domenica 30 aprile 2023

La casa dei libri – Isabel Coixet

protagonisti del film sono i libri, una libreria in una piccola cittadina sul mare, e gli umani che ci girano intorno,

erano anni in cui i libri riuscivano ancora a scandalizzare, Lolita per esempio, e una piccola libreria diventava uncontropotere in una società chiusa e abbastanza schifosa.

il film non è un capolavoro, ma si fa voler bene.

buona (libresca) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Un film che sa ricostruire le atmosfere dell'epoca, le tipiche conversazioni affettate e quelle valenze sociali di un piccolo paese in cui tutti conoscono tutti. I personaggi e le loro passioni emergono a tutto tondo, aiutati da con un cast di attori valenti, fra cui spicca l'interpretazione di Bill Nighy (il misantropo e colto Will Brundish). Tratto da un romanzo di Penelope Fitzgerald e diretto da Isabelle Coixet, si costruisce un'opera minimalistica, gradevole e delicata, di cui ogni tanto il pubblico avrebbe bisogno.

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Alla linearità dell’intreccio si affianca una regia coerente: inquadrature terse, tendenzialmente statiche, simili a cornici centrate su sfarzosi interni o incantevoli paesaggi in cui si sviluppano puntuali dialettiche di campi e controcampi. Proprio nella conturbante fotografia di Jean-Claude Larrieu, costruita su un raffinato gioco di toni bruni, grigi e azzurri, risiede forse il maggior punto di forza del film. In quest’idea di regia classicheggiante, linda e simmetrica, spiccano con forza i volti e i gesti degli attori, che purtroppo non riescono ad infondere vita nei personaggi stereotipati disegnati dalla sceneggiatura, più simili a maschere che a individui reali: nell’immaginario villaggio di Hardborough (nomen omen), una linea netta divide buoni e cattivi, aiutanti e oppositori. I personaggi aderiscono insomma a funzioni palesate sin dalla prima sequenza, ribadite dalla voce narrante, cristallizzate in un manicheismo morale tanto nitido quanto implausibile. "La casa dei libri" vorrebbe forse essere la cronaca drammatica di un intimo eroismo, oppure una critica storica del filisteismo (o entrambe), ma in questa crisi d’identità filmica finisce per assomigliare paurosamente a un'elegia che vibra sulle note di un patetismo stucchevole. L’impressione è accentuata da alcune scene (malinconici dialoghi seguiti da malinconici abbracci sulla malinconica spiaggia) e dalla colonna sonora, eccessiva nella misura e inopportuna nelle scelte formali (ad esempio, il pianto accorato dei violini che duplica quello della protagonista).

Per contro, le intenzioni erano buone: "La casa dei libri" è un garbato omaggio alla letteratura e agli amanti dei libri. Coixet insiste soprattutto sulla lettura come pratica di emancipazione dalle convenzioni sociali, mettendo in risalto capolavori come "Fahrenheit 451" e "Lolita". Tuttavia, al film manca la carica eversiva che sembra invocare, e annega in un pantano di cliché audiovisivi e topoi narrativi che lo rendono prevedibile, impersonale, e in ultima analisi carente.

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Coixet adotta una regia pulita e ordinata che ben si sposa con il contegno così egregiamente british degli attori. La macchina da presa scivola languidamente sulle mensole degli scaffali, facendo scorrere un libro dopo l’altro, e riserva lo stesso trattamento ai personaggi. Ognuno di loro viene introdotto prima da lontano, dietro l'imperscrutabile cortina di sorrisi tirati e rigoroso understatement. Poi, a mano a mano che la storia si dipana, ecco che la silhouette di ciascuno prende forma e diventa “persona”, nel senso etimologico del termine, nel significato originario di "maschera". Perché in effetti ognuno di loro rappresenta un attore, una pedina da spostare in questo dramma ricamato, a regola d'arte, di inganni e tradimenti. 

Questo film è, a ben vedere, interamente costruito sui libri, e non solo perché si basa su un testo che nasce originariamente come fiction novel, ma perché è letteralmente popolato di libri, visivamente e semanticamente. I libri diventano, come suggerisce la voice-over in incipit, i mattoni e il cemento, le fondamenta su cui edificare la propria esistenza. Ci sono i grandi classici scritti da Jane AustenOscar WildeDickensKeats e Thackeray. Ma ci sono anche le novità, che, come ogni novità, quando arrivano rompono la quotidianità, suscitando scalpore. Libri che, nel tempo della storia (siamo il 1959) ebbero un impatto decisivo non solo sul panorama letterario dell’epoca e sull’arte dello scrivere, ma anche sull’opinione pubblica internazionale. Romanzi, soprattutto, come Fahrenheit 451 di Ray Bradbury e Lolita di Vladimir Nabokov, assunti come padri nobili del potere della letteratura, intesa come capacità di creare mondi alternativi alla realtà sia su carta che su pellicola.

La casa dei libri infatti porta avanti il significato più profondo di un testo che mette in guardia dal pericolo strisciante della censura, una caccia alle streghe che si alimenta nelle fiamme del rogo. Florence è la prima vittima di questa caccia alle streghe perché rappresenta la libertà di pensiero in carne ed ossa, lei che va avanti a testa alta nonostante tutto e tutti stiano cercando di ostacolare il suo sogno. Ed è esattamente la sua ostinazione ad innescare lo scandalo, come la vetrina tappezzata dalle copertine di Lolita. Un libro pubblicato più di sessant’anni fa e che tuttora non smette di far discutere. Un libro, soprattutto, che è riuscito ad aprire una breccia nella sonnolenza intellettuale e che di conseguenza è, ancor oggi, più che mai necessario. Non è forse questa, infatti, la missione ultima della letteratura?

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sabato 29 aprile 2023

November - I cinque giorni dopo il Bataclan - Cédric Jimenez

un film sul fallimento dei servizi segreti e della polizia contro un gruppo di terroristi capaci di sfuggire alle maglie dell'antiterrorismo.

Cédric Jimenez non si interessa dell'attentato del Bataclan, dei morti, del sangue, gli interessa ricostruire quello che succede dopo, le enormi difficoltà a stare dietro a quel gruppo di terroristi che sembrava invincibile, con una struttura semplice, ma impossibile da scoprire in anticipo, e neanche dopo, per un po'.

e poi appare Samia (la sempre bravissima Lyna Khoudri), che riesce, a rischio della vita, e delle incomprensioni, a dare l'aiuto decisivo per venire a capo di un puzzle impossibile da risolvere.

bravissimi, e molto umani, Sandrine Kiberlain (Héloïse), Jean Dujardin (Fred), Anaïs Demoustier (Inès).

il ritmo e la tensione non calano mai, e si rinnovano per ogni ipotesi nuova che viene presa in considerazione.

il film è del 2022, in poche sale, i 106 minuti da dedicargli sono davvero ben impiegati.

buona visione - Ismaele

 

 

 

Questo film è un film sperimentale. Perciò audace. Perché di una tragedia che per un Paese, un popolo, un sentire, è un nervo ancora, sempre e probabilmente in eterno scoperto guarda non la tragedia in sé, bensì la sua spazializzazione

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Con November – I cinque giorno dopo il Bataclan il regista Cèdric Jimenez porta sullo schermo un ritratto doloroso di un evento che ha colpito non solo le persone, ma una nazione intera. Lo fa proponendo un thriller interessante, emotivamente ed emozionalmente, con una sceneggiatura strutturata alle spalle. Pone lo sguardo non sulla strage stessa, ma sulla ricerca degli uomini che l’hanno compiuta e sulla squadra investigativa che li ha cercati…

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…Le psicologie dei componenti dell'unità vengono messe in rilievo con i giusti accenti e notazioni. Ciò che però diviene di particolare interesse e che fa in qualche misura prendere a questo film le distanze rispetto ad analoghe ricostruzioni di altri avvenimenti, è il rapporto con una testimone. Si tratta del personaggio interpretato da Lyna Khoudri, una giovane donna musulmana che rivela alcuni elementi a proposito degli attentatori che coloro che indagano faticano ad accettare come veritieri. Se una degli agenti dell'intelligence è disposta a darle fiducia per altri prevale il suo essere musulmana e quindi, di conseguenza, il sospetto che si stia prestando deliberatamente ad un depistaggio. Si tenta di coglierla in contraddizione e, una volta riusciti nell'impresa, la si considera  inattendibile sino a trattenerla in detenzione. 

Ecco allora che la ricostruzione di un fatto che ha tragicamente segnato la storia recente si allontana dalle scene di irruzione o di organizzazione strategica già viste altrove per porre un problema che riguarda non solo l'intelligence francese ma tutte le agenzie demandate a cercare la verità per giungere alla cattura dei colpevoli. Quando il pregiudizio prevale sulla razionalità anche le equipe professionalmente più competenti rischiano di cedere finendo con il perdere di vista i loro veri obiettivi. Divenendo così involontariamente ma anche un po' colpevolmente complici di coloro che vorrebbero e dovrebbero combattere.

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…Il regista fa trasudare tutto questo: la responsabilità profonda che ognuno sente per il proprio ruolo di fronte alla difesa del Paese, insieme allo smarrimento e all’angoscia nell’eventualità di prendere piste false. Le riprese sono alternate tra movimenti di macchina chiari, con lo stile delle serie tv statunitensi sulle unità anticrimine, e riprese da videocamere a infrarossi poste sugli elmetti dei soldati, o dall’alto in notturna con droni. Il ritmo serrato è dunque agevolato dal punto di vista della macchina da presa, ma non vuole limitarsi a quello.

Traspare chiaramente in November il sentimento del regista che vive le emozioni dei personaggi che riprende, che empatizza con la paura, il desiderio di riuscita e, forse per alcuni aspetti, l’ammirazione per l’eroismo di chi ha scelto un mestiere che con ottime probabilità espone a una morte violenta. November pone molti interrogativi, e riesce a far osservare quei fatti partendo dalla prospettiva di chi mette la propria umanità fallibile al servizio della possibilità di salvare vite umane e arginare problemi di proporzioni mondiali. Ma riesce a farlo senza patriottismo e, piuttosto, con un ottimo andamento registico e narrativo.

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venerdì 28 aprile 2023

Dheepan – Jacques Audiard

nell'inferno della guerra in Sri Lanka, in un campo profughi, arriva l'occasione da non perdere, trasferirsi in Europa.

però bisogna essere una famiglia, e allora famiglia sia.

Dheepan, Yalini e Illayaal sono catapultati in Francia, non proprio vicino all'Arco di Trionfo o a Montparnasse.

vengono spediti in un quartiere di spacciatori e delinquenti, e devono (ri)costruirsi una vita.

incomprensioni, violenze, paure sono all'ordine del giorno.

e l'incubo della guerra non lascia mai Dheepan.

e alla fine ce la faranno, ma mica era scontato.

ottimo film, quando c'è la mano di un Audiard.

buona (tormentata) visione - Ismaele


 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 


Qualsiasi storia nel cinema di Audiard per raggiungere il paradiso del sentimentalismo, quella punta emotiva che suscita nello spettatore l'irrazionale sensazione di partecipazione alle vicende dei personaggi, deve passare per l'inferno della violenza. Come se le due forze fossero inscindibili nei suoi film si attraggono a vicenda: gli atti violenti o criminali chiamano amore e ogni amore per concretizzarsi prima o poi richiede di essere legittimato dalla violenza, altrimenti sembra non poter essere davvero tale.
Destinato a mettere a confronto e a sovrapporre questi due estremi, questa volta Audiard decide di eliminare ancora più del suo solito il primo livello di comunicazione. I protagonisti di Dheepan fanno molta fatica a parlarsi, non solo spesso non si capiscono per problemi di lingua ma anche quando parlano lo stesso idioma è come se non riuscissero ad essere chiari gli uni con gli altri. In un cinema in cui l'unica legge che conta è quella dei corpi, strusciati o impattati, non sarà mai con le parole che si potrà risolvere qualcosa, in storie in cui l'unica verità è quella espressa dagli istinti non è con il ragionamento che si può cambiare la propria vita…

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Dheepan se mueve entre la poesía romántica de Garcilaso y el pesimismo prosaico de Steinbeck. Tras la gran sorpresa inicial y al margen de comparaciones que, a estas alturas ya resultan del todo innecesarias, ha llegado el momento de hacer balance y reflexionar para, fríamente, argumentar si la última ganadora de la Palma de Oro merece la severidad crítica con la que está siendo tratada desde que se conoció la decisión del jurado. No podemos olvidar la amplitud semiótica de la que hace gala el trabajo de Jacques Audiard. El concepto de multitrama es llevado a un elocuente y metafórico nivel de expresividad dramática, mientras las diferentes subnarraciones penetran como espadas afiladas dentro de la gran línea narrativa principal con una fluidez incontestable. Si de algo puede presumir Dheepan es de un manejo absoluto de la oratoria visual y la dialéctica argumental. Recordemos si no esa escena en la que el protagonista, que toma el nombre directamente del título de la película en una reivindicación empírica de prioridades, pasea por las oscuras calles francesas engalanado con una ridícula diadema. La imagen muestra su figura multiplicada, ofreciendo el primer juego de identidades al tiempo que la cámara nos acerca hasta un primer plano, para descubrir un severo semblante que contrasta con la absurda estampa propiciada por el luminoso corazón de plástico sobre su cabeza…

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…Sospeso tra dramma sociale, melò e noir, Dheepan – Una nuova vita propone uno sguardo insolito sull’immigrazione, da premiare solo per il suo coraggio. Il tema, infatti, è solitamente foriero di opere di grande respiro, narrate con solennità, e dall’aspirazione al ritratto ad ampio raggio: le dinamiche più piccole, quelle delle implicazioni dello sradicamento sulla quotidianità, e persino degli affetti e della sfera sentimentale, vengono di solito lasciate in ombra dal cinema. Ben venga, allora, un’opera che non ha problemi a maneggiare la materia del melò, a presentare le contraddizioni di un’affettività prima negata, poi forzatamente (e spietatamente) costretta alla finzione. Il dramma di Dheepan, Yalini e Illayaal è quello di tre individui che (loro malgrado) cercano di ricostruire ciò che la loro condizione ha negato loro.

Audiard presenta vicenda di queste tre anime con uno sguardo oscillante tra il fuori e il dentro, tra un nucleo solidale da ricostruire e un contesto che gradualmente rivela le sue analogie con quello appena lasciato. La violenza, per tre quarti di film, è lasciata fuori campo, o addirittura esplicitata solo a metà, in sequenze visivamente sfocate: anche questa è una scelta estetica precisa, in un’opera che sceglie di concentrarsi soprattutto sulle dinamiche interne del nucleo “familiare” al centro del suo racconto. Solo nella sua ultima parte, il film recupera l’attitudine noir dell’autore, e la sua conoscenza e padronanza del gangster movie, in un’accelerazione narrativa che scuote lo spettatore e l’opera. La regia, per quanto fluida e dal buon ritmo, non è priva di aperture oniriche e di momenti di grande eleganza figurativa, in un buon equilibrio tra essenzialità e cura formale…

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La violencia es otro de los elementos característicos del cine de Audiard, una violencia que siempre está presente en el ambiente y que acabará marcando las resoluciones finales de sus protagonistas, que se verán abocados a ella para poder liberarse, para poder continuar con sus vidas. En el caso de Dheepan la violencia está representada en la banda de traficantes de droga que domina los bloques de vivienda donde él ejerce de portero. Este espacio se irá convirtiendo en un campo de batalla, donde los sonidos y las imágenes violentas remiten a aquella guerra de la que huía la familia protagonista. La “explosión” violenta de Dheepan hacia el final recuerda el desenlace de Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976) donde el también veterano de guerra (en aquel caso de Vietnam) Travis Bickle encarnaba violentamente todos los recuerdos, traumas y heridas de una guerra de la que no podía librarse…

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giovedì 27 aprile 2023

La flaqueza del bolchevique - Manuel Martín Cuenca

Maria (Valverde), una ragazzina di 14 anni, è la giovane Lolita del film, che strega, senza volerlo, Pablo (Luis Tosar).

Pablo vuole rompere le scatole, per divertimento e vendetta, alla sorella di Maria, dopo uno stupido incidente stradale, e Maria appare, e lo incanta.

e Pablo non capisce più niente, vuole stare con quella ragazzina, come se lui fosse un ragazzino innamorato perdutamente.

i due diventano sempre più vicini, non possono non pensarsi, non possono non stare insieme, con tutte le precauzioni del caso, e quando il film potrebbe diventare un film lolitesco romantico stucchevole, con una virata inattesa, il film diventa una tragedia greca classica, e il dramma è servito.

grandi interpreti per un gran film.

cercatelo e soffritene tutti - Ismaele

  



 

 

Manuel Martín Cuenca adaptó una novela de Lorenzo Silva en esta película que crea con estilo y mesura vínculos intensos sobre destino y obsesión en una relación especial de edad dispar.

El film, con interpretaciones plausibles y algunos diálogos de mérito, podría resultar un notable estudio psicológico de personaje solitario, frustrado, desilusionado, obsesivo, pero termina siendo efectista, no careciendo de tópicos en la caracterización de personajes y resultando escaso en la complejidad de sensaciones que prometía su premisa.

La trama se desentiende de caracteres clave, le falta densidad emocional e incisión en la perturbación. A pesar de ello, no resulta un film despreciable.

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Appropriately enough, from Rioja Productions comes a movie that’s a good example of new wine in a very old bottle. Fixation of respectable fortyish businessman on schoolgirl after coup de foudre love-at-first-sight. All following a minor car crash that leaves the grille of his car dented: VW askew. Tragic consequences for all concerned. American Beauty scenario Tosars Pablo even plays loud rock in his car, looks a little like Spacey from certain angles. Twists : (1) he’s not married. (2) he’s not especially sympathetic (dog-faced Tosar also looks a little like Ross Kemp). Something of a creepy pervert when he loses his self-control. (3) Shes more than a match for him. The Bolsheviks weakness was for a pretty face, and Valverde shows real star quality in debut role (justifies the and presenting credit among opening titles that’s usually a reliable kiss of death to a young career.) Hes a bit of a blank, but she’s luminous: something of a young Kate Winslet, with fiery Winona Ryder eyes blazing when she’s roused. Lifts movie whenever she’s on screen, which isn’t enough. Unhurried movie, many longing looks accompanied by melancholy piano. Uncluttered visuals in character-study two-hander. Somewhat underpowered, though this is really setting us up for the violent finale (his comeuppance?) all the more jarring/numbing. In retrospect, occasionally daft convolutions of plot have in fact been part of a noirish inevitability. Nothing amazing, but does what it does pretty well.

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mercoledì 26 aprile 2023

El mundo sigue - Fernando Fernán Gómez

come nel neorealismo italiano, anche nel neorealismo spagnolo i panni sporchi non si lavavano in famiglia.

il neorealismo spagnolo è ancora più cupo, i bambini fanno la fame, le famiglie non sono unite, il lavoro è quasi una schiavitù, tempi duri quelli del franchismo.

ottimi attori, con Fernando Fernán Gómez regista e anche uno dei protagonisti, in un film che fa sempre la sua ottima figura, un gioiellino da non perdere.

buona (disperata) visione - Ismaele

 

 

…Fernán Gómez adapta la  novela de Juan Antonio Zunzunegui pero la censura de Arias Delgado hace imposible que ese guion se pueda llevar a la pantalla. Tras el cambio de ministro Fernán Gómez se entusiasma pensando que va a tener muchísimos apoyos pero es todo lo contrario, no encuentra financiación y tiene que poner todos sus ahorros para poder rodarla. Al ser maltratada por la censura enseguida se convierte en una película maldita y cae en el mas absoluto olvido.
La película representa todo lo contrario que el régimen quería mostrar, la pobreza y miseria de un país que hacia cualquier cosa por sobrevivir, Un mundo de injustica e hipocresía. Nuestros ojos se quedan clavados en la pantalla ante tanta violencia, apenas hay esperanza para sobrevivir y nos quedamos helados ante tanta bajeza humana.
Fernán Gómez consigue mezclar un cine amargo con el surrealismo de Berlanga para enseñarnos las miserias de las personas, nos hace sentir incomodos a la vez que comprobamos como se nos encoge el corazón.
Todas y cada una de las actuaciones son inolvidables, no hay un solo papel que esté por debajo del resto, todos mantienen el tipo, nos emocionamos y odiamos con los personajes.
Si hay que poner alguna pega a la película pondría la duración, unos 10 o 15 minutos de menos hubiera sido perfecto para una película prácticamente redonda.
Sin duda El Mundo Sigue es una de las mejores películas españolas de todos los tiempos, quien no se  emocione viendo está película es que no es de este planeta. Esperemos que este reestreno ponga al film donde se merece.

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Qué decir hoy, a 50 años justos de su estreno (y 52 de su realización), de un film tan redondo, meditado y valiente (también, tan maldito: fue arrojado al infierno de los circuitos de estreno marginales por una Censura tan airada como, en el fondo, efectiva) como este, para quien esto escribe, el mejor de Fernando Fernán-Gómez. En primer lugar, resaltar su coherencia. FFG logró, con los años y a pesar de los altibajos, construir una filmografía del todo personal, que lo conecta con el amplio partido de los francotiradores, los directores fuera de cánon: el mejor de los partidos, desde el punto de vista estético, de la historia del cine español. Luego, su atrevimiento: ahí es nada premiar a una heroína que, digámoslo claro, se ha prostituido en su ascenso social, mientras condena a su contra-cara, su hermana reprimida, a un final tan atroz como, en el fondo, ejemplarizante.

Luego, el envolver formas del espectáculo popular, tan acendradas entre el público (el costumbrismo, el melodrama) con una mirada casi behaviorista, distante, pero no desinteresada. Y por último, ser capaz, con un material tomado nada menos que de un escritor en origen falangista como Zunzunegui, de trazar uno de los cuadros morales más aterradores e inmisericordes jamás realizados por el cine español de la España del Franquismo.

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martedì 25 aprile 2023

Diamond Flash - Carlos Vermut

un film misterioso, tratto da una sceneggiatura dello stesso regista, già disegnatore di fumetti.

un film a episodi, con qualcosa in comune, che si ripete.

un vendicatore cerca di avere tutto sotto controllo, una specie di superman (cattivo?, chissà) che interviene a risolvere i problemi che si presentano.

protagonisti sono sopratutto donne, in storie complicate.

Carlos Vermut è alla sua opera prima, in un film sorprendente.

buona (enigmatica) visione - Ismaele 

 

 

 

Al suo esordio Vermut, che sceneggia, fotografa e coreografa anche, mostra già doti non comuni. In primis la cura formale che si sposa con un rigore visivo degno del cinema classico (ed è una gran cosa, in tempi come i nostri). Ma anche il plot - che si prende i suoi tempi - è ben scritto e curato, riuscendo a regalare qualche sussulto nelle sue svolte narrative e un buon grado di coinvolgimento. Grande la capacità di costruire una storia apparentemente disordinata, da costruire come un puzzle: a poco a poco. Gustoso.

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Se podrá acusar al debut cinematográfico de este autor de cómics de muchas cosas, pero ciertamente no de tomarse a la ligera su opera prima. Personalmente, no me gusta ni el cartel ni el tráiler de la película: y sin embargo el filme me parece una obra extraordinaria de principio a fin, incluso en todo aquello que puede llegar a causar irritación en un espectador no avisado (como lo era yo, a fin de cuentas).

Cierto: la película dura ciento treinta minutos y son básicamente personas hablando. Cierto: uno puede cerrar los ojos en algunas escenas y seguir perfectamente el hilo de la narración. Falso: Diamond Flash es una película cualquiera. No, no lo es.

Para empezar, no parece una primera película: da la impresión de que su director se haya dejado el alma en ella y cuente para ello con un bagaje cinematográfico mucho mayor. En primer lugar, el ingenioso juego argumental ha sido pergeñado con una laboriosidad, delicadeza e inteligencia que no son habituales: pocos directores avezados son capaces de abrazar la tragedia y el drama con tal desparpajo y sutileza (sólo Lars von Trier se atrevía a cruzar esos espinosos parajes y salir indemne) o de confiar tanto en la capacidad perceptiva de su público: y el intrincado mimbre funciona.

En segundo lugar, la dirección de actores es sencillamente EPATANTE: jamás había visto un ramillete de caras poco conocidas en un largo autoproducido dar tanto ante la cámara y de manera tan genuina.

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Diamond Flash es una cinta atípica. Atípica para el cine español, se entiende. La crítica no ha dudado en catalogarla dentro de un terreno algo pantanoso, el mal concretado underground patrio, que goza de sus más claros exponentes en el apocado cine vanguardista del tardofranquismo, en la primera y más díscola etapa de Almodóvar o en el par de películas que dirigiera el malogrado Iván Zulueta. No niego la correspondencia –más que influencia- de cierta cultura trash entre cintas como Arrebato (1980) y Diamond Flash, pero creo que la película de Vermut coincide de una manera mucho más plena con el mumblecore norteamericano, esto es, tanto en una creatividad experimental que llega a planear sin complejos sobre el esnobismo, como en una economía productiva de guerrilla…

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lunedì 24 aprile 2023

Il sol dell’avvenire – Nanni Moretti

un regista, Giovanni, che ha una somiglianza incredibile con Nanni Moretti, è alle prese con i problemi della vita, il rapporto con la moglie (ma lui non si accorge che c'è qualche problema), il finanziamento del film (vade retro Netflix!), la direzione degli attori e l'apertura ai dubbi sullo sviluppo del film, l'etica e l'estetica del cinema, fra le altre cose.

Il sol dell’avvenire è un film ricco, denso, impossibile annoiarsi.

alcune scene sono molto divertenti, altre commoventi, gli attori cambiano il film, si immedesimano così tanto nei personaggi che non vogliono aderire a un ruolo indecente, realtà e fantasia si sovrappongono, al punto da riscrivere la storia, e ipotizzare cosa sarebbe successo se...

e intanto il regista pensa anche a un film fatto di canzoni, la storia di due ragazzi che crescono e hanno i bambini, vivendo di canzoni e cinema.

e nel film ambientato nel 1956 irrompe la musica dell'immenso Franco Battiato e allora tutto può succedere, per esempio che i militanti del PCI siano più avanti dei loro dirigenti, e cambiano la storia.

non perdetevi Il sol dell’avvenire, andate al cinema e godetene tutti.


ps1: se ne avete voglia di vedere (o rivedere) il penultimo film di Nanni Moretti, su Raiplay c'è Tre piani

ps2: chi conosce la serie Mare fuori, (ri)troverà un'attrice conosciuta




 

 

I dubbi di Moretti sul cedere o sul resistere alla propria indole, o sull’abbandonarsi o meno a un cinema che non sarà mai più il suo, si rispecchiano probabilmente nei tormenti di chi, come il protagonista del film nel film interpretato da Silvio Orlando, nel 1956 si chiese se abbandonare o no il PCI che non aveva condannato l’imperialismo sovietico. Come altri film di questo periodo (I pionieriQuando), anche Il sol dell’avvenire indugia nella nostalgia della storia, ma lo fa in virtù dell’inevitabile protagonismo del suo autore, condannato dalla sua, di storia, a interpretare sempre e comunque sé stesso. Moretti riscrive perciò il passato perché ha bisogno di un atto di esistenza, più che di resistenza. Tra il caos di voci, lingue, spunti e idee sul mondo (e tra la folla di tutti i suoi personaggi e di tutti i loro interpreti), afferma il diritto, o l’arroganza, o semplicemente il piacere, di dire ancora la sua. Di dire «non mi piace», di dire cosa lo rende felice.

Anche se il cinema non esiste, o non esisterà più.

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Il sol dell’avvenire ci dice che esiste un tempo – che è quello del cinema, e quello della vita – che si costruisce e si distrugge ogni volta, ma che tiene insieme tutto. Un tempo per ordinare, scompaginare, andare in crisi, ricominciare, piangere, lasciarsi, schierarsi, ripensarci, ammorbidirsi, ballare. Un tempo che, appunto, è un campo dove mettere dentro tutto, come fa questo film che non vuole trovare un registro, un ritmo, un fuoco: c’è tutto, tutto insieme. La crema allo zenzero e gli antidepressivi, i sabot e il suicidio, le piscine e le distrazioni da smartphone, la Storia fatta con i “se” e il quartiere Mazzini, la tragedia greca e il musical, la tessera del partito e la lampada rossa in una casa presa in affitto, i riti che possono finire e il camminare sopra corde tese, le lacrime e i silenzi, entrambi d’amore, sempre. C’è Nanni, ci siamo noi.

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L’intelligente ironia raggiunge altissime vette in due momenti topici: il primo è l’incontro con i due delegati Netflix, un confronto nonsense in cui ripetono in loop che le loro produzioni sono viste in 190 paesi e che il suo film non ha momenti “Wow!” momenti “what a fuck”.
Il secondo è quando interrompe l’ultimo ciak del film prodotto da Paola, una scena molto violenta.
Qui il regista Giovanni lascia il passo al regista Nanni Moretti in una vera e propria esplosione verbale:
“Tu accechi il male illuminandolo. Da anni siete tutti in preda ad un incantesimo: vi risveglierete piangendo e capirete quello che avete combinato”.

Moretti non vuole davvero salire in cattedra ma pone un problema etico che è intimamente connesso con la prassi cinematografica, alle teorie della morte umana sullo schermo e a ciò che André Bazin dichiarava come oscenità. Non sceglie il lamento facile della morale filmica infranta ma invita a riflettere, a porsi domande continue sul come fare cinema perché senza domande quest’arte rischia di perdersi.

Perdersi sì, e anche ritrovarsi, lungo la marcia finale, così rumorosa e felliniana, composta dai volti dei suoi attori ricorrenti che lo hanno aiutato a costruire il suo percorso autoriale.
L’avvenire – il suo ed il nostro – è una grande incognita ma il regista sorride, saluta il suo pubblico con un gesto affettuoso e riconoscente, va per la sua strada ovunque lo porterà.

Questa è la storia: che sia d’amore, di morte o di impegno politico, può essere anche fatta con i se.
E i se, al cinema, possono essere riscritti in tempi e luoghi più congeniali, più veri del vero.
What a fuck!

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Con Il sol dell’avvenire si ha dunque la sensazione primaria di aver assistito sì al tanto atteso erede spirituale (e nella forma) dei suoi capolavori semi-autobiografici più genuini, ma anche al testamento artistico di un cineasta che ha saputo costruirsi negli anni e con grande talento, innovazione e consapevolezza una carriera senza compromessi, uguale a se stessa eppure sempre nuova e sorprendente. Alla soglia dei settant’anni, Nanni Moretti ha saputo quindi confezionare un vero e proprio film-contenitore capace di chiudere i conti con i suoi alter-ego del passato, con i personaggi, i luoghi, le ossessioni e le militanze politiche che da sempre lo hanno contraddistinto ed impresso nell’immaginario collettivo di un’Italia in fermentosa trasformazione politico-sociale da quarant’anni a questa parte.

In definitiva, Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti è il film perfetto per il regista ed attore romano per fare finalmente i conti con se stesso e la sua idea di cinema, confezionando un sorprendente lungometraggio-testamento in cui chiude idealmente un cerchio artistico con tutta la sferzante ironia e la causticità che lo hanno reso nel tempo uno dei più rispettati cineasti nella storia del cinema nostrano. Bentornato Nanni Moretti, e arrivederci!

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…In linea generale, Il Sol dell’Avvenire resta attualmente il film più generoso nella filmografia di Nanni Moretti, un’opera apertamente, deliberatamente amorevole nei confronti del pubblico, compresi quelli che aspettavano con impazienza il momento di ritrovare l’ironia e il sarcasmo degli esordi, seppur declinato in armonia con lo spirito e la confusione del presente.

Deliberato non è solo il ritorno di Moretti alla poetica della prima fase, da Io sono un autarchico ad Aprile, ma anche l’omaggio al cinema di Federico Fellini, declinato attraverso l’arrivo del circo ungherese nel Quarticciolo, ma soprattutto il finale de La dolce vita, proiettato su grande schermo, letteralmente tra passato e futuro.

Moretti in questa sequenza siede nelle ultime fila con l’ormai ex compagna, mentre in primo piano ci sono i due giovani attori, Blu Yoshimi e Michele Eburnea, protagonisti della terza linea narrativa, il “film con le canzoni”, alter ego dello stesso regista e del suo personale conflitto con i sentimenti e l’incomunicabilità.

E se il regista ha ceduto questa volta alla tentazione romantica di riscrivere la Storia, quantomeno rispetto almeno ai fatti strettamente legati al PCI, qualunque paragone con Quentin Tarantino, o magari Paul Thomas Anderson, resta essenzialmente forzato.

L’approccio radicalmente personale e personalistico è e resta la chiave di volta del cinema di Nanni Moretti. Per i fan e gli estimatori, si tratta anche dell’elemento che determina la sua assoluta unicità nel panorama della Storia del Cinema italiano.

Per i detrattori, che potrebbero piuttosto imputargli momenti di scarso rigore formale, resta invece il detonatore di antipatie incontrollate, incontrollabili, tanto acritiche quanto dure a morire.

Qualunque sia la vostra fazione, si tratta comunque uno dei suoi film più luminosi, poetici e centrati. Quindi, non possiamo che invitarvi a vedere in sala Il Sol dell’Avvenire, in uscita in 500 copie questo weekend, prima del passaggio al Festival di Cannes.

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domenica 23 aprile 2023

Non ci sono film belli - Alessio Galbiati

Non ci sono film belli, non ci sono film brutti, non ci sono film riusciti, non ci sono film falliti. Ci sono le storie, solo le storie, semplici racconti che si raccontano con la macchina da presa, dunque con le immagini, delle volte con i corpi, spesso con il suono e assai di frequente con la musica. Cosa sia un film non è (ancora) un dato certo e incontrovertibile. Fintanto che non siamo in grado di capire il significato in apparenza casuale della nostra presenza nell’universo, fintanto che non siamo in grado di cogliere il significato stesso dell’universo, che dicono sia in continua espansione e denso di una materia incomprensibile che chiamiamo “oscura”, potremmo ipotizzare, per esempio, che i film siano dimensioni parallele da vivere attraverso l’esperienza della visione. Realtà virtuali accessibili tramite la tecnologia dell’emozione, del trasporto sentimentale, dell’empatia. I film sono storie, antenati diretti del teatro e delle forme “oscure” che l’hanno preceduto e anticipato milioni di anni fa. Siamo in fondo sempre dentro la stessa caverna, sempre pronti allo stupore delle fiamme delle torce. Torce di celluloide, digitali, di carta come un libro. Davanti a un film siamo il bambino che vuole che gli si racconti una storia, davanti a una serie siamo quello stesso bambino che vuole che gli si racconti ancora un’altra volta quella stessa storia che ama così tanto. Il cinema è raccontare una storia, il cinema è ascoltare una storia. Tutto il resto è un piccolo gioco di società al quale si potrebbe anche smettere di credere. Perché amiamo così tanto le storie? Forse per dimenticare tutto quello che non sappiamo, per credere con più tenacia all’oscurità che ci avvolge per miliardi di anni luce.

 

 

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sabato 22 aprile 2023

L’uomo ferito - Patrice Chéreau

una storia che sembra di Fassbinder, invece è Patrice Chéreau, che dirige un film inquietante, vivo, sorprendente, con attori bravissimi (sarà anche merito del regista, no?).

film di sguardi, e azione, Henri (Jean-Hugues Anglade) incrocia Jean (Vittorio Mezzogiorno) e ne resta affascinato, e la sua vita cambia per sempre.

cercatelo e godetene tutti - Ismaele

 

 

QUI il film completo, sottotitolato in spagnolo

 

 

Capolavoro drammatico, che all'epoca fece scalpore per l'immediatezza delle immagini e per alcune sequenze d'amore fra due uomini rappresentate senza troppi veli e incorniciate da una fotografia altamente suggestiva. Il regista rappresenta con estrema crudezza e realismo e con grande vigore espressivo la storia drammatica d'amore dei due protagonisti. Considerato un film importante della carriera di Chereau. Grande prova di interpretazione del compianto Vittorio Mezzogiorno.

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Rincorrendo un giovane cinico, un ragazzo scopre un mondo notturno di marchettari e clienti. Dire che è il racconto di un'umanità alla deriva è poco. La livida fotografia riflette una storia cupa di naufraghi dell'esistenza, monadi che si inseguono alla ricerca del sesso come surrogato di un'impossibile comunanza d'affetti. I rapporti sessuali sono lotte, i dialoghi scontri, gli spazi (come la sordida stazione) zattere di salvataggio per affondare meglio nel dolore della solitudine. Generosi gli attori. Nichilista da lasciare senza fiato.

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L'urgenza di vivere della gioventù ribelle si scontra col maturo cinico ed avvezzo al reale squallido imperante, rimanendone invischiata in una specie di attrazione/repulsione che sfocia in uno smarrimento esistenziale bisognoso di un modello da seguire/imitare, di un rapporto spirituale/carnale ma che si tramuta sempre più in una tormentata incomunicabilità fra 2 persone: l'una disincantata e l'altra vittima della sua ingenuità. Coraggioso nel non voltare mai lo sguardo. Spicca su tutti il grande Mezzogiorno (doppiato da Depardieu).

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L’Homme blessé  (se ci liberiamo dei pregiudizi)  ha il pregio di trasferirci  in una  “dimensione” un po’ estrema fatta di nostalgia e desiderio: corre  oscuro e sinistro su questi binari avvolgenti, diventa quasi agghiacciante premonizione di morte in alcuni momenti, tanto che potremmo osservare che siamo anche qui dalle parti di Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, perché l’umore, l’emozione, e il senso del “proibito”, del “non ammesso”, corrono sulla stessa linea, mantengono la stessa altezza, magari ancora più “torbida” per la connotazione tutta al maschile che ne deriva. Film come si è visto  fortemente intriso di passioni estreme, ha al suo attivo anche un crudo, violento finale che è commovente e inquietante al tempo stesso.
I francesi lo hanno compreso e apprezzato, tanto che è stato a suo tempo insignito del massimo riconoscimento di quella ciraggiosa ccinematografia - il César - perché se l’atmosfera e il clima che si respirano nel film, come si è già visto e detto, sembrano mutuati direttamente dai romanzi maledetti di Genet, come in quei capolavori assoluti, anche qui l’umanità profonda dei personaggi riscatta alla fine qualsiasi abiezione.
Splendida e coraggiosa prova  di tutti gli attori coinvolti, a partire da un Vittorio Mezzogiorno superlativo che ci ha regalato, nel disegnare il contorto, disperato, solitario, ambiguo personaggio che è stato chiamato a rappresentare, forse la sua migliore interpretazione in assoluto e non ha avuto alcun timore i remora nel mettersi letteralmente “a nudo”. Non di minore rilevanza però la prova di un ancora giovanissimo Jean-Huge Anglade, che riesce ad esprime perfettamente tutta la sotterranea irrequietezza di una età singolarmente complessa e piena di tentazioni carnali. Roland Bertin, un altro maturo omosessuale un po’ sordido, è il terzo incomodo della storia. Accanto a loro, Liza Kreuzer,  Claude Berri,  Gérard  Desharte e  Armin Müller-Stahl.

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Film di grande fascino, misterioso, oggettivo e diretto nello scrutamento di psicologie e meccanismi spesso contorti, debordanti e tenuti ai margini della società, delle rappresentazioni e dell'anima, perfino con bagliori di sottile ma disillusa ironia, soprattutto tormentato e inquieto, sordido eppure crudemente tenero e toccante, errabondo e che esprime un disperato, maledetto bisogno di contatto, di amore lacerante fino all'annullamento.

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…Chereau mette in scena, con gli ammiccamenti e la teatralità che ben gli si addicono, la deriva dei sentimenti di un giovane che spende la propria verginità al sevizio di un mercenario approfittatore che lo sfrutta e lo usa con l'inganno e il proprio indiscutibile appeal. "L'uomo che non deve chiedere" vs. il servo obbediente e consenziente, che saprà tuttavia ribaltare i ruoli divenendo da vittima a carnefice. Il piacere dei sensi come ragione di vita contro il tedio e il vuoto della vita quotidiana: temi ora alla base di tutta l'opera dell'austriaco Ulrich Seidl, che trovano in Chereau un coraggioso anticipatore, in un film che non cerca facili consensi, un'opera di cui molti hanno parlato, ma effettivamente vista da pochi. Per questo sicuramente un cult. Jean Hugues Anglade inaugura con questo ruolo uno dei molti personaggi inquieti (e svestiti) della sua interessante carriera, mentre Vittorio Mezzogiorno, carogna laida, infida e traditrice, e' bello, pertinente ed irresistibile come mai fino ad allora, e qui impegnato in uno dei ruoli più significativi ed ambiziosi di tutta una notevole carriera finita davvero troppo presto.

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venerdì 21 aprile 2023

Animals - Marçal Forés

un film dalla Catalogna, in inglese, castellano e catalano.

una storia di ragazzi (e orsacchiotto), di amore e amicizia, e di morte.

giovani che cercano una strada, e trovano strade complicate.

non è perfetto, ma si vede bene.

buona (enigmatica) visione - Ismaele

 

 

 

Hay veces que aparece un producto independiente que sabes que está hecho para los que son como tú. Por alguien no tal vez de la misma generación (término harto conflictivo) sino por quien se encuentra en tu misma mentalidad a la hora de apreciar las cinéticas, por compartir las mismas procedencias tras las pretensiones propias, o simplemente por ser consumidor de las mismas ficciones que activan tus pasiones. Animals, este cuento catalán al que la crítica ha puesto entre un Elephant nacional y un Donnie Darko rejuvenecido y traducido se encuentra, para mí, más cerca de contener las mismas esencias que el Diamond Flash de Carlos Vermut, el Celacanto de Jimina Sabadú o, por supuestísimo, los cómics de Charles Burns y de todos sus imitadores…

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su mundo real será peor. Entabla amistad con Ikari, que resulta ser una pésima influencia. Ikari se dedica a auto mutilarse y hace lo mismo con Pol al que engaña, y suponemos que hizo igual con Clara. El mundo real va desmoronando a Pol, pero cuenta con el consuelo de que cada vez que algo malo le sucede aparece su amigo (en espíritu peluchil) para abrazarle…

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mercoledì 19 aprile 2023

La rapina del secolo - Ariel Winograd

una banda che non gli daresti un soldo, piccoli imbroglioni e delinquentelli aderiscono all'idea folle di uno strano, che vuol fare una rapina spettacolare, senza essere catturati.

il film ha un buon ritmo, bravi attori, in una storia che se sembra vera è perché è successa davvero.

una sceneggiatura a orologeria rende il film (grande incasso in Argentina) mai noioso,

buona (di rapina) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, in italiano, su Raiplay

 

 

Pur nella sua aura consapevolmente e dichiaratamente farsesca, La rapina del secolo può contare sul piano narrativo di un punto di vista diretto, ovvero quello del vero Fernando Araujo che ha collaborato in fase di sceneggiatura alla stesura dello script. Chi d'altronde meglio di lui avrebbe potuto raccontare gli eventi che lo hanno visto protagonista insieme agli altri compagni, più o meno preparati alla missione? Il film ha conquistato il pubblico in patria grazie alla generale simpatia che permea le due ore di visione, potenti contare su un cast eterogeneo il giusto che permette di nascondere alcune pecche concernenti la gestione del ritmo e delle atmosfere, con la leggerezza di fondo che a tratti rischia di prendere anche troppo il sopravvento sulle effettive dinamiche di genere, che vengono ben presto svilite in favore di un approccio a prova di grande pubblico senza troppe pretese…

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El robo del siglo es una película que sabe sacar partido a una realidad ficcionada, de un caso de gran interés. Además, los personajes protagonistas tienen un buen bagaje narrativo, aunque flanquean en los personajes secundarios, que no terminan de encontrar su fin. Aun así, la perspectiva se plantea desde un montaje dinámico, lleno de fuegos artificiales y un ritmo vertiginoso. Se puede percibir ese carácter de show del cine hollywoodiense, pero sin perder su propio sello de identidad. Después, hay que aplaudir la gran labor de Diego Peretti, Guillermo Francella y Pablo Rago, los cuales están fantásticos. Un espectáculo de variedades que triunfa por su ejecución y se convierte en un ejercicio de pura acción que no tiene desperdicio.

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…Muy recomendable esta película argentina que demuestra bien a las claras que cuando hay talento y una buena historia ni el género ni la especialidad pertenecen a nacionalidad alguna y el cinéfilo que anda husmeando carteleras en busca de una buena pieza que llevarse a los ojos puede tranquilamente decidirse por ésta que seguramente le atrapará de principio a fin con la salvedad apuntada y con la enorme satisfacción, en el espectador hispano hablante, de asistir a una función con su acento particular, sí, con sus modismos, sí, pero perfectamente inteligible gracias a un conjunto de intérpretes merecedores de todo elogio.

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martedì 18 aprile 2023

Faith - Valentina Pedicini

nel film non c'è nessuna finzione, la regista si è immersa in quella comunità e ce la mostra, senza giudizi, un lavoro che documenta una relazione, una situazione, un gruppo di persone, che vivono insieme e si allenano, si allenano, fino a sfinirsi. 

c'è un maestro riconosciuto e alcuni allievi, che dividono e condividono tutto, nell'attesa di qualcosa che potrebbe venire, loro si preparano.

buona (marziale) visione - Ismaele

  

QUI il film completo, su Raiplay

 

"Sono entrata in questo mondo e in questo film con una domanda," racconta la regista. "Volevo capire perché si decide a un certo punto di abbandonare il mondo esterno e parte della propria identità e di mettere la vita e l'esistenza nelle mani di qualcun altro. Faith non è un film su una setta, loro non sono una setta. È un film su un meccanismo psicologico, sulle dinamiche e relazioni tra le persone. Il titolo del film non fa riferimento solo alla fede religiosa, ma a quella in qualcuno," spiega. "In questo caso del loro maestro."

Tutti i monaci e le madri del monastero, infatti, vivono in totale isolamento e nella venerazione del loro Maestro, che esercita su di loro un controllo totale, figlio di un carisma che è stato capace di toccare perfino la Pedicini. "In genere si pensa che a fare scelte estreme di questo genere possano essere persone con problemi sociali, o economici," aggiunge, "ma in quel monastero ho incontrato persone provenienti dalla borghesia media e alta, alcuni di loro sono laureati, e questo è ancora più inquietante, perché non ci sono giustificazioni che a noi possano apparire logiche. La domanda iniziale si è fatta ancora più grande, ma non ho trovato risposte. Ho conosciuto alcune motivazioni, e un mondo radicale stranissimo, quello creato da nulla dal maestro. Mi affascina e respinge assieme che dal nulla un uomo abbia potuto inventare un mondo, imporre delle regole e una religione. Ma non ho risposte, e ancora meno certezze di quando ho cominciato."

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…Valentina Pedicini porge allo spettatore la sua mano, donando l’istantanea di una realtà a molti forse sconosciuta, per altri inconcepibile. Ne registra quotidianità e azioni, rimanendo sulla superficie senza mai esplorare passato o motivazioni personali. Osserva e passa il testimone visivo al pubblico, senza giudicare e senza presunzione nel domandare a chi osserva di farlo.

Un ritratto dipinto con la precisione di chi non cerca interpretazioni né tanto meno opinioni, che non implica prese di posizione o la ferma convinzione nello stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato, quale il bene e quale il male. Una realtà, nuova, diversa e probabilmente scomoda sullo schermo, lontana da ogni ostentazione persuasiva. L’immersione documentaristica in un’estetica raffinata al servizio di uno spaccato manca forse di equilibrio ed empatia, ma è capace di spiazzare attraverso l’irruenza tipica dell’alieno, inscenando il disagio a suon di cazzotti e musica destabilizzante, sudore e devozione.

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Sulle colline marchigiane dal 1998 si è formata una comunità della quale fanno attualmente parte ventidue persone (di cui due bambini nati nella comunità stessa) guidata da un maestro di kung fu che li ha chiamati Guerrieri della Luce. Essi sono pronti a combattere, grazie ad un costante esercizio fisico sulla base della pratica di arti marziali, la battaglia finale per portare, nel nome della fede cristiana, la Luce in questo mondo. Valentina Pedicini ha vissuto con loro per quattro mesi e ne documenta l'attività quotidiana.

La storia delle arti marziali ci insegna che le stesse hanno un legame indissolubile con la vita monastica essendo la loro genesi collocabile nel monastero Shaolin in Cina. Corpo e mente esistono in un dualismo che finisce con l'essere solo apparente. Quello che emerge dal documentario girato da Pedicini in uno splendido bianco e nero (gli unici due colori ammessi negli indumenti della comunità a rappresentare la purezza del bene e l'oscurità del male) è un mix di elementi difficili da valutare da parte di chi li osserva…

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