mercoledì 31 agosto 2016

La fiamma del peccato (Double Indemnity) – Billy Wilder

sembrava un piano perfetto, ma l'avidità gioca brutti scherzi.
la doppia indennità frega Walter Neff e Phyllis Dietrichson, Barton Keys, un investigatore delle assicurazioni, è quasi fregato anche lui.
Billy Wilder e Raymond Chandler sanno come si scrivono storie che siano perfetti meccanismi a orologeria.
le cose sembrano andare bene, ma Phyllis è "marcia dentro", così si definisce, e Walter resta catturato dalla dark lady, fatale per lui.
sembra una storia maledetta come tante, la differenza è Billy Wilder, e scusate se è poco.
godetene tutti, buon visione - Ismaele









Il noir è un genere, ma fare un film di genere non significa adeguarsi. Anzi, il noir è quel genere in grado di affondare la lama nell'animo umano, in grado di descrivere un mondo e una società in tutte le sue sfaccettature, senza freni inibitori: partendo da La fiamma del peccato per arrivare all'ultimo film di Paul Thomas Anderson (Vizio di forma), passando per i capolavori con il detective Marlowe come Una donna nel lago di Montgomery o Il lungo addio di Altman, il noir non si ferma mai alla “storia”, per quanto possa essere complessa e intricata. La funzione del noir è quella di mettere alla berlina un contesto corale, sviscerarne le contraddizioni, individuarne il declino etico e sottolinearne la conseguente involuzione…

…La pellicola è un tassello essenziale del noir, vuoi per la perfezione tecnica (scenografie capaci di descrivere vividamente l'ambientazione metropolitana, fotografia impressionante coi suoi chiaroscuri, musiche che sottolineano in maniera impeccabile i ritmi narrativi), vuoi per l'eccellente sceneggiatura che si fonda e si sviluppa sui principali stilemi noir, cogliendoli, enfatizzandoli, elaborandoli e perfezionandoli in un vero e proprio capolavoro rappresentativo del genere…


Lo sguardo di Billy è carico di autentico orrore verso un'umanità degradata che vanamente si affanna ad affrancarsi da quella condizione abietta che gli è propria e dalla quale solo la morte può liberarla. Ogni inquadratura trasuda misantropia. Vista la "umanitas" di cui parla, come dargli torto? Misantropo è solo colui che lucidamente guarda lo squallore che lo circonda e se ne fa beffe. La modernità del suo sguardo, all'interno di uno forma perfettamente classica, è allucinante. Chandler forgia archetipi immortali: la dark lady perversa; un protagonista malvagio la cui tardiva redenzione non riesce ad attenuarne la negatività; l'investigatore, che rimane defilato, come nell'ombra, a ricostruire le intricate trame del caso. Possibile, anche se discutibile come ogni approccio "psicoanalistico" di matrice bellouriana, una interpretazione freudiana di questo terzetto, soprattutto per le innegabili valenze edipiche del rapporto tra Neff ("figlio") e Keyes ("padre", coscienza critica, Super Io). Ad interpretare questi tre ruoli tre icone del genere: Barbara Stanwyck, Fred MacMurray, E.G. Robinson, quest'ultimo a sua volta protagonista di una storia simile, seppure in versione "onirica", nello splendido La donna del ritratto di Fritz Lang, dello stesso anno (1944). Robinson fu anche protagonista di molti gangster movies (Piccolo Cesare). Il fatto che Wilder abbia scelto proprio la sua "faccia da criminale" per interpretare il ruolo del "buono" la dice lunga sulla Weltaschaung dell'autore di Baciami stupido.



Gerry – Gus Van Sant

Gerry (Matt Damon e Casey Affleck, bravissimi) si perdono nel deserto.
si inizia ridendo e scherzando, poi la voglia di ridere diminuisce, sempre di più.
un film che non lascia scampo, l'ho visto due volte, ti cattura, quei giorni di Gerry ti sembra che parlino di te, a te.
poche parole, non servono troppo, ma tutte al posto giusto.
Gerry c'est moi, direbbe qualcuno.
come un labirinto, con un'uscita lontana, come una metafora della vita.
mai apparso in sala da noi, girato in qualche deserto argentino.
per me un capolavoro - Ismaele





In questo "western dell'anima" protagonista si fa allora il cammino, mezzo di liberazione e purificazione attraverso le prove alle quali il deserto (metafora della vita) sottopone i due Gerry. E non importa quale sia la meta, tanto - dice Gerry/Damon - "tutte le strade portano nello stesso posto".
I dialoghi beckettiani al limite dell'assurdo, il minimalismo narrativo, lo scenario ora selvaggio ora lunare del deserto della Death Valley, ne fanno un'opera profonda e poetica in cui regna un senso di attesa quasi metafisico.

Vi sono pellicole che assai difficilmente possono essere circoscritte in un'analisi filmica, né tantomeno in una recensione. La poesia visiva di "Gerry" rientra in una di queste. Uno sfondo blu (stilisticamente a metà tra Jarman e  Kubrick) introduce un piano-sequenza di oltre sei minuti, accompagnato dal pianoforte liquefatto di Arvo Pärt. Solo l'incipit diretto da Gus Van Sant è di una magniloquenza assoluta, quasi contemplativa…
 Grazie a "Gerry" (distribuito in pochissime copie, in Italia mai uscito) Van Sant ha avuto l'opportunità di sprigionare le sue doti di maestria registica sperimentale e indipendente, annientando la narrazione e mettendo per una volta da parte le aspettative commerciali del pubblico…

GERRY è un mistero interpretabile e impenetrabile, l’unica cosa certa sono le immagini, di una magnificenza raggelata che polverizza nell’astrazione ogni partenza realistica, approdando a una realtà sepolta, inquietante e commovente. Pura plasticità, che supera ogni altra istanza, e ancora si presta a una lettura “classica”: l’uomo è misura di tutte le cose, ma l’ultima misura che potrà prendere sarà quella della propria tomba (i ragazzi intrappolati in paesaggi la cui scala dimensionale può essere dedotta solo grazie alla loro presenza).
Girato in un pugno di giorni durante la preproduzione di ELEPHANT, GERRY è la prova che il più recente Van Sant (e non solo il più recente) non ha bisogno di temi “importanti” (disagio giovanile, violenza nella società dello spettacolo, solitudine dell’artista) per essere quello che è: pura vertigine visiva, gioco sconvolgente, temuto (la tardiva distribuzione internazionale e la mancata uscita nelle sale italiane qualcosa vorranno pur dire) antidoto di un cinema ostaggio di un’e(ste)tica da piccolo schermo.

 Consideriamo i due Gerry come due parti di uno stesso individuo, come due elementi di una stessa mente, che possono essere coordinati (la marcia armonizzata) o in contrasto (l'indecisione sulla direzione da prendere). Questo individuo-tipo è certamente un americano (Van Sant è molto radicato all'interno del suo contesto). Se consideriamo la strada come l'itinerario tipo di un americano nella sua esistenza e l'uscita di strada come un evento traumatico che fa perdere i punti di riferimento, ecco che Gerry può davvero essere letto come la fine dei grandi racconti americani, il crollo delle certezze e dei miti made in USA.
E allora ecco che la scena del deserto bianco si legge bene se immaginiamo quella tabula rasa come un luogo di sospensione, come una grande mente dove le due anime dell'americano-tipo che cerca di uscire dalla crisi sono in contrasto. E' vero che alla fine il Gerry superstite rimane sotto l'occhio vigile di un Padre, ma è anche vero che fra i due, quello era il Gerry meno americano (basta ricordare il suo turbante per capirne l'alterità rispetto al "sistema").
Nessuna pretesa di completezza in queste parole, solo la presa di coscienza di trovarsi di fronte a un vero capolavoro.
da qui

lunedì 29 agosto 2016

Akira Kurosawa and Philip Glass - "Dreams" and "The Peach Orchard"

ricordo di Gene Wilder





Il diritto di uccidere (Eye in the Sky) – Gavin Hood

il film è come un western, ci sono i buoni e i cattivi, e i buoni hanno dei dilemmi etici, quanto vale una vita innocente, qual'è il ruolo dei militari, e cose del genere.
tutto quello che è successo prima, nei secoli, nei decenni, negli anni, non esiste.
nel film abbiamo un qui e ora.
la guerra al tempo dei droni.
nella realtà le cose non sono così come nel film, altrimenti non avremmo bombardamenti a matrimoni, cortei nuziali, ospedali, e cose del genere.
i buoni hanno le armi, la tecnologia, il potere, i nemici sono cresciuti in casa dei buoni (che non se n'erano accorti), i poveri perdono sempre.
detto questo, il film è davvero una calamita, non ti stacchi più fino all'epilogo, grazie ad attori bravissimi e a una sceneggiatura come una corsa contro il tempo.
il titolo in italiano non va troppo bene, ma ci siamo abituati, purtroppo - Ismaele


qui un (bel) libro sul mestiere del pilota di droni





Eye in the Sky, titolo originale dagli echi orwelliani, riassume il senso del film: l’occhio nel cielo è il drone che con i suoi sensori consente la guerra contemporanea. Un occhio freddo, strumentale, che osserva e uccide senza che mandante ed esecutore materiale corrano mai il minimo rischio fisico. Eppure dietro quel tasto premuto che sgancia missili c’è un gran lavoro, decisioni complesse da prendere rapidamente e, soprattutto, persone.
Per umanizzare la visione di una guerra spesso paragonata a un videogame, il film mette in scena l’umanità più quotidiana, anche spiacevole, dei protagonisti: attacchi di dissenteria, insonnia, il debito universitario da saldare, la moglie dispotica che rivela l’incapacità di compiere scelte futili di chi ha in mano le sorti del mondo. Una scelta così originale, quasi spregiudicata, è impiantata da Gavin Hood in una struttura thriller formalmente classica, in cui per esempio i “cattivi” sono figurine bidimensionali sulle cui motivazioni non viene mai gettata luce, nonostante il film si impegni a mostrare i punti di vista di tutti i personaggi verso i quali chiede empatia allo spettatore. Ultima apparizione per il compianto Alan Rickman.

...Tutto casca addosso al colonnello dell’esercito britannico Helen Mirren, che con l’appoggio Usa conduce l’operazione. I cattivi sono stati localizzati, la regola d’ingaggio impone di prenderli vivi (non sono neppure tutti kenioti, una terrorista ha abbracciato l’islam e il jihad a Londra, quando aveva 15 anni). Ma spunta la pistola fumante: un arsenale, cinture esplosive, la telecamera per girare il video di rivendicazione. Vede tutto una civetta meccanica telecomandata dalla base locale dell’operazione (lui sì che rischia la pelle). Una ragazzina si mette di mezzo, piazzando il suo banchetto con le pagnotte da vendere vicino al bersaglio. Comincia il palleggio delle responsabilità – prevedibile e un po’ di scuola – mentre i suoi occhioni fanno da controcanto alle beghe tra politici, militari, analisti. Falsando l’esperimento: gli spettatori teneri di cuore palpitano, gli altri si sentono un po’ manipolati.

Violentemente filomilitarista ed antipolitico, ma soprattutto ipocrita nella rappresentazione di un'organizzazione militare tanto tecnologicamente perfetta quanto umanamente preoccupata dai possibili effetti collaterali del proprio, comunque ampiamente giustificato, indispensabile, intervento, contrapposta ad una classe politica inetta, ridicola ed incapace di decidere, preoccupata unicamente dalla sussistenza di una copertura legale e soprattutto dal possibile impatto delle proprie scelte sull'opinione pubblica. Un brutto film, anche se ben girato ed ancor meglio interpretato, ma al di là di ciò viene da chiedersi se dietro simili opere ci sia unicamente la volontà di fare botteghino sfruttando l'emergenza terroristica, o anche quella di contrapporsi alla barbara retorica mediatica dell'Isis con produzioni tanto scarsamente credibili quanto più falsamente realistiche (è ormai consolidato strumento della nuova retorica cinematografica la sottotitolazione costante con indicazione precisa del luogo e del tempo, in ora rigorosamente locale, dell'azione, come se ciò fosse condizione necessaria e sufficiente della verità narrativa). Pessimo il titolo italiano, molto più consono, dovendo, come da tradizione nostrana modificare l'originale, sarebbe stato "il dovere di uccidere".

Eye in the Sky doesn’t sympathize with the terrorists. It’s clear what will happen if they aren’t stopped. The arguments against killing them have nothing to do with their guilt. At first, it’s a legal question - whether the drone has the right to kill American and British citizens, depriving them of due process. Once that’s resolved, it becomes about collateral damage. The coldly dispassionate contention (to which Powell and Benson subscribe) is that the greater good outweighs the immediate and unfortunate consequences. It’s not easy to accept, however, watching images of the little girl selling the loaves of bread that provide her family with much needed income. Difficult choices and consequences - these things lie at the core of Eye in the Sky’s drama. Nothing is simple or clean-cut. It’s 12 Angry Men in a different arena. There’s no “right” or “wrong” - only points and counterpoints…

Cinco, veinte, setenta y seis, ayer murió otro niño intentando cruzar equis frontera junto a la mitad de su familia, y ya son quinientos, cinco mil; esta tarde otros treinta iraquíes han muerto en un atentado en Bagdad, dos menos que ayer, alguien vio la foto, ya van quinientos mil, quizá menos, seguramente millones. No es que nadie haya realmente parado de contar, es que ya todos perdimos la cuenta. Son tantos muertos que no significan gran cosa: se pierden como dígitos en la puntuación del Space invaders. Duele escribirlo, pero los 600 euros que vale hoy el iPhone nos provocan más indignación que los seiscientos muertos de ayer, si estos viven/vivían o provienen de tierras más o menos ignotas para el occidental medio. Y sí, de ahí, justo ahí surge Espías desde el cielo; thriller político cuyo brutal y desalentador subtexto guiña el ojo a un público más bien sedentario que en su época decidió cambiar la tensión de la Guerra Fría y sus bailes con agentes dobles por ese otro valor en alza que representa el personaje, cada vez más antihéroe, que toma decisiones sin apenas mover el culo de su mullido asiento, bien sea en Washington o en Londres o en Moscú. Incluso en una base militar a pocos kilómetros de Las Vegas…
…Así, con todas estas lecturas y reflexiones a propósito de Espías desde el cielo, también nos preguntamos: ¿qué absurda realidad sociopolítica y económica ha llevado al hombre moderno a depositar su confianza en unos tipos que diariamente tiene que elegir entre la muerte de unos pocos o la de varios muchos? Pues bien, Gavin Hood, que no es precisamente el más regular de los directores —ha firmado obras tan dispares comoTsotsi y X-Men orígenes: Lobezno—, recupera algo del crédito perdido con un filme a primera vista convencional y sin grandes sorpresas en ningún orden, cuyo administrativo punch alcanza nervio cuando masticas un sanedrín preñado de incógnitas, nada fáciles de resolver, en las antípodas de ese fatuo y campanudo ademán tan característico del thriller de espionaje hollywoodiense. Por ello este barco, un dron muy yanqui, es capitaneado por dos ilustres del Imperio, también conocidos por los nombres de Helen Mirren y Alan Rickman. Que cuentan además con algunos secundarios óptimos, a saber: el aún semidesconocido Barkhad Abdi (Capitán Phillips), quien teledirige a distancia un escarabajo pelotero espía; el perpetuo tronista escocés de Khaleesi, aka Iain Glen, interpretando a un secretario de Estado con apuros gastrointestinales que no le impiden pronunciar la frase-póster de la película («las revoluciones se alimentan de vídeos de YouTube»); y junto a todos ellos el compasivo de mirada vidriosa, siempre a punto de saltar por los aires, Aaron Paul.
Sobra insistir en que a Hood no le faltaban elementos para ejercitar la demagogia: resulta que la futurible onda bombástica del misil podría matar a una niña que vende pan junto a la casa donde se guarecen los monstruos; una niña, juguetona y servicial a la vez, que resume a la perfección una tesis con no pocos abonados, según la cual nuestra empatía o sensibilización momentáneas ante la tragedia es tanto más honda cuanto más biográfica es la historia expuesta. Porque el impacto de una cifra en primera plana no es ni remotamente comparable al de una sola muerte con rostro, nombre y apellidos reconocibles.

 Hood non fa sconti, esibendo cadaveri tra le macerie senza morbosità, ma con il piglio verista di chi vuole ricostruire con la massima fedeltà una vicenda esemplare. Sulla guerra che è e sulla guerra che sarà, soprattutto: a Gavin Hood interessa il dilemma morale. È cinema antico il suo, che della contemporaneità utilizza la moltiplicazione degli schermi e dei dispositivi o la prospettiva del drone; il resto è classicità pura, affidata a due interpreti straordinari. Helen Mirren sceglie il cuore in inverno del colonnello Powell, consapevole della crudeltà di alcune scelte ma dedita esclusivamente al raggiungimento del proprio obiettivo. Alan Rickman, invece, nella sua ultima interpretazione, regala al generale Benson un assaggio della sua inconfondibile ironia british. Senza negare mai la propria funzione di film che si presta all'apertura di un dibattito, il regista riesce umilmente a rinverdire i fasti di una forma di cinema troppo spesso trascurata.

 I missili sono pronti sui droni, basta dare l’ordine ed è fatta. Ma sorge subito il problema delle possibili (anzi certe) vittime civili, complicato dal fatto che non si tratta solo di numeri e di statistiche, ma di una bambina che vende parecchie pagnotte e ci mette ovviamente molto tempo per liberarsi di tutte. Ecco, tremenda, la tensione. Ogni minuto che passa sempre più angosciante. Nell’obiettivo preso di mira c’è gente - proprio quei terroristi tanto temibili e finalmente rintracciati - che potrebbero muoversi e scomparire di nuovo. Mancano al massimo una decina di minuti, tocca decidere immediatamente, chi però si prenderà quella drammatica responsabilità? Il generale che comanda la missione sembrerebbe deciso e così il colonnello che ha sottomano tutti i comandi operativi, ma ci sono lì anche dei politici che possono mettersi in contatto a Londra con i più alti rappresentanti del governo. Intanto però i minuti passano e quelli laggiù potrebbero scomparire di nuovo!
Erano anni che al cinema non provavo un’ansia simile, costruita, architettata, sostenuta da tutti i mezzi più moderni di cui i cineasti oggi dispongono quando debbono mozzare il respiro agli spettatori. Gavin Hood e i suoi hanno fatto centro. Applaudiamoli e applaudiamo anche Helen Mirren che dopo essere stata in “The Queen”, la Regina Elisabetta, ha accettato qui di essere un semplice colonnello; sia pure responsabile dei comandi operativi.

una meticolosa ricostruzione dei fatti destinata a toccare dei nervi - politici, comportamentali, etici - scoperti e a rendere problematica una presa di posizione chiara che prescinda dalle ragioni dell'"altra parte". E il fatto che la sensazione di imperdonabile indecisione di fronte al dubbio morale che attanaglia sia ribaltata dallo schermo allo spettatore è fortemente voluto. Elementi che, uniti alle interpretazioni inevitabilmente impeccabili di Rickman e Helen Mirren, elevano Il diritto di uccidere al di sopra dell'aurea mediocritas in cui rischia, colpevolmente, di finire relegato. Peccato solo per un epilogo che mostra ciò che è superfluo mostrare, sbilanciando irreparabilmente l'equilibrio dialogico fin lì esemplare.

Más allá de lo que pueda decirse en torno al planteamiento de la situación, al modo como se presenta o falsea el uso de la tecnología, a si es o no artificioso y engañoso el uso del elemento niña-negra-indefensa o a si la resolución del dilema es un mensaje encriptado de dominación y poder, lo cierto es durante toda la película el espectador no pestañea un solo momento, inmerso en lo que está sucediendo en la pantalla. Se lo sienta en la mesa de deliberación y se lo somete al incómodo pero interesante ejercicio de tener que decidir a sabiendas del costo humano que entraña esta específica decisión. Por eso, por ese logro de involucramiento, Enemigo invisible es una película notable.  El contraste de sus ambientaciones, su atrapante ritmo, el caleidoscopio móvil de los rostros implicados, los discursos justificativos de cada bando y, especialmente, la invisibilidad apabullante de un enemigo difuso pero de presencia determinante, hacen de Enemigo Invisible un trabajo que combina muy bien el envolvente latido de los buenos thrillers con la inquietud que  deja un cuestionamiento bien planteado. Una forma que sobresale por el fondo que la llena y un fondo que penetra bien por la forma como se lo expresa.
En lo actoral imposible no hacer mención de dos grandes: Helen Mirren y Alan Rickman.  El temple de ambos se traduce en personajes sólidos y convincentes. Las buenas actuaciones son siempre una combinación caprichosa de acciones, gestos, miradas, voces, silencios y presencias.  En esto último, en esa fuerza que dimana del simplemente estar o aparecer, Mirren y Rickman están, desde hace rato, en la galería de los maestros. El segundo murió en su natal Londres el pasado 14 de enero. La primera ya hizo, después de Enemigo Invisible, otro par de películas. Y seguro vendrán más.  La reina está viva, larga vida para la reina.

 Hood deja claro el punto de vista de los mandamases estadounidenses y la militar británica, pero jamás da una respuesta sencilla al problema, porque no existe, y deja que el espectador saque sus propias conclusiones. “Espías desde el cielo” es tan tensa que la sala donde la vi no hacía más que cuchichear y desesperarse cuando la trama se complicaba y nadie tomaba una decisión, y un hombre, cuando llegó el clímax, se puso a comentar en voz alta lo que veía. Eso para mí es la mejor crítica que puede recibir un director.

 Lo interesante es que la dirección de Hood es tan precisa, que la tensión de la trama engancha hasta el final, sin tantas persecuciones ni disparos. Todo pasa en los cuartos de comando en donde las emociones, la culpa y el deber nos invitan a las reflexiones más profundas sobre las implicaciones de una burocracia bélica.


domenica 28 agosto 2016

parole sante di Akira Kurosawa sulla scrittura

Caro Michele – Mario Monicelli

il protagonista del film non c'è, è sparito, probabilmente è fuggito perché ricercato per terrorismo.
la madre (Delphine Seyrig) gli scrive sempre, lo aspetta, appare una ragazza (Mariangela Melato) che ha conosciuto Michele, con un bambino forse suo, è sempre presente un amico di Michele (Lou Castel), Osvaldo, che sa un po' di cose.
i protagonisti sono straordinari, grazie anche a Monicelli, il film è ricco di episodi da ricordare, un piccolo gioiellino da non perdere - Ismaele






Un ragazzo di famiglia borghese, coinvolto nel Sessantotto e in fatti e fattacci collegati, è costretto a lasciare l’Italia e andarsene a Londra. Incomincia un dialogo a distanza, e in forma epistolare, con la famiglia e altre persone vicine. Ma lui non tornerà più. Cos’abbia attratto Monicelli in una materia simile, così lontana dalla sua sensibilità corrosiva, non è dato sapere. Ma conviene guardarcelo, questo film anomalo così poco monicelliano, anche perché porta con sè, come pochi, umori e dolori di quegli anni balordi (il film è del 1976). Bellissimo cast: Mariangela Melato, la mitologica Delphine Seyrig di Marienbad, Lou Castel. Può bastare?

Caro Michele,
qui tutto bene, altrettanto sperasi di te.
Devo dire che il film dedicatoti (o, meglio, dedicato alle belle donne che hanno costellato la tua vita) mi è piaciuto molto.
La Mara ("Castorelli? Pastorelli? Insomma, quell'amica di Michele che ha tanto bisogno", come direbbe tua madre) interpretata dalla Melato è un piccolo capolavoro di surreale pietas (ella stessa si compatisce, in tristi momenti di lucidità) e la sua costanza nel perpetrare innumerevoli errori è quasi commovente. Il suo (vostro?) bimbo, Ciccetto, è un adorabile fagotto che, come tanti altri bambini di Monicelli, assiste, suo malgrado, alle tragicomiche vicende imbastite dai grandi. Penso che Monicelli avesse un occhio dolente ed affettuoso nei confronti dei "piccoli": dall'infante di Brancaleone, al figlio di Tiberio ne I soliti ignoti, fino ai nipotini di Parenti serpenti, emerge l'ineluttabilità della loro condizione di inascoltati e di destinati all'emulazione pateticamente negativa.
Tua sorella Angelica (Aurore Clément) è una delicata e un po' sfiorita casalinga che, come vostra madre (Delphine Seyring), tanto rimpiange la tua presenza. La scena, apparentemente inutile, della doccia (un must altrove pruriginoso della commedia italiana) non è qui fine a sé stessa: il corpo ancora bello e formoso di Angelica è prossimo all'oblio, nonostante la giovane età, e Monicelli indulge con tenerezza sul biancore delle sue carni.
Osvaldo (Lou Castel) è l'amico (innamorato, come suppone l'altra tua sorella, Viola) migliore che un uomo possa incontrare sul suo cammino e la sua apparente distonìa, il suo incedere lentamente nella tua vita, è molto toccante.
Come spesso accade nei lavori del regista viareggino, le case hanno un'importanza fondamentale, sono lo specchio delle vicende che egli decide di raccontare. Così, le case in cui si aggira Mara sono sconclusionate come lei, quella di tua madre è un caldo nido medio-borghese traboccante di persone, vettovaglie e libri, il tuo scantinato è privo di carattere perché manchi tu.
Caro Michele,
che bel film.

…Caricature di uomini come Monicelli amava ideare e sempre fin troppo veri.
L’ultimo atto di una borghesia stanca e decadente vista attraverso il ritratto di una famiglia smembrata, (ri)composta da una moltitudine di personaggi che il regista rende inafferrabili e aleatori. Buttati addosso allo spettatore senza il tempo di capire nemmeno bene chi siano si moltiplicano continuamente tra madri, padri, zie, figli, amici, amanti. Vediamo il loro re morente, il capo famiglia, che agonizza dando le ultime disposizioni dal suo letto/trono circondato da inutili ricchezze. Cerca come conforto quel suo unico erede maschio ormai perduto dietro a moti rivoluzionari, inghiottito da quel mondo che voleva cambiare.  Volti femminili di fine porcellana contrapposti a volti maschili unti e rozzi sprofondano insieme in un liquame affettivo in cui ormai le emozioni si sono dissolte per sempre ed è calato uno strano abbandono nel tempo andato…


venerdì 26 agosto 2016

Colors – Dennis Hopper

due poliziottiRobert Duvall e Sean Penn, contro le gangs di Los Angeles.
sembra il solito film, il vecchio e il giovane, il maestro e l'allievo, la differenza rispetto alla media è nei due attori e nel regista.
vedere per credere - Ismaele





Colors, ritratto pop della guerra a Los Angeles tra due gang giovanili ispaniche. Sorvegliano la situazione due poliziotti, l’anziano e saggio Robert Duvall e l’aggressivo, testosteronico Sean Penn, allora con fama di violento anche fuori dal set. Quasi un omaggio e un remake aggiornato al tempo delle gang di Gioventù bruciata, il film che da ragazzino Dennis Hopper interpretò accanto al suo idolo James Dean.

E’ paradossale: questo film è bello nonostante tutto in esso sia brutto: brutta Los Angeles, brutti i suoi quartieri e i suoi ghetti, brutti i personaggi, siano essi bianchi, ispanici, neri o poliziotti, brutta la vicenda e la sua conclusione, brutto il linguaggio, brutte macchine e brutti abbigliamenti. Ed è tutto così vero! Dennis Hopper dirige con mano ferma un action-movie documentaristico, violento e amaro. Al centro, due agenti del Los Angeles Police Department. Il più giovane (Sean Penn) è impulsivo e aggressivo, ha una gran voglia di suonarle ai membri delle bande che infestano la città e sono sempre in guerra tra loro. Il più anziano (Robert Duvall), padre di famiglia e prossimo alla pensione, svolge ormai controvoglia il suo pericoloso mestiere, è disincantato dalla sua “missione” e cerca di frenare il suo impetuoso collega. Tenta invano di moderarlo, propinandogli qualche inutile pillola  di saggezza. Li seguiremo nel corso di svariate operazioni, con inseguimenti, sparatorie e spargimenti di sangue. La trama ha un’importanza relativa, ma il vissuto di svariati personaggi sia illustrato con acume. Il linguaggio è crudo, volgare, maschilista e violento; suscita la sensazione che in quell’ambiente non vi sia alcuna possibilità di riscatto, che la società sia del tutto incapace di comunicare con alcune sue parti. Dalla visione del film si esce piuttosto amareggiati, fermi restando le splendide interpretazioni dei due protagonisti e il tocco registico di classe di Dennis Hopper. Veramente adeguata la colonna sonora, affidata ad un ispirato Herbie Hancock.

Un poliziesco antispettacolare e realistico nella descrizione delle gang giovanili afroamericane, con scene d'azione ben girate e dialoghi crudi (e una buona dose di violenza nell'aria). La coppia Duvall-Penn funziona, entrambi molto bravi nei rispettivi personaggi, ma anche tutto il resto del cast è scelto con cura. Un po' prolisso e con qualche lungaggine ma apprezzabile. Buona la colonna sonora.

…Duvall and Penn are two of the best actors in America, bringing a flavor and authority to their roles that make them specific. A lot of their acting in this movie is purely physical, as when Penn disarms, frisks and handcuffs a suspect, seeming sure and confident at every moment. Other moments, when the two actors are talking to each other, contain that electricity that makes you think these words are being said for the first time.
The plot involves the attempts of the two cops to come to terms with a gang that is involved, we discover, in dealing drugs. During the course of the film they follow the brief life of the younger brother of one of the gang members, who seems for a time to have a chance to escape gang society. And there is a brief, doomed romance between Penn and Maria Conchita Alonso, as a Chicana who loves him but cannot reconcile his status as a cop and her perception of how cops like Penn treat her people.
The movie has some flaws. The story is needlessly complicated, and at times we’re not sure who is who on the gang side. And some of the action seems repetitious; Hopper, trying to show the routine, makes it feel routine. But “Colors” is a special movie - not just a police thriller, but a movie that has researched gangs and given some thought to what it wants to say about them.

giovedì 25 agosto 2016

La notte senza legge (Day of the Outlaw) - André De Toth

è un western senza indiani, solo contadini e allevatori, che stanno per fare la guerra, e una banda di fuorilegge, guidati da un ex ufficiale, che fatica a tenere la disciplina fra i suoi accoliti.
non ci sono il sole, il deserto, gli ampi orizzonti che conosciamo, c'è la neve, e quasi tutto il film è girato al chiuso, quasi un'ambiente teatrale.
le donne sono l'oggetto del desiderio, di tutti, ma sopratutto dei fuorilegge, che però non potranno consumare la fiamma che li avvampa, il loro capo non vuole che le tocchino, né che si ubriachino.
Starrett tiene testa ai banditi, con le parole e con strani accordi, ama la moglie di Craine, ma rinuncia a fare l'amore, nonostante lei si offra, solo per una volta.
è un western che non ti aspetti, ma ci sono anche questi, meno male.
cercalo, non te ne penti - Ismaele







In una sperduta cittadina di frontiera, Hal Craine (Alan Marshal) e Blaise Starrett (Robert Ryan) sono pronti a sfidarsi a duello. Il loro gesto estremo viene però interrotto dall'arrivo di una banda composta quasi esclusivamente da assassini senza scrupoli: la priorità ora sarà difendere le proprie case e le proprie donne.
Da una sceneggiatura di Philip Yordan, La notte senza legge è l'emblema di un cinema capace di eccellere nonostante una base di partenza alquanto semplice e tradizionale. Il plot infatti non ha molti spunti interessanti, a differenza invece della messa in scena e di alcune scelte registiche a dir poco azzeccate. Con pochi mezzi a disposizione, de Toth sceglie un'ambientazione silenziosa e innevata dove far giostrare con una lentezza che acuisce il senso di pericolo i propri personaggi. Ripresi per la maggior parte del tempo con una camera fissa, i vari Robert Ryan, Burl Ives e Tina Louise si dimostrano capaci di trasmettere anche solo con qualche smorfia l'enorme tensione creata. Un western raro e curioso, che vanta persino un finale pacifista che non si dimentica. Da riscoprire.

…Starret, héroe a su pesar, tampoco saldrá indemne del trance. De vuelta en su cuarto, verá el reflejo de un hombre que estaba dispuesto a matar hace un rato, un hombre no muy distinto que el grupo que está en el hall de ese mismo hotel. La conciencia reflexiva que estimula el célebre motivo visual, tiene su eco en el gesto de uno de los forajidos, cuando arroje sobre otro espejo una silla. La incapacidad de adoptar el punto de vista del otro, niega a la empatía y condena a la rapiña, en última instancia, hace la propia supervivencia imposible.
Starret es uno de los pocos personajes de De Toth en el que se percibe una crisis personal de valores que le conduce a virar de un egoísmo rayano en lo criminal, al sacrifico altruista...

Vous l’aurez deviné, l’humour est quasiment absent de ce hiératique Day of the Outlaw, plus proche du film noir dans ses thématiques, son ton et son ambiance que du western. Peu de coups de feu mais une menace pesante et permanente, aucun exutoire pour le spectateur qui voudrait bien une bouffée d’air suite au générique de fin, après avoir ressenti une certaine claustrophobie au milieu de cet environnement impitoyable. Le dépouillement et le modernisme de la mise en scène, la rigueur de l’écriture, la perfection de l’interprétation, l’étrangeté des situations font bien de cette sombre et insolite Chevauchée des bannis un western très important…

'Notte senza legge', da quel che ho letto, alla sua uscita passò quasi senza colpo ferire ma, a mio avviso, merita una più che attenta visione: è diretto dall'esperto e sottovalutato André De Toth, che riesce a creare una tensione palpabile e costante e un'atmosfera claustrofobica ed opprimente, tanto nella parte ambientata in interni, quanto in quella all'aperto, sfruttando l'elemento neve, che si trasforma in un 'nemico' silenzioso ma inesorabile, che rende ancor più impervio un territorio già per sua natura ostico…
De Toth signe quelques-unes des scènes les plus belles et les plus originales du genre : la bagarre à main nue dans la neige possède la rudesse d’exécution qui fera la renommée de Sam Peckinpah, la scène de bal dans le saloon est un modèle de tension dramatique et enfin, l’ultime chevauchée du titre est un magnifique requiem à destination d’un monde voué à la disparition. Et que dire du fameux duel final, totalement inattendu, si ce n’est qu’il propose une vision novatrice d’un genre alors en perte de vitesse. Avec son ambiance funèbre, La chevauchée des bannis est donc bien un jalon important dans la complexe évolution du western. Et même un chef d’oeuvre, tout court.





martedì 23 agosto 2016

Shirin - Abbas Kiarostami

il film non esiste, anzi, meglio, noi vediamo decine di attrici, iraniane e non solo, che starebbero guardando un film che è la storia di Shirin (leggine qui e/o qui per conoscere la storia di Shirin e Khosrow), che ricorda Giulietta e Romeo, 3-4 secoli prima di Shakespeare, e le Mille e una notte.
il film è quindi il racconto delle avventure di Shirin e Khosrow, e non solo, interpretati da ottime voci, vediamo solo le facce che ascoltano, come noi, ma noi immaginiamo, intuiamo, pensiamo, "vediamo" guardando le facce delle attrici.
c'è chi l'ha stroncato senza pietà, per me si avvicina al capolavoro.
pare che Godard abbia detto una volta che "il cinema inizia con Griffith e finisce con Kiarostami", allora solo Kiarostami poteva avere il coraggio e la sana follia per fare questo film.
bisogna vederlo (in lingua originale), poi si capirà qualcosa di quello che ho scritto, forse - Ismaele

ps: mi ha ricordato un corto straordinario di Frank Herz (qui), Ten minutes older.






dice Abbas Kiarostami:
Sono molto felice di parlare di Shirin. I nostri film sono i nostri figli, alcuni di loro, come i nostri figli, hanno più successo, mentre alcuni potrebbero essere più timidi per cui quando qualcuno li nota per noi registi è molto importante. Dopo Shirin ho realizzato altri due film Copia Conforme ed un altro che ho appena finito di girare in Giappone ma credo che Shirin sia un film eccezionale.
Di solito ogni cineasta dice che il suo ultimo film è quello migliore, questo perché si diventa sempre più maturi. Io però non avrò più la possibilità di girare un film come Shirin dove è lo spettatore a comunicare un sentimento verso un film.
Che film stanno guardando?
In realtà nessuna di loro vede nulla, non vedono un film. Queste donne sono di fronte ad una macchina da presa fissa e ad un foglio bianco A4 abbiamo chiesto loro di sedersi e per 6 minuti guardare il foglio ricordando un’emozione vissuta nella loro vita, ripercorrerla e riviverla. Alcune di loro continuavano a recitare, non riuscivano a controllare la recitazione però altre erano talmente sprofondate in questa emozione, in questo ricordo, che la loro reazione diventava vissuta e non recitata ed io alla fine ho raccolto 600 minuti di girato.
Poi ho trovato il racconto di un poeta classico persiano che parla di una storia d’amore molto simile a quella di Romeo e Giulietta, ho scritto una storia d’amore dal racconto ed ho effettuato il montaggio mettendo le riprese delle donne in modo che le loro reazioni fossero compatibili con la storia d’amore che stava accadendo.
Non ho chiesto a nessuna di loro a cosa pensassero ma era facilmente intuibile che pensassero ad una storia d’amore amaramente finita, delusa anche se per me non esiste una storia d’amore delusa perché ogni storia d’amore è come la vita: ha un inizio, una durata ed una fine per cui bisogna considerarla per com'è stata.
Se guardiamo alle reazioni di questi volti riusciamo a ripercorrere la storia d’amore, vediamo quando inizia, quando è al suo apice, quando entra in crisi, quando finisce, tutto ciò solo dalle espressioni del volto e ci rendiamo conto che queste 117 donne avevano tutte ripercorso una storia d’amore, felicemente iniziata e poi finita.
Il motivo principale per cui amo questo film è che in questo caso io non ho fatto il regista. I registi di solito intervengono sulla natura delle persone e la modificano e da qui nasce il cinema e la storia.

…Kiarostami scende nella grotta del mito platonico con le sue attrici-spettatrici di cui registra i movimenti visibili, le reazioni, le microalterazioni e i ritmi emotivi. La macchina da presa del regista iraniano diventa uno strumento per riprendere l'energia intellettuale e affettiva che si sprigiona in sala. Quello che per la scienza sarebbe un'esperienza indeterminabile e difficilmente accertabile diventa per Kiarostami poeticamente possibile. I volti incorniciati in primo piano sono un deposito di sogni nati nel buio della sala e resi esplorabili dall'autore. 
Shirin è un film sul ruolo dello spettatore e sull'importanza del fuori campo. Vicine o lontane allo schermo, incollate alla poltrona o irrequiete sulla poltrona, le spettatrici di Kiarostami sono il principale spettacolo. Lontana dalle sale dei multiplex, che sanno di plastica e pop-corn, la "caverna" messa in scena dal regista iraniano è un luogo sacro in cui chiedere asilo, un abisso in cui gettarsi, l'alcova di un'altra vita. Il film proiettato nel film non esiste se non dentro agli occhi e al calore dei corpi delle sue attrici. L'invisibilità della rappresentazione rappresentata, di cui avvertiamo soltanto il parlato e il sonoro, è la testimonianza eloquente di un mondo nascosto e segreto che preme ai margini dell'inquadratura ma è comunque il visibile il vero centro e senso del film. 
Forse il cinema di cui abbiamo più bisogno è quello che si sottrae all'imperativo del (di)mostrare, quello che suggerisce, allude e lascia filtrare la presenza di un altrove. Kiarostami costruisce un film che è anche (e soprattutto) un saggio teorico sulla natura dello spettatore, sul cinema, lo schermo, la sala e i tempi e riti della visione. Dopo aver filmato il lirismo del quotidiano e dopo aver descritto gli aspetti minimi dell'esistere, l'autore iraniano approccia poeticamente la "passione" dello spettatore e il suo incontro con il film, riflettendo sul senso di elevazione e sul soffio vitale prodotto dalle immagini e trasferito ai corpi riuniti in platea.

Dare un voto a questo film è operazione pressoché inutile e fuorviante. Shirin, di Abbas Kiarostami, è, infatti, un’opera che, per la sua valenza fortemente teorica, si potrebbe accostare all’ultimo cinema di Jean-Luc Godard: opere per cui non può valere una classica “griglia” di giudizio. Il maestro del cinema iraniano, da sempre, non si limita a fare cinema, ma (anche) teoria del cinema. Film come Close-Up o Sotto gli ulivi riescono a contenere magnificamente al loro interno un grande discorso umano ed esistenziale, e una profonda ricerca sull’arte cinematografica. Con Shirin, Kiarostami realizza probabilmente il suo film più audace e sperimentale. Di certo, l’operazione compiuta da Kiarostami non può passare inosservata: per un’ora e mezza, in un cinema, viene proiettato il film «Shirin» – popolare melodramma persiano, accostabile a Romeo e Giulietta -, di cui, però, ci è occultata la visione. Vediamo, infatti, solo i volti delle spettatrici nella sala, e udiamo unicamente il sonoro del film, in fuori campo.
Dunque, un film concettuale, metalinguistico, teorico. Ribaltando questioni cardine nel rapporto tra spettatore e film, tra enunciatore ed enunciatario, Kiarostami “sfonda” la quarta parete dell’illusione filmica, portandoci ad assumere il punto di vista dello schermo cinematografico. Il film, pur prendendo dichiaratamente spunto dalla celebre sequenza di Anna Karina in Questa è la mia vita  - di nuovo Godard -, ne supera lo strutturalismo sincronico. O, per meglio dire, realizza qualcosa di diverso. Kiarostami vuole «ripercorrere la storia d’amore di Shirin attraverso i volti delle spettatrici» [frase estratta da una video-intervista al regista]. Il regista iraniano sceglie 117 donne – attrici professioniste, come nel caso di Juliette Binoche, e non – riprendendone esclusivamente i volti per catturarne le emozioni, i sentimenti. E quelle lacrime, quei sorrisi che scaturiscono dai bellissimi primi piani di Shirin possono davvero riuscire ad emozionare anche lo spettatore. Perché, come diceva John Ford, «cosa c’è di più meraviglioso di un volto umano?».   

Shirin is quite in keeping with Kiarostami’s usual approach to cinema, even if it seems more unorthodox than most of his films. His reflexive examination of illusion and reality is very much in play here, and is approached more subtly than in his controversial conclusion toTaste of Cherry (1997), though Certified Copy truly is the apex of his examination of this subject. Kiarostami also does one completely unique thing with Shirin that I don’t remember experiencing with any other film: he restores the oral tradition that was always associated with the Shâhnâma, in particular, and with epic poetry, in general. We actually get the chance to imagine the story of Shirin through audio cues and the faces of those who are listening as stand-ins for the storyteller who would emote during the recitation. Thus, not only do we get to learn an ancient tale from the classical Persian canon, we also get to time travel to experience it as it might have been experienced in medieval Persia. I, for one, enjoyed the ride.

Attraverso i gesti delle mani, della bocca e nello sguardo viene catturato dalla cinepresa quel momento che gli antichi greci, primo fra tutti Aristotele nella sua "Poetica", chiamavano "Catarsi" (κάθαρσις, purificazione). Queste donne dai volti eleganti partecipano e si compenetrano ai dolori e alle gioie della protagonista, prendendo coscienza di sé attraverso i ricordi e le proprie esperienze, ma allo stesso tempo se ne distaccano superando questo dolore. Da qui il teatro diventa mimesis ossia l’arte diventa e si compenetra nella realtà, ma in questo caso si nota un doppio passaggio, non solo il teatro infatti assume questa funzione, ma anche il cinema. Vi è forse un’omaggio a queste due arti, che possono essere definite madre e figlia, tanto amate dal regista? Quel che certo è che questo pubblico immaginario resta bloccato sulla sedia e al tempo stesso viaggia attraverso la mente e le emozioni in un’atmosfera quasi "crepuscolare", dove il suono si fonde con l’immagine, superando e colmando le lacune dovute all’assenza di scenografia. "Shirin" è come un dipinto che parla nel silenzio al cuore delle persone e a codificarlo vi è il suono, la voce narrante. Ecco che la pellicola diventa il nuovo campo di lavoro e pratica delle teorie di Kiarostami, che continua a giocare con questi due importanti elementi, rendendoli dominanti e protagonisti nelle sue opere.

…We watch them as they absorb the tale, perhaps taking in what it all means, finding some connection from their own lives. Sometimes they adjust their scarves or make themselves more comfortable. Sometimes they're indifferent, and sometimes they cry. As the story gets closer to its climax, the emotion in the crowd builds.
It appears that Kiarostami wishes to say something about the power of women -- especially as the movie moves toward its second half and we begin to see the oppressive faces and beards of men lurking in the backgrounds -- even if his message isn't concretely spelled out. Or perhaps he's saying something about the power of cinema, the singular, emotional power of the screen and the dark.
In any case, Shirin isn't nearly as dull as it sounds; the melodramatic, passionate "Shirin" story drives everything forward, and gazing at the faces of these amazing women can be a compelling experience in itself…

…Well, Kiarostami has created a stylised chamber piece in which the use of professional and well-known actors is arguably the point. They could have been cast in the film they are watching - though they are not, I think, supposed to be playing actors - and have instead been displaced out of the screen, and into the audience. This could be intended to create an eerie laboratory effect, a distilled, foregrounded emotion.
The steady insistence on women's faces recalls Kiarostami's earlier movie Ten, with its locked-off camera continuously showing a woman at the wheel of a car. In fact, showing a face reacting to an invisible speaker is in fact a continuation of a distinctive Kiarostami tic: instead of using the traditional shot-reverse-shot approach to filming a dialogue, he will sometimes keep his camera trained on the original speaker listening to the reply. It is an eccentricity, but one which interestingly repudiates the fiction of cinema being everywhere at once. Like much of his new work, Kiarostami's Shirin has been undertaken in something like a Godardian spirit of research: it is perhaps only for those prepared to approach it in a tolerant, indulgent spirit.


una stroncatura senza pietà:

Minimaliste et vain
Kiarostami, auteur iranien du meilleur (« Ten ») comme du pire (« Au travers des oliviers »), nous livre avec « Shirin » un film conceptuel des plus insupportables. Pendant une heure trente, non seulement vous ne verrez pas le film, conte arménien « Shirin », mais vous aurez droit aux visages de femmes, alignées dans un cinéma aux éclairages improbables (la lumière vient souvent de derrière les sièges !), qui regardent le film dont vous n'aurez que les bruitages et voix.

Un décalage malencontreux dans les sous-titres fait que l'on ne sait plus qui dit quoi. Des visages impassibles pendant de longues minutes, et une récurrence peu évidente à saisir des différentes femmes (plus de 110 au total). Rapidement l'ennui nous guette, malgré une volonté poétique et esthétique évidente. Si le désir de vie et de liberté font surface progressivement, le caractère de révélateur social du film (comme ce pouvait être le cas dans le très réussi « Ten », autre film minimaliste du réalisateur, basé sur dix conversations en voiture), reste bien en retrait, les hommes et femmes étant mélangés dans la salle et la femme arborant un voile souvent à moitié défait. Mais que fait notre Juliette Binoche là dedans ?