venerdì 31 gennaio 2020

La Ragazza d'Autunno - Kantemir Balagov

Iya pare uscire da una pellicola di Dreyer, ma anche da un quadro di Vermeer.
ogni immagine del film pare costruita da un pittore che ha imparato a fare il regista.
e già solo questo rende il film visivamente indimenticabile.
ma nelle immagini c'è una storia terribile, è finita la seconda guerra mondiale, c'è dolore, fame e tristezza.
Masha, reduce di guerra, torna da Iya, e in quel clima di morte e disperazione Masha trascina l'amica verso una qualche gioia, almeno a non abbandonare l'idea che si può migliorare, e vivere.
ma è difficilissimo, per chi lavora con i moribondi e vive in un appartamento condiviso, senza intimità.
anche l'amore, o almeno il sesso, sono cose complicate.
Masha ha solo Iya, Iya ha solo Masha, senza il loro affetto sarebbero ancora più perse.
non perdetevi questo grandissimo film, roba di serie A, promesso - Ismaele

ps: ecco il saggio d'esame di Kantemir, a 23 anni, alla scuola di Aleksandr Sokurov:











L'opera seconda di Balagov (ma la prima che vedo) è un film grandissimo.
Sembra incredibile che un ragazzo di 26 anni (età alla quale presumo abbia scritto il film) possa avere una tale sensibilità, gusto, padronanza dei mezzi e, soprattutto, capacità di togliere invece che di aggiungere, raccontare, costruire.
La storia di una ragazza altissima, scemotta, di gran cuore, e della sua amica che ritorna dal fronte.
Due personaggi femminili che diventano indimenticabili nell'attimo stesso in cui li vedi.
Un film che è meraviglioso da vedere per messinscena, colori e fotografia ma che nei contenuti e nella sensibilità in cui sono scritti personaggi e vicende, è ancora più grande…

Dal film, che sembrerebbe molto triste, emerge invece la voglia di vivere dei personaggi, che sentono ancora in sé l'impulso a superare il momento più critico.  Tutto questo diventa credibile grazie alla sinergia che si stabilisce fra le bravissime protagoniste, la volontà del regista di evitare un film “storico” per parlare con il linguaggio universale del sentire, espresso con asciutta e scarna sobrietà, lontana dal mélo e con i colori raffinati e caldi della splendida fotografia e dei bellissimi costumi.

Cineasta letterario nel senso migliore del termine, Balagov sa bene che se sulla pagina scritta bisogna dare vita e esseri e ambienti, per raggiungere il medesimo scopo al cinema bisogna invece toglierne. Eccezionale direttore di attori, Balagov costella dunque il proprio film di scene madri di notevole lunghezza che spingono il proprio vigore espressivo, fatto di una densissima, articolata e sfaccettata tessitura mimico-gestuale, fino al proprio limite, estenuandole fino al punto in cui la pienezza della sostanza vivente dell’espressione sembra raggelarsi nel sospetto di un vuoto di fondo che finisca sistematicamente per inghiottirla. Al fondo dell’imitazione di quello che c’è, c’è quello che non c’è.
il rigore di La Ragazza d’Autunno è impressionante: ogni inquadratura è una cornice con una potenza pittorica sconvolgente, una ricerca estetica ricca e stratificata, un significato dialettico mai lasciato al caso. Ecco, Balagov non dirige, dipinge. E lo fa con uno sguardo immersivo capace di dilatare gli spazi stretti e con movimenti di macchina che si insinuano delicatamente fra i personaggi; una messa in scena che ci porta fin dentro il racconto filmico, tanto che anche noi in qualche punto ci sentiamo presenti in quel set come fossimo delle comparse e non semplici osservatori esterni. Anche i costumi e le scenografie sembrano avere una consistenza viva e tangibile, ne percepiamo quasi gli odori e gli spessori, mentre sprofondiamo in una splendida fotografia piena di significati: da una parte l’ocra trasmette il concetto di perdita e di trauma, dall’altra il colore verde (che rispunta in più oggetti di scena) rilancia un’idea di speranza per una nuova vita…

martedì 28 gennaio 2020

Ridere di Dio - Francesco Guala


Da quasi un mese una serie di Netflix sta infiammando l’opinione pubblica brasiliana, mettendo a dura prova la giurisprudenza, e addirittura provocando disordini di piazza. La prima tentazione di Cristo, del collettivo di comici Porta dos Fundos, ricostruisce in modo dissacrante la vita di Gesù, osando scherzare su una presunta relazione omosessuale del profeta di Nazareth. La scorsa settimana un giudice di Rio de Janeiro ha ordinato la rimozione della serie, con motivazioni che vanno dalla protezione dei minori a quella della religione cristiana. Nel giro di pochi giorni il Tribunale Superiore (la corte costituzionale brasiliana) ha risposto all’appello di Netflix invertendo la decisione e ordinando il ripristino della serie. Nella sentenza si legge che “non si deve presumere che una satira umoristica abbia il potere magico di minare i valori della fede cristiana, la cui esistenza risale a oltre duemila anni fa”.

Sempre negli stessi giorni in Italia è scoppiato il caso di Checco Zalone, attaccato per presunto razzismo a causa di una clip del nuovo film Tolo Tolo; poi, svelato il malinteso, boicottato dai movimenti di destra per presunto buonismo pro-migranti. Zalone ha risposto prendendosela con la dittatura del politicamente corretto. Migliaia di chilometri più a Ovest, Ricky Gervais è stato osannato per avere sbeffeggiato senza pietà l’establishment del cinema mondiale, accusato di eccesso di correctness. Fra le perle: “volevamo fare un memorial, ma poi abbiamo visto i nomi di chi ci ha lasciato quest’anno e non c’era abbastanza diversità”. “È stato un anno fantastico per le serie pedofile, come I due papi”. E per finire: “se vincete un premio, non usatelo come piattaforma per un discorso politico. Non avete nessuna autorità per farci una predica. Non sapete niente del mondo reale. La maggior parte di voi ha passato meno tempo a scuola di Greta Thunberg, quindi se vincete prendete la vostra statuetta, ringraziate il vostro agente, e andatevene affa****!”

Ricky Gervais era stato invitato per far ridere e scioccare, anzi per far ridere scioccando. E la reazione del pubblico nella sala dei Golden Globes era un susseguirsi di risate e boati, al quale il comico inglese rispondeva alternando “shut up, I don’t care!” e “remember: they are just jokes!”. Ma Gervais sapeva benissimo che non erano soltanto battute. O meglio, sapeva che far ridere è una cosa molto seria, quando si prende di mira ciò di cui non si dovrebbe scherzare.
A tutti noi è capitato di sentire battute fuori luogo o di cattivo gusto. E molti ritengono che alcuni argomenti siano off limits. Se la satira gay su Gesù non vi offende, provate a immaginare un gruppo di naziskin che racconta barzellette sull’olocausto: non va bene, è terribile, non può essere tollerato. Ma perché? Come si può offendere ridendo? Filosofi e psicologi se lo chiedono da secoli, e la risposta è più o meno la seguente: la risata è una risposta automatica a un salto cognitivo che ci coglie di sorpresa. Ci sono molti modi per provocare questo salto, ma il più comune consiste nel sostituire uno scenario atteso positivo con un altro di carattere negativo. L’ironia e la satira tipicamente sfruttano un’inversione alto-basso, ideale-miserabile, nella quale i personaggi si comportano in modo più stupido, abietto o assurdo di quanto il loro ruolo comporterebbe. In Brian di Nazareth – un classico della satira religiosa – un poveraccio viene identificato casualmente con il Messia, adorato da una folla di pazzi fanatici, e a un certo punto è perfino rapito da un’astronave che si trova a passare sopra Gerusalemme (non si capisce assolutamente perché, ma fa ridere).

Eppure, dirà qualcuno, non è vero che non si può ridere di Dio. I preti raccontano barzellette sulla Chiesa, e gli ebrei sono famosi per un vasto repertorio che non risparmia la religione, l’olocausto, perfino il vittimismo del quale sono spesso accusati. Manca dunque un tassello, per comprendere il potere del riso.
Perché ridiamo, per fare che cosa? Ridiamo e facciamo ridere, ovviamente, perché è piacevole. Ma non ridiamo con tutti, in tutte le occasioni. Gli antropologi hanno notato che il riso è un lubrificante dei rapporti sociali. Spesso viene utilizzato per sdrammatizzare, altre volte per cambiare gli equilibri: una battuta o presa in giro serve a riportare sulla terra chi si dà troppe arie o si considera più importante degli altri. Ma con l’autoironia ci si può anche mostrare umili, esponendo i propri limiti e difetti. In questo caso il riso riporta in basso chi sta, o vuole stare, più in alto. Ma il meccanismo alto-basso può essere utilizzato anche per impedire un rapporto fra pari, enfatizzando o creando disuguaglianze. Quando un naziskin se la prende con gli ebrei, lo fa per svilirli e marcarne la presunta inferiorità.

L’intenzione dietro la battuta è dunque cruciale. Ecco perché i preti possono ridere di Gesù, ma non possono farlo con i mangiapreti. Perché gli ebrei possono raccontare barzellette sull’olocausto, ma non insieme ai naziskin. Possiamo ridere di Dio se siamo tutti convinti che la fede sia una cosa seria, da una parte; oppure all’opposto se tutti pensiamo che sia un orpello anacronistico e nefasto. Ma chi disprezza la fede difficilmente può riderne, per motivi opposti, insieme a chi la considera sacra.

Può sembrare una visione sconfortante: anche la satira e l’ironia dunque ci separano, ricalcando le divisioni di fede, ideologia e morale che attraversano le società moderne? Puoi ridere del tuo Dio, ma non di quello degli altri? Come spesso capita, le cose sono un po’ più complicate, e forse migliori di quello che sembra. Possiamo ridere con gli altri, anche se non la pensano esattamente come noi. Il segreto è il rispetto – l’atteggiamento di chi considera le opinioni altrui degne di essere prese in considerazione. Rispettare non vuol dire essere d’accordo, ma perlomeno accettare che una credenza, un simbolo, un rituale siano importanti per qualcun altro. Ovviamente è più facile avere rispetto se rifiutiamo i dogmi: se pensiamo che tutte le credenze e gli stili di vita – anche i nostri – siano imperfetti, e che sia sempre possibile imparare qualcosa dagli altri.
La satira, desacralizzando, in parte fa questo: ci aiuta a pensare scenari diversi, ci mostra il mondo per quello che non è, ma potrebbe anche essere. Lo fa sfruttando una sua proprietà peculiare, la capacità di anestetizzare le emozioni. Sappiamo che una battuta al momento giusto può sdrammatizzare una situazione tesa sul lavoro; ma una risata può anche rovinare un momento di grande passione. Il riso quindi può offendere impedendo la manifestazione delle ‘giuste’ emozioni – come l’amore incondizionato per Gesù o il cordoglio per l’olocausto. Questo stato di sospensione emotiva però ha i suoi vantaggi. Ci permette di guardare alle nostre pratiche con distacco, rappresentando il mondo ‘a testa in giù’.
È un gioco che vale la pena di giocare insieme, se gli altri ci concedono lo stesso rispetto. Rifiutandoci di farlo, indichiamo implicitamente che le nostre credenze sono più importanti di qualsiasi cosa, che non siamo disposti a prendere in considerazione alcuna alternativa, che non vogliamo imparare e migliorarci. Ma rifiutarsi a priori di ridere di qualche cosa può anche essere una dimostrazione di debolezza – riflette la paura di chi si sente assediato, di chi vede al di fuori della propria cerchia soltanto l’intento di sopraffazione.

Insomma, si può ridere di tutto, volendo, anche se è difficile farlo con tutti. Ridere con chi non ci rispetta è inutile e sbagliato. Ridendo con i nazisti per esempio ci rendiamo complici dei loro propositi abietti. Uno dei problemi della satira pubblica è che trascende le intenzioni dell’autore e può essere interpretata in modi opposti, come insegna Checco Zalone. Ma anche Ricky Gervais giocava sull’ambiguità fra insider e outsider. In quanto celebrità, poteva permettersi di oltrepassare ogni limite, parlando ai suoi pari. Ma non poteva ignorare che i nemici del politically correct avrebbero riso alle sue battute per motivi opposti. Tuttavia, non possiamo criticarlo: la correttezza politica non deve diventare un dogma religioso. E si può ridere anche della religione, se rifiutiamo i dogmi. Anzi, si deve: ridendo insieme agli altri mostriamo di far parte della stessa comunità sociale.

La censura della satira attraverso i tribunali solleva problemi difficili per la libertà di parola, e richiederebbe riflessioni ancora più complesse. Ma la censura morale – attraverso la riprovazione e la gogna pubblica – può essere altrettanto efficace. Per non perdere la bussola dobbiamo ricordarci che ciò che rende la satira inaccettabile è lo spirito, non il suo oggetto. Il riso aggressivo e discriminatorio deve essere rifiutato a prescindere dal suo oggetto. Ma come scrisse Lord Shaftesbury molto tempo fa, qualsiasi idea valida deve essere in grado di superare la prova del ridicolo. Rimarcando che la fede cristiana esiste da duemila anni, il giudice del Tribunale Superiore brasiliano ha soltanto ripreso questa massima immortale e di grande saggezza.
da qui


QUI la prima tentazione di Cristo, in portoghese con sottotitoli in spagnolo

lunedì 27 gennaio 2020

Essere donne - Cecilia Mangini





scrive Cecilia Mangini:

Come accade sempre con i lavori che sono stati un’esperienza forte e una scoperta di valore esistenziale, sono molto legata a Essere donne. L’esperienza è stata la fabbrica, e nella fabbrica la catena di montaggio, la parcellizzazione, i tempi stretti, la verifica della lezione gramsciana sul fordismo. La scoperta è stato l’incontro con le donne ‘agite’ dalla fabbrica, dal lavoro contadino, dalla famiglia, dal rapporto con la loro condizione negata, nel momento iniziale del loro (e mio) confuso interrogarsi sulla necessità del cambiamento.
Negli anni Cinquanta e nei Sessanta la fabbrica è stata il tema caldo, a volte anche rovente, al centro dell’interesse, delle diagnosi e delle profezie della cultura di sinistra. Entrare in fabbrica con la beneamata Arryflex era il mio sogno che più sogno non si può, ma anche il più proibito. […] Finalmente, la svolta si verifica nella primavera del 1964: per le elezioni la Unitelefilm chiede ai registi della sinistra italiana non di ‘suonare il piffero’ della propaganda per il Partito Comunista, ma l’approfondimento di un problema sociale, collettivo. Per il tema del lavoro femminile, mi chiamano a Botteghe Oscure. […]
Dovunque, al Sud e al Nord incontro donne convinte che l’indipendenza economica da conquistare le salverà. Lo credo anch’io, anch’io mi cullo in questa convinzione, semplice, lineare, consolatoria, invece la realtà è complessa, contorta, avara di gratificazioni. Il mio “guardati intorno, ascolta, pensa” si incontra per la prima volta con il “guardati intorno, ascolta, pensa” delle altre.
Scopro che le donne sono inquiete, spesso apertamente insoddisfatte del peso esistenziale che le limita, e sottotraccia oscuramente motivate a capire che cosa non funziona, e come rifiutarsi di pagare le penali introiettate nell’infanzia, tutte a scadenza illimitata. Ancora manca la consapevolezza del sistema penalizzante nella sua interezza, nelle sue cause, nelle sue motivazioni. Le donne sono incon­sciamente in gestazione del loro essere interamente donne.
Questa situazione magmatica mi riguarda, riguarda tutte, riguarda anche chi si rifiuterà di crescere. Certo è per il senno di poi, e dipende da una lettura attuale di Essere donne se oggi penso che istintivamente sono stata spinta a identificarmi in tutte loro, in Puglia entrando nel filmato come raccoglitrice di olive, al Nord come operaia al controllo dei telai.


un articolo di Roberta Errico

Se le donne di oggi hanno la possibilità di respingere le imposizioni della società lo devono a tutte quelle donne del passato che hanno rifiutato di essere identificate esclusivamente per le loro qualità femminili. Nella più o meno recente storia italiana troviamo tante di queste protagoniste, ma una vera e propria pioniera nel nostro mondo culturale e politico è stata senz’altro Cecilia Mangini, la prima documentarista del cinema italiano.
Mangini nasce in Puglia nel 1927, ma cresce e studia a Firenze, dove si trasferisce con i genitori a cinque anni. Racconta di aver ancora impresso nella memoria il ricordo della società fascista: il primo approccio con la politica infatti per lei fu il giuramento di fedeltà al regime, il rituale che usava all’epoca, compiuto all’età di sei anni in occasione dell’inizio della prima elementare.
Ciò che fin da bambina, però, la liberò dal pensiero unico del regime fu il cinema neorealista. Il cinema infatti entrò presto e in modo salvifico nella sua vita. “Sono stati quei film di De Sica e di Rossellini a farci capire che cosa non funzionava nel fascismo”, ricorda in una recente intervista a La Repubblica. “Questa capacità di raccontare quello che avevamo passato noi [bambini] attraverso altre persone senza sensi di colpa, ma con la necessità di capire”.
Nel 1952, poco più che ventenne, la giovane Mangini con i soldi che la famiglia le regala per Natale acquista una macchina fotografica Zeiss, modello Super Ikonta, e capito ben presto che non avrebbe utilizzato quel prezioso strumento per fotografare le ricorrenze di famiglia, parte alla volta di Lipari e Panarea, insieme al compagno di vita, il regista e sceneggiatore Lino del Fra. Lì documenta il dramma delle condizioni dei minatori delle cave di pomice e delle loro mogli e in quel momento, come rivelò in seguito, acquisisce la consapevolezza di poter essere una fotografa di professione. Tramite la fotografia, Mangini coniuga il suo prorompente desiderio di indipendenza con la passione politica, una strada che la porta a Roma, dove si trasferisce e inizia a lavorare alla Federazione italiana dei circoli del cinema. Tra la fotografia e la regia il passaggio per lei fu naturale, anche se non lo era affatto per la bigotta società italiana: “Che le donne facessero cinema, praticamente, almeno in Italia, era impossibile”.
La vera svolta avvenne quando il produttore cinematografico Fulvio Lucisano, convinto del suo talento, le propose di girare un documentario. Così lei gli presentò il soggetto di Ignoti alla città, ispirato dal romanzo Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale “vessillo della libertà non democristiana”. Mangini contattò Pasolini per proporgli di scrivere il testo del documentario, cercandolo semplicemente sull’elenco telefonico e lui, con sua grande gioia, accettò, dando inizio al loro sodalizio artistico e a una grande amicizia. Insieme lavorano, infatti, ad altri due documentari: Stendalì – Suonano ancora nel 1960, e La canta delle marane nel 1962, opere incentrate sulla vita delle persone che vivevano ai margini della società consumistica degli anni Sessanta. Mentre il resto della società italiana – intellettuali compresi – si lasciava inebriare dal capitalismo, Cecilia Mangini e Pier Paolo Pasolini hanno raccontato le vite degli ultimi, tra cui le donne: figure invisibili che si ritrovano schiacciate tra vecchi retaggi di una società patriarcale e nuovi meccanismi culturali imposti dal boom economico. “La situazione delle donne era spaventosa anche se non ce ne rendevamo conto”, racconta Mangini, “le donne erano sottomesse […] destinate alla castità anche nel matrimonio”.
Nel 1965 la regista aderisce a un progetto promosso dal Partito Comunista Italiano che prevedeva la realizzazione di documentari che raccontassero la vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Mangini da qui realizza un reportage innovativo per l’epoca dal titolo chiaro: Essere donne. Il documentario risulta essere tra le prime indagini cinematografiche sulla condizione femminile in Italia, analizzata nei suoi diversi aspetti: economici, sociali, psicologici e culturali. Una testimone oculare dell’epoca, la giornalista Bruna Bellonzi, presente a una proiezione privata del documentario, scrisse su Noi Donne, il 22 maggio 1965, che il film mostrava “Il mondo della donna, le sue brucianti contraddizioni, il suo impossibile equilibrio fra un modo di essere vecchio di secoli e aspirazioni nuove”.
Cecilia Mangini voleva denunciare le contraddizioni e la violenza della sconcertante realtà lavorativa e familiare delle donne italiane, che non aveva niente a che vedere con l’immagine edulcorata proposta dall’industria culturale degli anni Sessanta. In questo modo creò un filone nel giornalismo d’inchiesta che ancora oggi fa scuola. Il linguaggio della sua narrazione documentaristica è sorprendentemente moderno, veloce, accattivante, contrapposto alle immagini patinate dei rotocalchi e delle riviste di moda. Il ritmo diventa frenetico, fino a risultare disturbante, quando Mangini mostra la vita reale delle donne italiane, scandita dal lavoro in fabbrica e da quello domestico.
Il documentario però subì un grave boicottaggio da parte delle autorità, nonostante la critica italiana e straniera lo avesse considerato un capolavoro. All’epoca della sua uscita, prima di ogni film proiettato al cinema doveva essere trasmesso per legge un documentario. Il mediometraggio però venne bocciato dai produttori e dai registi che facevano parte della Commissione ministeriale che decideva quali opere potessero accompagnare la programmazione dei film nelle sale, impedendogli di essere distribuito sul territorio. La Commissione camuffò la censura denunciando presunte carenze tecnico-artistiche, quando secondo più commentatori il reale motivo fu l’insopportabile sincerità del documentario. La regista fiorentina fu vittima della mancanza di rispetto della società maschilista italiana, che non tollerava la denuncia dei suoi consolidati usi e costumi, eppure ciononostante è riuscita a donare alle sue contemporanee e alle donne delle generazioni successive un’opera di inestimabile valore in cui potersi rispecchiare.
Mangini è stata tra le prime a descrivere “la realtà complessa, contorta, avara di gratificazioni” delle donne, come la definì in un’intervista del 2015. Le donne hanno sempre sopportato il peso della contraddizione tra le loro aspirazioni e le loro vite, uniformate nella maggior parte dei casi dal modello comportamentale imposto dalla società, fatto di condizionamenti culturali travestiti da valori condivisi e solo per questo ritenuti giusti o accettabili. Con le sue opere, ha contribuito a dare voce ai dimenticati, ha mostrato le contraddizioni dell’essere donna, ha rivelato la desolazione che si nascondeva dietro il boom economico e ha documentato l’avvento della civiltà industriale e dei consumi. È tra le donne italiane che hanno contribuito a comporre un nuovo tipo di consapevolezza e di sensibilità, che oggi accompagna le nuove generazioni.
“Le donne sono inconsciamente in gestazione del loro essere interamente donne,” ha recentemente dichiarato, “Questa situazione magmatica mi riguarda, riguarda tutte, riguarda anche chi si rifiuterà di crescere”, a dimostrazione della sua inarrestabile ricerca umana e artistica. Per questo va riscoperta, per arricchire la riflessione culturale e politica non solo sulla condizione della donna, ma sull’intera società.


“Essere donne” di Cecilia Mangini. Storia di un boicottaggio - Zoé Rogez

Il documentario Essere donne (1965), girato da Cecilia Mangini è stato all'epoca ingiustamente boicottato dagli stessi produttori e registi che facevano parte della Commissione ministeriale che decideva delle sorti dei medio e cortometraggi che accompagnavano la programmazione dei film nelle sale. Non ottenere l'appoggio degli esercenti e neppure il premio di qualità, significava negare  una vita sullo schermo al proprio film. Era un modo subdolo per censurare indirettamente quei documentari che affrontavano argomenti scomodi che il governo non desiderava far arrivare al pubblico. La documentazione conservata nell'Archivio di Cecilia Mangini e Lino Del Fra aiuta a capire le ragioni della sua 'bocciatura'.
Il nuovo restauro della Cineteca di Bologna, riporta finalmente in sala quest'opera alla quale il tempo non ha tolto la sua forza espressiva, il suo significato. L’obiettivo di Cecilia Mangini di documentare la realtà sconcertante della condizione lavorativa e familiare della donna a confronto con l’immagine femminile edulcorata proposta dall’industria culturale degli anni Sessanta, è una modalità d'inchiesta, ancora oggi valida.
Con il sostegno di Luciano Lusvardi, responsabile della sezione Stampa e Propaganda del PCI, Cecilia Mangini, prima documentarista femminile italiana, gira il paese, dai campi di uliveti pugliesi alle fabbriche milanesi, per incontrare le donne. La giornalista Bruna Bellonzi, presente alla proiezione privata del documentario, scrive su Noi Donne, il 22 maggio 1965 che il film mostra “il mondo della donna, le sue brucianti contraddizioni, il suo impossibile equilibrio fra un modo di essere vecchio di secoli e aspirazioni nuove”.
All’estero, Essere donne ottiene un grande successo. I maestri del documentario Joris Ivens, John Grierson e il polacco Jerzy Toeplitz, dedicano al film di Cecilia Mangini il premio speciale della giuria al Festival di Lipsia del 1965. Nello stesso anno, Essere donne verrà selezionato dal Festival Internazionale del cortometraggio e del documentario di Cracovia. Descritto come un'”inchiesta sincera e onesta” per la verità contenuta nelle immagini e per la “sobrietà della testimonianza”, la stampa italiana non tarda a esprimere l'indignazione di fronte all’esclusione di Essere donne dalla programmazione obbligatoria.
Felice Chilanti – che scrive il commento off del film con la collaborazione di Giuliana dal Pozzo – dichiara con fermezza la sua contrarietà in un telegramma a Cecilia Mangini che recita: “Ti esprimo mia solidale indignazione contro nuova offesa e violazione diritto dignità della cultura”. Paese Sera il 31 maggio 1965, pubblica un articolo dello stesso Chilanti dal titolo Essere donne o essere vampiri?, dove il documentario viene definito “nobile, fatto bene, ricco di valori poetici e morali”.
Perché un film così apprezzato sia all’estero che dalla critica nazionale non viene proiettato nelle sale italiane? La Bellonzi fa luce sul processo di selezione alla programmazione obbligatoria: “Dapprima li vede una commissione di censura che nega o meno il visto a seconda che vi riscontri o no elementi offensivi della moralità. Poi il documentario passa ad una seconda commissione, quella per la programmazione obbligatoria che deve accertare se l’opera presentata dispone dei requisiti minimi, artistici e tecnici (ossia se è bello, ben fotografato, ben commentato, ben musicato) per essere abbinato ad un film e venir così proiettato nei cinema normali”. In un anno, circa 200 documentari hanno la possibilità di concorrere al premio di qualità, ma non tutti lo ottengono. L’esclusione rappresenta un doppio danno; gli esercenti non li noleggiano e dunque non c'è alcun rientro economico per chi li ha realizzati e perdono l'occasione di concorrere al premio.
La Commissione ministeriale in questione – i cui membri sono stati scelti dal Ministero del Lavoro - era composta dal produttore Ermanno Donati, dal regista Piero Regnoli - tra l’altro ex-critico cinematografico di l’Osservatore Romano - dal musicista Franco Ferrara, dall’operatore Sandro d’Eva e infine dal critico Mario Gallo. La giuria ha espresso, a maggioranza, un giudizio negativo nei confronti di Essere donne, tanto che sempre la Bellonzi accusa la Commissione di aver interpretato questo documentario come un “sottoprodotto di infima qualità”; ponendo l'accento sulle vere ragioni della censura; “non è piaciuta la sua sincerità che è denuncia” e afferma inoltre che il giudizio non si è limitato agli aspetti tecnico-artistici, ma si è esteso al tema stesso, oggetto del documentario.
Essere Donne riceve il sostegno di Sandro d’Eva e del critico socialista Mario Gallo, ma la loro opinione non avrà voce in capitolo; la maggioranza pone un veto di carattere ideologico. I principali oppositori all’inserimento del film della Mangini nella programmazione, sarebbero stati il regista Piero Regnoli e il produttore Ermanno Donati, accomunati da una lunga collaborazione nella realizzazione di film cavallereschi e di film erotici d'ambientazione horror. Nell'articolo sopra citato, Felice Chilanti esprime il suo stupore di fronte alla loro presenza nella giuria: “Siamo convinti che produttori, registi e sceneggiatori di film sui vampiri non debbano, assolutamente, rappresentare lo Stato nel momento di decidere se un film come Essere donne meriti o non meriti di venire ammesso alla programmazione”.
Di fronte all'unanime dissenso, il Ministero dello Spettacolo diffonde un comunicato per smentire che nell’esclusione del film, siano intervenuti motivi di censura politico-ideologica, giustificando così la scelta della giuria: “Il comitato, il quale ha il compito di scegliere i cortometraggi da ammettere alla programmazione obbligatoria, è composto di rappresentanti delle diverse categorie della spettacolo, designati dalle rispettive associazioni”.
In relazione al comunicato, il periodico L’Unità scrive che è “evidente che qualsiasi comitato ministeriale, comunque composto, può essere soggetto per sua natura a condizionamenti e pressioni politico-ideologiche, ed agire di conseguenza” e denuncia la malafede del Ministero dello Spettacolo, notando che “tra i commissari hanno avuto peso determinante considerazioni di natura puramente politica”.
Cecilia Mangini non verrà ricompensata con la gioia di vedere il film sugli schermi italiani. Rimarrà “un pensiero lontano, irraggiungibile” - espressione usata dalla stessa regista nella sceneggiatura per definire il senso di frustrazione delle donne intervistate che sognano una vita diversa, fatta, invece, solo di “fatica e sacrificio e ancora sacrificio”.



domenica 26 gennaio 2020

Piccole Donne - Greta Gerwig

le piccole donne sono quattro, tutte diverse e tutte solidali, come i quattro moschettieri.
si fanno le domande di oggi, mica tutte e tutti, ma allora nel mondo non si osava fare quelle domande, non era ancora normale, ma il mondo stava, piano piano, iniziando a cambiare.
la quattro sorelle (anzi tre e mezza, che una muore presto) sono strepitose, e chi le interpreta è da applausi, e Saoirse Ronan e Florence Pugh sono da premio Oscar.
il film è luminoso, speciale, indimenticabile, mom perdetevelo - Ismaele








Greta Gerwig ha saputo creare un adattamento intelligente e moderno di una storia nota a tutti ed è proprio questa felice intuizione il punto di forza del film. La regista e sceneggiatrice ha trovato e rivisto sé stessa nelle parole della Alcott, regalandoci così una visione assolutamente personale del grande classico senza però stravolgerlo o snaturarlo.
Piccole donne non è quindi l’ennesimo e banale remake ma, al contrario, è un film che porta sul grande schermo un classico di centocinquanta anni fa rendendolo emozionante e più attuale che mai. Un’opera realizzata con rigore e rispetto, che riflette anche le scelte artistiche, le idee e gli ideali della stessa Gerwig.

Piccole donne è, innanzitutto, «un capolavoro di astuzia femminile» che per «centocinquant’anni è riuscito a farsi stampare, tradurre e raccomandare come un romanzo di formazione per giovinette di buona famiglia» e che «intanto riesce ad annunciare la fine del patriarcato». Lo ha scritto la filosofa Luisa Muraro. E ancora: «Si tratta della storia di quattro sorelle che crescono sotto la guida di una madre e in assenza del padre. Il padre è andato volontario in guerra, nella terribile guerra di Secessione che insanguinò gli Stati Uniti intorno al 1860. Louisa May Alcott dice la cosa giusta: gli uomini si stanno autoeliminando a forza di guerre. Resta vivo il simbolico delle donne».
Le poche figure maschili del libro – il padre che è in guerra o Laurie – si affacciano su un mondo di sole donne «e non hanno il potere di turbare la sua vita né di istallarsi nel suo centro focale» (questo è reso molto bene in una scena del film, quando Laurie riaccompagna a casa da una festa Jo e Meg che si è slogata una caviglia, restando sulla soglia a guardare, ammirato e intimidito, un esempio di sorellanza).
Le quattro sorelle, dice Muraro, sono tipe fra loro molto diverse «e tutta la trama si sviluppa dal gioco libero delle loro differenze». E viene soprattutto da questo gioco libero, spiega, il grande successo del libro: «Viene cioè dal ritratto della differenza femminile che si manifesta attraverso le differenze fra donne: non dipende solo né soprattutto dalla figura di Jo, come ho sentito dire».
Il film di Gerwig  – che è stato candidato all’Oscar, ma lei come regista incredibilmente no – non è un semplice adattamento cinematografico del libro. Riesce a raccontarne il senso, restando accanto al testo con rispetto e cura, ma arrivando a rendere il fatto che al di là dell’epoca in cui fu scritto, qui non c’è niente di datato, e nulla di superato. Parla di lei, di Louisa May Alcott, di donne, di (in)dipendenza economica, di arte e anche di cinema, facendosi beffe di come, anche attraverso il cinema, l’esistenza femminile sia stata piegata e deformata (ci arrivo). È mainstream e radicale allo stesso tempo…

«Ho sempre avuto un’idea ben chiara di ciò di cui il libro parlava», ha dichiarato Gerwig in un’intervista, «delle donne come artiste e del loro rapporto con il denaro». Certo, è innegabile, c’è anche questo. Ma la bellezza di Jo risiede altrove, nella complessità dei suoi desideri. Quando abbiamo iniziato a credere che per una donna libera, un’artista, l’amore fosse solo un codice, un’imposizione sociale come lo è un cappellino? Nel romanzo nessuna delle sorelle March è un modello di donna, seppure ognuna sia chiamata a plasmarsi sotto la spinta delle scelte e delle rinunce. È nel compromesso, nella distanza dalle aspirazioni infantili, che si consuma la crescita. Sotto il peso degli inciampi che la vita ha in serbo per loro, ognuna delle sorelle è costretta a tornare sui propri passi, ed è in questa scintilla che si risolve il passaggio all’età adulta. Nello scarto fra ciò che sarebbe potuto essere e quello che davvero sarà. Forse non sbagliava chi ha scritto che il film di Gerwig è una rilettura moderna di Piccole donne, a patto che si concordi su quanto la modernità sia invischiata nel manicheismo stolido di chi pensa il mondo come una semplice contrapposizione fra opposti. Un sistema binario in cui se sei carnefice non sei vittima (neanche di te stessa) e, soprattutto, se sei libera e per di più artista non puoi che considerare l’amore e il matrimonio e i figli come un ostacolo ai tuoi progetti. C’è il sospetto che “post-ideologico”, da riferirsi ai nostri tempi, sia un rigurgito di ottimismo.

…Greta Gerwig decide di risolvere il cuore del romanzo, e cioè l’enigma del desiderio di Jo: tanto volitiva, aggressiva e pronta a combattere quando si tratta della vita pubblica e della sua carriera di scrittrice, quanto timida e incerta quando si tratta di interrogare sé stessa e capire la natura del suo desiderio. “Lo ami Laurie?”, le chiede la madre; “Se mi chiedesse di nuovo di sposarlo, credo che gli direi di sì” risponde lei; “ma questo non vuol dire amare”. Ed è proprio quando Jo scopre che è troppo tardi per tornare indietro e che le scelte sono irreversibili, che la scrittura, frenetica e inarrestabile, entra nella sua vita a suturare quello che altrimenti sarebbe l’esposizione di un vuoto radicale (che è forse una delle migliori definizioni di ciò che nella modernità si è definito come soggetto). Lì mischiando tutti i piani, e chiudendo la distanza che separa la storia dalla vita, Greta Gerwig scioglie le aporie soggettive su cui si sono identificate generazioni di lettori e lettrici con quello che ha il sapore un po’ di un gioco delle tre carte. È una fuoriuscita che più che peccare di poca fedeltà alla lettera del romanzo – come qualcuno le ha fatto poco generosamente notare – rischia di depotenziarne un po’ lo spirito e di inventarsi una soluzione magari esteticamente efficace ma forse un po’ frivola. Una tentazione a cui spesso ha rischiato di soccombere il suo cinema anche in altri episodi. D’altra parte che importa – ci sembra dire la Gerwig – di come va a finire: non si trattava alla fine soltanto di un libro? Forse – ci verrebbe da rispondere – non si tratta mai solo di un libro.
La rievocazione adolescenziale delle vicende delle quattro sorelle, il calore di una stagione che si vorrebbe prolungare indefinitamente, si accompagna costantemente alla consapevolezza – direttamente portata sullo schermo – della sua finitezza. Un’operazione certamente coraggiosa e tutt’altro che “commerciale”, specie per un prodotto mainstream, infarcito di star e pensato anche in chiave-Academy. E in questo senso – così come in un finale pieno di ironia, in cui la Gerwig sembra giocare direttamente con le aspettative dello spettatore – il film si ricollega direttamente all’esordio della regista, a quel Lady Bird che vedeva la stessa Saoirse Ronan affrontare un analogo percorso di crescita, sullo sfondo non più di un conflitto territoriale, ma di una muta guerra tra classi sociali. Altro contesto, stessa sensibilità. Il risultato, che della sua fonte preserva comunque tutto il carattere di puntuale spaccato umano e sociale, resta certamente impresso.

sabato 25 gennaio 2020

The lodge - Severin Fiala, Veronika Franz

una bella vacanza in montagna, peccato che la compagna del padre sia una psicopatica, dicono i bambini, una a cui la religione ha lasciato dei segni indelebili.
il film sembra lento, in realtà lo è, non ci sono effetti speciali, fuochi d'artificio, continui colpi di scena urlati.
tutto avviene per smottamenti impercettibili, e anche qualche scena madre, naturalmente.
tutto sembra normale, tranquillo, e questo rende il tutto ancora più terribile.
un film che merita, pieno di citazioni e somiglianze con altri film già visti, ha comunque una sua solida personalità.
non adatto a chi frequenta troppo la religione, potrebbe avere qualche effetto collaterale.
buona visione - Ismaele






Una casa, pochi personaggi reclusi, una realtà ambivalente mai chiara in cui i protagonisti, due ragazzini, si muovono minacciati da una presenza avversaria della doppia faccia (la figura materna, in questo caso – per l’esattezza – la matrigna).
La tensione è sempre altissima, il disagio palpabile, la mente pronta a vacillare. Delude un po’ – sul più bello – la prevedibilità del plot twist, ma l’ambiguità su cui si regge la storia resta sempre brillante. Il loro è un esercizio preciso e rigoroso, un esempio di cinema matematico (inflessibile e impietoso) meno riuscito del precedente, ma al cinema di horror simili non ne escono poi tanti, meglio quindi approfittarne.

…Non ci sono mostri che saltano fuori dagli armadi nel film The lodge, ma lo spavento è comunque costante. Questo è un horror che scava nelle psicologie dei personaggi e attinge dall'ambiente circostante nel creare la suspense. Una tensione fredda ed efficace, che spaventa veramente e colpisce il nostro immaginario.
La regia è potente, senza sbavature, nè eccessi deliranti, asciutta ed efficace. Gli interpreti sono ottimi con interpretazioni intense, che colpiscono anche lo spettatore smaliziato. La sceneggiatura non ha una sbavatura nell'analizzare l'elaborazione del lutto dei due ragazzi e nel senso di straniamento della nuova compagna che cerca di inserirsi in una nuova famiglia.
The lodge è un film che ha dei difetti, certo, tipo un finale troppo lungo, ma è di grande efficacia, con regia, attori e sceneggiatura ineccepibili e poi fa paura, fa molta paura.

Non ricerca la credibilità in senso stretto, The Lodge, nella cui sceneggiatura è facile trovare, una volta che ogni mosaico del puzzle è andato al suo posto, particolari che non tornano e dettagli in apparenza poco giustificabili narrativamente; lo scopo del film di Veronika Franz e Severin Fiala è piuttosto quello di fare un’allegoria poco conciliatoria dell’istituzione familiare, dell’influenza perniciosa su di essa di un sentimento religioso agito in modo totalizzante, nonché di uno sguardo infantile che, dell’innocenza cantata da tanto cinema e letteratura, non ha più niente (e forse non l’ha mai avuto). L’elegante regia, che insinua più che mostrare, affidandosi al fascino della location senza farsene fagocitare, suggerisce la presenza di un male che è impalpabile quanto pervasivo, restìo a mostrarsi ma al contempo dolorosamente concreto negli effetti che genera. E lo sguardo dei due registi, in questo esordio fuori dalla terra austriaca, sembra aver trovato il giusto equilibrio tra le suggestioni del genere e un’autorialità che non appare mai vuota e autoreferenziale.

Tutto, fin dall’inizio, è pervaso dalla religiosità, in The Lodge. Una religiosità cupa, giudicante, che incute terrore fin dai primi minuti. Grandi quadri raffiguranti immagini sacre e severi crocifissi sembrano osservare di continuo i protagonisti. Una luce tetra che fa fortemente da contrasto al bianco bruciato dell’immensa distesa di neve che circonda la casa si fa attrice principale dell’intero lungometraggio. Ed ecco che – così come è stato in Goodnight Mommy – anche in The Lodge è la casa stessa a essere trattata alla stregua di un vero e proprio personaggio principale. Una casa che – malgrado l’atmosfera natalizia – tutto sta a trasmettere ai propri abitanti tranne che un necessario senso di sicurezza. Una casa che – come possiamo vedere all’inizio del lungometraggio – viene fedelmente riprodotta dai due bambini in un modellino molto più piccolo ma assai fedele, che vede al proprio interno delle bambole somiglianti ai membri della famiglia stessi. Stupisce, a tal proposito, come quello che sembra un innocente gioco di bambini, in realtà di scherzoso o di gioioso non abbia proprio nulla. Ciò che ci viene trasmesso è un profondo senso di claustrofobia, accentuato ancor di più proprio da questa presenza della religione nella vita dei bambini e dal forte, insopportabile senso di colpa che la stessa è in grado di provocare…

Tecnicamente The Lodge trova i suoi punti di forza nella regia e, soprattutto, nella sceneggiatura. Sebbene il genere abbondi di film ambientati in case isolate, in mezzo alla neve (uno su tutti, Shining), questo brilla per la sua originalità, fornendo allo spettatore la giusta dose di inquietudine, non abusando di Jump Scares (se ne contano solo due, entrambi funzionali alla narrazione) e regalando un finale molto ben gestito oltre che sorprendente.
Si scorgono qua e là riferimenti al cinema di Ari Aster (Hereditary e Midsommar), Shyamalan (Il sesto senso, The Village e The Visit) e, immancabilmente a quello di Kubrick (il già citato Shining, non solo per le ambientazioni, ma anche per lo stile di regia). Franz e Fiala, che già con Goodnight Mommy avevano deliziato intere schiere di horrorofili, sono stati bravi a giocare con lo spettatore senza indurlo in confusione e incastrando quasi alla perfezione ogni dettaglio sia per quanto riguarda la trama che la messa in scena, rendendo così la loro nuova opera molto solida dal punto di vista della sceneggiatura…
Il modus narranti labirintico, ingannevole, è solo strumento per calarci nella mente dei personaggi, di Grace in particolare, la cui educazione fortemente cattolica, la cui fissazione con il pentimento, a lungo represse dopo l’allontanamento dal padre, riemergono con forza man mano che le circostanze divengono più disperate. Si viene quindi a configurare un’allucinazione religiosa, in cui i simboli del sacro, i crocifissi appesi in giro per la casa e ancor più un quadro (una Madonna di Antonello da Messina) assumono contorni minacciosi o di premonizioni che preludono il Giudizio Finale.
Così, mentre il vento gelido soffia alle finestre e le lande innevate impediscono di raggiunge a piedi il più vicino centro abitato, Grace – prigioniera insieme a Mia e Aiden – sprofonda nella disperazione e i dogmi religiosi trasmessigli nell’infanzia riaffiorano inesorabili, a determinare la sua visione del mondo che la circonda. Il pentimento per i propri peccati, il Purgatorio, perfino una via estrema per raggiungere Dio divengono pensieri fissi nella mente di lei.
Noi che assistiamo ci domandiamo se sia tutto un miraggio, uno scherzo crudele o davvero sia l’Aldilà. L’angosciosa ambientazione quasi innaturale, gli stranianti paesaggi sterminati e deserti e tinti di bianco, la minaccia costante degli elementi ci trasmette quasi l’idea di un estremamente lontano – quasi ultraterreno. L’uso degli esterni, comunque sia, è profondamente carpenteriano e, d’altronde, La Cosa è addirittura citato apertamente in una sequenza (Mia lo guarda in TV).
Severin Fiala e Veronika Franz si confermano assolutamente una coppia da tenere d’occhio, cineasti che non si curano di piacere al pubblico di massa eche proseguono lungo un solco ben preciso. Non possiamo che augurar loro di non farsi tentare mai da percorsi più commerciali…

Trop souvent, le passage de cinéastes talentueux de l’horreur étranger ou indépendant vers Hollywood se fait par le biais de remakes de qualité douteuse (Kevin Kölsch et Dennis Widmyer pour Pet Sematary, Neil Marshall avec Hellboy, Adam Wingard avec Blair Witch). En plus de proposer un scénario original, The Lodge reste longtemps avec nous grâce à sa finale dévastatrice. Il s’agit non seulement de l’un des meilleurs films de cette sélection 2019, mais également l’une des propositions les plus angoissantes de l’année. Frissons garantis.

The Lodge rientra nel novero di quelli che qualche anno fa definivamo film-giocattolo, in cui la situazione a un certo punto viene completamente rovesciata e quello che sembrava in un modo si scopre che è invece in un altro. Lo chiamiamo twist, turbine, coup de théâtre, colpo di scena, che pone improvvisamente la prospettiva sotto un angolo di incidenza diametralmente opposto. In The Lodge questo sistema viene portato a una complessità inedita: ce ne sono vari di rovesciamenti, di messe sottosopra di una interpretazione che sembra consolidata. E il giocattolo, da questo punto di vista, è molto, ma molto sofisticato, tutt’altro che un jeux d’enfants. Per quanti sforzi possa fare chiunque legga questo articolo, non riuscirà mai, nemmeno lontanamente, a immaginare che cosa si nasconde nel nocciolo duro del film. Una rivelazione sconcertante?...

mercoledì 22 gennaio 2020

Estiu 1993 (Estate 1993) - Carla Simón

una bambina, Frida, passa dai nonni alla famiglia dello zio, sposato e con una figlia, Ana, vivono in campagna.
Frida è una bambina triste, orfana dei genitori, in una famiglia nella quale non si sente amata.
non ci sono sentimenti finti, sensazionalismi, lacrime inutili, tutto è realistico, sincero, e vorresti conoscere Frida, gli zii, la cuginetta, non puoi restare indifferente, se ancora sei vivo.
un piccolo capolavoro da non perdere, promesso - Ismaele







Si può vedere qui (in spagnolo, con sottotitoli in spagnolo)


Verano 1993 podrá parecer una serie de rodajas de vida que tienen más la intención de mostrar que de narrar; pero de una forma muy sutil, la guionista y directora Carla Simón introduce de forma estratégica piezas cruciales de información del mundo adulto para que, por contraste, esa inocencia que representa Frida nos duela más con cada dato que nos llega.
También es importante señalar cómo le llega esta información al espectador, ya que la historia no se aleja del punto de vista de su protagonista en ningún momento. La desgarradora realidad del mundo adulto siempre aparece a través del marco de una ventana o escuchando de refilón por debajo de una mesa.
No es necesario leer entrevistas para percibir que esta es una historia que toca de cerca a su realizadora, a tal extremo que la estampita que recibe la niña en la introducción bien puede ser la que recibió la directora siendo pequeña después del fallecimiento de su madre. Un detalle que le da un plus de realismo a lo que estamos viendo, que evidencia su originalidad no tanto por ser algo que no hemos oído, sino que es una historia que solo ha podido vivir quien nos la está contando…
Verano 1993 es una narración nada tradicional pero que ofrece una mirada naturalista sobre un tema muy difícil, la cual requiere un ojo atento y paciente por parte del espectador. A riesgo de usar una frase hecha, Carla Simón escribió (y filmó) sobre lo que sabía, sobre lo que ha vivido, y el resultado es una historia con un corazón tan enorme como su honestidad. Una historia original, pero en una definición que no muchas veces tenemos en cuenta de la palabra.
  
… El misterio es una de las claves de la obra de Carla Simón: sabemos que los padres de Frida han muerto, pero sin estridencias sino a base de pequeños comentarios, gestos y miradas se irá desvelando las circunstancias y las relaciones que enfrentaban a los diferentes personajes. Otra de las claves es el uso de los objetos: en Verano 1993 unos vestidos, una fruta, una lámpara, una tirita, un helado, una lechuga o un peine se convierten en algo, en motivo de conflicto, de dibujo de una personalidad o de símbolo de un estado de ánimo. Todo ello con la sutileza de lo verdadero, donde no hace falta insistir ni verbalizar porque la claridad expositiva de Simón es tal que no necesitamos que ningún personaje nos diga qué está pasando.
Verano 1993 es una película que se siente salida de las entrañas de la memoria en un tiempo en que los niños no son buenos ni malos sino simplemente niños. Frida se comporta mal, incluso con cierta maldad por momentos. Pero la inocencia, el no comprender la dura realidad, a pesar de que la conozca, le exime de culpa. Toda esta complejidad es captada con soberbia naturalidad por la cámara de Carla Simón, sin atisbo de dramatismo ni pretenciosidad. Como si todo el cine fuese así. Como si fuese tan fácil captar el momento de vida.

Es un emotivo drama, en el que a pesar de la dureza del tema tratado, Carla Simón jamás cae en el sentimentalismo fácil ni tampoco trata de manipular las emociones de los espectadores. La historia nunca toma el camino del melodrama sino más bien abre una ventana a la esperanza y, refleja de forma muy realista, el mundo a través de los ojos de una niña, que tras la pérdida de su madre intenta comprender el significado de la muerte. El nombre de la enfermedad de la madre nunca se menciona, se trata de algo vergonzoso y deshonroso para la familia en una época donde la información sobre el Sida era algo confusa y estaba relacionado, de forma equivocada, a un estilo de vida oscuro…

…'Verano 1993' encuentra milagrosamente el tono y el ritmo adecuados para resultar tan natural, emocionante y real que te llevará de la risa al llanto como los propios avatares de una vida y que quedan perfectamente resumidos en una secuencia final tan magistral como emotiva. Pero la película no es triste, todo lo contrario, es una declaración de amor a la vida que desprende una sensibilidad única y un gusto por los detalles aparentemente insignificantes, pese a que puede decepcionar a algunos espectadores que busquen una narrativa más convencional y una historia más elaborada. Encabezan el reparto adulto los estupendos David Verdaguer y Bruna Cusí, que se muestran generosos al ponerse al servicio de lo que verdad importa, las niñas, pero logrando que sus interpretaciones no desentonen y resulten igualmente creíbles en la interacción con ellas, algo complicado, pero son Laia Artigas y Paula Robles, las que de verdad te robarán el corazón, las dos, y la profundidad de la mirada de Laia es algo que no se recuerda en el cine español desde que Ana Torrent interpretó siendo niña 'El Espíritu de la Colmena' (Víctor Erice, 1973). Es 'Verano 1993' una película de cine-club, una pequeña rara avis que se desmarca del cine comercial con asombrosa soltura siendo una ópera prima, veremos de que es capaz Carla Simón en el futuro.

…Simón recupera lo sguardo di Frida sul proprio universo-mondo, cangiante da urbano a contadino, da familiare a irriconoscibile, estraneo, troppo stretto perché schiacciante, fatto di spazi e sentimenti paradossalmente troppo grandi. Frida, già orfana di padre, vive in città con i nonni e l’adorata zia Lola quando sua madre muore; lo spaesamento che da osservatori si avverte, data l’assenza di coordinate geografiche (solo a posteriori sarà possibile identificare il non luogo dell’incipit come Barcellona) e narratologiche, è lo stesso che la bambina sente nel cuore. Sradicata dal nucleo abituale e accolta in quello nuovo costituito da Esteve e Marga, zii materni, e dalla loro figlia biologica Anna, deve ricollocare se stessa di fronte alla mancanza di punti di riferimento, prima, a un centro diverso, poi. E allora, mentre cerca più o meno consapevolmente di ricavarsi il posto, prende le misure, sonda le relazioni e i territori. Nelle interminabili ore di campagna, dove la natura le è ostile e le cicale non smettono di assordare, ogni tentativo di stabilire un contatto autentico con le persone è ostacolato da una mancanza, o, meglio, da una mancata comprensione della mancanza che ne impossibilita l’accettazione. A Frida non riesce di piangere, vive a freno fuorché nella verità del gioco che ritualisticamente esorcizza a mano a mano tutto il dolore maturato facendolo affiorare in superficie: truccarsi e parlare come la mamma, offrire alla Madonna un pacchetto di sigarette per lei è il suo modo di sentirla ancora vicina, fare una telefonata al suo vecchio numero quello per realizzare che davvero non risponderà più. E’ una presa di coscienza che, insieme al crescente desiderio di essere amata dalla famiglia acquisita, muove le mosse da queste illuminazioni ma ha tempi di maturazione lunghi: non dura certo un’estate la gestazione di Frida…