I due, neonazisti, avevano rispettivamente quattordici e sedici anni. Figlio di un italiano, funzionario d’ambasciata, e di una principessa somala, quindi socialmente più che “integrato”, Giacomo era deriso come “sporco negro”, ma anche per le sue idee politiche di sinistra. 

Per parlare dell’oggi, perfettamente integrato è anche Mario Balotelli, un autentico mito calcistico, approdato nella nazionale di calcio. Eppure, e non solo per causa del colore della sua pelle, è stato (ed è tuttora) oggetto di ripetute aggressioni, verbali o peggio.

Rimarco il “non solo” per ricordare che chiunque può essere razzizzato, come ben dimostra il caso dei/delle migranti albanesi, arrivati/e in Italia a partire dai primi anni ’90 del Novecento e presto divenuti/e capro espiatorio ideale e vittime di razzismo, anche estremo.  

Insomma, è come se non avesse lasciato alcuna traccia la gran mole di analisi e studi, alcuni assai pregevoli, prodotta nel corso dei decenni passati, soprattutto in Francia, ma anche in Italia, negli Stati Uniti e altrove. Infatti, perfino su giornali di sinistra può capitare d’imbattersi in articoli infarciti da lemmi quali razza e razziale (mai virgolettati). In uno di questi l’autore si diceva fermamente contrario al fatto che dalla Costituzione francese sia stata cancellata la parola “razza”: cosa per la quale in Italia si battono non pochi gruppi antirazzisti e la stessa Siac, la Società italiana di antropologia culturale, della quale faccio parte.

Infine: ricordo en passant che già verso la fine degli anni Trenta del Novecento, Franz Boas, fondatore dell’antropologia culturale, del quale i nazisti avrebbero messo al rogo i libri (“oltre tutto”, egli era d’origine ebraica), aveva criticato e decostruito lo pseudo-concetto di razza. E nel 1950 l’UNESCO, che si era costituita da poco, elaborò una Dichiarazione sulla razza secondo la quale non esiste alcun determinante biologico fondativo che possa legittimarla.

da qui

martedì 26 settembre 2017

Matar a un hombre - Alejandro Fernández Almendras

capita di vivere in un posto con un po' di delinquenti che fanno il bello e il cattivo tempo, rubano, minacciano, violentano, feriscono, sopratutto Kalule.
Jorge, dopo tanta pazienza e sopportazione e umiliazioni si rivolge all'autorità, ma fanno poco e niente.
allora diventa una questione di orgoglio e di vita o di morte, Jorge, con mille dubbi, ma con determinazione, fa da sé.
un film dell'altro mondo, ma si capisce benissimo.
a qualcuno può ricordare Un borghese piccolo piccolo, di Mario Monicelli
si soffre e si pensa, oltre a vedere un piccolo grande film - Ismaele




Matar a un Hombre es un trabajo ejecutado con la perfección de un director que concibe mejor que nadie el cine como un vehículo. Uno en marcha, del cual no debemos bajarnos en ningún momento sino hasta que el conductor/director decide cuando hay que hacerlo y nunca, pero nunca, antes. No es fácil vivir en el mismo mundo de Jorge, y todo lo que pase en él es para sentirnos completamente culpables.

Film diretto ed efficace, Matar a un hombre racconta la vicenda (tratta da una storia realmente accaduta) in modo semplice e senza fronzoli, ma rappresentando con grande impatto emotivo il travaglio di Jorge, il senso di paura, solitudine ed impotenza di un uomo comune, abbandonato dalla legge di fronte al male, una discesa negli inferi che lo porta a improvvisarsi giustiziere. Nonostante la trama ricordi innumerevoli film girati su questo tema, Matar a un hombre mantiene una sua originalità evitando l'esaltazione della vendetta. Rifuggendo la spettacolarizzazione della violenza e gli spargimenti di sangue (l'omicidio nemmeno lo vediamo, ma lo ascoltiamo), la pelicola è incentrata sull'interiorità del suo protagonista, ben incarnato nella sua ordinarietà e nella sua disperazione da Daniel Candia. Daniel Antivilo interpreta l'antagonista Kalule, cattivo spietato e totalmente immorale che, ben consapevole dell'impotenza della giustizia, pare divertirsi sadicamente a tormentare ed umiliare la sua vittima; ma al momento in cui capisce che l'ha trasformata in un giustiziere disposto ad ucciderlo si abbassa a supplicare e implorare (inutilmente).

Fernández Almendras logra un intenso thriller donde la premisa del hombre vs. el hombre ejerciendo la Ley del Talión como la única manera de lograr la sobrevivencia del clan comprende, y hasta excusa, el comportamiento del taimado Jorge una vez que ha llegado al límite. Y el director lo hace de la manera más sobria y antihollywodense posible, lo que resulta su gran acierto: no estamos ante un Liam Neeson convertido en pistolero vengador, sino ante un pater familia que, como muchos, ya está harto de que su hija sea vejada, su casa violentada y su hijo medio muerto. Jorge es un hombre común como millones más, que ante un sistema lerdo deja de lado sus temores para llevar a la realidad ese viejo adagio que recita que “el valiente dura hasta que el cobarde quiere”, y, no obstante, al final logra erigirse digno, conservando su integridad moral y ética, intacta.

Matar A Un Hombre es una película que no opera desde la lógica o el raciocinio, sino que desde una óptica emocional, desgarradora, visceral. Apartada de todo cálculo u operación preliminar, lo que transmite es que fue hecha con el corazón en la mano. De ahí que los alcances de la obra no estén concebidos desde una vereda ética o moral. Su propósito mayor está en convertirse en un viaje mucho más profundo y atípico, que desentrañe los abismos del ser humano. Y en esa búsqueda es que se zambulle en territorios de penumbra, lo que no  hace más que corroborarse cuando se acontece el punto más álgido del relato…

Tuer un homme est un film de genre qui brouille discrètement les pistes : un thriller qui laisse le suspense de côté et dont l’enjeu prend toute sa dimension après le meurtre annoncé dans le titre ; un drame montrant un homme ordinaire dépossédé de ce quotidien qui le rend précisément si ordinaire. Ce film est la tragédie d’un homme qui se voit devenir un autre malgré lui. Les partis pris visuels du film, tels que l’image légèrement désaturée, participent à la création de l’atmosphère, de plus en plus lourde et étouffante, dans laquelle évoluent les personnages. Très souvent cantonnés au tiers inférieur du cadre, Jorge et sa famille semblent pris au piège par une fatalité contre laquelle ils ne peuvent lutter. Aussi, la musique vient ponctuellement amener le spectateur à percevoir les appréhensions du personnage principal et la sobriété de la mise en scène accentue l’aspect réaliste du récit. Il serait à regretter que cette même mise en scène ne permette pas au spectateur d’avoir un plus grand aperçu des personnages secondaires, qui peuvent par moment sembler bien lointains - et, volontairement, de plus en plus étrangers aux préoccupations de Jorge. Se confrontant à la forêt et à la mer, ce dernier se retrouve en effet seul pour affronter le poids de sa conscience et la nature, par son immensité, fait écho au drame vécu par le personnage. 
Sombre et d’une habile sobriété, l’œuvre d’Almendras dépasse les cadres du thriller pour s’affirmer comme un voyage tortueux au cœur de la conscience humaine.

domenica 28 agosto 2016

Caro Michele – Mario Monicelli

il protagonista del film non c'è, è sparito, probabilmente è fuggito perché ricercato per terrorismo.
la madre (Delphine Seyrig) gli scrive sempre, lo aspetta, appare una ragazza (Mariangela Melato) che ha conosciuto Michele, con un bambino forse suo, è sempre presente un amico di Michele (Lou Castel), Osvaldo, che sa un po' di cose.
i protagonisti sono straordinari, grazie anche a Monicelli, il film è ricco di episodi da ricordare, un piccolo gioiellino da non perdere - Ismaele






Un ragazzo di famiglia borghese, coinvolto nel Sessantotto e in fatti e fattacci collegati, è costretto a lasciare l’Italia e andarsene a Londra. Incomincia un dialogo a distanza, e in forma epistolare, con la famiglia e altre persone vicine. Ma lui non tornerà più. Cos’abbia attratto Monicelli in una materia simile, così lontana dalla sua sensibilità corrosiva, non è dato sapere. Ma conviene guardarcelo, questo film anomalo così poco monicelliano, anche perché porta con sè, come pochi, umori e dolori di quegli anni balordi (il film è del 1976). Bellissimo cast: Mariangela Melato, la mitologica Delphine Seyrig di Marienbad, Lou Castel. Può bastare?

Caro Michele,
qui tutto bene, altrettanto sperasi di te.
Devo dire che il film dedicatoti (o, meglio, dedicato alle belle donne che hanno costellato la tua vita) mi è piaciuto molto.
La Mara ("Castorelli? Pastorelli? Insomma, quell'amica di Michele che ha tanto bisogno", come direbbe tua madre) interpretata dalla Melato è un piccolo capolavoro di surreale pietas (ella stessa si compatisce, in tristi momenti di lucidità) e la sua costanza nel perpetrare innumerevoli errori è quasi commovente. Il suo (vostro?) bimbo, Ciccetto, è un adorabile fagotto che, come tanti altri bambini di Monicelli, assiste, suo malgrado, alle tragicomiche vicende imbastite dai grandi. Penso che Monicelli avesse un occhio dolente ed affettuoso nei confronti dei "piccoli": dall'infante di Brancaleone, al figlio di Tiberio ne I soliti ignoti, fino ai nipotini di Parenti serpenti, emerge l'ineluttabilità della loro condizione di inascoltati e di destinati all'emulazione pateticamente negativa.
Tua sorella Angelica (Aurore Clément) è una delicata e un po' sfiorita casalinga che, come vostra madre (Delphine Seyring), tanto rimpiange la tua presenza. La scena, apparentemente inutile, della doccia (un must altrove pruriginoso della commedia italiana) non è qui fine a sé stessa: il corpo ancora bello e formoso di Angelica è prossimo all'oblio, nonostante la giovane età, e Monicelli indulge con tenerezza sul biancore delle sue carni.
Osvaldo (Lou Castel) è l'amico (innamorato, come suppone l'altra tua sorella, Viola) migliore che un uomo possa incontrare sul suo cammino e la sua apparente distonìa, il suo incedere lentamente nella tua vita, è molto toccante.
Come spesso accade nei lavori del regista viareggino, le case hanno un'importanza fondamentale, sono lo specchio delle vicende che egli decide di raccontare. Così, le case in cui si aggira Mara sono sconclusionate come lei, quella di tua madre è un caldo nido medio-borghese traboccante di persone, vettovaglie e libri, il tuo scantinato è privo di carattere perché manchi tu.
Caro Michele,
che bel film.

…Caricature di uomini come Monicelli amava ideare e sempre fin troppo veri.
L’ultimo atto di una borghesia stanca e decadente vista attraverso il ritratto di una famiglia smembrata, (ri)composta da una moltitudine di personaggi che il regista rende inafferrabili e aleatori. Buttati addosso allo spettatore senza il tempo di capire nemmeno bene chi siano si moltiplicano continuamente tra madri, padri, zie, figli, amici, amanti. Vediamo il loro re morente, il capo famiglia, che agonizza dando le ultime disposizioni dal suo letto/trono circondato da inutili ricchezze. Cerca come conforto quel suo unico erede maschio ormai perduto dietro a moti rivoluzionari, inghiottito da quel mondo che voleva cambiare.  Volti femminili di fine porcellana contrapposti a volti maschili unti e rozzi sprofondano insieme in un liquame affettivo in cui ormai le emozioni si sono dissolte per sempre ed è calato uno strano abbandono nel tempo andato…