lunedì 31 gennaio 2022

Ennio - Giuseppe Tornatore

il 17 febbraio Ennio sarà al cinema, però c'è stata la proiezione nei cinema sabato e domenica di fine gennaio, per vedere l'effetto che fa.

gli incassi del fine settimana sono stati buoni, e meritati.

probabilmente è il film della stagione, Tornatore è stato bravissimo e tutti possono conoscere Ennio Morricone di persona, e non solo le sue musiche.

si dirà che solo dopo che uno muore ci si accorge della sua grandezza, meglio tardi che mai.

le sue musiche da film sono quelle che tutti riconosciamo, e hanno accompagnato le nostre vite, e lo faranno ancora, finché le centinaia di film (528, certifica Imdb) dei quali ha creato la colonna sonora saranno visti e rivisti.

per quasi tutti ci sarebbero volute diverse vite per fare quello che Ennio ha fatto in una vita sole, come se fosse la cosa più normale del mondo.

è un film che racconta una storia, anzi molte, fa pensare, fa sorridere, fa commuovere, fa venire la pelle d'oca, fa scorrere qualche lacrima, è un film che fa bene al cinema e a chi lo guarda.

e quindi non perdetevelo, quando riapparirà nei cinema - Ismaele

 

 

 

…Ennio si apre con un'alternanza brillante di opposti movimenti di direzione d'orchestra e stretching domestico, dando l'attacco a un'immersione competente e appassionata nella carriera di un compositore dall'opera incalcolabile, che ha spaziato in ambiti molto diversi. Erroneamente identificato in tutto il mondo per lo più per le invenzioni strumentali e rumoristiche dei western di Sergio Leone e accompagnato per tutta la vita dal dispiacere per un pregiudizio accademico nei suoi confronti.
Il pregio di Ennio, non solo dentro il genere documentario, risiede nella sua semplicità e chiarezza così difficili da raggiungere, ma ancor prima nel fatto che Tornatore abbia concepito la propria linea narrativa come una partitura musicale. Il montaggio aggraziato e puntuale di Massimo Quaglia e Annalisa Squillaci rende questa cavalcata di oltre due ore e mezzo tra film e pentagrammi uno svelamento seducente anche per non addetti ai lavori, che non si vorrebbe finisse mai, perché, tra aneddotica e archivio cinematografico, la musica e le sue leggi restano a fuoco.

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la forza del documentario sta tutta nell’intimità del racconto in prima persona, nella commozione che fluisce dal ricordo, con una naturalezza spiazzante, nella memoria di ferro delle divagazioni musicali. Per Morricone comporre musica voleva dire difendersi dalla solitudine, affidando agli strumenti le proprie passioni interiori. Ecco allora che si chiarificano le ombre, che emergono i non detti: la delusione per quegli Oscar non vinti, non futili simboli di un successo mai rincorso, quanto una legittimazione all’esistenza di un uomo che ha consegnato se stesso ad ogni nota scritta. Per due ore e mezza i capolavori di Morricone risuonano senza tregua ed è chiaro il tentativo di costruire il documentario sul modello di un grande concerto polifonico, riuscendo comunque a mantenere una chiarezza espressiva che la massiccia quantità di materiale, tra archivio, aneddoti e curiosità, avrebbe potuto facilmente annebbiare.

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Se piace il genere, lo si amerà. Se non piace il genere, si sappia che gli italiani ormai sono maestri dei docufilm. E se tutto ciò non dovesse convincere, andatelo ad ascoltare. Proprio così: chiudete gli occhi e usate le orecchie, questo film già così vi regalerà emozioni. Certe canzoni del passato vi faranno ricordare istanti passati; certe melodie vi riporteranno alle relative scene di film. Fra i cantautori con cui Morricone lavorò: Gianni Morandi, Mina, Gino Paoli, Luigi Tenco, Rita Pavone, Edoardo Vianello e molti altri. Negli anni 60, Morricone collaborò con la casa discografia RCA. Arrangiava canzonette. Il pop italiano visse un momento d’oro. Ennio Morricone cercava sempre “di arricchire una canzone, sia che fosse bella o sia che fosse modesta […]”; cercava di non rifugiarsi “in un lavoro passivo”.

Per Con le pinne fucile ed occhiali di Edoardo Vianello Morricone volle ricreare lo splash di cui alla canzone e ci riuscì. In Sapore di sale aggiunse un paio di suoni in più che ben si distinguono e ne fecero un grandissimo successo. E ci furono Se telefonando (Mina), Abbronzatissima (Vianello), Il mondo (Jimmy Fontana), C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones (Morandi) e così via, tutti trasformati pezzi indimenticabili. Avviandoci verso la conclusione della nostra recensione di Ennio, aggiungiamo che i film che raccontano le vite dei grandi innovatori di arte e storia o scienza e cultura, e così via, valgono la pena di essere visti sempre. E se il personaggio è Ennio Morricone, forse, ancora di più.

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Ma quale Morricone viene fuori da Ennio? L'uomo innanzitutto: un essere attento, taciturno, intelligente, modesto, enigmatico, abitudinario. Molti già lo conoscevano per queste caratteristiche, ma laddove il film di Giuseppe Tornatore diventa qualcosa di nuovo e appassionante è nella messa in risalto della pura genialità di Ennio Morricone, che scriveva note anche sulle tovaglie di carta dei ristoranti, che creava melodie nella sua testa, che traeva spunto dal verso di un animale o dal rumore di un barattolo o di ferraglia. Forse non importa sapere che Stanley Kubrick ha chiamato Ennio per Arancia Meccanica e che è stato il Maestro ad arrangiare "Se telefonando" e "Abbronzatissima", quando lavorava per la RCA, ma è bellissimo e commovente scoprire il dramma che il figlio di un suonatore di tromba costretto a frequentare il conservatorio ha vissuto per quasi tutta la vita a causa dell'atteggiamento di rifiuto del suo maestro Goffredo Petrassi, che riteneva la composizione per il cinema uno svilimento della musica stessa. Proprio questo snobismo da parte dell'accademia ha portato Morricone a vivere la sua vita artistica come una rivalsa, come un antidoto alla paura di aver tradito i padri. La sua rivincita l'ha avuta Ennio, e parlandone in vecchiaia si commuove spesso, e noi con lui. Del resto, a inizio film, l’artista viene immortalato mentre fa la sua ginnastica mattutina, prima di entrare in uno studio dove il caos è ordine e meraviglia. Questa intimità non può non avvicinare lo spettatore…

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sabato 29 gennaio 2022

Mademoiselle Chambon - Stéphane Brizé

una storia banale, la maestra e il muratore, padre di un suo alunno, vengono attratti dalla calamita della passione.

e le cose vanno avanti, fra silenzi, sguardi, tutto in modo misurato e però irresistibile.

ottimi attori, la maestra, il muratore e la moglie, che sa soffrire e aspettare.

un fran bel film, per gli amanti del cinema francese, e di ogni cinema.

buona (musicale e tormentata) visione - Ismaele


 

 

 Sconsiglio la visione di questo bellissimo film alle persone che lamentano l’eccessiva lentezza di un certo cinema francese. La raccomando invece vivamente a chi ama i film costruiti sulla qualità dei dialoghi, sull’intensità della recitazione e sull’introspezione dei caratteri dei personaggi. Inizialmente, Jean e Véronique esitano addirittura sul modo in cui parlarsi e comportarsi l’uno con l’altra. Piccole frasi, reciproca gentilezza nei modi, reciproco rispetto. Per arrivare al primo bacio si deve attendere una quarantina di minuti e faranno l’amore una sola volta, a film quasi terminato. Il finale, poi, porta da tutt’altra parte. Vincent Lindon, attore capace veramente di tutto, si cala in maniera sorprendente per autenticità nella parte del bravo muratore, forte, uomo semplice ma onesto e di grande umanità. Di fronte a lui l’eccellente Sandrine Kiberlain, quasi stupita dei sentimenti che sente nascere dentro di sé nei confronti di un personaggio lontano anni luce dal suo modo di vivere. Il film è privo di scene erotiche, ma si respira aria di desiderio sessuale fin dal primo incontro. Questo approccio a tentoni, il lento avvicinamento dei due protagonisti e l’esito che non va rivelato suscitano nello spettatore una crescente tensione da thriller psicologico in una vicenda ambientata nella quotidianità di persone di ogni giorno, in contesti semplici quali il lavoro e la vita familiare. Tutto avviene alla luce del sole, non ci sono incontri segreti, né scoperte traumatiche. A nudo vengono messi soltanto i sentimenti, le incertezze, la paura mista a desiderio di cambiare vita. In questo risiede la grandezza di un film delicato quanto profondo. Nell’adattare il romanzo di Eric Holder da cui è tratta la sceneggiatura, il regista Stéphane Brizé riconosce di essersi lasciato volutamente influenzare da « I ponti di Madison County » (1995) di Clint Eastwood (fonte « Allociné.com »). Ne condivide in effetti la sobria tonalità ed una conclusione che lascia con il groppo in gola. Da notare che, nella vita reale, Sandrine Kiberlain e Vincent Lindon sono stati moglie e marito...

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Mademoiselle Chambon is an exquisite and well-acted French film directed by Stephane Brize. There isn't a wasted moment in this subtle and slowly unfolding story of an extramarital romance. Both Jean and Veronique are opened to fresh territory inside themselves that they had not explored before. And their lives are enriched by what happens between them. Vincent Lindon and Sandrine Kiberlain give stellar nuanced performances which make the most out small moments that signal the soundings of the heart.

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Mademoiselle Chambon es una película sobre las otras gramáticas, las evanescentes, las que nacen y mueren cada día, las que están implícitas en el silencio, en las miradas, en las ventanas que se rompen, se abren y se cierran. En la manera de acomodar las masitas en un plato. En la paz cifrada en unos pies dormidos. En la pose fingida de los amantes que dicen sentir la música cuando lo único que pueden escuchar son sus propios latidos, que ya no dan más. También están los frágiles códigos de la cobardía que las mujeres leen a la perfección (no, Jean, no tenías que montar la escena del cumpleaños para “hablarle” a tu mujer), y aún más extendidos están los códigos de la resignación y los de la fantasía romántica. ¿Pero qué resignamos exactamente? ¿Qué anhelamos? ¿Podemos definirlo acaso? De nuevo la paradoja, el deseo que no puede hacerse de su objeto. Porque cuando lo consigue, ya dejó de ser deseo.

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giovedì 27 gennaio 2022

Effetto domino - Alessandro Rossetto

l'occasione rende l'uomo debole, perché spesso crede di potersi permettere passi più lunghi della gamba.

le crisi finanziarie (e non solo) nascono quando si rischia troppo, pensando di potercela fare.

l'effetto domino è tutto qui, ogni impresa è legata alle altre, quando inizia uno tsunami sembra che riguardi gli altri, invece ci si trova nell'occhio del ciclone e uscirne è impossibile.

il film di Alessandro Rossetto è un film necessario, dietro l'economia e le crisi ci sono imprese e famiglie, che si schiantano senza pietà.

c'è sempre qualcuno che tira la rete e raccoglie i pesci, vittime di un sistema truccato.

se hai molto da ridere lascia perdere Effetto domino.

il film merita molto, bravi attori, appaiono anche Marco Paolini e Vitaliano Trevisan.

buona (economico-dolorosa) visione - Ismaele

 

 

 

QUI il film completo, su Raipaly

 

 

Il racconto, sceneggiato insieme a Caterina Serra, sta fra il saggio di antropologia, l'osservazione entomologica e la messa a nudo della dimensione grottesca, "sorrentiniana", del potere e dell'umiliazione cui si espone chi il potere non ce l'ha. Effetto domino affronta di petto alcuni "elefanti in salotto" della contemporaneità: l'invecchiamento progressivo dei Paesi occidentali e la conseguente nascita del "business della vecchiaia"; il crollo dell'edilizia, settore trainante dell'economia e in alcune zone attività primaria; la globalizzazione come epitome dell'etica (si fa per dire) del cane mangia cane, secondo una piramide di sopraffazione in cui ognuno si scopre contemporaneamente vittima e carnefice.
La vicenda narrata è una via crucis in sei stazioni, con il commento algido e talvolta sarcastico della voce fuori campo di Paolo Pierobon, che sottolinea in maniera "scientifica" le dinamiche fra gli esseri (sempre meno umani) in scena, attingendo anche ad alcuni passi firmati da Jonathan Franzen. La storia è durissima e dolorosa, non solo perché ne riconosciamo i contorni, ma anche perché è raccontata come un lento scollinamento verso gli inferi attraverso atmosfere rarefatte e ambienti lunari: il disfacimento dei luoghi e dei convincimenti morali, la scomparsa dei punti di riferimento, il ruolo che ognuno gioca nel creare quell'effetto domino che fa crollare impalcature costruite da persone la cui soddisfazione più profonda sarebbe quella di "far nascere le cose". In assoluto il tema più rilevante è l'incapacità degli uomini di affrontare la morte: anziani che credono di poter vivere per sempre, cinquantenni che contemplano con orrore la propria caducità, giovani che ostentano il loro sentirsi invincibili…

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Per spiegare il mito fondativo dell’identità veneta, dell’industrializzazione e dell’annesso deturpamento del suo paesaggio – cui alludono le inquadrature aree del sito destinato al resort –, si ricorre a un’esegesi antropologica per cui l’essere umano avrebbe sempre cercato di irreggimentare la natura, di ridimensionarla, poiché ove v’è più vita vi è anche più morte. E nei paesi che già possono permettersi il lusso di guardare al prossimo secolo, la morte sarà una realtà ben più tangibile della vita, che andrà progressivamente ghettizzata e ricondotta a forme che ne occultino la sostanza. Da qui la grandezza della visione di Colombo, forse persino troppo raffinata per lui e che solo qualcuno come Hu, che vive dove il sole sorge prima che altrove, è in grado di perfezionare, mentre il Veneto, la regione che per prima aveva intercettato e inseguito questo sogno, sembra aver perso la bussola ora che il mondo e il mercato si sono definitivamente aperti.

Se si può affermare senza tema di essere tacciati di campanilismo che il cinema italiano è dominato da una tendenza Mezzogiorno-centrica, è altrettanto vero che opere come Effetto domino, che invece di enfatizzare arcaismi culturali per amore del soft power mette in scena un attualissimo conflitto inter e intragenerazionale guardando anche all’immediato rivale dell’Occidente, sono rare a vedersi. Potrebbe suonare come una speculazione, ma non lo è: proprio come il suo predecessore, Effetto domino è un film piccolo ma non da poco, che nonostante qualche incertezza programmatica si fa alfiere della Weltanschauung di un territorio e della sua gente.

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Alessandro Rossetto racconta, con limpida schiettezza, in una storia cruda che sbatte in faccia allo spettatore un sottobosco di imprenditori approfittatori e guerrieri furbi che lottano in terre di nessuno. Il regista mantiene il tratto documentaristico della storia, ispirata ad eventi realmente accaduti, affiancandolo a una visione sarcastica, grottesca e quasi sorrentiniana del potere, della paura della morte, della distruzione fisica e personale. Il pregio di Effetto Domino risiede nella genuinità delle performance di un cast corale (in cui spiccano Maria RoveranNicoletta MaragnoLucia Mascino e il grande Marco Paolini) che inscena una tragedia pronta a sgretolarsi in piccoli frammenti, crollando come crollano le impalcature degli imprenditori ingannati dai loro simili…

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…Sicuramente ciò che sta alla base di un film di questo tipo è la concitazione, il terrore: Effetto Domino è a tutti gli effetti una pellicola che guarda al lato oscuro della finanza, dell’edilizia, delle imprese: è tutto ciò che ruota attorno ad un mondo che è tanto imponente quanto fragile. Anche solo una piccola tessera traballante può far crollare un’intera impalcatura. Il panico non è solo conferito dal rischio di poter perdere tutto, investimenti milionari, aziende, case di proprietà, ma anche dal rischio personale di questi uomini di poter perdere, in un certo senso, la propria virilità.

Il lato più interessante del film è osservare come questa visione maschilista aziendale (e familiare), evidentemente tossica, sia la diretta conseguenza di un sistema finanziario sicuramente abitato dalla maggior parte dagli uomini. Le donne sono una assoluta minoranza, il loro punto di vista è sempre marginale, ed è un bene che questo venga rilevato, anche se in modo dimesso. Alessandro Rossetto firma un film tragico, attuale, una storia infuocata che colpisce nel segno e dimostra quanto sia fragile la nostra economia e quanto sia frangibile l’essere umano.

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mercoledì 26 gennaio 2022

Undone - Hisko Hulsing

una bellissima sorpresa, sembra una serie d'animazione, la tecnica si chiama rotoscope animation, cioè il film viene girato con attori in carne e ossa, e poi la pellicola viene "disegnata".

l'attrice Rosa Salazar è la protagonista, Alma, alle prese con la soluzione di un mistero che riguarda il padre.

dopo un incidente Alma ha il dono di poteri che la portano nel passato, è qui oggi, ma anche là, nel passato, col padre, prima della sua scomparsa.

in tutto la serie dura meno di tre ore, praticamente un film lungo.

tutti gli attori sono bravi e credibili, anche ridisegnati.

a me è piaciuto moltissimo, provare per credere.

buona (rotoscopica) visione - Ismaele

 

 

Non si era mai visto nulla del genere in Tv e il calore degli sfondi dipinti a mano fa in modo che gli attori "ridisegnati" siano immersi in un mondo davvero disegnato, oltretutto pronto a sfaldarsi e trasformarsi come solo in animazione è possibile. Questo impressionante sforzo stilistico si accompagna a una sceneggiatura scritta per valorizzarne le potenzialità: la storia di Alma infatti all'inizio è quasi banale, ma dopo l'incidente la sua vita ordinaria è squarciata da salti temporali e visioni fantastiche, apparizioni del padre e situazioni paradossali, che danno luogo a un grande sfoggio di invenzioni visive.

Tutt'altro che trascurabile è l'apporto del cast, le cui fattezze sono alla base del disegno e la cui interpretazione, proprio perché ritoccata in animazione, porta sulle spalle il peso di una forte aggancio emotivo. In altre parole: gli attori devono portare il pubblico a provare empatia, anche se le loro fattezze sono trasfigurate e le situazioni che si vengono a creare sono via via più irreali. Un ruolo chiave, come sempre in animazione, è quello della voce, ma a differenza di altri cartoon più o meno satirici qui il registro interpretativo vuole essere drammatico e il tono verosimile, con personaggi tridimensionali e non più o meno semplici caricature…

la sconnessione dal tessuto temporale di Undone arriva invece da Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, che raccontava una fantastica reazione all'incommensurabile trauma del bombardamento di Dresda. Alma non ha vissuto un dramma storico, ma la tragedia l'ha segnata in modo indelebile quando era ancora bambina e non l'ha più lasciata. È quindi un personaggio di donna emancipata, dalla battuta pronta, ma pure di grande fragilità. La serie la svela poco a poco in una stupefacente fantasmagoria, che interviene in modo spiazzante, ma pure con tempismo perfetto, a modulare il perpetuo oscillare della vita tra dramma e commedia.

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…C'è una concreta base di realtà alle spalle dei personaggi della serie di Kate Purdy e Raphael Bob Waksberg, già noti per un'altra serie rivoluzionaria e matura come BoJack Horseman della rivale Netflix: le figure umane sono infatti realizzate e animate con la tecnica della rotoscope animation, ovvero ricalcate su riprese dal vivo per ottenere un effetto realistico. Non è un caso che lo studio di Amsterdam Submarine abbia coinvolto il team responsabile di A Scanner Darkly - Un oscuro scrutare di Richard Linklater per dar vita alle figure animate sulle quali è costruita la storia, ricalcate, appunto, sugli interpreti scelti per dar vita (non solo nel doppiaggio, quindi, ma anche come modello fisico e riferimento recitativo) per i differenti ruoli…

… Un effetto insieme suggestivo e straniante, perfetto per accompagnare la particolare costruzione narrativa di Undone, che ci trascina nella sua deriva onirica, fuori e dentro le visioni della protagonista, con effetti visivi e transizioni che ci portano da un contesto all'altro con fluida discontinuità. Il merito non può che essere degli autori, capaci di tenere ben salde le redini di una storia che avrebbe facilmente potuto disarcionare lo spettatore, con menzione speciale per la solida regia di Hisko Hulsing che riesce a guidarci nel labirinto di visioni e ricordi che è la mente della protagonista. Se l'effetto dal punto di vista narrativo è coinvolgente e intrigante, adeguato a sostenere i presupposti e temi attorno ai quali si sviluppa la storia, l'impatto visivo è assolutamente sorprendente grazie alla fusione di tecniche diverse: se il rotoscopio assicura realismo ai personaggi, per i fondali si è scelto un approccio più pittorico, con una serie di artisti a realizzarli con dipinti a olio su tela...

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martedì 25 gennaio 2022

Muertos de risa - Álex de la Iglesia

nonostante il titolo il film non è molto comico, anzi è denso di umorismo nero, che fa ridere con altri mezzi, nella Spagna che passa dal franchismo alla democrazia.

il film racconta la nascita e la vita, fino all'estinzione, di una coppia comica che piace al pubblico, niente di raffinato, ma Bruno e Nino piacciono (grazie anche al loro manager, attore feticcio del regista).

ma la convivenza sull'onda del successo non è facile e già dall'inizio Álex de la Iglesia ci mostra come va a finire.

non è il film migliore del regista, per i miei gusti, ma i film migliori sono capolavori, e quindi Muertos de risa è comunque un bel film, dolce/amaro.

buona visione - Ismaele


 

 

QUI e QUI il film completo, in spagnolo

  

 

Penso che non sia mai stato distribuito in Italia, ma credo che sia una delle migliori pellicole di De La Iglesia. Una commedia nerissima e cattiva fra due personaggi che formano un duo comico famosissimo, formatosi quasi per caso e quasi per caso diventando personaggi di punta grazie ad una comicità spicciola e banale che malgrado tutto fa presa sul pubblico. Con uno stillicidio degno della Guerra dei Roses, la coppia gradualmente scoppia in una mare di invidia reciproca, concependo ed attuando colpi sempre più bassi fino alla fine. Sullo sfondo dei grandi cambiamenti della Spagna, dal franchismo ad uno stato più democratico, si consuma la storia due individui che impareranno ad odiarsi fino in fondo, rendendosi conto che non possono fare l'uno a meno dell'altro. Malgrado l'odio e l'invidia la coppia è inscindibile. Terzetto d'attori fantastico, situazioni grottesche e divertenti, un De La Iglesia ai suoi migliori livelli.

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Es de agradecer a Alex de la Iglesia su humor negro y su mirada tierna, pero sin nostalgias, de la España casposa que todos llevamos en el alma, esa España de curas, paletos y legionarios que ya no duele porque afortunadamente la hemos dejado atrás (¿de veras?). España ya no es la misma, como bien sabe de la Iglesia: la gasolina que antes servía para incendiar garitos de carretera que sirviesen de tumba a la cabra amada por una tropa de legionarios, ahora sirve para incendiar a ex esposas o novias que ejercen su derecho a no ser el payaso de las bofetadas y se convierten en tumba de un amor. Como Nino y Lampedusa saben bien, es necesario que todo cambie para que todo siga igual.

El humor negro de la película es siempre muy español, y como tal, es goyesco. La película prácticamente se abre con una recreación de la célebre pintura negra de Goya donde dos hombres enterrados de la cintura a los pies se asesinan a garrotazos. Bruno y Nino, en el Museo del Prado moderno que es Prado del Rey, se acribillan a balazos tendidos sobre el suelo, igualmente inmóviles, igualmente en movimiento para no llegar a ninguna parte, salvo al presente.

Ocurre a veces que el presente se trata del pasado enterrado en los ojos de un ciego.

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…en Muertos de risa Alex deja entrever con fuerza su visión pesimista, nihilista casi, de las relaciones humanas. Acaso eso es lo que se esconde tras la escatología de su estética: el profundo descreimiento maquillado de humor negro de la generación del nevermind. Así lo hizo saber él mismo cuando estuvo en Buenos Aires ante la pregunta de uno de sus fans ("¿Creés en algo?"); así lo confirmó en este largometraje. Que ese discurso, con el que se puede estar de acuerdo o no, esté tan bien planteado habla de que más allá de los altibajos nos encontramos ante un gran artista. Que en este caso se da el lujo de homenajear con gran altura a Federico Fellini, Orson Welles y a más de un formato de lo que se conoce como "cine clásico americano"…

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lunedì 24 gennaio 2022

Drive My Car - Ryûsuke Hamaguchi

il titolo del racconto di Murakami (e quindi del film) potrebbe essere un omaggio-citazione a un verso di una canzone dei Beatles?

il film parte lento e poi cresce continuamente e alla fine scopri che le tre ore del film sono state necessarie.

i due protagonisti, Yosuke e Misaki, soffrono a causa di un lutto che non passa.

Yosuke, regista, ha perso la moglie, Oto, che appare nel film nella prima parte (e inventa storie), ma anche un figlio, un po' di anni prima. 

Misaki, autista bravissima, timida e silenziona, ha perso, già da molto, la mamma, poco amata.

Checov è un protagonista del film, a Hiroshima Yosuke è il regista di Zio Vanja, con diversi attori che imparano a convivere e conoscersi, recitando.

la cosa straordinaria del film è come Ryûsuke Hamaguchi riesca a fare un film di tre ore da un racconto di poche pagine, riuscendo a non far annoiare mai chi guarda.

buona visione (da premio Oscar?) - Ismaele



 

 

 

 

 

Il cinema di Ryûsuke Hamaguchi si conferma potente per come rivela la verità più profonda dei suoi protagonisti. Drive My Car è un film dall'approccio distaccato, ma non privo di comprensione ed empatia per i suoi protagonisti, dotato di una sua sensibilità che trova poesia e verità in luoghi inaspettati. Hamaguchi mostra grande maturità artistica e pieno controllo del linguaggio registico, in cui gli eventi narrativi sono incorniciati da una direzione sobria, misuratissima, sempre formalmente elegante, che rivela a poco a poco la sua presenza.

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Il continuo tragitto in macchina da e per Hiroshima e il lungo viaggio verso Hokkaido che i due affrontano diventa l'occasione di un'incredibile catarsi reciproca. Né sconosciuti né intimi, i due pian piano trovano la capacità di confidarsi i loro più angoscianti sensi di colpa, i tormenti interiori che gli hanno reso impossibile lasciarsi il lutto alle spalle. In Drive My Car la potenza della scrittura di Murakami viene amplificata dalla capacità di Hamaguchi di scomparire dentro i personaggi, facendo in modo che il pubblico senta risuonare la loro anima, fino a scuotere nel profondo qualcosa nella propria. 

Se scrivendo da sé le proprie storie Hamaguchi aveva dimostrato grandissime doti autoriali, Drive My Car evidenzia il suo talento di regista, capace di tirar fuori una recitazione naturalistica e avvolgente da un nutrito cast. Hamaguchi sa tirare fuori un grande affresco umano da quella che in partenza era una piccola storia.

Andate però al cinema preparati: vi aspettano tre ore (di cui la prima sembra quasi un pilota televisivo che ha funzione di introdurre la storia vera e propria delle due ore successive) senza sprint: una lunga, costante maratona dentro l'animo umano. Se amate il cinema d'autore capace di guardare dentro l'animo umano o la scrittura di Murakami Haruki, è decisamente un film imperdibile per voi. 

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C’è sempre uno scarto che separa la superficie delle parole dal loro senso più profondo. E ci sono molti tipi di parole. Le parole che ci appartengono, le parole altrui, le parole dell’arte. L’arte guida, riassume, illumina, ma per poter operare la sua magia ha bisogno di tempo e di orecchie che abbiano voglia di ascoltare. Drive My Car, riassunto, sta tutto qui. Il nodo, esistenziale più che fisico, che lega la banalità esteriore della parola all’emozione che sta acquattata proprio sul fondo, e per una volta li fa aderire in (più o meno) perfetta armonia. L’empatia e la comprensione che accosta le parole di uno alle parole di tutti. Il ruolo consolatore e salvifico dell’arte, nel limite del possibile. Solo così si trova il senso delle cose. Dell’amore, del rimpianto, della bellezza e della felicità. Solo così si può realmente elaborare il lutto, sanare la perdita e andare avanti. Questa la sfida dei personaggi del film.

La regia di Hamaguchi ha una forza calma, per questo la sua aggressione è più efficace. Il film funziona, da qualunque parte si guardi. Lavora bene sulla contraddizione tra apparenza e significato, usa la forma, la geometria dell’inquadratura, per accompagnare le sue verità senza mai travalicarle. Tre ore sono tante, è vero, ma soltanto se si valuta il tempo in maniera superficiale. Perché c’è il tempo, e ciò che il tempo contiene. È meglio soffermarsi su questo.

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Luna - Alejandro Amenábar

venerdì 21 gennaio 2022

Nocturama - Bertrand Bonello

un gruppo di ragazzi e ragazze decide e fa qualcosa che si sentirà in tutta Patigi, una serie di attentati contemporanei contro dei simboli del potere politico, economico, ideologico, cercando di non fare del male a nessuno, neanche loro sanno come andrà a finire, sono preoccupati di tornare a casa in ritardo, il Potere non si fa domande, è caccia all'uomo.

i giovani sono dei moderni nichilisti, senza un grande vecchio dietro, amano l'idea dell'azione chirurgica ed eclatante, ma poi?

si rifugiano, come d'accordo, in un grande magazzino di beni di lusso e aspettano che si calmino le acque, godendo di quei beni di lusso, che sono l'altra faccia del Potere.

un film disturbante, difficile da incasellare, Bertrand Bonello è un regista coi fiocchi e confeziona un film esplosivo, senza attori famosi, solo con dei ragazzi che faranno strada.

un gran film da non perdere, vi terrà inchiodati alla poltrona, con più domande che risposte.

buona (straordinaria) visione - Ismaele

 

 

 

Tagliato in due e articolato in due momenti, di cui il secondo prolunga e chiarisce le intenzioni del primo, Nocturama è una sinfonia funebre che 'suona' il giudizio senza appello di giovani disperati sul mondo che li attende, o piuttosto che non li attende più. Cellula di ragazzi venuti da orizzonti diversi che convergono in un'unica rete (metropolitana) come tonni alla mattanza, i protagonisti di Bonello centrano il cuore di Parigi, prima degli attentati del 13 novembre. Perché il film era già stato scritto per quella data. Se da una parte Nocturama è indiscutibilmente nutrito dalle tensioni del mondo, dall'altra ne è scollato, isolato in un 'a monte' che non s'incarica di interpretare l'attualità violenta degli ultimi mesi in Francia, a Parigi.
Bonello non giudica i suoi protagonisti, non prende (le) parti, limitandosi a posare uno sguardo. Non fa un cinema politico ma fa politicamente del cinema, seguendo con rigore bressoniano una ronde ipnotica di gesti, movimenti, spostamenti, spiazzamenti interrotti da due flashback che non spiegano le ragioni dei terroristi ma giustificano la possibilità della loro unione: come e non perché far esplodere delle bombe in città. Più fondato sulla sensazione che sulla comprensione, come sovente nel cinema di Bonello, Nocturama priva il terrorismo del suo nucleo semiotico, infila la Samaritaine e scivola sulla superficie delle cose fino a emergere nella seconda parte la motivazione incosciente dei giovani attivisti criminali. Nessuna rivoluzione, nessuna rivendicazione, nessuna religione, nessuna (in)coscienza politica, nessuna ingiustizia sociale, soltanto la fantasia infantile di chiudersi una notte intera nel paese dei balocchi per godere di una tregua, godere senza censura o interdizione alcuna…

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Bertrand Bonello porta in scena la lirica dell’azione nel suo farsi, nel suo divenire, eludendo qualsiasi morale, spiegazione o labirintica connotazione psicologica, penetrando nelle dinamiche della tensione e scavando sino a raggiungere il nervo scoperto da stuzzicare ferocemente. Il linguaggio filmico non è impregnato di metafore politiche o ideologiche, ma offre all’occhio uno spaccato sul corpo marcescente di un sistema consumistico in definitiva consunzione, in uno stato di decadimento tale che l’unica risposta non può che essere la sua demolizione. In un realismo che è astrazione da sé, dove la carne diventa parte dello spazio in cui si muove, i corpi notturni sono un riflesso, una derivazione della metropoli in cui vagano, in una dimensione del reale traslata ad un piano quasi fantasmico…

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No teniendo suficiente, Bonello utiliza otro recurso temporal fantástico hacia el final del film, retrocede varios segundos en el tiempo para mostrarnos la misma escena pero desde puntos de vista diferentes. Finalmente, el uso de la pantalla partida extradiegética y diegética (cámaras de seguridad) sirven de guinda del pastel.

Nocturama es una de las películas que mejor trabajan la tensión del espectador gracias a la lección sobre el tratamiento del tiempo que Bonello desprende durante los 130 minutos de duración del film. Y, aunque queden en un segundo plano, el trasfondo de la historia y de los ataques terroristas no son solamente interesantes sino necesarios teniendo en cuenta los tiempos convulsos en los que vivimos.

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Uno de los aciertos capitales de Bonello está en hacer desaparecer de la trama al impulsor de los atentados, dejando al grupo de jóvenes protagonistas huérfanos de líder y a su espectador de explicaciones. El encierro en el centro comercial le sirve para mostrar que sus terroristas (denominados según la sensibilidad actual) son jóvenes hedonistas corrientes, entre asustados y aburridos pero nunca demasiado conscientes de las implicaciones éticas de sus actos. Esta familiaridad desprejuiciada provoca una incomodidad que va en aumento al revertir la percepción de indefensión en el relato. En el planteamiento, un plano aéreo sobre París y un montaje alterno de los movimientos orquestados de sus protagonistas (la forma que tiene Bonello de combinar los movimientos de avance físico de personajes con el ritmo fílmico es digna de estudio) sugieren que la indefensa es la ciudad. Pero su desenlace, tras la maniobra de acercamiento que disipa la apariencia de implacabilidad del grupo de muchachos, la sensación es muy distinta. Mientras que el acto revolucionario es pasional, los mecanismos que el sistema emplea para erradicar las anomalías son de pura frialdad racional. El empresario que recorta puestos y el policía que dispara sin vacilar son, en este sentido, mecanismos de funcionamiento estándar. Que Bonello logre generar dudas sobre si la violencia institucional (insistimos, en su acepción más amplia) es plenamente justificable frente a la violencia agitadora ya entraña un mérito indudable. Que lo haga además en la época más inapropiada para plantear estas ambigüedades es un ejercicio de valentía pura. Nocturama es una de esas películas que definen con puntería una época a base de meter el dedo en sus llagas y hurgar hasta lo más profundo.

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dopo le polemiche, il silenzio. Sembra essere questa la condanna riservata al film di Bonello che racconta la vicenda di un gruppo di giovanissimi attentatori francesi impegnati a mettere a ferro e a fuoco Parigi. Il soggetto scomodo – pensato da Bonello già a partire dal 2011 e portato a termine casualmente proprio a ridosso dei recentissimi attentati avvenuti nella capitale francese – avrebbe dovuto invitare qualcuno a proporre Nocturama come nuovo film-scandalo. Così almeno sarebbe successo un tempo, in linea con un approccio commerciale se si vuole cinico, ma che permetteva di vedere tutto, e magari di contestare e di aprire un dibattito.
E, invece, il fatto che non se ne parli, il fatto che lo si nasconda e lo si celi sembra poter confermare paradossalmente l’assunto stesso del film: la civiltà europea, preda di un isolazionismo spaventoso, individua i nemici all’esterno mentre nel frattempo mangia se stessa, per una autofagia silenziosa che – se si continua così – non lascerà nulla del Vecchio Continente, ad eccezione di qualche simulacro…

…dividendo nettamente il film tra una prima parte perlopiù in esterni in cui si vedono i protagonisti mettere in pratica i loro piani omicidi-suicidi e una seconda parte in cui li vediamo rifugiarsi nel già citato centro commerciale. Qui, nella direzione di un’astrazione che si fa via via più chiara, ecco spalancarsi il nucleo discorsivo del film: i ragazzi si rispecchiano nei simulacri della civiltà e vi aderiscono per noia, in attesa del momento del giudizio. Così, se nella prima parte per diversi aspetti poteva venire in mente Elephant di Gus Van Sant (dove però da un lato vi è in Bonello una regia meno rigorosamente allucinata, mentre dall’altro i flashback ‘motivazionali’ sono più efficaci rispetto al film del cineasta americano), nella seconda non possono che venire in mente due classici dell’orrore della società dei consumi: Zombi di George Romeo e Dillinger è morto di Marco Ferreri. Il primo per la contiguità con la morte e con la fine della civiltà, per quella sensazione di assedio permanente, per il contrasto interno-esterno (l’interno ovattato e apparentemente rassicurante del centro commerciale, contro un esterno rumoroso e in ebollizione) e, infine, per quel gioco bambinesco dell’usa e getta della merce; il secondo – il film di Ferreri – per l’atarassia esistenziale che si trasforma in ‘spensierata’ brama omicida e che si traduce in volontà di potenza e insieme di annullamento.

E se non mancano in Bonello alcune sottolineature a volte un po’ oziose e superflue (lo show di uno di loro che si mette a cantare My Way), queste restano nettamente sullo sfondo rispetto a una impressionante serie di immagini e situazioni glacialmente significative (su tutte, la statua di Giovanna d’Arco che brucia e che ci guarda in primissimo piano; cosa che ha fatto arrabbiare molto il Front National, abituato a riunirsi ai piedi del monumento).
L’Europa non è un continente per giovani, si potrebbe dire ancora a proposito di Nocturama. E allora ecco che la polizia e il governo francesi fanno sapere che con i terroristi non c’è alcuna possibilità di trattativa: sono stati identificati come nemici dello Stato e dunque come tali andranno trattati. E così il sipario si chiude, ma non solo e non tanto su un gruppo di ragazzini, quanto su noi stessi…

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…Un gruppo di giovani, eterogeneo da un punto di vista etnico e sociale, è accomunato dalla volontà dei membri di improvvisarsi terroristi. Gli attacchi simultanei sono rivolti a danneggiare i simboli del denaro e della tradizione francese.

Ci vuole poco per smascherare dei ragazzi inebriati da idealismi (volutamente non menzionati) che perseguono con mezzi di bassa caratura. In tal senso, il grande magazzino in cui si rifugiano è pieno di tentazioni, ed il gruppo si lascia così sedurre dall’edonismo capitalista griffato Nike. Società e sovversivi: due facce della stessa medaglia.

Maniacale attenzione alla fotografia, uso sapiente dei fuori campo e colonna sonora ricercata: con Nocturama, il regista Bertrand Bonello mette il timbro sul suo stile e si conferma uno dei cineasti ‘pop’ più interessanti del panorama internazionale.

Un finale lontano da ogni didascalismo di sorta esalta Nocturama fino a renderlo un autentico must watch degli anni ‘10.

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mercoledì 19 gennaio 2022

In The Earth – Ben Wheatley

comunque la si pensi Ben Wheatley non lascia mai indifferenti.

In The Earth si racconta di quanto poco conta l'essere umano, rispetto alla natura, ma ce ne dimentichiano troppo spesso.

alcuni scienziati studiano degli strani fenomeni, non in laboratorio, ma immersi in quella natura che studiano, e anche i loro rapporti interpersonali vengono coinvolti, e non poco.

alla fine il film un po' ricorda Annientamento (Annihilation)di Alex Garland, ed è un complimento.

In The Earth è un film che merita, lo capirete vedendolo.

buona (inquietante) visione - Ismaele

 

 

 

Mentre il mondo cerca la cura per un terribile virus, uno scienziato e una guardia forestale si addentrano nel bosco per un controllo di routine delle attrezzature. Dal genio visionario del regista inglese Ben Wheatley arriva In the Earth, un sci-fi horror avvincente, ingegnoso e inquietantemente attuale. Un viaggio terrificante nel ‘cuore di tenebra’ della natura.

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Pretendere di frullare assieme il post apocalittico con il folk horror è davvero un gran bell’azzardo. Ma per uno come Ben Wheatley che con I disertori – A Field in England aveva dimostrato di non farsi il benché minimo problema nel piazzare un alchimista irlandese legato in mezzo a un prato in piena guerra civile americana, nulla è davvero impossibile. E non è bastata nemmeno una pandemia globale a fermare il nostro piccolo talentuoso genietto, il quale, alla chetichella e in appena due settimane di riprese a regime ridottissimo, è riuscito a confezionare con tutti i sacri crismi un ennesimo allucinato ed elegantissimo incubo cinematografico ad occhi aperti…

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Film complesso, profondamente stratificato, In the Earth conserva anche una superficie di pura e semplice meraviglia audiovisiva dagli esiti davvero sorprendenti e di rara efficacia. Se Ben Wheatley percorre strade verso una sorta di realismo filosofico intorno all’horror, d’altro canto i poco frequenti effetti speciali sono utilizzati con stupefacente sapienza. Ben lontano dall’idea dell’effetto speciale che giustifica se stesso, finalizzato esclusivamente alla meraviglia dell’occhio fino alla nausea e all’assopimento, l’autore connette intensamente lo stupore audiovisivo a uno stringente percorso di senso. Pensiamo in particolare alle terrificanti e caleidoscopiche sequenze finali, dove l’orrore si tramuta in puro fastidio percettivo, conseguito tramite l’uso sagacemente combinato di suoni e colori. D’altro canto, nel più puro spirito del torture movieIn the Earth propone alcune sequenze tra le più rabbrividenti viste di recente al cinema. Tra amputazioni, cauterizzazioni, tagli e ricuciture di varia natura, il corpo del malcapitato Martin si tramuta in una letterale mappa sacrificale dove l’orrore si carica di toni ai limiti dell’intollerabile proprio perché calato in un contesto di realistica credibilità. Intorno al piede martoriato di Martin, per dire, non c’è alcun sovrabbondante effetto speciale a rendere iperrealistica, e paradossalmente irrealistica, l’atmosfera generale e quello specifico brano di racconto. Accade lo stesso con la riscoperta di feroci armi rudimentali, rispolverate per angoscianti cacce all’uomo nella foresta – pensiamo all’inseguimento con arco e frecce. È anche forte la componente ironica, grazie alla quale si è in grado di sostenere una sequela di torture riconvertendo il ribrezzo in una cinica risata liberatoria.

È chiaro a tutti che la sospensione dell’incredulità richiesta è altissima. In the Earth propone una sfida alla quale si può scegliere di stare o non stare. Passato al vaglio di una visione che cerca logica e coerenza ad ogni costo, il film di Wheatley può essere smontato pezzo per pezzo (e fatto a pezzi) in un secondo. Perché Martin e Alma, quando possono, non scappano? Possono davvero fidarsi così tanto del loro ultimo incontro fatto nel bosco? Possibile che siano così ingenui? E la passione per la ricerca scientifica davvero può giustificare tutto fino a questo punto, visto che Martin rimane nella foresta con un piede semi-amputato e un paio di cuciture sulle braccia? Domande che è meglio non farsi, che non bisogna farsi. Perché lo spettacolo proposto da Wheatley, ancorché ammorbidito da sottili notazioni ironiche e autoironiche, è più intelligente dei nostri insormontabili scrupoli di realismo e credibilità.

Girando in pochi giorni e con mezzi limitati, Ben Wheatley è dunque capace di proporre un’opera caratterizzata da una frastornante alternanza tra realismo e barocco. In the Earth è il prodotto di un immaginario e di uno sguardo cinematografico decisamente originali, che possono anche respingere l’adesione dello spettatore. Prendere o lasciare. Resta comunque il dato di un cinema che dal genere affonda verso stratificate riflessioni. Cinema che affonda nella terra, nelle radici di un lontano rapporto preculturale tra Uomo e Natura. Scuote, incolla alla poltrona, spaventa, stordisce. Può essere respingente, ma è indubbiamente un cinema vivace. La vivacità sta nelle idee.

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Una película que toma riesgos y no teme a tomar rumbos inesperados y generar ese cóctel que tan buen gusto deja. Y es que hoy en día entre tanta fórmula, Blockbuster y universo prefabricado, es de agradecer y valorar al que toma esos riesgos en pos de algo más novedoso.

Un análisis aparte merece su tratamiento sonoro, que propone un viaje totalmente sensorial  y coherente con ese montaje estroboscopico, casi caleidoscopio y que busca sumergirnos en ese estado de locura que sobrevuela la película.

En conclusión una película que atrapa, sorprende en sus decisiones esteticas y narrativas, que arriesga y que podría haber caído en el facilisimo y sin embargo no se conforma y va más allá. Una invitación a revisar la filmografia de su director.

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El presupuesto más ajustado y las condiciones de rodaje más libérrimas permiten cierta fluidez en su estilo y forma de narrar la historia. Sin embargo, el pasado suele dejar marca, y esta película, de alguna manera, tiende a la grandilocuencia y a la excesiva seriedad, aún a pesar de tratar con maníacos melenudos armados con hachas y entidades forestales vivientes. Puede que algunos entren en sus secuencias más lisérgicas de colores y sonidos chillones. Al igual que podríamos decir que su tono consigue respirar algo de aire puro gracias a determinados puntos de humor bien colocados y a algunas escenas de tensión que repuntan su trama. Pero, siendo sinceros, ni con esas… In The Earth, muy a pesar de las virtudes de sus artífices, resulta aburrida. Y es una verdadera lástima. Por su diseño de sonido, su manejo de lo excéntrico o incluso por su preocupación por lo actual. Muchos serían los motivos por los que merecería la pena rendir cuentas a esta película que, por desgracia, quedan enterrados en la fanfarria, la condescendencia y el sopor.

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lunedì 17 gennaio 2022

America Latina – fratelli D’Innocenzo

il dentista Massimo ha una famiglia felice (moglie e figlie sono delle bamboline senza macchia), un lavoro che gli piace e gli dà l'agiatezza economica, un unico amico di bevute, un passato familiare complicato, a dir poco.

col padre c'è un rapporto di odio-odio, senza amore.

a un certo punto, quando sembra che Massimo sia un uomo felice, e il film quasi finito, qualcosa lo trascina nella cantina della sua anima, nella parte buia e nascosta di sé, un macigno di sofferenza e dolore che lo trascina verso il fondo.

il dolore e il mistero, che è costretto a guardare in faccia, li attribuisce a un complotto, agli altri, non capisce che cosa succede, non può gestire la situazione.

è non può che crollare, e toccando il fondo non riesce a risalire.

Elio Germano è bravissimo, se non lo sapevate.

buona (profonda) visione - Ismaele






 

…Finalmente un film che non ci liscia il pelo. Che non ci dà prima le istruzioni per l’uso. Che non ci illude che vedere e guardare siano gesti facili e innocui. Che ci obbliga a metterci in gioco. Che si sottrae a quella bulimia del visibile che domina il nostro mondo finto-social per invitarci a rimettere in gioco la nostra capacità di immaginare. Per spingerci ad entrare in quel buio/vuoto/nero che – come suggerisce la locandina del film – c’è sotto quel guscio d’uovo che è la nuca del protagonista…

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…I D'Innocenzo partono dal buio di una coscienza per esplorare se vi sia la possibilità che una luce possa farvi breccia. Non danno però (come non hanno mai preteso di dare) delle risposte, chiedendo (ma anche qui non imponendo) ad ognuno una decodifica di una storia che ha l'innegabile pregio di suscitare reazioni, evitando quindi il maggiore pericolo di un'opera dell'ingegno: lasciare indifferenti.

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Elio Germano è un attore meraviglioso. È inutile elencarne le qualità, sono visibili a tutti. Quello che ci unisce è un rapporto umano molto stretto, il più profondo avuto finora con un’altra persona che “facesse cinema”. Un legame che si basa sulla fiducia e sulla sicurezza di non essere mai giudicati. La voglia di piacere è la morte di ogni storia e di ogni prova attoriale. Elio Germano è emotivamente nudo sul set, e noi con lui. Da timidi non ce lo siamo mai detti, ma vogliamo bene alle nostre storture, una a una. Senza esserne compiaciuti, accettiamo quello che siamo e siamo disposti a mostrarlo senza sentirci sbagliati.

Fratelli D’Innocenzo

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…Le musiche ipnotiche dei Verdena, il minimalismo e la claustrofobia della messa in scena, la fotografia calibrata sul volto Elio Germano di Paolo Carnera e l’elemento dell’acqua che ricorre continuamente nella vita del protagonista sono solo alcuni degli indizi formali di America Latina, che insieme a tanti piccoli spunti inseriti non casualmente nel racconto (le telefonate al padre, i video delle lezioni di piano, il notiziario) possono aiutarci a farci strada fra le pieghe del racconto, il cui maggior pregio è paradossalmente anche un possibile difetto. La totale assenza di risposte e il forte simbolismo dei D’Innocenzo possono infatti attrarre lo spettatore più curioso e cinefilo, ma anche respingere o addirittura infastidire chi invece preferisce storie più solide, centrate e conclusive. Anche questa è la bellezza di un arte che si trasforma ogni volta attraverso il gusto e l’esperienza di chi la fruisce, proprio come America Latina.

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America Latina resta comunque, nel bene (tanto) e nel male (poco, ma si fa sentire), un esempio di cinema e di visione d’autore potente e niente affatto disposto a venire a patti con il mondo. Cinema puro, hitchcockiano nel senso più teorico del termine. La combinazione, cioè, di interventi di natura puramente tecnica, il lavoro sull’immagine, il sonoro, il montaggio, con l’imprevisto del fattore umano veicolato qui da una recitazione fisica e molto nervosa, produce un’emozione autentica…

America Latina è un film sull’amore, sul bisogno d’amore. Un film sulla vulnerabilità, lo confermano proprio gli autori, che traballa nel terzo atto quando dovrebbe tirare le fila del disagio del suo antieroe e dare un corpo più concreto ai suoi fantasmi, alla sua crisi. Lo fa, ma in maniera non perfettamente calibrata. Colpisce il bersaglio in modo impreciso, e si concede a uno svelamento intenso, ma risolto forse con eccessiva rapidità. Poco male. Federico Fellini sosteneva che non è importante che un film sia bello o brutto, l’importante è che sia vitale. Forse sulla bellezza c’è una leggera forzatura, ma il resto andrebbe scolpito nel marmo. America Latina è un film bello, imperfetto, non facile, ma incredibilmente vitale.

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Verrebbe da pensare che ai D’Innocenzo quasi non interessi narrare storie di per sé, quanto usare tali storie come mezzo per ritrarre l’orrore a cui le persone sono in grado di arrivare: il degrado senza fine, che in America Latina non è più sociale ma psichico.

Allora il quadro disperato che ne esce diventa la constatazione di qualcosa che si sa e appare con chiarezza già all’inizio del film: un lento scorrere, vuoto di contenuti, stracolmo di apparenza. Un biancore sfocato di lenti indispensabili per osservare gli altri e se stessi. Senza le quali il rischio è quello d’iniziare a vedere la realtà per quella che è davvero, fuori e dentro di sé.  E di aprire il vaso di Pandora contenente ciò che di più ripugnante possa esserci in un uomo.

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L’irresolutezza è la cifra: il dubbio narrativo senza beneficio poetico, il guadagno sospeso, come se il malessere non solo non trovasse catarsi, ma nemmeno manifestazione compiuta, sfogo drammaturgico. È, in fondo, un dramma da villa di complicata banalità, malcelata prevedibilità, infida maniera: un film alla D’Innocenzo più che dei D’Innocenzo, probabilmente viziato dal repentino successo, realisticamente condizionato dalla produzione (The Apartment), dannatamente abbandonato a sé stesso. Disagiato più che perturbante.

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La spirale discendente di Massimo procede a rilento tra un dubbio e l’altro, tra paranoie e ossessioni persecutorie. La sensazione opprimente che percepisce, però, non lascia mai i confini dello schermo, rimane sullo sfondo ancorata al personaggio, non è in grado di stimolare, di coinvolgere, di aggredire con le sue immagini. È poco memorabile America Latina, con la sua impalpabile messa in scena della crisi, di fatto retta solamente da un grande Elio Germano, che da solo non può tuttavia salvare le sorti di un film incapace di far fruttare le sue buone intuizioni.

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In America Latina ciò che importa è il trip visivo, l’impianto figurativo spurio verso lo sfondo (un bar sfuocato, una rimessa di auto tagliata sullo stretto, interni privi di fronzoli riconoscibili) attraverso il quale i D’Innocenzo (anche allo script) trasformano la materia, orientano il senso, cancellano la parola, mantenendo comunque viva l’attenzione su un rovello psicologico che avrebbe titillato un Bergman o un Antonioni. Il film ha così un moto orizzontale ripetuto e continuo, uno scorrimento gocciolante da sinistra verso destra come i titoli di testa su un’unica riga a metà schermo. O un po’ come in quella inquadratura, immagine girata di novanta gradi, simbolo dello stile dei bros. romani e sintomo del disagio del protagonista, dove Massimo/Germano china la testa calva (somigliante in tutto e per tutto al cuore di tenebra del colonnello Kurtz) al getto di una doccia ripulente e l’acqua “scende” verso la parte destra dello schermo con effetto antigravitazionale…

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Tutto quello che succede potrebbe essere vero ma potrebbe allo stesso tempo essere un’allucinazione, un pericoloso autodafé di Massimo frutto di una pressione ideologica e normativa. Il collasso di un sogno, la testimonianza di una resa di fronte all’effervescente instabilità che si nasconde dietro ognuno di noi. Il racconto volutamente enigmatico lascia libertà interpretativa allo spettatore, catalizzando l’attenzione sulle splendide inquadrature che i fratelli D’Innocenzo orchestrano e sulle onde di una narcosi ritmica e una pazzia riflessa che scaturiscono dalle note dei Verdena a cui è stata affidata la colonna sonora. Non c’è niente di rassicurante o di consolatorio in America Latina, un dramma oscuro concepito con velenosa intelligenza per catturare i nostri tormenti, le nostre paure, le nostre debolezze lasciandoci con più interrogativi che risposte.

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Il cinema dei fratelli D’Innocenzo non fa sconti, né cerca indulgenza e, come nelle due pellicole precedenti, pone delle istanze senza fornire risposte perché non è su queste che si appunta la loro idea di ricerca formale e sostanziale che qui si spinge anche oltre, verso una rarefazione del mero contenuto narrativo per ampliare ancor più lo sguardo su, ma soprattutto dentro, lo strato emotivo. La materia che maneggiano è, infatti, viva, irrequieta, sfuggente come la consapevolezza di essere al mondo o in quella parte di mondo al quale l’essere umano tenta, sovente con disperazione, di appartenere. Ecco allora che l’America Latina del titolo diventa il luogo (s)confinato dove alberga la coscienza: dalle lontane latitudini di un altrove da raggiungere fino al fosco territorio della provincia più profonda.

Lungo questa traiettoria psicologica, geografica e cinematografica – si rintracciano evidentemente gli echi della cultura appassionata che caratterizza la formazione dei due artisti – si sovrappongono piani di realtà e di immaginazione che amplificano desideri e paure e rimbombano – alternando i suoni stridenti del sottosuolo alle melodiose armonie del pianoforte – nella testa di Massimo che cerca, furiosamente, di (ri)conoscersi.

In quella villa sghemba e bizzarra c’è un mondo, il nostro, in cui spesso intravediamo il “nemico” proprio nelle zone più familiari, nelle stanze degli affetti, nei corridoi dei ricordi o nei giardini ormai spogli dell’infanzia. Quest’ultima infatti, insieme al dramma privato di un certo tipo di genitorialità, attraversa il cinema dei registi come un filo rosso che lega il racconto e l’immagine, il vero e il fiabesco, l’amore e la morte.

Il talento dei D’Innocenzo si esprime, anche stavolta, attraverso un’opera originale e spiazzante che fa della bellezza, sia essa in un volto o nel cielo, una lama conficcata dentro la carne della realtà: fa male ma non possiamo fare a meno di guardarla.

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