Moonee, Scooty e Jancey sono i bambini protagonisti di un'infanzia (in)felice, ai margini del sogno americano, risucchiati dall'incubo americano, che cresce ogni giorno.
Bobby (Willem Dafoe) e la mamma di Moonie li difendono come possono, in questa vita di stenti, nella quale un gelato è la felicità.
Bobby cerca di dare attenzione a Halley (Bria Vinaite) e a Moonie, fin quando è possibile.
e poi c'è la fuga di Moonie e Jancey, e noi speriamo che ce la facciano.
un film da non perdere, se vi volete bene.
buona (correndo) visione - Ismaele
QUI si può vedere il film completo, su Raiplay
…Già autore dell’interessante Tangerine,
visto dalle nostre parti al Torino Film Festival, Baker ambienta il suo nuovo
lavoro nei dintorni di Orlando, ovvero alle porte di Disney World. È proprio
qui che tra motel-condomini dai colori confetto e a forma di castelletti
fiabeschi, hanno luogo le vivaci scorribande estive della piccola Moonee
(Brooklynn Prince) e dei suoi sodali Scooty (Christopher Rivera) e Jancey
(Valeria Cotto). A gestire il caseggiato-motel c’è poi Bobby (Willem Dafoe),
paziente custode e tuttofare che deve districarsi tra le marachelle dei bambini
e quelle dei genitori (che non sono da meno), ridipingere il castelletto per
mantenerne vivaci i colori, gestire con invidiabile fermezza sia il topless di
una matura signora nella piscina condominiale che l’incursione in zona di un pedofilo.
E così, in questo paesaggio iperreale, tra Via dei 7 nani e il motel
Futureland, villette ancora in costruzione abbandonate, gelatai a forma di
gelato e venditori di arance a forma di arance, l’ineludibile vitalità dei
ragazzini resta l’unica forma di residua di autenticità, l’ultima ribellione
possibile a un regno di simulacri. Ed è proprio questo spirito anarchico
dell’infanzia che Barker mira a trasmettere, grazie alla freschezza di un ben
ritrovato cinéma vérité, che ben restituisce quel flusso energetico dirompente
che tutto travolge.
Girato completamente ad altezza e velocità di bambino, Un sogno chiamato Florida è anche un film
politico, che va a indagare quel socialismo innato nell’infanzia – qui
obbligatoriamente adottato anche dai genitori per ragioni di indigenza – che
raggiunge tratti quasi commuoventi (si veda la tecnica di acquisto e
condivisione del gelato) e galvanizza lo spettatore tramite un costante attacco
contro le figure del potere (il povero Bobby) e del benessere (i turisti), irraggiungibile
per i personaggi del film.
Un sogno chiamato Florida rievoca dunque lo
spirito dicapolavori sull’infanzia come Zero in condotta di
Jean Vigo e I 400 colpi di Truffaut,
mentre riflette su un territorio e i suoi nonluoghi (il motel-condominio, il
parco divertimenti), emblemi di un’America che ha sostituito la “terra delle
opportunità” con “un regno incantato” e dove gli ultimi indigeni sono relegati
in “riserve” adiacenti l’attrazione principale e che ne evocano l’aspetto, ma
solo per meglio certificare la loro emarginazione.
Caldo estivo.I turisti se la spassano
a Disneyland ,ma in un motel del quartiere alcuni bambini vivono in precarieta'
mendicando dai passanti un gelato ,mentre i loro genitori cercano di scovare un
sistema per pagarsi l'affitto,su tutte la mamma (Vinaite) che con la figliola
(Prince) non rispetta le regole della vita e dell'albergo in cui abita ,gestito
da un grande Dafoe (nominato agli Oscar).Il bravo regista Sean Baker ritorna
col suo sguardo curioso e empatico ,mostrandoci il lato oscuro del sogno
americano.Applaudito ai vari festival che ha partecipato lo sfondo e' davvero
curioso,quasi favolistico,ma emergono dall'inizio alla fine le difficolta' di
vivere su condizioi sociali precarie.Se poi pensiamo che gli interpreti
principali sono tutti non professionisti (eccetto Dafoe) si rimane esterefatti
della spontaneita' che ci mettono gli attori.E' da tempo che non vedo una
commedia cosi' bella di produzione americana,il finale di stampo drammatico e'
tutto da vedere.Non lasciatevi sfuggire un film cosi'....concilia davvero con
un cinema (indie) raro da trovare.
…Esteticamente meraviglioso, questo film cattura lentamente lo
spettatore prima attraverso lo sguardo e poi nel cuore, legando
indissolubilmente le immagini ai personaggi in quasi due ore di pellicola,
dettagliando così profondamente il personaggio della bambina da renderla reale
e vicina a noi, soprattutto in alcuni primi piani lirici ed assolutamente
realistici. Un piccolo capolavoro del cinema contemporaneo, che non ha bisogno
di mettere in scena grandi drammi o di correre eccessivamente sul filo della
narrazione, e senza voler concludere necessariamente il racconto con un finale
forzato.
Tutto scorre con i giusti tempi, con calma e dovizia di dettagli,
come sono le lunghe giornate estive di un bambino, che pare non finiscano mai.
…sean baker consegna al pubblico un terrificante ritratto di un'
america disperata e derelitta, che all'ombra del mito della terra delle
abbondanze(i migranti di crialese sognavano di fare il bagno nel latte e di
raccogliere verdure giganti, mentre monee e sua madre danzano nell'abbondanza
dei buffet degli hotels di lusso, mentendo sul numero di una stanza che è la
loro ma non lì)non è nemmeno sicura di poter tenere la patria potestà dei
figli.
costretta a prostituirsi e a ridursi sempre peggio, raschiando un
fondo sempre più difficile da raggiungere, quest'america si rimette nelle mani
di assistenti sociali che imputa ad una madre la sua incapacità di essere
genitore e di badare alla prole, salvo poi perdere la bambina che vorrebbero
toglierle.
un'america che si accontenta di fumarsi una sigaretta in un
crepuscolo di fuoco che sembra illuminato dai migliori fotografi di scena, che
vive la propria infanzia nell'area pic-nic sorvegliata dall'amorevole sguardo
del custode intento a ritoccare la vernice dell'edificio che si vorrebbe ancora
per i turisti (ma che loro non vogliono), che li protegge da predatori non
molto lontani dal terrificante tricheco che in "alice in wonderland"
fa la corte alle ostrichette, salvo poi mangiarsele in un sol boccone.
un'america che vive di momenti assolutamente magici, come quando il
custode sposta tre magnifici trampollieri dalla strada d'accesso del motel, o
le bambine giocano all'ombra di un magnifico albero durante un acquazzone.
la finzione rincorre una realtà documentaristica girando con
telecamere nascoste e con attori non professionisti, e la ricognizione da
giornalisti freelance rincorre la finzione grazie agli artifizi cinematografici
e ad una direzione d'attori esemplari.
in più, in un crescendo di tensione emotiva altissima, il film trova
una delle chiuse più belle viste in questi ultimi anni; una fuga disperata
all'interno del parco divertimenti, proprio verso il palazzo delle principesse,
quello del logo disneyano che apre ogni film che sicuramente anche le nostre piccole
protagoniste avranno visto in qualche occasione, rubato con un telefonino,
all'insaputa della major e che cercando disperatamente di regalare un pizzico
di magica speranza, lascia con un senso di inquietudine degna di shining e
della strega di blair....
gran film.
Sean Baker demolisce l’“American dream” senza possibilità di appello
con questo “Florida project”, opera che costituisce una presa di consapevolezza
che infrange ogni illusione di bellezza e felicità, a due passi dai parchi
giochi di Orlando, mecca di ogni bambino statunitense e non solo.
Proprio lì, a due passi dal sogno, esiste una realtà parallela e
squallida: i motel sorti lungo la 192 durante il boom dei parchi sono ora
diventati residenza per vagabondi senza fissa dimora, per chi non può
permettersi un’abitazione: famiglie senza casa che vivono alla giornata, grazie
a piccoli espedienti e lavoretti di fortuna, magari derubando i turisti…
Se non fosse per la Florida, la sua luce, Disneyland e i
colori saturi. questo film potrebbe essere tranquillamente il racconto di una
casa di ringhiera in una periferia inglese di Ken Loach o Mike Leigh. Invece
siamo proprio nello stato americano, regno del benessere e della
spensieratezza, siamo nella periferia di Disneyland, dove la vita vera, con i
suoi problemi e i suoi drammi, si staglia contro uno scenario di cartone,
pastellato, bello solo nelle sue fattezze naturalistiche. Baker, fresco premio
Oscar, ci racconta, come sempre, dell'altra America, quella di chi di fa fatica
a tirar sera, immergendoci in un complesso di piccoli appartamenti periferici,
gestiti da Willem Dafoe, un buon uomo, abitati precariamente da un'umanità
varia. Il regista spezza in due il racconto, mostrandocelo con gli occhi dei
bambini, figli distratti e pericolanti della suddetta umanità, che vivono il
luogo come fossero usciti da un racconto di Mark Twain, inventandosi avventure
e nuove realtà, fiabesco, e, in parallelo, ci mostra la fatica di vivere una
vita sempre al limite, eppure, in qualche modo, viva, vivissima e anche
gioiosa, quando, per un po', la sfortuna se ne sta alla larga. "Un Sogno
Chiamato Florida", rimane quindi un sogno e nulla più, anche se la
sequenza finale, (e Baker è uno dei migliori registi nel "chiudere" i
film), lascia intravedere amarezza, come sempre, ma anche una speranza di
serenità, seppure artefatta. Al netto del doppiaggio dei ragazzini, davvero
insopportabile, è un'opera interessante, ben strutturata, dove gli attori
rendono benissimo nella coralità di un canto un po' disperato e dove, ancora
una volta, l'America è lontana e l' "american dream" è bagnato
fradicio, posticcio, fasullo.
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