domenica 29 dicembre 2019

Ritratto della giovane in fiamme - Céline Sciamma

quando non c'erano le macchine fotografiche chi poteva pagava un dipinto.
Marianne, giovane pittrice, si reca in una casa, forse di nobili, in un angolo sperduto e ventoso di Bretagna, per fare il ritratto di Héloïse, uscita dal convento per essere "ceduta" (oggi diremmo venduta), al posto della sorella morta, a un nobile di Milano.
in quell'angolo di mondo Héloïse è triste e insopportabile, forse per la sorte che l'attende, ma la missione impossile di Marianne riesce, alla fine ci sarà un quadro bellissimo, ma non è quello che vediamo all'inizio del film.
le due ragazze, giorno per giorno, si conquistano, e la loro vita cambierà per sempre, quei giorni saranno incancellabili, per sempre.
e il numero 28 sarà molto importante.
un film d'amore, di pittura, di musica, di paesaggi e di bellezza vi aspetta, non abbiate paura della bellezza, sarete ricompensati - Ismaele










Portrait of a Lady on Fire (nel significato doppio di ritratto di una donna in fiamme), un’opera attraversata da una delicatezza rara (la mano lieve ma sempre rigorosa alla regia della Sciamma) che affronta il tema della scoperta del sé, della propria sessualità, attraverso l’incanto artistico, ruotando attorno al doppio binario del fascino della pittura e della bellezza del rivelarsi poco a poco di due ragazze ritrovatesi a vivere un momento cocente di passione, di una prossimità fisica bollente come il fuoco del titolo e del dipinto.
Céline Sciamma segue con occhio sempre presente  e partecipe, con indulgenza e tenerezza il conflitto interiore vissuto dalle due bellissime e bravissime protagoniste, e ne scioglie lentamente e carezzevolmente i nodi emotivi e comportamentali, trasferendo fuori dallo schermo la percezione realistica di un sentimento prima imploso, poi per un attimo esploso e poi infine confinato e affidato alla custodia della memoria. Perché proprio come nel bellissimo mito di Euridice e Orfeo in cui il film si definisce e si “specchia”, creando il parallelismo di senso nell’amore che svanisce di fronte ai propri occhi per il troppo desiderio, Portrait of a Lady on Fire getta un ponte di raccordo con quelle ragioni della proiezione e della memoria che spesso brillano più della realtà, e indica come – di fatto - il poeta (o l’artista) sia più propenso a coltivare l’idea che la verità…

Ritratto della giovane in fiamme non si limita quindi al racconto della scoperta di un amore, ma più in generale traccia una possibile via all’emancipazione, sessuale e quindi politica. Sciamma utilizza le sue attrici (Noémi Merlant e Adèle Haenel) con grazia sempre più scoperta; mette in scena un mondo in cui la presenza maschile è un semplice vettore (i rematori della barca che portano Marianne all’isola, il fattorino incaricato di consegnare il quadro al futuro marito di Héloïse a Milano) o una indefinita serie di volti nella folla, una realtà marginale che irrompe nelle uniche scene mondane del film (galleria d’arte o teatro); utilizza la concretezza materica dei colori e l’impulso erotico della musica (dal sabba in odore di stregoneria buona di un falò notturno in cui si canta polifonicamente “non si può fuggire” – da sé, dai propri sentimenti – all’Estate vivaldiana del finale) come puntelli emotivi; ragiona sulla sottile differenza tra rimpianto e ricordo (Héloïse che a letto sussurra: «ho imparato un nuovo sentimento»); usa il mito – quello ricorrente di Orfeo e Euridice, evocato e dibattuto nella scena che è al cuore del film – in maniera concretissima, arrivando a fissare sulle pagine delle Metamorfosi ovidiane l’unica memoria che a Héloïse resterà di Marianne, un autoritratto disegnato copiandosi in uno specchio incastonato tra le gambe dell’amata; mescola elementi pittorici del canone romantico (la scogliera, il mare in tempesta) con reminiscenze minimali, quasi gozzaniane, degli interni che i personaggi abitano.
Sciamma tratteggia il suo discorso culturale e politico nascondendolo dietro un’anima mélo; punta il suo sguardo di donna (e questo è un film di occhi e di ciglia, di increspature di pelle, di sussurri e di sospiri) su un amore impossibile che cerca e trova spazio, contro ogni rispettabilità imposta dall’alto, rivendicando la possibilità di un modo diverso di stare al mondo e in noi stessi (in loro stesse!), fieri e consapevoli.
Ritratto della giovane in fiamme fonde magistralmente forma e contenuto, teoria e racconto, cultura di genere e diritto alla passione, concedendosi qualche languore ma con gli occhi lucidi e ben puntati sul nocciolo, ancora ben vivo, della questione.

Una delle ragioni di maggiore entusiasmo è la densità di significati che Céline Sciamma ha saputo inserire nel film, senza però appesantirlo minimamente: la narrazione scorre veloce e coinvolgente, pur fornendo spunti di riflessione sul femminismo, sul rapporto fra artista e musa, sulla pittura (e il cinema) come sguardo che restituisce sostanza ai soggetti immortalati, sul mito di Orfeo ed Euridice.
Il fatto che Sciamma abbia saputo realizzare un film compatto, nonostante la quantità di elementi narrativi messi in campo, è ragione d'elogio di per sé. Che l'abbia fatto mettendo in scena una vicenda struggente ed emozionante è la cifra di un cinema di enorme livello.

Céline Sciamma si prende tutto il tempo per descrivere con piccole pennellate narrative la nascita di un amore che – scopriremo nelle due straordinarie, delicate eppur potenti scene finali del film – durerà per sempre, senza mai svanire, anche quando la vita separa i destini delle due donne. Il rapporto tra Marianne ed Héloïse nasce  sulle scogliere battute dal vento e dalle onde dell’Oceano Atlantico, o nella cucina scarna e disadorna del castello disabitato e non restaurato usato come set e congelato dal tempo – ambienti e paesaggi mirabilmente fotografati da Claire Mathon. L’amicizia e poi una sorta di reciproco abbandono ai propri sentimenti diventa amore sotto lo sguardo della giovane cameriera Sophie (Luàna Bajrami), che ne diventa anch’essa quasi complice, dopo che le due ragazze l’aiutano ad abortire.

…Il significato di queste amitiés, così come le loro implicazioni più o meno sovversive, varia in base al periodo storico di appartenenza, ma c’è un dettaglio che le identifica tutte: il loro esistere al di fuori delle imposizioni sociali, familiari ed economiche rappresentate dall’istituzione matrimoniale che imbriglia invece i rapporti uomo-donna. «Perhaps what writers liked about this kind of bond was that it seemed so unlike the one between men and women as codified in marriage. They imagined it as pure emotion, soaring above the wordly concerns of law, economics, and reproduction», scrive Emma Donoghue.
A Céline Sciamma, che è una cineasta del 21esimo secolo, non interessa però una visione esclusivamente emozionale e romantica dei personaggi femminili, e cala Marianne e Héloïse in un contesto molto concreto: l’amore che nasce tra loro non è una fuga dalla realtà, ma uno strumento per vivere nella realtà, e nel futuro che le attende, in maniera più piena, consapevole e indipendente, se non sul piano materiale almeno su quello intellettuale…

venerdì 27 dicembre 2019

A Dark Song - Liam Gavin

una donna che vuole rivedere il figlio morto si affida all'esperienza di un improbabile uomo che ha il dono di poter far star meglio la madre.
e tutto attraverso un rituale di purificazione e di evocazione di spiriti, anche molto concreti.
il film è un'avventura ad alto rischio che merita di essere visto.
A Dark Song è un piccolo grande terribile film da non trascurare - Ismaele



Diffusa credenza è che – soprattutto di questi tempi – un horror, per avere successo, ancor più se implichi il paranormale, debba avere un budget cospicuo, così da poterlo disseminare di effetti speciali e computer grafica; l’idea, la visione e la sceneggiatura in fondo non sono poi tanto fondamentali, mere minuzie buone per i sostenitori dell’indie, che non avendo fondi devono per forza potersi vendere in altro modo.
Ebbene, l’assunto che siano le pecunie a fare la pellicola del terrore è fallace, spesso anzi i prodotti commerciali, proprio per la necessità di avere maggiori ritorni dell’investimento, quindi un pubblico più numeroso e di conseguenza un rating il più possibile permissivo (di norma un PG-13), tolgono ogni elemento che gli valga l’appartenenza stessa al genere, risultandone così un insipido mistone di cliché diluiti e dialoghi sciapi. Al contrario è proprio tra coloro che rimangono nel sottobosco del sottofinanziato che le migliori e più originali opere si generano, un po’ per maggior necessità di inventiva a sopperire i pochi mezzi, ancor più per la libertà creativa di cui possono contare.
In quest’ultima categoria s’inserisce, meritatamente, A Dark Song, claustrofobico viaggio mentale scritto e diretto da Liam Gavin, di cui rappresenta il sorprendente esordio alla regia. Il film, che sta ancora facendo il giro dei festival, tra cui quello di Sitges (dove ha vinto il New Visions Award)e il recente BIFFF, è capace con risorse davvero minimali di costruire un reale senso di angoscia, mettendo in scena un rito oscuro, un viaggio oniroide a lungo mantenuto sospeso tra la percezione di allucinazione e realtà. Anzitutto melodia oscura, litania ripetuta per giungere a stati deviati della coscienza, a realtà che prescindono il tangibile e sfiorano altre sfere, l’horror è incentrato su un rito antico e, parrebbe, quasi pagano, per superare i confini della vita terrena e venire a contatto coloro che abitano aldilà. A tentare il pericoloso e fosco percorso, che in più punti ha i profili inquietanti dell’occultismo, addirittura nelle sue declinazioni sataniste, sono i due protagonisti Sophia Howard (Catherine Walker), donna disperata in cerca di un modo per entrare in contatto con il figlio morto, e Joseph Solomon (Steve Oram), un individuo dall’aspetto piuttosto malandato, ma, parrebbe, dai grandi poteri medianici…

gran parte della sostanza e della forza di A Dark Song è data proprio dall’abile e malinconica recitazione dei due protagonisti: la mater dolorosa è Catherine Walker, che era già transitata nel genere in A Dark Touch (2013) di Marina de Van, mentre l’anticonvenzionale magus è interpretato da Steve Oram, visto in Killer in viaggio, 2012. Il finale prevede una mistica e amara allo stesso tempo discesa nell’abisso e non delude affatto l’attesa, che resta comunque la parte migliore della storia. In sintesi finale, un piccolo, anzi piccolissimo film, che conserva però una propria precisa personalità e riesce a tessere una buona tela angosciosa. Cosa questa, oggigiorno, per niente scontata.

Una narrazione che lascia il segno trattando con profondità temi quali il perdono, la vendetta e l'amore, innestati in un contesto occultistico che si rifà a veri tomi esoterici cari ai relativi cultori, e permea così i cento minuti di visione in cui ben presto nulla è quello che sembra, con Sophia e Solomon nascondenti entrambi dettagli fondamentali sulle loro reali motivazioni in una partita impari con elementi ben oltre la loro portata.
Tramite affilati giochi di inquadrature, Gavin riesce a cogliere al meglio le sfumature logistiche della pressoché unica ambientazione, lasciando che l'orrore dilaghi non in gratuiti jump scare ma in un vedo/non vedo di rara efficacia nell'originare la corretta dose di suspense primigenia che appartiene alla purezza del genere e l'accompagnamento sonoro, ossessivo a tratti quasi come un disturbante mantra, immerge al meglio nell'irrequietezza degli accadimenti…

A Dark Song è un’opera fitta di dialoghi che unisce in sè il binomio iperrealismo/sovrannaturale. Gavin infatti lavora con grande cura sulle psicologie dei due protagonisti, rinchiusi nella casa per mesi e impossibilitati a uscirne: il rituale obbliga a circondare il luogo con un cerchio di sale, che non può essere valicato se non a rito terminato, pena il perenne imprigionamento tra quelle quattro mura. La prima parte del film analizza assai bene il rapporto che si instaura tra Sophia e Solomon, due personaggi apparentemente opposti: lei donna ricca e arrogante, che si rifiuta di perdonare e agogna una morte atroce per gli assassini del figlio, lui occultista “per amor di sapienza” (ma accetta la grossa somma di denaro offerta dalla donna), alcolista incallito e tossicodipendente occasionale. Il legame che si instaura è inizialmente conflittuale, in quanto Solomon considera Sophia una “posh girl” che gioca con la magia, mentre lei esplode in scatti d’ira nei momenti in cui rito pare non funzionare. In questa fase del film Gavin gioca di sottrazione, non mostrando nulla e incentrando tutto sulla componente dialogica nel rapporto di forza tra i due personaggi. Molte scene sono al buio e la fotografia realistica curata da Cathal Watters rende loro giustizia, nel creare quel senso d’angoscia proprio dell’orrore suggerito, come insegnava il grande Jacques Tourneur. Tuttavia mentre si avvicina il finale il plot cambia registro e l’opera mostra troppo in poco tempo: il rapporto tra Sophia e Solomon cambia ma in maniera eccessivamente improvvisa e il cotè sovrannaturale prende il sopravvento, lasciando lo spettatore a tratti interdetto. La chiusa del film è in realtà assai potente, nel mostrare la trasformazione interiore di Sophia, ma lo stacco tra le due modalità di rappresentazione è piuttosto forte e può causare un certo spiazzamento…

A Dark Song può vantare un comparto tecnico di tutto rispetto: essendo in fin dei conti un dramma da camera, Gavin può utilizzare i pochi mezzi a disposizione al massimo delle sue possibilità. Molto buono il lavoro scenografico sulla casa che parte come una normalissima, anche se un po’ vecchia, dimora e diventa il prototipo della casa infestata, non perché lo sia veramente, ma perché lo sono le persone che la abitano. Le stanze, i corridoi, il mobilio si trasformano in elementi minacciosi e claustrofobici mentre il tempo passa e sembra quasi che le mura si rimpiccioliscano, stringendosi intorno ai personaggi. Gavin è bravino con la macchina da presa, azzecca parecchie inquadrature interessanti. Forse eccede un po’ troppo coi primi piani, ma è anche voluto, per accentuare appunto la sensazione di essere prigionieri. Le poche scene in esterno sono suggestive quanto basta e, in generale, sia Gavin che il suo direttore della fotografia Cathal Watter, dimostrano di avere un buon occhio e di non usare il cinema come sfoggio di bravura, ma in funzione eminentemente narrativa, il che agli inizi è già un ottimo risultato.
Non può piacere a tutti, A Dark Song, ma se siete alla ricerca di una prospettiva un po’ diversa su tutto l’armamentario di sedute spiritiche ed evocazioni, un punto di vista più quotidiano, prosaico e “sporco”, forse vi lascerete conquistare.

A Dark Song opera in modo decisamente diverso e siamo di fronte a uno dei primi film horror, nella mia memoria, nel quale il rito diventa centrale, occupa una parte molto importante del minutaggio, ha una ricerca e documentazione molto più accurata della media e diventa in sostanza il reale protagonista.
Ricapitolando brevemente quel che accade: una giovane donna, Sophia Howard (Catherine WalkerDark Touch), affitta per un anno intero pagato in anticipo una grande casa isolata nella brughiera gallese e versa una somma esorbitante a un occultista, Joseph Solomon (Steve Oram), che dovrà aiutarla a portare a termine uno dei riti di evocazione più complicati, lunghi e pericolosi, quello contenuto nel Libro di Abramelin.
Una volta sigillata la magione i due non potranno più uscirne per sei mesi come minimo, e Sophia dovrà affrontare periodi di digiuno, di purificazione, privazione di sonno, meditazione, oltre a disegnare complesse figure e recitare in varie lingue.
Scopo finale del rito è quello di evocare il proprio angelo guardiano per chiedergli un favore: durante l’intero rituale la casa non sarà più ancorata al nostro piano di esistenza, confinerà con altre dimensioni e oltre all’entità benevola (che non è comunque detto che arrivi), il tutto potrebbe attirare anche altre creature, più maligne…


mercoledì 25 dicembre 2019

dicono di Netflix


Netflix, il 2019 è l'anno della resa dei conti – Andrea Signorelli 

All’inizio c’era la televisione. Poi c’era la pay tv. Adesso c’è Netflix: il servizio di streaming ha ormai raggiunto quota 137 milioni di abbonati nel mondo, di cui oltre 60 solo negli Stati Uniti. Da sola, Netflix ha più abbonati negli USA dei sei principali fornitori di tv via cavo messi assieme. Ma la vittoria di Netflix sulla pay tv non è sorprendente quanto la seconda mossa strategica del colosso fondato da Reed Hastings: la conquista di Hollywood.
Negli ultimi cinque anni, Netflix ha prodotto serie tv, spettacoli di stand-up comedy e documentari di enorme successo; sia di pubblico che di critica. Solo nel corso del 2018, ha speso qualcosa come 13 miliardi di dollari per i suoi contenuti originali; una cifra che la mette sullo stesso piano di Disney, Fox e Time Warner. Tutto questo, pur restando sempre un prodotto economico rispetto alla concorrenza, con abbonamenti che vanno da 8 a 14 euro al mese.
Il suo modello di business, insomma, sta diventando sempre più costoso: nel 2017 le spese complessive hanno raggiunto i 17,7 miliardi di dollari; oltre 4 volte quanto speso nel 2011. Ma allora come fa Netflix a guadagnare? Per capirci qualcosa, bisogna partire da un numero: i mille contenuti originali ospitati sulla piattaforma; una cifra esorbitante rispetto agli standard dei suoi più tradizionali concorrenti (come ABC o Fox).
Ma perché Netflix si è messa a produrre questa immensa quantità di show originali? Agli inizi della sua carriera, Reed Hastings si limitava a noleggiare DVD spediti ai clienti via internet; poi – con il declino del noleggio di DVD – ha lanciato la sua piattaforma di streaming, acquistando licenze di film e serie tv. Grazie allo streaming, gli utenti di Netflix sono saliti a una velocità impressionante: dai 7 milioni del 2007, fino ai 33 del 2012. Ma con il successo, gli studios di Hollywood hanno iniziato a fare richieste sempre più onerose per concedere i propri film e serie tv in licenza.
Diventare la HBO
E quindi, invece di restare legato mani e piedi alle volontà degli studios, Netflix ha deciso di prodursi i contenuti da solo; DaredevilStranger ThingsNarcos e tutti gli altri. Una strategia riassunta da Ted Sarandos, chief content officer di Netflix, in poche parole: “Vogliamo diventare la HBO prima che la HBO diventi noi”.
Come noto, tutto questo è iniziato con House of Cards: l’apprezzatissima serie tv sul lato oscuro della politica americana che nel 2013 ha inaugurato con il botto il nuovo corso di Netflix. Una serie costata, secondo le stime, 50 milioni di dollari a stagione e che ha rappresentato il segnale inequivocabile di quanto Netflix avesse intenzione di fare sul serio. Da allora, Netflix ha costantemente aumentato la sua offerta di prodotti originali; dagli anime giapponesi, fino ai documentari sportivi e a un numero apparentemente infinito di film con Adam Sandler.
Allo stesso tempo, la piattaforma ha iniziato a cancellare i prodotti su licenza: niente più How I met your mother, niente più Lost e molti altri ancora. Netflix adesso ha pieno controllo sul suo destino; ma il prezzo da pagare è stato molto alto. E questo ci porta a un secondo numero cruciale: i già citati 13 miliardi di dollari spesi per i contenuti nel solo 2018.
Un numero enorme, soprattutto per un’azienda il cui modello di business si basa su un abbonamento abbastanza economico. Dal punto di vista tecnico, Netflix è in attivo: ha un fatturato che, nel 2017, è stato di 11,7 miliardi di dollari; con un utile di 560 milioni. Ma questi dati non raccontano tutta la storia: per esempio, produrre The Crown costa 130 milioni di dollari a stagione, ma queste spese vengono distribuite su più anni; in modo da impattare meno sui bilanci annuali. Una pratica normale, nota come ammortamento, ma che provoca un costante aumento delle spese anno dopo anno.
Se si guarda al flusso di cassa disponibile, la situazione è infatti molto meno rosea: Netflix, da questo punto di vista, è andata in rosso per circa 2 miliardi di dollari nel 2017. Per il momento, non ci si preoccupa troppo di questo numeri negativi, come dimostra il fatto che il rosso potrebbe salire nel 2018 a 3 o 4 miliardi: per Reed Hastings, l’unico numero che conta davvero è quello degli utenti: 137 milioni. Come ogni compagnia della Silicon Valley che si rispetti, anche per Netflix la costante crescita di abbonati è la sola ossessione.
Una perenne start-up
Poco importa che Netflix abbia già vent’anni di vita, gli investitori la trattano come una start-up. Non conta nemmeno che abbia spese eccessive, ma solo che continui ad aumentare i suoi abbonati. Con il risultato che, nei primi mesi del 2018, il valore delle sue azioni in borsa è raddoppiato, portando la piattaforma a una capitalizzazione di mercato massima di 165 miliardi di dollari; più del colosso Disney (prima di crollare a 107 miliardi nelle ultime settimane di panico generalizzato a Wall Street).
Non rischia tutto questo di dimostrarsi una bolla? Per evitare di crollare sotto il peso delle aspettative, Netflix deve aumentare senza sosta il numero di abbonati; il che spiega la decisione di espandere la produzione di contenuti originali internazionali (con un particolare focus sull’India). In più, il prezzo dell’abbonamento dovrebbe continuare ad crescere, soprattutto visto che l’ultimo aumento non ha in alcun modo rallentato la crescita degli abbonati. Infine, la compagnia a un certo punto ridurrà la folle spesa per produrre nuovi contenuti; non appena la sua libreria di contenuti avrà raggiunto la soglia critica ritenuta sufficiente.
Niente di diverso dal modello di business di Amazon, che per anni ha perso soldi ma ha continuato ad aumentare gli utenti e ad alzare il prezzo per la sottoscrizione ad Amazon Prime; fino a diventare remunerativo. Secondo gli esperti, il flusso di cassa di Netflix dovrebbe diventare positivo entro il 2022; sempre che tutto vada secondo i piani.
Netflix dovrà infatti vedersela con una concorrenza che si sta facendo sempre più agguerrita: Disney sta per lanciare il suo servizio di streaming, così come Apple. Nel frattempo, Amazon sta spendendo sempre di più per rendere il suo Prime Video un vero rivale, e anche YouTube vuole creare qualcosa di simile con i suoi nuovi servizi a pagamento e la produzione di serie tv originali. Tutto questo, mentre i colossi tradizionali – come AT&T e Time Warner – compiono maxi-fusione societarie per tenere testa alle ambizioni di Netflix e non fare la fine di Blockbuster.
Netflix, in definitiva, ha bisogno di creare sempre più contenuti per conservare la sua supremazia, ma questo rischia di far salire ulteriormente le spese; soprattutto considerando che il servizio streaming di Disney potrà immediatamente fare affidamento su tutti i prodotti di Star Wars, dell’universo Marvel e della Pixar.
Secondo molti analisti, la strada per Netflix è tutta in discesa: entro due o tre anni dovrebbe arrivare a quota 200 milioni di abbonati per poi crescere fino a 260 milioni nel giro di dieci anni. Ma se Netflix non dovesse riuscire a soddisfare le aspettative, le conseguenze potrebbero essere disastrose: il servizio di streaming attrae investitori solo sulla base delle promesse per il futuro; ogni volta che qualche obiettivo viene mancato, le azioni ne risentono pesantemente.
A questo punto, l’unica scelta di Netflix è continuare a bruciare soldi e produrre un numero sempre maggiore di contenuti originali; aumentando costantemente il rischio complessivo nella speranza, un domani, che tutte le sue aspettative vengano rispettate e possa diventare un’azienda realmente profittevole. Netflix si comporta come se fosse un business di sicuro successo; in verità, il rischio di trasformarsi in un castello di carte non può essere sottovalutato.

Conti in caduta e concorrenza aggressiva, il futuro di Netflix è sempre più incerto - Giuliano Balestreri

Il primo problema dei Netflix sono i conti. Il secondo, ben più grave, si chiama concorrenza. E se probabilmente è troppo presto per pensare che la società sia entrata in una pericolosa spirale negativa, non lo è per capire che il gruppo ha bisogno – molto rapidamente – di mostrare al mercato di essere in grado di diversificare la propria offerta aumentando i servizi. Non è una strada semplice da percorrere, ma Reed Hastings non ha molte carte nel mazzo da giocarsi.

 “Da inizio anno il titolo è in positivo, ma la percezione degli operatori è mutata dopo la pubblicazione dei dati sul secondo semestre” spiega Edoardo Fusco Femiano, market analyst di eToro che poi aggiunge: “Netflix ha fallito sotto tutte le metriche di riferimento. Dalla crescita delle sottoscrizioni complessiva (2,7 milioni contro le attese per 5 milioni, ndr) alla decrescita degli abbonati negli Stati Uniti, fino alla generazione negativa di cassa e all’aumento del debito finanziario su base annua”.
Le conseguenze sono chiare: Netflix è cresciuta grazie a un circolo virtuoso basato sulla crescita costante degli abbonati che ha fatto dimenticare al mercato sia l’incapacità dell’azienda di fare utili sia la sua capacità di accumulare debiti. D’altra parte i miliardi di dollari presi in prestito sono serviti a finanziare centinaia di costose produzioni che – a loro volta – hanno fatto crescere gli utenti e a cascata il valore del titolo. E più Netflix investiva in produzioni, più aveva chance di trovare la sua gallina della uova d’oro come La Casa di Carta o Stranger Things. La battuta d’arresto di fine luglio ha acceso un campanello d’allarme sul futuro dell’azienda mostrando al mondo che la crescita non è garantita a vita.
 “Come se non bastasse – prosegue Fusco Femiano – la concorrenza di Disney e AT&T, che hanno lanciato programmi di streaming TV a condizioni più convenienti di Netflix, sta spingendo la società a cercare espansione in mercati nuovi, ma è evidente che questo settore sia ormai maturo e si stia saturando rapidamente”.
 “Questo non è un mercato dove ci sono sostituzioni come per gli elettrodomestici o per le auto” incalza Roberto Verganti, professore di Leadership e Innovation alla School of Management del Politecnico di Milano, secondo cui “per aumentare il fatturato Netflix è condannata a fornire nuovi servizi, magari attraverso abbonamenti premium o simili. Nel frattempo deve continuare a produrre contenuti di successo prendendo tutti i rischi necessari”.
Il pericolo numero uno per Netflix si chiama Disney perché potrebbe attrarre oltre 30 milioni di nuovi clienti entro la fine del prossimo anno e soprattutto avrà un costo annuo di circa 40 dollari: “E’ un prezzo molto inferiore a quello di Netflix – osserva il market analyst di eToro –, ma non dobbiamo dimenticare Amazon che ha una capacità di spesa enorme come ha dimostrato con l’ecommerce”. Disney, però, ha già annunciato che nei prossimi trimestri si concentrerà con tutte le forze sui video online e per finanziare le operazioni ha già iniziato ad aumentare le fonti di ricavo dalle sue attività alternative, come i parchi divertimento. “La forza di Disney – sottolinea Verganti – è proprio quella di riuscire ad aumentare i flussi di cassa da altre attività, mentre Netflix non ha scelta”.
 “I competitor saranno in grado di finanziare la propria trasformazione attingendo ai settori più forti, Netflix no e anzi dovrebbe aumentare le spese di marketing ma questo – avvisa Fusco Femiano – aumenterà la pressione sui conti”. Anche perché nel frattempo è probabile che Netflix perda gran parte dei contenuti di Disney e di tutte quelle piattaforme che vedranno la luce. Con il rischio di alimentare un circolo vizioso nel quale il calo delle azioni spaventerà gli investitori rendendo più difficile finanziarsi e di conseguenza produrre nuovi film e serie.
Per Verganti, però, ci sono tanti settori ancora da esplorare “dal mondo del gaming a quello dell’education. Di certo Netflix non può stare ferma”. Per Fusco Femiano, invece, “è fondamentale vedere chi avrà sinergie industriali. La concorrenza metterà fuorigioco chi non sarà abbastanza efficiente. Io credo che il settore andrà verso l’aggregazione e allora aumenteranno i profitti”. Come a dire che Netflix deve dimostrare di riuscire a stare sul mercato di fronte della concorrenza. E di una valutazione pari a oltre 90 volte gli utili.

Allarme Netflix, senza pubblicità potrebbe perdere 4 milioni di abbonati - Giuliano Balestreri

Netflix ha due, enormi, problemi. Il primo è nei conti: continuano a deludere gli analisti. Soprattutto per quelle che sono le attese future. Il secondo, forse più grave, si chiama concorrenza. E se probabilmente è troppo presto per pensare che la società sia entrata in una pericolosa spirale negativa, non lo è per capire che il gruppo ha bisogno – molto rapidamente – di mostrare al mercato di essere in grado di diversificare la propria offerta aumentando i servizi. Non è una strada semplice da percorrere, ma Reed Hastings non ha molte carte nel mazzo da giocarsi. Potrebbe pensare, per esempio, di affiancare allo storico product placement qualche forma di pubblicità tradizionale: un’ipotesi che i vertici del gruppo respingono con forza, ma che al mercato piace molto. D’altra parte l’ultimo documento depositato alla Sec – la Consob americana – mostra con chiarezza come la società abbia fretta di trovare nuove fonti di ricavo per gli abbonamenti potrebbero non essere più sufficienti. Anche perché gli utenti che spendono di più sono i nord americani con un abbonamento mendio di 13,08 dollari al mese per poco più di 67 milioni di consumatori. Purtroppo per Netflix, però, il tasso di crescita sta rallentando.
A questo poi, si aggiunge il fatto che i competitor, da Disney ad Amazon, saranno in grado di finanziare la propria trasformazione attingendo ai settori più forti (per esempio, Disney ha aumentato il prezzo dei biglietti dei parchi divertimento, ndr), mentre Netflix ha una sola fonte di ricavi e, anzi, sarà costretta ad aumentare le spese di marketing e di conseguenza la resistenza all’avanzata di altri attori aumenterà ulteriormente la pressione cui conti. Anche perché nel frattempo è probabile che Netflix perda gran parte dei contenuti di Disney e di tutte quelle piattaforme che vedranno la luce. Con il rischio di alimentare un circolo vizioso con il calo del prezzo delle azioni che spaventa investitori rendendo – di conseguenza – più difficile finanziarsi sul mercato e a cascata più complicato produrre nuovi film e serie.

Nell’ultimo anno, la società ha provato a lanciare pacchetti più economici solo per il mobile in India e Malesia: una strategia che ha fatto salire il numero degli abbonati, ma non quello dei ricavi medi. Di certo, se Netflix ha intenzione di continuare a spendere 15 miliardi di dollari in contenuti ogni anno ha bisogno di far salire le proprie entrate.
Fino ad oggi, Netflix è cresciuta grazie a un circolo virtuoso basato sul costante aumento degli abbonati che ha fatto dimenticare al mercato sia l’incapacità dell’azienda di fare utili sia la sua capacità di accumulare debiti. Anche perché i miliardi di dollari presi in prestito sono serviti a finanziare centinaia di costose produzioni che – a loro volta – hanno fatto crescere gli utenti e il valore del titolo. E più Netflix investiva in produzioni, più aveva chance di trovare la sua gallina della uova d’oro come La Casa di Carta o Stranger Things. La battuta d’arresto degli ultimi mesi ha acceso un campanello d’allarme sul futuro dell’azienda mostrando al mondo che la crescita non è garantita a vita.
Roberto Verganti, professore di Leadership e Innovation alla School of Management del Politecnico di Milano, è convinto che “per aumentare il fatturato Netflix è condannata a fornire nuovi servizi, magari attraverso abbonamenti premium o simili. Nel frattempo deve continuare a produrre contenuti di successo prendendo tutti i rischi necessari”. Senza dimenticare, dice il professore, che ci sono tanti settori ancora da esplorare “dal mondo del gaming a quello dell’education. Di certo Netflix non può stare ferma”.
Gli analisti, però, sono convinti che la risposta più efficace sarebbe la pubblicità. Per esempio, gli esperti di Needham sono convinti che senza un abbonamento low cost da 5-7 dollari al mese, ma sostenuto dalla raccolta pubblicitaria, Netflix andrebbe incontro nel 2020 a una fuga 4 milioni di abbonati verso i competitor. Motivo per cui dopo le parole di Reed che sembrano chiudere agli spot, almeno per l’anno prossimo, gli analisti di Needham hanno tagliato ad “underperform” il titolo stimando una perdita di 4 milioni di abbonati. Secondo Nomura, invece, se a partire dal 2020 Netflix introducesse un modello stile Spotify potrebbe incassare subito un miliardo di dollari dalla pubblicità.

Netflix costretta ad accogliere la pubblicità nel 2020 - Allan Obertino
Il 2019 è stato un anno pieno di successi: Stranger Things, The Witcher, Casa de Papel, Living with yourself, The Politician. Ma non bastano. Netflix è in perdita. Lo dicono gli analisti, ed anche i loro conti. Produrre serie di successo richiede degli investimenti importanti, possibili finché il mercato non si riempie di agguerriti concorrenti quali Disney+ e Amazon Prime, che continuano ad aumentare il loro catalogo, andando in alcuni casi a ridurre quello di Netflix (per esempio le serie Marvel).
Gli abbonamenti Standard e Premium sono aumentati di 1-2€, mentre in India ed in Malesia hanno introdotto degli abbonamenti low-cost per mobile, che hanno portato nuovi clienti. Ma tutto questo non basta. Netflix spende circa 15 miliardi l’anno per produrre nuove serie, pubblicizzarsi e comprare prodotti, cifre che al netto dei guadagni attuali, non può permettersi. Per questo c’è chi propone di inserire della pubblicità, con un modello simile a Spotify. Le stime prevedono una perdita di 4milioni di utenti durante il 2020, che andrebbero invece ad arricchire le altre piattaforme di streaming. Questa volta nemmeno un massiccio Henry Cavill potrebbe salvarli.
Che ne pensate? Rimarrete fedeli a Netflix se aggiungesse degli spot pubblicitari o abbandonereste la nave?

Vi dico cosa combinano WeWork e Netflix. Parla Stefano Feltri (ProMarket) 

(intervista di Michele Arnese)

La mancata quotazione di WeWork (bolla evitata?), le vicissitudini di Uber e la concorrenza di Disney+ e Amazon Prime Video a Netflix sono da approfondire. Che ne pensi di WeWork?
C’è stata una fase in cui le start up si quotavano in Borsa per fare il salto di qualità e continuare a crescere grazie all’iniezione di capitale fresco. WeWork – un’azienda che prende in affitto a lungo termine edifici che poi ristruttura e riaffitta come spazi da ufficio a breve – è parte di una generazione diversa: la quotazione serve ad arricchire il fondatore e i suoi soci iniziali, che fanno miliardi scaricando sugli altri investitori il rischio che la start up si riveli un fallimento. Con WeWork, per fortuna, gli investitori hanno rifiutato di farsi spennare e hanno fermato quella che doveva essere una quotazione da 45 miliardi. Il castello di carte è crollato, il carismatico fondatore Adam Neumann è stato licenziato, anche se con una buonuscita da oltre un miliardo che dimostra quanto avesse distorto la governance dell’azienda nella direzione di una monarchia assoluta.
Un caso isolato o ci sono tante WeWork pronte ad esplodere?
Se gli investitori, finora affamati di rendimenti in un mondo di tassi zero, cominciano a diventare diffidenti, Neumann non sarà il solo a saltare. Uber, con i suoi 20 miliardi di perdite cumulati, è la prima della lista.

Come vanno davvero i conti di Netflix? E come può continuare a crescere?
Il modello di Netflix si fonda su una crescita continua degli abbonati che giustifica investimenti giganteschi in contenuti originali, ormai siamo a 15 miliardi all’anno. Ma la crescita degli abbonati sta rallentando, Netflix ne dichiara 158 milioni e pare impossibile possa mai arrivare a quei 700-750 impliciti nel suo attuale prezzo di Borsa. La concorrenza sta aumentando. I servizi in streaming negli Usa sono oltre 200, ma alcuni sono in grado di sottrarre molti utenti a Netflix. L’ultimo arrivato è Disney+ che ha Star Wars, i Simpson, i cartoon e perfino lo sport. Se per i servizi di streaming vale quello che abbiamo visto per i quotidiani on line – i pochi che si abbonano, pagano una sola testata, ma due-tre – per Netflix saranno dolori.

Ho visto che su ProMarket vi state occupando molto di una nuova procedura in consultazione della Sec sul voto delle assemblee. Molto tecnica la questione. Ci aiuti a capire portata e rilevanza?
E’ un po’ complesso, ma in sintesi: gli investitori istituzionali (come i fondi pensione) detengono circa l’80 per cento del capitale delle società quotate a Wall Street e per legge sono obbligati a votare alle assemblee dei soci, ma non hanno tempo di studiare le informazioni per tutte le aziende di cui sono soci. Quindi pagano degli appositi consulenti, i proxy advisors, per dare indicazioni di voto. Due aziende, ISS e Glass Lewis, hanno quasi tutto il mercato e gli amministratori delegati e i vertici delle società quotate sono sempre più insofferenti verso lo strapotere di questi due proxy advisors che hanno anche la pretesa di condizionare le decisioni delle assemblee su temi come la trasparenza degli stipendi dei vertici, la lotta alla crisi climatica e l’uguaglianza di genere. La Sec, la Consob americana, ha annunciato un nuovo set di regole che recepisce le istanze degli amministratori delegati: se un proxy advisor vuole far votare i suoi clienti contro i manager della società, deve prima anticipare le critiche all’ad, rivelare con quale metodologia ha elaborato la posizione e, se questa non piace all’ad, rischia anche conseguenze legali.

Ho visto che hai sfruculiato anche con un tweet Bloomberg. Va be’, allora è proprio vero che fate il tifo per la Warren…
Ho scritto un pezzo per commentare l’incredibile statement del direttore di Bloomberg News, John Micklethwait, che spiega come gestiranno la campagna presidenziale del loro editore. Bloomberg, una delle grandi testate globali con risorse e pubblico per fare grandi inchieste, non indagherà su Bloomberg e neppure sugli altri candidati Democratici. Se Bloomberg avrà la nomination, par di capire, addio giornalismo investigativo anche su Donald Trump. Con i suoi 30 milioni di dollari già investiti nella campagna elettorale, Bloomberg sta cercando di comprarsi la Casa Bianca e il primo risultato della sua corsa è aver peggiorato la qualità del dibattito pubblico. Per uno col suo patrimonio, costa meno ottenere la presidenza che pagare la tassa sui patrimoni che Elizabeth Warren gli infliggerebbe se alla Casa Bianca ci arrivasse lei. Peggio di Trump non si può avere nessuno, ma meglio di Bloomberg sì.

Come Netflix sta rivoluzionando il mercato globale dei media - Jennifer Holt

Il tema della distribuzione dei film (ma anche delle serie e dell’intrattenimento audiovisivo) e della sua relazione con la circolazione e il commercio dei dati digitali è oggi estremamente rilevante. Attualmente, quando parliamo di “distribuzione” a proposito dei film ci riferiamo al passaggio dalla bobina di cellulosa e dalla pellicola cinematografica al sistema numerico-digitale degli “0” e degli “1”: ormai il 97% del cinema è digitale, e le piattaforme di streaming online sono cresciute, via via, nella loro importanza per l'industria mediale nel suo complesso.
Questa trasformazione ci ha costretti a occuparci della transizione dall’analogico al digitale e a ripensare a come il cinema viene confezionato, trasportato, disseminato e consumato da pubblici diversificati, in tutto il mondo.
Apple pronta a sfidare Netflix nel mondo dello streaming video
Negli Stati Uniti abbiamo assistito a una vera e propria battaglia economico-culturale che ha riguardato l’ultimo film di Martin Scorsese, The Irishman, una produzione Netflix da 160 milioni di dollari, in distribuzione dal prossimo mese di novembre: questo caso costituisce un esempio significativo, e molto istruttivo, di quelle mutazioni e di quelle tensioni che sono germogliate nell’industria dei media nell’ultimo decennio. Il film, infatti, è costretto a una distribuzione in piccoli cinema poiché le grandi catene del Nord America si rifiutano di proiettare contenuti che non siano in grado di assicurare una finestra esclusiva nelle sale di almeno tre mesi prima di approdare allo streaming sulle piattaforme online come Netflix.
Ma proprio Netflix, che ha prodotto il film, pretende di poterlo distribuire dopo sole tre settimane dal passaggio in sala: perciò The Irishman è stato “messo al bando” dalle catene di esercenti più estese e potenti degli Usa. Insomma, è piuttosto ovvio che le catene che gestiscono i cinema e i colossi digitali come Netflix o Amazon Video continueranno a combattersi sull’ampiezza, o l’esistenza, di uno spazio “theatrical”, ovvero sulla possibilità che i film continuino a essere consumati nelle sale quando vengono prodotti dalle, e per le, piattaforme di streaming: una lotta che coinvolge naturalmente anche i grandi artisti, i registi, gli agenti, le major che controllano gli studios.
Se analizziamo la distribuzione digitale e il nuovo ruolo giocato dai dati è necessario studiare con attenzione anche come questi stessi dati possono essere regolati e protetti, dal momento che essi attraversano piattaforme digitali globali provenendo da remoti server, solitamente definiti “cloud”, e finiscono per essere soggetti al patchwork composito e informe della legislazione internazionale, a diverse condizioni d’uso (“Terms of Service”), a variegate politiche relative a come possono essere immagazzinati e trasmessi come contenuti digitali
Distribuire e controllare i dati digitali nel momento in cui essi viaggiano in tutto il mondo pone delle vere e proprie sfide che vanno decisamente al di là dei tradizionali paradigmi legali, dei confini nazionali e delle usuali geografie della politica nazionale. L’ascesa delle piattaforme globali come Netflix sul terreno della distribuzione digitale ha creato dei veri e propri “data troubles”: problemi da risolvere per tutti gli attori in campo, dai dirigenti degli studios che producono i contenuti ai proprietari delle sale cinematografiche, dai regolatori e policy makers che si muovono a livello sovrannazionale, a tutti noi come pubblici dei film.
Per provare a sbrogliare questi intricati problemi, è necessario affrontare alcune delle dinamiche industriali, culturali e politiche che collegano fra loro l’uso e la governance dei dati entro lo scenario mutevole della distribuzione digitale. Per fare questo, è altresì necessario, in primo luogo, discutere ampiamente dei profondi cambiamenti che stanno caratterizzando le industrie dei media, a cominciare con tutto quel grande processo di integrazione fra le compagnie mediali e quelle tecnologiche, senza dimenticare la rilevanza che per entrambi i comparti rivestono il ricorso agli algoritmi e ai cosiddetti “big data”, nonché le questioni che hanno a che fare con quella “cultura della sorveglianza” che diventa oggi sempre più pervasiva.
Infatti, i data troubles che l’industria cinematografica e mediale globale e le audience si trovano a dover affrontare sono direttamente connessi con le importanti questioni che sono in gioco, come la privacy personale, la sicurezza dei dati e la stessa libertà digitale. È anche certo che tutte queste questioni fra loro intrecciate svelano quanto c’è veramente sul piatto in questo momento: il destino della cultura, dell’informazione e della cittadinanza nell’era delle piattaforme digitali.
Questo articolo è un’anticipazione della relazione inaugurale di Jennifer Holt, professore di Media Studies presso l’Università della California Santa Barbara, al convegno internazionale “The International Circulation of National Cinemas and Audiovisual Content: the Challenge of Convergence and Multiplatform Distribution in the European Context” organizzato il 17 e il 18 settembre dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

martedì 24 dicembre 2019

El Olivo – Iciar Bollain

attori bravissimi, una sceneggiatura di Paul Laverty (che scrive per Ken Loach, per dire), un ingranaggio che funziona benissimo.
non poteva mancare i mostri che sono il profitto, le multinazionali, il capitalismo, i soldi, che danneggiano l'umanità, le radici, i rapporti umani.
ma Alma è testarda come pochi, e ama il nonno più di tutti, e si butta in un'impresa che solo don Chisciotte poteva pensare, con Ronzinante che un supercamion, Rafa che fa il Sancho della situazione.
un film che fa anche commuovere, senza trucchetti.
non perdetevelo vi farà bene - Ismaele





El olivo, a partir de sus dos piezas que fundamentan el sustento del relato, erige una tela que engloba un seguido de actitudes que a medio camino entre la comedia y el drama, nos muestran las desavenencias y recelos que provoca la vida rural en unos tiempos marcados por la crisis económica, la corrupción institucional y la irresponsabilidad económica del último escalón del entramado laboral español.  Las problemáticas amorosas, la rebelión contra los jefes y la reflexión sobre lo vacuo de las posesiones materiales se respiran dentro de un filme que nos invita a acercarnos al lado más instintivo de la vida. Sin embargo, si bien enfoca su punto de vista en la fuerza que emerge de los más puros e irracionales sentimientos, por los que se acaban moviendo sus protagonistas, incide reiteradamente en la irremediable consecución de la mentira.
Quizás este nuevo proyecto de Bollaín peque de incredulidad en algunos aspectos, lo estereotipado de las amistades de Alma, algunos comportamientos resignados de Rafa, las casualidades temporales que fuerzan el melodrama o una resolución en tierras alemanas ausente de consecuencias penales. Sin embargo, al igual que su joven protagonista, la pasión con la que se irradia la fuerza de lo narrado con su pensada construcción de personajes, al igual que el uso de la música capturando escenas poderosas, nos dejan una película arrebatadamente emocional que arrolla la sensibilidad de un público dispuesta a disfrutar de esta hermosa aventura.

No cabe duda de que estamos ante un producto bienintencionado y agradable. Una de esas fábulas quijotescas en las que un héroe algo loco, con entusiastas ganas de cambiar el mundo, se enfrenta a una empresa utópica que le viene grande, con las que resulta casi imposible no empatizar. Sin embargo, sería injusto no reconocer que el guion de Paul Laverty –que tan preciso se mostró en su escritura de También la lluvia– incurre en determinadas trampas, más propias de un principiante, a la hora de tratar de tocar la fibra sensible a toda costa. Desde el uso repetitivo de los flashbacks para mostrarnos la especial relación que abuelo y nieta mantenían con el olivo de la discordia, hasta una visión un tanto buenrollista de la solidaridad que esta historia de la cruzada de Alma contra la multinacional alemana que tiene prisionero a su árbol despierta en la opinión pública, sensibilizada a través de las redes sociales. Estos puntos débiles de El olivo no restan un ápice de contundencia a su abierto mensaje ecologista, sus apuntes acerca de la globalización y el capitalismo, y, sobre todo, su certero reflejo de las consecuencias de la crisis inmobiliaria en la sociedad española, a través de la familia protagonista, totalmente desestructurada después de hipotecar sus vidas en un negocio que se fue a pique. Puede que sea la obra menos redonda de Bollaín desde su ópera prima pero, con ello, se trata de una propuesta de lo más emotiva y estimulante, inspiradora y con conciencia social, que conserva una gran coherencia dentro del intachable currículum de la cineasta madrileña.

El drama y la comedia se rotan cada cierto tiempo durante la hora y cuarenta minutos que dura este viaje que sin duda engrandecerá el nombre de su directora. Icíar Bollaín junto a su guionista Paul Laverty compone un relato muy original y novedoso que cala hondo y nos deja huella como el olivo en el recuerdo del abuelo. Con una fuertes raíces se agarra a nosotros y no nos suelta hasta que vemos los títulos de crédito. Una mirada hacía el medio ambiente con optimismo representada en la lucha y el activismo ecologista  en confrontación con las grandes empresas responsables de auténticos desastres en la naturaleza. Es ilógico que tengan un árbol como logotipo y después en la sombra estén deforestando zonas inmensas del planeta. En cierta manera se está condenando el expolio que hace ciertos años se hizo en nuestro país de estos característicos árboles orgullo de nuestro país…