lunedì 17 gennaio 2022

America Latina – fratelli D’Innocenzo

il dentista Massimo ha una famiglia felice (moglie e figlie sono delle bamboline senza macchia), un lavoro che gli piace e gli dà l'agiatezza economica, un unico amico di bevute, un passato familiare complicato, a dir poco.

col padre c'è un rapporto di odio-odio, senza amore.

a un certo punto, quando sembra che Massimo sia un uomo felice, e il film quasi finito, qualcosa lo trascina nella cantina della sua anima, nella parte buia e nascosta di sé, un macigno di sofferenza e dolore che lo trascina verso il fondo.

il dolore e il mistero, che è costretto a guardare in faccia, li attribuisce a un complotto, agli altri, non capisce che cosa succede, non può gestire la situazione.

è non può che crollare, e toccando il fondo non riesce a risalire.

Elio Germano è bravissimo, se non lo sapevate.

buona (profonda) visione - Ismaele






 

…Finalmente un film che non ci liscia il pelo. Che non ci dà prima le istruzioni per l’uso. Che non ci illude che vedere e guardare siano gesti facili e innocui. Che ci obbliga a metterci in gioco. Che si sottrae a quella bulimia del visibile che domina il nostro mondo finto-social per invitarci a rimettere in gioco la nostra capacità di immaginare. Per spingerci ad entrare in quel buio/vuoto/nero che – come suggerisce la locandina del film – c’è sotto quel guscio d’uovo che è la nuca del protagonista…

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…I D'Innocenzo partono dal buio di una coscienza per esplorare se vi sia la possibilità che una luce possa farvi breccia. Non danno però (come non hanno mai preteso di dare) delle risposte, chiedendo (ma anche qui non imponendo) ad ognuno una decodifica di una storia che ha l'innegabile pregio di suscitare reazioni, evitando quindi il maggiore pericolo di un'opera dell'ingegno: lasciare indifferenti.

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Elio Germano è un attore meraviglioso. È inutile elencarne le qualità, sono visibili a tutti. Quello che ci unisce è un rapporto umano molto stretto, il più profondo avuto finora con un’altra persona che “facesse cinema”. Un legame che si basa sulla fiducia e sulla sicurezza di non essere mai giudicati. La voglia di piacere è la morte di ogni storia e di ogni prova attoriale. Elio Germano è emotivamente nudo sul set, e noi con lui. Da timidi non ce lo siamo mai detti, ma vogliamo bene alle nostre storture, una a una. Senza esserne compiaciuti, accettiamo quello che siamo e siamo disposti a mostrarlo senza sentirci sbagliati.

Fratelli D’Innocenzo

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…Le musiche ipnotiche dei Verdena, il minimalismo e la claustrofobia della messa in scena, la fotografia calibrata sul volto Elio Germano di Paolo Carnera e l’elemento dell’acqua che ricorre continuamente nella vita del protagonista sono solo alcuni degli indizi formali di America Latina, che insieme a tanti piccoli spunti inseriti non casualmente nel racconto (le telefonate al padre, i video delle lezioni di piano, il notiziario) possono aiutarci a farci strada fra le pieghe del racconto, il cui maggior pregio è paradossalmente anche un possibile difetto. La totale assenza di risposte e il forte simbolismo dei D’Innocenzo possono infatti attrarre lo spettatore più curioso e cinefilo, ma anche respingere o addirittura infastidire chi invece preferisce storie più solide, centrate e conclusive. Anche questa è la bellezza di un arte che si trasforma ogni volta attraverso il gusto e l’esperienza di chi la fruisce, proprio come America Latina.

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America Latina resta comunque, nel bene (tanto) e nel male (poco, ma si fa sentire), un esempio di cinema e di visione d’autore potente e niente affatto disposto a venire a patti con il mondo. Cinema puro, hitchcockiano nel senso più teorico del termine. La combinazione, cioè, di interventi di natura puramente tecnica, il lavoro sull’immagine, il sonoro, il montaggio, con l’imprevisto del fattore umano veicolato qui da una recitazione fisica e molto nervosa, produce un’emozione autentica…

America Latina è un film sull’amore, sul bisogno d’amore. Un film sulla vulnerabilità, lo confermano proprio gli autori, che traballa nel terzo atto quando dovrebbe tirare le fila del disagio del suo antieroe e dare un corpo più concreto ai suoi fantasmi, alla sua crisi. Lo fa, ma in maniera non perfettamente calibrata. Colpisce il bersaglio in modo impreciso, e si concede a uno svelamento intenso, ma risolto forse con eccessiva rapidità. Poco male. Federico Fellini sosteneva che non è importante che un film sia bello o brutto, l’importante è che sia vitale. Forse sulla bellezza c’è una leggera forzatura, ma il resto andrebbe scolpito nel marmo. America Latina è un film bello, imperfetto, non facile, ma incredibilmente vitale.

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Verrebbe da pensare che ai D’Innocenzo quasi non interessi narrare storie di per sé, quanto usare tali storie come mezzo per ritrarre l’orrore a cui le persone sono in grado di arrivare: il degrado senza fine, che in America Latina non è più sociale ma psichico.

Allora il quadro disperato che ne esce diventa la constatazione di qualcosa che si sa e appare con chiarezza già all’inizio del film: un lento scorrere, vuoto di contenuti, stracolmo di apparenza. Un biancore sfocato di lenti indispensabili per osservare gli altri e se stessi. Senza le quali il rischio è quello d’iniziare a vedere la realtà per quella che è davvero, fuori e dentro di sé.  E di aprire il vaso di Pandora contenente ciò che di più ripugnante possa esserci in un uomo.

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L’irresolutezza è la cifra: il dubbio narrativo senza beneficio poetico, il guadagno sospeso, come se il malessere non solo non trovasse catarsi, ma nemmeno manifestazione compiuta, sfogo drammaturgico. È, in fondo, un dramma da villa di complicata banalità, malcelata prevedibilità, infida maniera: un film alla D’Innocenzo più che dei D’Innocenzo, probabilmente viziato dal repentino successo, realisticamente condizionato dalla produzione (The Apartment), dannatamente abbandonato a sé stesso. Disagiato più che perturbante.

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La spirale discendente di Massimo procede a rilento tra un dubbio e l’altro, tra paranoie e ossessioni persecutorie. La sensazione opprimente che percepisce, però, non lascia mai i confini dello schermo, rimane sullo sfondo ancorata al personaggio, non è in grado di stimolare, di coinvolgere, di aggredire con le sue immagini. È poco memorabile America Latina, con la sua impalpabile messa in scena della crisi, di fatto retta solamente da un grande Elio Germano, che da solo non può tuttavia salvare le sorti di un film incapace di far fruttare le sue buone intuizioni.

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In America Latina ciò che importa è il trip visivo, l’impianto figurativo spurio verso lo sfondo (un bar sfuocato, una rimessa di auto tagliata sullo stretto, interni privi di fronzoli riconoscibili) attraverso il quale i D’Innocenzo (anche allo script) trasformano la materia, orientano il senso, cancellano la parola, mantenendo comunque viva l’attenzione su un rovello psicologico che avrebbe titillato un Bergman o un Antonioni. Il film ha così un moto orizzontale ripetuto e continuo, uno scorrimento gocciolante da sinistra verso destra come i titoli di testa su un’unica riga a metà schermo. O un po’ come in quella inquadratura, immagine girata di novanta gradi, simbolo dello stile dei bros. romani e sintomo del disagio del protagonista, dove Massimo/Germano china la testa calva (somigliante in tutto e per tutto al cuore di tenebra del colonnello Kurtz) al getto di una doccia ripulente e l’acqua “scende” verso la parte destra dello schermo con effetto antigravitazionale…

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Tutto quello che succede potrebbe essere vero ma potrebbe allo stesso tempo essere un’allucinazione, un pericoloso autodafé di Massimo frutto di una pressione ideologica e normativa. Il collasso di un sogno, la testimonianza di una resa di fronte all’effervescente instabilità che si nasconde dietro ognuno di noi. Il racconto volutamente enigmatico lascia libertà interpretativa allo spettatore, catalizzando l’attenzione sulle splendide inquadrature che i fratelli D’Innocenzo orchestrano e sulle onde di una narcosi ritmica e una pazzia riflessa che scaturiscono dalle note dei Verdena a cui è stata affidata la colonna sonora. Non c’è niente di rassicurante o di consolatorio in America Latina, un dramma oscuro concepito con velenosa intelligenza per catturare i nostri tormenti, le nostre paure, le nostre debolezze lasciandoci con più interrogativi che risposte.

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Il cinema dei fratelli D’Innocenzo non fa sconti, né cerca indulgenza e, come nelle due pellicole precedenti, pone delle istanze senza fornire risposte perché non è su queste che si appunta la loro idea di ricerca formale e sostanziale che qui si spinge anche oltre, verso una rarefazione del mero contenuto narrativo per ampliare ancor più lo sguardo su, ma soprattutto dentro, lo strato emotivo. La materia che maneggiano è, infatti, viva, irrequieta, sfuggente come la consapevolezza di essere al mondo o in quella parte di mondo al quale l’essere umano tenta, sovente con disperazione, di appartenere. Ecco allora che l’America Latina del titolo diventa il luogo (s)confinato dove alberga la coscienza: dalle lontane latitudini di un altrove da raggiungere fino al fosco territorio della provincia più profonda.

Lungo questa traiettoria psicologica, geografica e cinematografica – si rintracciano evidentemente gli echi della cultura appassionata che caratterizza la formazione dei due artisti – si sovrappongono piani di realtà e di immaginazione che amplificano desideri e paure e rimbombano – alternando i suoni stridenti del sottosuolo alle melodiose armonie del pianoforte – nella testa di Massimo che cerca, furiosamente, di (ri)conoscersi.

In quella villa sghemba e bizzarra c’è un mondo, il nostro, in cui spesso intravediamo il “nemico” proprio nelle zone più familiari, nelle stanze degli affetti, nei corridoi dei ricordi o nei giardini ormai spogli dell’infanzia. Quest’ultima infatti, insieme al dramma privato di un certo tipo di genitorialità, attraversa il cinema dei registi come un filo rosso che lega il racconto e l’immagine, il vero e il fiabesco, l’amore e la morte.

Il talento dei D’Innocenzo si esprime, anche stavolta, attraverso un’opera originale e spiazzante che fa della bellezza, sia essa in un volto o nel cielo, una lama conficcata dentro la carne della realtà: fa male ma non possiamo fare a meno di guardarla.

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1 commento:

  1. scrive Nicola Lagioia:
    https://www.cinematografo.it/news/dentro-america-latina/

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