lunedì 28 dicembre 2020

Pokłosie - Władysław Pasikowski

il film è incentrato su una strage che si credeva seppellita per sempre, invece a volte ai morti qualcuno dà voce.

i polacchi brava gente volevano rubare le terre degli ebrei e anziché lasciare fare il lavoro sporco ai nazisti hanno fatto da soli.

è un film sulla memoria storica, sul riconoscimento delle colpe dei padri, sullo riuscire a ridare il nome a ciascun dei morti ammazzati.

non c'è niente di allegro in questo film, e sarebbe osceno se ci fosse.

pare che non sia stato amato in patria, e già questo è un buon motivo per non perderlo.

l'incredulità e il dolore di Franek e Jósef di essere nati e cresciuti in una terra di morti, calpestando i morti, cresciuti in un villaggio di assassini, cresciuti da assassini, è indescrivibile.

cercate Pokłosie, guardatelo e soffritene tutti (per un gran film è un sacrificio più che accettabile) - Ismaele


 

 

 


 

Il ritorno è l’inizio di un storia solo se porta ad accorgersi che nulla è più come prima. Che ci sono nuovi perché, affiorati col tempo, che unicamente chi viene da fuori può cogliere, per effetto dello straniamento provocato dalle cose che, impercettibilmente, e senza un’apparente ragione, poco a poco cambiano. Un familiare è diventato un estraneo. Una vita normale si è trasformata in un incubo.  Franciszek Kalina, emigrato dalla Polonia a Chicago ai tempi di Solidarnosc dopo vent’anni ritorna al villaggio d’origine, dove il fratello Józef è rimasto solo ad abitare nella vecchia cascina. La moglie ed i suoi figli lo hanno abbandonato: sono scappati di casa, ed hanno attraversato l’oceano, trovando rifugio presso il cognato negli Stati Uniti…

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Nel 2012 è uscito il film Poklosie (o Aftermath) del regista Władysław Pasikowski, che affronta il tema dei polacchi ebrei trucidati dai propri concittadini. La trama s’ispira al pogrom di Jedwabne (Polonia nord-orientale, occupata durante l’operazione Barbarossa, l’invasione dell’URSS da parte della Germania), che ebbe luogo il 10 luglio 1941: 340 ebrei polacchi del villaggio furono rinchiusi da altri polacchi (su ordine della Ordnungspolizei) in un granaio, cui fu appiccato il fuoco. Gli ebrei morirono tutti bruciati.

Il 4 luglio del 1946, a Kielce, città della Polonia centro-meridionale, si consuma il peggiore massacro del dopoguerra (con i tedeschi ormai fuggiti): 42 ebrei, dei 200 tornati dai lager nazisti, perdono la vita (80 i feriti) nel pogrom scatenato dai loro vicini di casa, mentre le forze dell’ordine restano a guardare. Al loro rientro i sopravvissuti non sono, infatti, bene accolti: non amati perché ebrei, e ora considerati anche traditori filosovietici. Complici della tragedia consumata, la miseria e delinquenza diffuse in una popolazione abbrutita dalla guerra: gli ebrei ritornati reclamano le loro proprietà (terreni e beni immobili) che i nazisti non hanno depredato, ma nel frattempo sono state spartite tra i polacchi non ebrei. Le richieste degli scampati allo sterminio suscitano odio, anziché solidarietà. I fatti di Kielce dimostrano quanto l’antisemitismo fosse radicato in gran parte della popolazione polacca, anche dopo e nonostante la Shoah…

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Nei cinema polacchi da pochi giorni è in programmazione un film sul pogrom di Jedwabne, Poklosie (Dopo il raccolto) di Wladyslaw Pasikowski. L’orgia di polemiche sollevata dalla pellicola supera di molto, va detto, la soglia del ridicolo. Che farci, a nessun popolo piace veder svelate le proprie bassezze. D’altro canto, il successo di Poklosie sembra enorme. E io non ricordo di aver visto nella lista dei campioni d’incasso film sulle atrocità italiane in Etiopia, in Grecia, in Iugoslavia. E dalla colpa nessuno sembra essere esente. “Persino noi olandesi – mi diceva un’amica – che ci siamo sempre ritenuti i migliori, ora andiamo scoprendo i nostri peccati. Mio padre aveva 15 anni nel ‘40, quando i nazisti invasero il nostro paese e introdussero le leggi razziste. Il suo professore di letteratura olandese al Liceo venne un giorno in classe e disse: Ragazzi, io e altri professori ce ne dobbiamo andare. Addio. Raccolse le sue cose in silenzio e nessuno degli studenti disse neanche una parola. E’ questa la colpa di mio padre, e non riesce a farsene una ragione”.

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The intense chain-smoker Franek (Ireneusz Czop) has lived in Chicago for the last 20 years, since 1980, and returns for a summer visit to his estranged younger brother Jósef (Maciej Stuhr), who lives alone on his family farm. His wife and kids abandoned him to move to Chicago without saying why, which is a reason for the brother’s visit. The tense visit is made more eerie by how the neighbors ostracize and hate Jósef, and his life is threatened when he begins to dig up and collect Jewish gravestones that the town wants to forever hide by covering them in asphalt for their new roads.

The antagonistic to each other brothers start investigating for real what happened to the 26 Jewish families in the village of Jedwabne at the time of the Nazi occupation and are startled to eventually learn that it was not the Nazis that killed the over 200 hundred family members but the Poles in their village, including their father, in the pogrom in 1941. They were repelled to find out they excused the savage killings as payback for the Jews killing Jesus and to take over their properties. This massacre was covered-up until the brothers dug out the truth, including how their family is also tainted by the horrific war crimes.

When these horrible facts were revealed in the Gross book and then in the film, sponsored by the state, that the Poles were as ruthless and bigoted as the Nazis, it stirred up a national controversy and a return to open anti-Semitism in the press despite the country’s lack of Jews. As an historical film, it’s a compelling watch even if it hits you over the head with an ax and is not particularly entertaining. Such hard-hitting expose films are rare and, in my opinion, need to be made more often.

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…This is an incredibly moving film which is on one level the bond between two very different brothers. Franck is taciturn and confrontational but at the same time he didn’t have the decency to return home for the funeral for his parents. Jozef is stubborn and unforgiving but has a curious soft spot for the underdog. Both men, surprisingly, are what I’d call environmental anti-Semites. They habitually refer to Jews as “Yids” and often say things that convey their low opinion of Jews in general and Polish Jews in particular. Franck even intimates that the troubles Poles have getting decent jobs in the U.S.is due to Jewish interference.

They do make the unlikeliest of righteous men but yet they are. It works making them so un-heroic in many ways. These aren’t American action heroes who use their fists to get themselves out of sticky situations; they get beat up and they often seem to go out of their way to avoid conflict but who can blame them – at every turn they are attacked verbally and physically by the townspeople and the new rector (Radziwilowicz) arrived to replace the retiring priest for some odd reason is stirring the town up to do so.

Czop and Stuhr deliver raw, honest performances that depict the brothers as deeply divided and unsure how to bridge the gulf between them until this common cause unites them. They are dogged more than brilliant and stubborn more than compassionate. Perhaps the problem that some conservative Poles have with the film is that none of the Poles in the movie come off as good guys.

This isn’t a movie for the faint of heart. It tackles the issues of hatred, greed and suspicion in the real world and it does so in a real world way. While I saw this movie at the Central Florida Jewish Film Festival, there are no living Jews in the movie until the final scene – and yet the ghosts of the Jewish dead in the Holocaust hang heavy over the film itself. This is the kind of movie that will leave you speechless and is much worth seeking out if you can find it (the official website has a list of theaters playing the movie if you want to click on the picture above and find out if it’s playing near you). It is another contender in what is turning out to be a very strong year for independent films as one of the best of the year.

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mercoledì 16 dicembre 2020

Maddalena – Jerzy Kawalerowicz

un film che non ti aspetti, Maddalena (Lisa Gastoni) lascia morire il marito dopo un incidente (pochi direbbero che ha fatto male), ha una serie di amici che è meglio perderli che trovarli, si trova a cercare un rapporto impossibile con un prete, a cui lei non interessa.

ci sono stati grandi problemi di produzione, con il regista estromesso dai produttori, il film fu poi montato da Franco Arcalli, già collaboratore di Giulio Questi, Bernardo Bertolucci e Liliana Cavani, fra gli altri.

Lisa Gastoni è la bravissima protagonista assoluta, preda di un'ossessione, alla fine si capirà tutto.

gran strano film, merita sicuramente la visione, merito di Lisa Gastoni ed Ennio Morricone - Ismaele


QUI la prima parte del film, in italiano, i primi minuti sono straordinari


 

 

 

Uno di quei film che ci raccontano come possa essere matto e imprevedibile il cinema. Che ci fa un regista come Jerzy Kawalerowicz, il gran polacco che negli anni Sessanta aveva realizzato nel paese suo almeno tre film da storia del cinema (Il treno della notte, il clamoroso succès de scandale Madre Giovanna degli AngeliIl faraone), in Italia, a Cinecittà, nell’anno 1971? Convinto chissà come e da chissà chi a girare un film di impegno-con-eros, dove il sesso come esigono i tempi si fa distruttore dell’ipocrisia borghese e veicolo di liberazione dionisiaca, il rispettato Kawalerowicz ci mette la faccia e la sua credibilità in questo strano progetto dal fin troppo programantico titolo che ha al suo centro la signora del peccato borghese al cinema di allora, ovvero Lisa Gastoni (in my opinion una delle più belle del nostro cinema di sempre). Che è una moglie che, per noia, per voglia di quella cosa che si chiamava trasgressione, per voluttà si innamora di un pretino e vuole a ogni costo averci un storia ad alto tasso di carnalità. Sarà melodramma disgraziato, accesissimo e ovviamente distruttivo. Il film, sulla carta assai nelle corde di Kawalerowicz, si arena però in una lavorazione complicata, con i produttori a estromettere di fatto il regista per le solite divergenze e l’editor Kim Arcalli a cercare di salvare con il suo genio la situazione. Ne esce un film sghembo, disastroso al box office, maltrattato dai sopracciò della critica, ma dotato di una sua torva visionarietà, di una indubbia sincerità nel mettere in scena la perdizione ineluttabile di due anime. Un film autenticamente maledetto, da rivedere e rivalutare. Per Kawalerowicz. Per Lisa Gastoni.

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La bellezza del film è sopratutto nella sua semplicità e nella sua capacità di immortalare momenti di vera poesia con pochissimi mezzi, rifiutando qualsiasi forma di spettacolarizzazione. La scena in cui Maddalena è al mare, cammina sul bagnasciuga e si rotola sulla spiaggia sotto le nostalgiche musiche di Ennio Morricone, è esemplare in tal proposito. Maddalena rifiuta la sua vita borghese, si svuota di tutto per seguire il suo amore e in quella spiaggia è come se vedesse il mondo per la prima volta: dal mare estrae una rete e dalla sabbia dei grossi rami secchi per costruire la base di una casa, dopo prende anche due sassi in mano e li sfrega, richiamando l'atto primitivo in cui l'uomo scoprì il fuoco. Queste visioni arcaiche invadono la pellicola con una semplicità disarmante, mai banale…

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Si salva solo la gigantesca prova d’attrice della Gastoni, amplificata dai primi piani di Gabor Pogany che ne svelano la grande generosità e l’audacia anche fisica, ben oltre le aspettative. Il problema, semmai, è nel protagonista maschile Eric Woolfe, legnoso e inespressivo oltre il dovuto. Come prete che tenta di resistere alle tentazioni della carne è piuttosto ridicolo, e non stupisce che questa sia l’unica esperienza cinematografica della sua carriera. Per di più lo script non lo aiuta, e a un certo punto lo troviamo persino trasferito dalla sua parrocchia cittadina in una nuova chiesa ipermoderna ed elettronicamente automatizzata costruita sull’autostrada, di fronte a un autogrill della Pavesi (un’assurdità!), il tutto per sfuggire alle insidie di Maddalena, che ormai è diventata ossessiva oltre ogni limite… Per fortuna c’è Kim Arcalli al montaggio, che aiuta il film sfornando un incipit molto promettente, con la Gastoni che balla sensualissima e procace, su titoli di testa, accompagnata dalle ovvie note morriconiane (organo da chiesa e percussioni tribali), dietro controluci di chiaro sapore psichedelico che giocano a nascondere le scollature del suo vestitino. Come d’abitudine, Arcalli manomette anche la linearità della azioni, montando due volte, verso l’inizio e quasi alla fine, la sequenza dell’incidente in macchina con Ivo Garrani che resta ferito e la Gastoni, sua moglie, che lo lascia morire senza chiamare aiuto. E sempre Arcalli ricostruisce interamene la sequenza finale, la più bella del film, l’unica che resta davvero impressa allo spettatore (ma che forse arriva troppo tardi), con Maddalena che si concede alle onde del mare, nudissima, dopo aver convinto il prete a seguirla. Ma mentre lei si abbandona voluttuosa nell’acqua, convinta d’aver finalmente ottenuto quanto desiderava, lui non smette di nuotare sempre più a largo, senza mai voltarsi…

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martedì 15 dicembre 2020

È guerra a Hollywood: Denis Villeneuve (e Christopher Nolan) contro la rivoluzione del cinema in streaming (causa Covid) - Davide Turrini

 

“La Warner Bros ha ucciso il mio Dune”. Anche Denis Villeneuve tuona contro la “sua” grande major e contro lo streaming HBO Max. Sono passati pochi giorni dalla scelta di AT&T, la casa madre di WarnerMedia, di distribuire i 17 titoli di punta del listino 2021contemporaneamente in sala e in streaming per via della pandemia Covid, e già due delle firme più importanti del bouquet Warner prendono ferocemente le distanze. Il primo era stato a caldo Christopher Nolan che con il suo Tenet, targato Warner, era stato da apripista nell’agosto 2020 con il momentaneo ritorno del pubblico nelle sale cinematografiche. Poche ore fa è toccato invece a Denis Villeneuve, l’autore di Blade Runner 2049 e Arrival.

Una presa di posizione tanto più violenta e circostanziata di quella di Nolan, quanto più meditata e costruita a freddo. In una lettera pubblicata da Variety, Villeneuve ha sostanzialmente spiegato che l’AT&T non ha mostrato alcun “amore per il cinema e i suoi spettatori”, ma che soprattutto pensa solo “alla sua sopravvivenza in borsa”. Come se non bastasse ha poi aggiunto che la “grande rivoluzione” di proporre contemporaneamente 17 film in sala e in streaming (le sale aperte oggi negli Stati Uniti sono nemmeno il 35% ndr) è stata fatta “sacrificando i film del 2021” pur di salvare HBO Max, che secondo lui, “è stato fin qui un progetto fallimentare”. Se non sono parole di guerra queste, ci manca poco. Villeneuve, che come il collega Nolan non può di essere tacciato di essere antimoderno o antistorico visto l’abbondante uso di nuove tecnologie nei propri film, ha comunque sottolineato che lo streaming è “una forza positiva e potente nell’ecosistema cinematografico e televisivo”, ma che da sola “non può sostenere l’industria cinematografica così come la conoscevamo prima del Covid”; anzi, secondo l’autore di Sicario in questo modo Dune “non avrà la possibilità di avere buoni incassi” e “trionferà la pirateria”. Al centro del j’accuse di Villeneuve c’è, come nelle parole di Nolan, la centralità delle visione in sala dei film, e a suo modo un attacco furente all’indistinguibilità merceologica del neoliberismo: “Credo fermamente che il futuro del cinema sarà su grande schermo, qualunque cosa dica un dilettante di Wall Street. Sin dall’alba dei tempi gli esseri umani hanno profondamente bisogno di esperienze di narrazione comune. Il cinema sul grande schermo è qualcosa che va oltre il business, è una forma d’arte che unisce le persone, celebra l’umanità, migliora la nostra empatia reciproca: è una delle ultime esperienze artistiche e collettive di persona che condividiamo come esseri umani”.

Villeneuve ha poi voluto ricordare che nella mattanza dello streaming finirà un suo film che a suo avviso è il suo “migliore di sempre”: “con il mio team ci abbiamo dedicato tre anni della nostra vita per renderlo un’esperienza unica su grande schermo. L’immagine e il suono del nostro film sono stati progettati meticolosamente per essere visti nelle sale cinematografiche”. Infine ha aggiunto che “quando è diventato evidente l’inverno 2020-2021 avrebbe portato una seconda ondata pandemica, ho compreso e sostenuto la decisione di ritardare la distribuzione in sala di Dune di quasi un anno. L’accordo era, però, che Dune sarebbe uscito nelle sale ad ottobre 2021, quando il piano di vaccinazione sarebbe stato avanzato e, si spera, con il virus alle spalle. La scienza ci dice che tutto dovrebbe tornare a una nuova normalità il prossimo autunno”. Insomma, Villeneuve di finire in streaming per fare una politica di banale conferma abbonati di HBO Max, il servizio “casalingo” di Warner online, non ne ha la minima intenzione. Chiaro, il potenziale di ricatto è altamente simbolico, ma potrebbe anche significare un punto di rottura tra i due registi con il proprio storico distributore per migrare prossimamente verso major concorrenti che di certo non mancherebbero. Villeneuve che ha in cantiere un kolossal su Cleopatra e che iniziò da totale indipendente nel 1998 con Un 32 aout sur terre, si affermò nel 2010 con un capolavoro cristallino come Incendies (La donna che canta) con una prima mondiale alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia, e fece il salto ad Hollywood nel 2013 con il thriller Prisoners targato fin da allora Warner. Oggi vale sul mercato quei 260 milioni di dollari d’incasso di Blade Runner 2049 (budget 150 ndr).

Nolan, invece, esordì tra il 1998 e il 2000 con due film indie come Following e Memento per poi diventare regista di punta della scuderia Warner prima con Insomnia nel 2002 e successivamente con tutta la saga di Batman, Interstellar, Inception e Dunkirk. Nolan porta in dote, in piena pandemia Covid, con Tenet, nientemeno che 359 milioni di dollari di incassi in tutto il mondo. Insomma, il potenziale per far ricredere Warner ci sarebbe. Vediamo se il capitalismo selvaggio non ha eroso del tutto ogni cellula di resistenza intellettuale ed estetica di due tra i più importanti registi hollywoodiani contemporanei. Del resto, in un periodo di crisi economica ed industriale del cinema con l’arrembante tv, tra anni sessanta e settanta nacque la “New Hollywood” dei Coppola, Lucas, Spielberg, Scorsese, Cimino&Co.

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lunedì 14 dicembre 2020

La dura vita di chi fa l’asiatico nei film italiani

 

Coreano di nascita, adottato negli anni ’80 da una famiglia di Bergamo, Yoon Cometti Joyce è cresciuto tra violenze a sfondo razziale e discriminazioni costanti per la sua fisionomia. Reggere i “muso giallo, tornatene al tuo paese”, i “mia figlia non può uscire con uno con gli occhi a mandorla” o i “zao, placele” è stata talmente dura da spingerlo a tentare il suicidio. Unica terapia la recitazione, che gli ha permesso di accettare la complessità della propria identità. Con alle spalle oltre quaranta film realizzati e numerose collaborazioni con giganti del cinema – tra cui Ridley Scott, Martin Scorsese, Leonardo DiCaprio e Gabriele Salvatores – oggi Yoon usa il suo talento (e la sua fisionomia orientale) per combattere le stereotipizzazioni sul grande schermo.

(Intervista di Valerio Evangelista)


Molti attori sono stati, o si vantano di essere stati, dei bambini prodigio. Tu come ti sei avvicinato alla recitazione?

I miei mi adottarono quando avevo tre mesi; mio padre era sempre in giro, per lavoro, e noi lo seguivamo. Eravamo in Arabia Saudita, vivevamo in un quartiere italo-americano con cinquanta gradi all’ombra. A scuola dovetti scegliere un’attività extra-curriculare. Avevo la gamba ingessata, perciò non potei accedere ai gruppi di calcio, di pallavolo e di nuoto. Rimaneva disponibile soltanto il gruppo di teatro. Vi facevano parte quasi solo ragazze. Non avevo alcuna voglia di fare teatro, ma dovevo scegliere un’attività e quella era l’unica opzione rimasta. Non mi piaceva, perché avevo poca memoria. La maestra era disperata: non ricordavo le battute, ero svogliato, non mi piaceva nulla. Poi ci fu la svolta.

Cosa ti fece amare il teatro?

La maestra mi consigliò di improvvisare. Di inventare le battute che non ricordavo, purché rimanessero attinenti alla situazione e coerenti a ciò che avrebbe risposto l’altra persona sul palco. Iniziai a guardare tutto sotto un’altra luce. Cominciai a esagerare, improvvisando mettendo delle cose che non c’entravano niente col testo. La maestra tornò a perdere la pazienza con me, non riuscendo a contenere questa esuberanza. Però mi diede la possibilità di approcciarmi in un modo diverso alla recitazione. Cominciai ad appassionarmi.

Da bambino hai costantemente seguito tuo padre in giro per il mondo. Questo non ti ha però impedito di coltivare il tuo sogno.

Quando rientrai in Italia, dopo circa tre anni, mi unii a una compagnia teatrale di ragazzi. Dopo un anno lasciammo Bergamo alla volta dell’Algeria. Inizialmente ci furono un po’ di problemi legati alla lingua. Quasi nessuno parlava inglese. Ancora una volta, dovetti resettare tutto e ripartire. Anche lì, mi unii a una compagnia teatrale per bambini. C’erano ragazzini da tutto il mondo, frequentavo principalmente un ambiente internazionale. Dopo circa tre anni tornammo nuovamente in Italia. Ci trasferimmo a Napoli per un anno, dove frequentai un altro gruppo teatrale. L’approccio era amatoriale ma c’era un’atmosfera stimolante, anche a causa della presenza marcata dell’accento napoletano. A me piaceva molto sperimentare accenti diversi, sia in italiano che in inglese. Dopo una breve parentesi in Austria ci ristabilimmo definitivamente in Italia. Iniziava il periodo delle superiori. A Bergamo. E lì cominciarono i problemi.

Da italiano di origine coreana, com’è stato crescere nella Bergamo degli anni ’80?

Era una realtà completamente diversa. Ero sostanzialmente l’unico asiatico nella bergamasca, in quel periodo. Fu uno scontro a pugni stretti. Anche nella scuola, ovviamente, il primo impatto era quello fisico. Non avendo mai visto altri bambini asiatici, alla prima occasione di confronto quello che veniva preso di mira era il mio aspetto. Percepii il primo fardello legato alla mia etnia. Avvennero i primi episodi di razzismo, i primi scontri violenti. Non fu facile, perché cominciò un lungo periodo di depressione.

Tolti i parenti e gli amici, sembrava che tutti avessero forte astio nei miei confronti. Allo stesso tempo, mi unii a un altro gruppo di ragazzi appassionati di recitazione. Mio padre non voleva che frequentassi scuole di teatro, perché in realtà non era mai stato d’accordo. Finché rimase una cosa ludica tollerava questa cosa, ma non l’aveva mai digerita davvero. Mi disse di scordarmi scuole d’arte, liceo artistico, accademie di teatro. Avrei dovuto fare come tutti gli altri, frequentare una scuola che mi desse un diploma dopo la quinta. Mi offrì la possibilità di scegliere tra una scuola per geometri o una scuola per ragionieri.

Cosa scegliesti?

Non sapevo neanche cosa fosse, un geometra. Lui controbatté che un geometra è “uno che progetta e fa le case. C’è un po’ di disegno, e a te piace il disegno, no?” Il tipo di disegno che interessava a me era tutt’altro. Decisi di declinare l’offerta e andare a lavorare. Per tre, quattro mesi – era estate – feci qualche lavoretto. Mia madre pianse all’idea di avere un figlio non diplomato, mi implorò di tornare sui miei passi. Proposi un compromesso: avrei frequentato la scuola per geometri a condizione che avrei avuto il permesso di andare ogni pomeriggio a Milano per frequentare una scuola di teatro. Mio padre era lontano, anche due o tre mesi all’estero, e non ero sotto il suo controllo. Mi iscrissi a questa scuola di recitazione e capii meglio l’impronta che avrei voluto dare alla mia passione artistica. Divenne la mia migliore terapia. Per assurdo che fosse, mi diede la possibilità di scindere il mio essere e analizzarlo dall’esterno nei panni di qualcun altro. Una cosa molto complessa, mi rendo conto ora. Che però funzionò. Se non feci qualche stupidata, come la potrei definire adesso, lo devo proprio a questo.

Si potrebbe dire quindi che l’arte e la recitazione ti abbiano salvato la vita.

Letteralmente. Dopo gli scontri subiti e il razzismo avevo pensato a tutto. Non ti dico quante volte sono finito in ospedale. Insultato per strada con commenti cretini, dal “muso giallo” al “tornatene al tuo paese”, dal “cosa ci fai qui” al “ziao zinese plendele pulile”. Non ti dico poi quando cominciarono ad arrivare i primi cinesi. La gente cominciò a capire che alcuni di questi parlavano male l’italiano e la mia sofferenza si amplificò ulteriormente.

Da adolescente ero ancora più sensibile, debole e fragile di fronte a questa violenza non solo fisica ma anche e soprattutto psicologica. Ci si mise pure mio padre, che è sempre stato poco empatico, con il quale ho avuto dei forti scontri. Questa cosa mi segnò profondamente. Ho pensato al suicidio più di una volta. Ho anche tentato. Fallendo, fortunatamente, nei miei intenti. La recitazione arrivò nel momento giusto. Riuscì ad accogliermi e a portarmi via.

Come erano i rapporti con gli altri?

Nella mia città, le mamme delle ragazzine non volevano assolutamente che queste uscissero con me. Negli anni ’80 era così. Dicevano, “Mia figlia non uscirà mai con un uomo che ha gli occhi a mandorla, con quella faccia così“. Un’altra mi disse apertamente, “Se tu dovessi mettere incinta mia figlia, che bambini potrebbero nascere? Sarebbe un peccato nei confronti di Dio“. Un dramma.  Poi scoprii che fuori dall’Italia non era così. Sì, io mi formai in un contesto internazionale, ma trascorsi il periodo della mia adolescenza in Italia, era quella la mia nuova realtà. Poi quando cominciai a viaggiare all’estero per conto mio scoprii che l’Italia era fumo, non era la realtà.

Fu allora che iniziasti a pensare alla recitazione come a uno strumento di lotta sociale?

È una cosa strana, se ci ripenso è abbastanza paradossale. Non avevo mai connesso la recitazione – che per me era qualcosa di ludico e divertente – ai film. Crescendo, ho capito che erano la stessa cosa, rendendomi conto che anch’io potevo contribuire e far parte di questo ambiente. E che il mio viso così peculiare, che fino a quel tempo era stato oggetto di scherno e causa di indicibile sofferenza, sarebbe stata la mia arma con cui avrei potuto combattere questi stereotipi. Ancora oggi continuo a battermi per portare con il cinema, che è uno strumento potente, un cambiamento nel modo di fare cultura.

I tuoi primi ruoli, però, erano fortemente stereotipati.

Cominciai a fare i provini e partecipare alle prime trasmissioni televisive. Fui ingaggiato da Mai dire gol, che al tempo era agli esordi. Inventai un personaggio che non esisteva, che parlava in bergamasco e non ricalcava stereotipi dell’asiatico sommesso e anche un po’ sfigato, diciamolo. Io ero un bergamasco asiatico, e quindi parlavo in bergamasco. Con tutti gli stereotipi dei bergamaschi: pensava solo a “laurà, laurà, laurà”, veniva dalla valle, era ignorante, un po’ rozzo e un po’ truzzo. Questo decretò un buon successo a quell’epoca, perché non si era mai visto un asiatico che parlasse in bergamasco. Fu un inizio. Cominciai a partecipare ad altri film, ma con ruoli molto piccoli e necessariamente stereotipati. Non potevo farci niente. Mi scornavo e mi scontravo, ma a Roma mi dicevano che non c’era altro per me. Le parti concessemi ricalcavano tutte i cinesi di prima generazione, quelli che parlavano con la “l” al posto della “r”, che non erano appariscenti, che erano sempre sfigati, dei poveracci, al massimo dei venditori ambulanti.

 

Poi arrivò la fase del ristorante cinese o giapponese, e io seguivo passo passo questa evoluzione sociale. Che poi è un’idiozia: cinesi, coreani e giapponesi sono diversi tra loro come lo sono italiani, rumeni e albanesi. Stufo della dinamica, tornai negli Stati Uniti per i fatti miei. Andai a Los Angeles dove frequentai un’accademia d’arte drammatica. Dopo due anni e mezzo vinsi una borsa di studio a New York, dove vissi un anno. Nel 2001 tornai in Italia. Le cose stavano cominciando a cambiare, c’era qualche timido segnale. Leonardo Pieraccioni mi offrì un ruolo in cui avrei dovuto parlare perfettamente italiano. Mentre tutti gli altri personaggi parlavano con accenti diversi provenienti da varie parti dell’Italia, io parlavo un italiano senza accento, abbastanza erudito e un po’ saccente. Questa fu la prima occasione che ebbi di fare qualcosa di diverso. Da lì in poi le cose andarono sempre più cambiando, nonostante io cominciai a collaborare nuovamente con produzioni estere.

Per evitare di abbassare gli standard e normalizzare la stereotipizzazione nel cinema, non basterebbe rifiutare determinati ruoli? 

In questo momento, assolutamente sì. A quei tempi, no. Era impossibile. Io viaggiavo su binari simili a quelli degli altri, ma paralleli. Attualmente sono uno dei pochissimi attori asiatici professionisti in Italia. Adesso cominciano a esserci dei giovani cinesi nati in Italia che vogliono fare cinema e che quindi stanno studiando, ma al tempo ero l’unico. Non potevo scegliere. Avevo bisogno di fare esperienza, stare sul set, capire come funzionavano le cose e conoscere le strutture gerarchiche del settore, come funzionava con l’agenzia, il rapporto con la produzione e così via. Io avevo sete di questo. Non mi potevo permettere di fare lo schizzinoso. La cosa positiva è che non avevo concorrenza, ma cominciavano a inventarsi ruoli su di me cucendoli sulla base di ciò che accadeva nel sociale.

Quindi non accetti più ruoli stereotipati?

Hai mai visto un poliziotto cinese in Italia? Io no. Hai mai visto un avvocato cinese in Italia che difende un italiano? O un magistrato asiatico o un magistrato afro-italiano? No. Ma nella prossima generazione ci saranno, è palese. I giovani d’oggi, figli dei figli degli immigrati, stanno studiando. Tra due generazioni diventerà normale. Negli Stati Uniti, in Francia e in Inghilterra – anche per motivi storici complessi e delicati – è normale avere poliziotti asiatici o avvocati africani. È un processo di evoluzione. Quindi sì, attualmente non accetto ruoli stereotipati. Sono almeno quindici anni che rifiuto quei lavori. Mi continuano ad arrivare proposte del genere, sia chiaro. Ruoli di un certo peso e pagati bene, ma stereotipati e idioti. Io non sono ricco e non sono nella condizione di rifiutare alla leggera dei lavori sostanziosi, ma lo faccio con convinzione. Fa parte del mio percorso.

Credi che nel cinema italiano di oggi le minoranze siano rappresentate adeguatamente?

Penso che siamo in un momento di grande transizione e in cui stanno cambiando tante cose. La vecchia generazione di produttori e registi sta cambiando, sta passando il testimone. L’approccio italiano dell’attaccamento alla poltrona è reale, anche in questo ambiente. Ma le cose stanno cambiando, anche in virtù della possibilità sempre crescente di poter viaggiare e utilizzare la rete. Tante cose stanno cambiando adesso e la tecnologia ha aiutato ad aprire la mente, a poter vedere persone diverse e potersi confrontare in modo diverso. C’è un però.

Quale?

Nonostante tutto, la maggior parte dei film italiani attuali non contemplano ancora minoranze con ruoli primari. Ogni volta che appare un personaggio appartenente a una minoranza etnica in un film italiano deve giustificare la sua presenza e il fatto che parli perfettamente italiano. Sarebbe ridicolo se Morgan Freeman, Denzel Washington o Will Smith fossero socialmente obbligati a doversi contestualizzare in ogni film, recitando battute come “Io parlo inglese perfettamente perché sono nato negli Stati Uniti” oppure “I miei nonni sono arrivati qui negli anni ’60”. Al pubblico cosa dovrebbe importare? Ecco, in Italia non è così, il tuo personaggio deve dare delle coordinate per giustificare la propria presenza. Questo paradosso costituisce il danno maggiore, che si aggiunge al fatto che in Italia ci sono quattro attori, e quei quattro attori continuano ad apparire in ogni sacrosanto film. Il cinema italiano è un sistema chiuso, difficile da penetrare. Lo è anche per i tanti italiani “caucasici” eccezionali che vivono nell’ombra e che per arrivare a fine mese devono fare due o tre lavori extra.

Figurarsi per chi ha un po’ di melanina in più o un taglio degli occhi considerato anomalo.

E questo senza affrontare l’equilibrio – tipicamente italiano e impensabile altrove – di conoscenze e raccomandazioni, di visibilità garantita e sfruttamento delle velleità dei giovani attori. Nelle produzioni estere alle quali ho partecipato il sistema di reclutamento è cristallino. E questo mi ha portato a prediligere la scena internazionale. Attualmente ho una quarantina di film alle spalle, con ruoli incredibilmente svariati. Ridley Scott mi ha offerto un ruolo nei panni di un prete; in Italia, a un asiatico probabilmente non darebbero neanche la parte di chierichetto in Don Matteo.

Un tabù grosso in Italia resta ancora il rappresentare un protagonista asiatico che ha una storia d’amore con una protagonista bianca italiana.

Nonostante le coppie miste siano innumerevoli e nella società non esista più questo tabù come un tempo. Sembra che il grande schermo rimanga sempre un passo indietro. Eppure, introdurre in pellicola questi elementi di vita condivisa sarebbe un successo clamoroso. Soprattutto tra i ragazzi nati in Italia da genitori di origine asiatica, che potrebbero rappresentare una grossa fetta di pubblico.

 

Forse la vera questione è che l’italiano medio non è ancora abituato, che produttori e registi fanno quello che si aspetta il grande pubblico.

Ho interpretato il ruolo di un primario nel reparto di oncologia polmonare per una fiction di formazione professionale all’interno dei reparti ospedalieri italiani, ma questo sarebbe impensabile in un prodotto pensato alla grande distribuzione. E non perché gli italiani non siano “pronti”: il pubblico guarda ciò che tu mostri loro. Dovremmo cominciare a rivedere le sceneggiature e i soggetti delle storie. La stragrande maggioranza dei ragazzi appartenenti a minoranze ma cresciuti in Italia non va a vedere film italiani perché sono rappresentati in modo stereotipato e negativo. Anche a livello economico è una cosa che non ha senso. Ci rendiamo conto di quali fette di pubblico state togliendo dalle sale? Sappiamo benissimo che gli adolescenti sono spesso la fascia di età che determina il successo o meno di un film.

Sono convinto che la nuova generazione cambierà drasticamente le cose. Netflix avrà sempre più controllo sulle promozioni, cambierà anche gli schemi di reclutamento attori. Mi auguro che finalmente riescano ad aprire gli occhi sempre più produttori e registi per raccontare storie nuove. Durante il lockdown sono usciti dei miei lavori di cui sono molto orgoglioso. Uno tra questi è stato Non è vero ma ci credo, in cui interpreto un cuoco romano che è diventato chef per caso. Inizialmente non ho battute, per cui lo spettatore immagina che sia un immigrato asiatico, ma quando apro bocca mi rivelo un romanaccio sulla scia del Monnezza.

Che poi, se ci rifletti, è lo stesso atteggiamento provinciale che spesso gli stessi italiani lamentano di subire nei propri confronti all’estero. Nelle pellicole cinematografiche come in altri contesti.

Solo che in quel caso le parti sono invertite e i giornalisti nostrani scrivono pagine intere urlando al razzismo e dicendo che gli italiani sono anche altro. A me questo atteggiamento fa molto male.

La reazione di molti italiani ai primi casi di Covid ne è un esempio.

Già. All’inizio, si vociferava che la colpa fosse dei cinesi, mangia-pipistrelli. Inizialmente ero scettico, perché non se ne sapeva ancora nulla (ovviamente, è bastato pochissimo per ricredermi: per me negazionisti e complottisti sono alla stregua di delinquenti e terroristi). Pensavo fosse un’operazione di marketing abilmente manovrata dagli Stati Uniti per discriminare la Cina e i cinesi. In Italia, per esempio, chiunque avesse gli occhi a mandorla è diventato dall’oggi al domani un potenziale “cinese di merda, portatore di coronavirus”. Ci sono stati numerosi casi di violenza, verbale e fisica, ai danni di cinesi, coreani, giapponesi, filippini, perfino sudamericani, a causa dei tratti somatici all’orientale. Io stesso ho subito un razzismo assurdo. In quel periodo lavoravo in Spagna, mi trovavo all’estero da sei mesi. Tornato in Italia, ho trovato un paese radicalmente diverso da quello che avevo lasciato. Si sono risvegliate vecchie ferite che pensavo sopite. Almeno dieci volte ho dovuto contare fino a venti per non andare alle mani, in mezzo alla strada.

 

Poi gli stati europei hanno cominciano a tacciare l’Italia come untrice.

Esattamente quello che noi abbiamo fatto verso i cinesi! Ma il peggio si è toccato quando dalla Cina sono arrivati i primi aiuti: mascherine, equipe mediche, medicinali. I giornali italiani se ne uscirono con titoli altisonanti, come “Per fortuna ci sono i cinesi”, o “La via della seta della salute”. Ma non erano gli stessi “cinesi di merda” di qualche giorno prima? Questo cambiamento non è avvenuto nell’arco di mesi, ma di giorni. Se i cinesi fossero stati rancorosi avrebbero potuto dirci, “Sapete cosa? Avete maltrattato il nostro popolo? Ma sprofondate pure”. E invece no.

A gennaio abbiamo intervistato Mohamed Ba sul suo ruolo nel film di Checco Zalone Tolo Tolo. Mohamed ci ha detto che la stereotipizzazione del continente africano era stata portata avanti dagli sceneggiatori per favorire la comprensione del film da parte del pubblico italiano. Pensi sia saggio semplificare linguaggi e concetti per permettere all’italiano medio di capire?

Innanzitutto, l’idea di promuovere il film tramite un teaser che nulla aveva a che vedere con la trama è stata geniale. Sembrava che si trattasse di razzismo pesante. Un’operazione di marketing anomala che va inquadrata nell’ironia tagliente e provocatoria tipica di Checco Zalone. Ha scandalizzato e fatto parlare, traducendosi in un successo ai botteghini. Ha fatto la cosa giusta al momento giusto: se questa comunicazione genialmente graffiante fosse stata fatta negli anni ’80, probabilmente nessuno sarebbe andato a guardare il film. Oggi i tempi sono più che maturi per rendere multietnica l’arte cinematografica italiana. Dopo il periodo del Neorealismo abbiamo avuto un momento di limbo. Tutti questi film sul filone di Vacanze di Natale per anni sono stati quelli che hanno incassato di più al botteghino. Perché? Lì dentro sta la risposta alla tua domanda.

Un’eredità pseudo-culturale alquanto gravosa.

È vero che l’italiano non è stato in grado di vedere nel cinema una fonte d’ispirazione per aumentare la sua cultura. Non era più qualcosa di culturale, ma di meramente ludico-trash-voyeurista. Sappiamo benissimo che negli anni ’80 i cinepanettoni sono emersi per l’esigenza di mostrare forme femminili in modo molto volgare ma non così esplicito come lo erano, ad esempio, nei film proiettati in cinema a luci rosse. Questo nuovo genere offriva, in maniera comico-grottesca, la possibilità di non doversi intrufolare di nascosto in reparti “per adulti” di negozi di videonoleggi. Il linguaggio di oggi è completamente diverso. Internet ha di fatto creato una porta su un nuovo tipo di informazione a cui attingere, che prima non esisteva. Un tempo c’era la solo la televisione a casa, con sei canali, e i film erano quelli che ti proponevano la Rai e la Mediaset. Si andava al cinema ogni due o tre mesi. C’era una forma di dittatura culturale. Adesso non è più così. Il ragazzino prende lo smartphone, sfoglia, “questo mi piace”, vede un trailer, due secondi di anteprima, e passa oltre. In quest’ottica, devo cercare nel minor tempo possibile di catturare l’attenzione su qualcosa. La cultura del “trailer” e dei “like” è sterile, ma pone la sfida su come si adeguerà la comunicazione cinematografica. Anche da un punto di vista interculturale, servirà concepire il cinema e la struttura dell’impianto narrativo in maniera completamente nuova.

Negli Stati Uniti hai riscontrato una simile trasposizione dei luoghi comuni sui cinesi?

Gli attori afroamericani godono di un grado di inclusione più avanzata, cinematograficamente parlando, rispetto ai colleghi asiatici. In realtà non c’è molta differenza rispetto all’Italia, in merito alle minoranze di origine asiatica. Ci sono stereotipi che permangono e resistono. Quasi tutti gli asiatici che compaiono sono i cattivi della situazione o sono grandi esperti di arti marziali. Mentre il cinema asiatico ha una varietà incredibile di sfumature, quello americano tende ad appiattirci. Eppure, sta avvenendo un grande cambiamento, perché sempre più investitori cinesi o sino-americani stanno puntando su film in cui attori asiatici recitano ruoli non stereotipati e liberi da questo tipo di imprigionamento.

Hai lavorato con grandi nomi del cinema statunitense, come Martin Scorsese e Ridley Scott. Come ti hanno segnato queste collaborazioni, umanamente e professionalmente?

Con Martin Scorsese non ho avuto grosse parti. Mi scelse la prima volta nel film sulla vita del Dalai Lama, Kundun, nel quale interpretavo un militare cinese che entrava nel territorio tibetano per assassinare il Dalai Lama. Lavorai con Scorsese una seconda volta in Gangs of New York, girato con Leonardo DiCaprio. Però sempre parlando di karma ci fu un episodio molto particolare e di grande significato per il sottoscritto. Quando in Sons of Tibet di Pietro Malegori interpretai un tibetano che si immola per protestare contro l’invasione dei cinesi, fui ricevuto in udienza da Sua Santità il Dalai Lama. Una grandissima emozione.

E con Ridley Scott?

Con Ridley Scott ho lavorato a The Vatican, che purtroppo ha avuto dei problemi di distribuzione per la tematica molto controversa. Però mi sono ritrovato per un mese intero con un cast internazionale di altissimo livello. Di quei grandi attori – che prima di allora avevo visto soltanto sul grande schermo – conservo la memoria di una grande disponibilità e di un modus operandi unico, lontano anni luce da quello italiano. E la consapevolezza che i grandi registi riescono nel proprio lavoro non soltanto per il genio innato, ma anche e soprattutto per la loro grande umanità. Questo mi ha mi ha veramente lasciato a bocca aperta. Per non parlare della professionalità dei membri del cast, anche solo per come modulavano la voce. Nell’audio originale, molti attori hanno un accento australiano, altri italiano, qualcuno statunitense, altri ancora inglese, ma si amalgano in modo sublime. In Italia, invece, la maggior parte dei film sono ambientati a Roma, il napoletano farà la parte del camorrista o del “ualla ualla” che strappa una risata, il milanese fa l’imbruttito. Se inizialmente ho avuto problemi perché avevo la faccia asiatica, poi hanno cominciato a lamentarsi del mio accento del nord, non romano.

A cosa hai lavorato ultimamente?

Ho da poco interpretato un ruolo da co-protagonista in una serie spagnola di fantascienza. Mi sono studiato le battute in spagnolo, ho fatto tre mesi di sessioni di formazione con una coach in collegamento con Madrid, e ho cominciato tutto questo processo di lavorazione della serie in Spagna. Una cosa meravigliosa, nonostante avessi dei concorrenti non da poco. C’erano degli asiatici che hanno fatto i provini per la parte – soprattutto asiatici spagnoli, che parlavano la lingua e quindi avevano una marcia in più. Io non conoscevo una parola. Non è stata semplice, ma è stata un’altra dimostrazione che le cose non “cambieranno” in un futuro indefinito, ma “stanno cambiando” già adesso.

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domenica 13 dicembre 2020

The Stranger In Me (Das Fremde In Mir) - Emily Atef

una mamma non riesce ad accettare il bambino appena nato.

le sue sofferenze e i suoi dubbi e i rapporti con il marito sono resi benissimo, merito degli attori e della storia che non è fatta per bagnare fazzolettini, né per invocare la pena di morte per la mamma degenere.

un film che merita - Ismaele 

 

 

Rebecca (32 anni) e il suo compagno Julian (34), sono in grande attesa per la nascita del loro primo bambino. Rebecca dà alla luce un bel maschietto in perfetta salute, e i due sembrano essere felici. Ma la donna presto si rende conto di non provare quell’incondizionato amore materno che si aspettava. Rebecca è turbata, si sente sempre più sola e disperata, mentre il suo bimbo le sembra sempre più un estraneo. Con il passare dei giorni, la sua incapacità a rispondere alle aspettative della maternità diventa sempre più evidente. Non riuscendo a parlare con nessuno intorno a lei, nemmeno con Julian, cade in una profonda depressione, tanto da rendersi conto di essere pericolosa per il suo bambino. Quando ormai non c’è più alcun dubbio sulla gravità del suo stato, Rebecca viene ricoverata in una clinica. Nel cammino verso la guarigione, nella donna si risveglia il sentimento materno, finalmente desiderosa di sentire il contatto, l’odore e il riso del suo bambino.

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The Stranger In Me is not a Rosetta-style descent into despair; the second half is about a difficult healing process, and the way it can be blocked by society's readiness to brand the unmaternal mother as a monster, and ostracise her. It's at this point that the script turns the initially rather flat husband into a character who becomes as interesting in his own way as Rebecca.

Henner Besuch's cinematography is measured but intimate, just handheld enough to bond with its subject and suggest the desperate loneliness of her situation. But respect dominates over voyeurism - something also underlined by the delicate soundtrack of pared-back, bittersweet piano trills.

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les structures étatiques sont précieuses. Une éducatrice restaure les liens distendus entre Rebecca et son bébé. Pas de jugement moral de sa part, pas de condamnation de la jeune femme en difficulté, ni de son mari d’ailleurs, mais de l’empathie sincère, amplifiée par le fait que cette femme a également souffert d’une dépression postpartum.
Même la police n’est pas inutile. Elle fait fonction de tampon social. Quand Rebecca oublie la poussette, un passant appelle les forces de l’ordre, pour être rassuré dit-il. La séquence est violente. Rebecca semble passer en procès public. Mais cette intrusion va éviter qu’un drame ne survienne et offrir une porte de sortie psychique à Rebecca.
Plus tard, quand Julian croit que Rebecca a disparu avec le bébé alors qu’elle est seulement parti avec lui au parc, là aussi la police est présente, dans leur salon – donc dans l’intime – et fait office de troisième homme, d’arbitre impartial entre les deux réalités qui s’affrontent alors, la peur de Julian au vu du passé récent et la vexation de Rebecca qui ne pensait pas à mal…

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giovedì 10 dicembre 2020

The Oath - Il giuramento - Baltasar Kormákur

Finnur salva le vite, ma come dice Ippocrate può portare la morte.

il motivo è l'odio verso chi gli ha portato via la figlia, lui tenta di tutto, ma non gli resta altra strada (quale la scoprirete).

dopo qualche "americanata" Baltasar Kormákur torna in Islanda e fa un bel thriller glaciale.

il film non è adatto per padri che hanno figlie fra i 15 e i 20 anni, per tutti gli altri va benissimo.

buona visione - Ismaele


 

 

 

Un chirurgo islandese non sa come arginare la tempestosità della figlia maggiore, che vive con uno scapestrato tossicodipendente. Dopo un primo tentativo, fallito, di far allontanare il ragazzo dalla figlia, decide di procedere per una strada meno convenzionale…

Scritto, diretto e interpretato da Baltasar Kormákur (Contraband, Cani sciolti, Everest, Resta con me), The Oath parte dal giuramento di Ippocrate per arrivare dalle parti di Un Borghese piccolo piccolo. Qualche inverosimiglianza di troppo, ma la tensione tiene dall’inizio alla fine.

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Finnur è un uomo tranquillo, placido e in cerca di un equilibrio, di una risoluzione pacifica con l’intruso, con il nemico privato rappresentato dallo squallido pusher Óttar, soggetto incapace di empatia o rimorso per l’induzione all’autodistruzione di una mente fragile come quella di Anna. Eppure, come già altre pellicole hanno saputo di(mostrare), su tutte il controverso e – a tratti – estremo Cane di paglia di Sam Peckinpah, ogni uomo, senza esclusione alcuna, di fronte all’ottusità e alla violenza altrui, a sua volta si trasforma nel riflesso speculare dell’altro da sé. Incapace di fare affidamento alla giustizia, a quelle autorità che dovrebbero assicurare l’incolumità dei cittadini, a Finnur non resta altro che diventare, in extrema ratio, giudice, giuria e giustiziere pur di salvare ciò che resta di sua figlia e della sua famiglia. Tra scorci urbani coperti dalla neve e le lande fredde e desolate al di fuori della metropoli, si assiste a quell’eterno scontro tra la culla della società (la città) e i luoghi ancestrali e originari dell’uomo, quelle terre a volte tanto brutali quanto prive di legge. Non a caso il personaggio di Finnur, ben caratterizzato e interpretato da Baltasar Kormákur, e la sua freddezza d’animo coincidono, si sovrappongono con ciò che lo circonda: da una parte la metropoli, centro nevralgico dell’uomo modello e ben integrato nel tessuto societario, rispondente a un’etica di comportamento fondata su diritti e doveri, dall’altra parte la natura, lontana dal cemento e dall’acciaio, depauperata da qualsiasi tipo di sistema legislativo (tranne per quello della Madre Terra) e lasciando così spazio alla vendetta (e al delitto “perfetto”)…

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Bene Kormakur che confeziona un giallo nordico dalle ovvie bellissime scenografie e dalla sceneggiatura solida anche se facilmente intuibile .
Il buon Baltazar si dimostra anche buon attore nei panni del tormentato protagonista ,bene comunque anche gli altri attori .
Bel Thriller

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mercoledì 9 dicembre 2020

Schpaa - Erik Poppe

opera prima di Erik Poppe, siamo a Oslo, una banda di ragazzini ai margini di qualsiasi cosa cerca di fare qualche colpo che gli procuri un po' di soldi.

ma il giro è troppo grande, gli adulti sono dei delinquenti da ergastolo, tutto va a finire male.

ma è sopratutto la storia di un'amicizia, fra Jonas ed Emir, un'amicizia senza troppi motivi, perché l'amicizia, come l'amore, non è facile spiegarla.

un film che non si dimentica in fretta, poi Erik Poppe farà di meglio, ma inizia già bene, buona visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, in lingua norvegese


 

…It feels like it was made for Norwegian TV, directly opposite of the emotional feel and production value of the two profound films that follow. Like those two, there are ways in which Schpaaa contains elements of the relational power of a restored family unit, but it ultimately wears the viewer down and wears itself out with its beaten up kids and a narrative that burns out.
The shortest of the three films, clocking in at only 73 minutes, Schpaaa is an awkward launching pad for the trilogy. It's nowhere near as cinematically packed as the following Hawaii, Oslo or Troubled Water, and a DVD copy is quite hard to track down. The only way to obtain it anymore is to find a used copy on eBay. Trilogy purists might long to see it in order to view the three as a whole, but it's just as easy to skip Schpaaa altogether and find the real deal in the following films. My next two posts will discuss those inspirational gems in-depth.

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A story of loyalty and friendship among young street kids caught in a spiral of crime, “Schpaaa” (Norwegian street slang for “cool”) is a gritty and realistic depiction of an Oslo never before seen on film. Although its story is nothing new, pic is a captivating, basically sad tale of kids who are doomed from their early years. A critical and commercial hit on home turf, where it made headlines for its subject matter, film marks a strong debut by writer-director Erik Poppe that should travel the fest circuit…

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Cuando el cineasta noruego Erik Poppe termina su primera película está cerca de cumplir los cuarenta años, una edad que le proporciona ventaja emocional por la perspectiva distante que toma sobre la historia narrada en Schpaaa, acerca de una pandilla de adolescentes conflictivos que delinquen por su ciudad. Sus modos se alejan de la evidencia de otros films contemporáneos norteamericanos sobre jóvenes, obras como las de Larry Clark o Harmony Korine. O de obras más moralizadoras como la española Historias del Kronen. La virtud de Poppe en su ópera prima es la elusión de posibles explicaciones que reflejen el contexto familiar o social de sus personajes. Aunque sí aparecen adultos como la madre de Jonas, que intenta convencer a su hijo para que abandone la pandilla y se aplique más en los estudios, tutelándolo con más torpeza que determinación. O el tío delincuente del discapacitado psíquico Emir, el mayor del grupo pero el menos inteligente de todos. Es cierto que los chicos no tienen un contexto apropiado para salir de sus broncas y demás trapicheos, pero tampoco es un entorno tan decadente como para ser carne de cañón ninguno de ellos…

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lunedì 7 dicembre 2020

Il coltello nell'acqua - Roman Polanski

sembra che la commissione di censura si siano lamentati per qualche nudo della protagonista (Krystyna) e per un finale ambiguo, niente a che vedere con il realismo socialista, e pare che Gomulka, il segretario del partito comunista (POUP) abbia lanciato un portacenere verso lo schermo, e i critici cinematografici polacchi di allora non apprezzarono il film (era il 1962). 

sembrerà un caso, ma Polanski lascio la Polonia per la Francia.

ci sono solo tre attori, ma non sono troppo pochi, sono perfetti.

chi vede il film, opera prima di Polanski, candidato all'Oscar come miglior film straniero (vinse Fellini con 8 e mezzo), capisce che la Polonia rappresentata non era il paradiso in terra, ma esistevano le classi, i giovani scalpitano per un posto nel mondo, le donne sono trattate abbastanza male.

il film è un thriller senza pause (ha lavorato alla sceneggiatura Jerzy Skolimowski), c'è un morto che non è morto, quasi una lotta di classe fra la vita e la morte, la protagonista osserva ma fa le sue scelte, chiaro oggetto del desiderio.

non perdetevelo, è un gioiellino che non potrà deludervi - Ismaele


 

QUI il film completo, in italiano

 

 

…Andrea e il giovane sono, infatti, il simbolo di un conflitto generazionale e politico che oppone la borghesia, con il suo lusso fatto di barche a vela, belle macchine, sicurezza economica, alla classe sociale inferiore, fatta di incertezza, precarietà e un’invidia latente. Il conflitto tra i due nasce all’interno di una dinamica matrimoniale già conflittuale, ma quasi sottaciuta.

Cristina è vittima dell’arroganza di un marito borioso e superbo che continuamente le dà ordini. Confinata nel ruolo di oppressa, è un personaggio continuamente chiamato a riportare la calma e l’ordine nelle zuffe dei due, mentre il marito, alla guida dell’imbarcazione, sembra dirigere il loro destino verso un orizzonte vuoto e silenzioso.

Un personaggio femminile che diventa una sorta di muto testimone delle contese di virilità degli uomini e, allo stesso tempo, un muto trofeo da esibire e da conquistare. Contrapposto al rapporto matrimoniale, quello tra i due personaggi maschili diventa un continuo affrontarsi e cercare il predominio sull’altro: Andrea è l’uomo borghese arrivato, che nella vita ha saputo trovare il coraggio di diventare un giornalista di successo. È un personaggio che continuamente cerca di dare prova del suo sapere accademico e della sua superiorità pratica. Il giovane autostoppista è invece un personaggio che cerca di riscattarsi, di dimostrarsi altrettanto uomo con i mezzi di un ragazzo inesperto. I tentativi di svelarsi all’altezza della situazione svaniscono con la superbia di un ragazzino immaturo. Ne è simbolo il coltello che si porta dietro, con cui si diverte a giocare e a sfidare il pericolo: retaggio di un’adolescenza passata che traduce il rifiuto della maturità cui è destinato…

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L'esordio di Polanski è già un film riuscito, completo e pienamente polanskiano.
Gli basta poco, come al solito: una coppia di alta borghesia prende in macchina un giovane autostoppista e il marito decide di portarlo con loro nella gita in barca.
E' già il mondo raffinatamente surreale di Polanski, che studia l'animalesca personalità umana in un viaggio col passare dei minuti sempre più irrazionale e perverso. I due uomini hanno caratteri decisi; come animali vogliono mostrare chi è il più forte, il più virile, di fronte alla femmina. Il marito assomiglia pericolosamente a Nicholas Cage ma recita meglio, è insopportabile e umilia di continuo l'altro dall'alto della propria esperienza; il ragazzo accetta sempre, con arroganza, le sfide poste dal marito. Gli episodi, banali all'apparenza, riescono ad accumulare una tensione sottile, irritante, sottocutanea, che affiora periodicamente in superficie. L'esplosione definitiva scopre i veri uomini che si nascondevano dietro i due che, come dice bene la moglie, stavano solo recitando delle parti.

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Perse molte tracce di storicismo cui era legata la Scuola Nazionale di Cinema di Lodz (e dalla quale era uscito il regista) il film recupera il suo potenziale critico nell’ambiguità dei personaggi, nello sfondo plumbeo del cielo (cinismo in penombra che con l’episodio della pioggia ne aumenta il carattere asfissiante) e nelle menzogne dei fatti: i due protagonisti maschili si bilanciano, spesso scambiando i ruoli in maniera impercettibile (il gioco del coltello con la mano aperta) ma è nel loro incontro mancato che il regista inserisce la sua storia. Non si tratta più quindi della storia della Polonia, ma della storia dei suoi uomini, e si capisce da subito che per il regista saranno spesso uomini soli, strappati ad un contesto e resi assoluti, silenziosi, distanti dalle cose perché privi di un’umanità che renderà caratteristico il cinema di Polanski. Un film che sebbene costruito in un unico ambiente principale e con solo tre personaggi, non sfrutta l’espediente logorroico dei dialoghi, ma come abbiamo detto, racconta molto anche con le immagini (la corsa del ragazzo sull’acqua). Il film fu sceneggiato anche dal futuro regista Jerzy Skolimowski, il quale partecipò anche al montaggio. Per alcune sottigliezze, il coltello nell’acqua potrebbe corrispondere come versione polacca de L’Atalante (1934) di Jean Vigo, priva di romanticismo e ridotta all’osso (ma anche elevata all’assoluto) nella sua crudezza.

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La película iba a llamarse El Cuchillo en el agua (Nóz w wodzie, 1962) e inicialmente el guion lo empezó a escribir junto a Kuba Goldberg, sin avanzar mucho. Aparece en escena Jerzy Skolimowski, un poeta y boxeador aficionado que aspiraba a entrar a la Escuela de Lodz. Entre él y Polanski darán cuerpo definitivo al guion, cuyo relato ya no se extiendía a lo largo de tres o cuatro días, sino que se concentra –la idea fue de Skolimowski- en el lapso de 24 horas. Luego de tres semanas de intenso trabajo, los coguionistas enviaron el proyecto al Ministerio de la Cultura, que lo rechazó por “preocupaciones temáticas” y “cuestionables valores morales”, recomendando una serie de cambios indispensables para su aprobación, incluyendo un compromiso social afín a la política comunista y una moraleja que el público pudiera aprender. Año y medio más tarde Polanski volvió a someter el guion al Ministerio con algunas escenas remendadas y unos diálogos añadidos. Esta vez fue aprobado…

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El principal atractivo de “El Cuchillo en el Agua” radica en la habilidad que exhibe Polanski a la hora de hacer evolucionar a sus personajes y avanzar en un argumento cuyas situaciones están limitadas espacialmente por una única localización (un velero) durante la mayor parte del metraje. Dicha limitación juega a favor y en contra de la intensidad de la historia narrada, ya que, inevitablemente, provoca una sensación claustrofóbica, pero también puede derivar en una pérdida de atención del espectador; esto último no ocurre gracias a la asombrosa pericia del director, que mantiene el pulso narrativo mediante una fascinante lucha de egos que siempre avanza y que presenta suficientes alternancias en el “marcador” como para que el ritmo no decaiga…

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El cuchillo (calma, no estamos en un thriller hollywoodense, por lo que no se convertirá en arma homicida ni nada parecido) será pues, la diferencia entre estos dos machos (uno alfa y otro prospecto de alfa) y el desencadenante de... bueno, creemos que el desenlace es menos importante que el despliegue psicológico no tanto de los personajes sino de los arquetipos que encarnan. Aportan amplio respaldo la impecable fotografía, los pasajes musicales de Komeda (breves pero intensos), las solventes actuaciones y un guión solidísimo convirtiendo al primer largometraje de la filmografía de Roman Polanski en uno de los más competentes, promisorios e influenciales ingresos al 7mo. Arte

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