lunedì 13 gennaio 2020

Hammamet - Gianni Amelio

il viale del tramonto per uno degli uomini più potenti (e mal sopportati) del suo tempo.
nella sua casa tunisina, amareggiato, rancoroso, malato, rimugina, pensa a una rivincita, alle parole per dire le sue verità, e intanto giorno dopo giorno capisce che tutto sta finendo e la morte si avvicina, senza tempi supplementari.
qualche figlio e nipote appaiono, però è la figlia Anita si prende cura di lui, senza se e senza ma.
vede qualcuno, ma non sembra capire troppo, o forse capisce tutto, chissà.
l'interpretazione di Pierfrancesco Favino è straordinaria.
il film è un film politico, già solo per la personalità del protagonista, che riesce ancora ad essere oggetto di scandalo e discussione, ma non esiste nessun contradditorio, non c'è la storia di quegli anni, i diversi punti di vista, solo negli negli occhi e nella testa e nel monologo del Presidente, è in fondo solo il racconto di un uomo messo da parte, ormai dimenticato, di cui tutti o quasi si vergognavano (e omettevano) di essergli stati amici, la parte discendente di una parabola.
non perdetevelo, buona visione.
ps: in tutto il film non si fa mai il nome del protagonista - Ismaele










Hammamet trova subito, dunque, la segnaletica di lungometraggio ostico. Questo perché sceglie, con la generosità tipica del proprio autore, l’ardua via del confronto. Una scelta significativamente controcorrente rispetto a tempi di social impazziti e fake news che prevedono solo il bianco ed il nero, cioè la prevalenza degli estremi senza se o ma. Il risultato è un’opera asciutta, fitta di dialoghi, accompagnata da una regia “invisibile” ma in realtà perfettamente studiata inquadratura dopo inquadratura, nella quale Il Presidente (Craxi) di volta in volta attacca e si difende dalle accuse che gli vengono mosse. Hammamet è un film di scontri, di domande che lasciano risposte sospese nell’etere senza fornire verità preconfezionate. La parabola esistenziale del classico Uomo di Potere, accecato dalla propria hybris ha uno sviluppo tanto implacabile quanto facilmente intellegibile, forse a beneficio di coloro, in particolare tra le nuove generazioni, che di Craxi hanno solo sentito parlare in maniera vaga. Ma anche di quelli che, per l’appunto, ne hanno volutamente cancellato qualsiasi ricordo dimenticando di essere stati concimati nel medesimo humus. Dal plebiscitario consenso ottenuto nel congresso socialista all’Ansaldo di Milano nel 1989 si passa direttamente al ritiro di Hammamet a fine millennio scorso, dove Craxi trascorrerà, rincorso dagli strali della giustizia italiana, l’ultimo periodo della sua esistenza. Tutto si è compiuto. Dalla gloria e dal potere, di cui si intravedono comunque le prime crepe, all’approssimarsi della fine. I trionfi finiscono in tragedia e quest’ultima degenera progressivamente nella farsa di un paese che ha sempre disperato bisogno di colpevoli da mettere all’indice. A maggior ragione quando l’evidenza parla a sfavore di essi. E tuttavia, non affrontare l’argomento Craxi significherebbe rifiutarsi di comprendere una buona parte della nostra storia. Questo Amelio lo ha compreso benissimo ed è per tale ragione che Hammamet non può che essere considerata un’opera importante e necessaria. Grazie anche all’impressionante performance mimetica di un Pierfrancesco Favino in stato di grazia, a prescindere dal trucco che lo ha reso così somigliante al leader socialista. Favino “diventa” Craxi in ogni piccolo gesto, in ogni scatto di rabbia di fronte a ciò che si para quotidianamente di fronte a lui, in ogni momento di tenerezza con i nipotini ed il resto della famiglia. E noi spettatori lo diventiamo assieme a lui, mettendoci nella scomodissima posizione di giudicare prima l’essere umano che il politico.
Per tali motivi Hammamet, al di là delle sue imperfezioni vagamente didascaliche (vedasi ad esempio la parte pseudo psicoanalitica riguardante Craxi ed il rapporto con il padre), è un’opera che va lasciata sedimentare sottopelle per essere apprezzata nella sua interezza.

Gianni Amelio sceglie di raccontare l’uomo Craxi sorvolando la Storia, lasciando che la sua canzone riecheggi sul fondo dell’inquadratura. Descrive il pellegrinaggio di familiari, amici e avversari che stretti intorno al grande uomo annunciano un congedo, un sostegno, una condanna. Nel vuoto di un progetto di vita e politico franato cercano per la gran parte di ristabilire l’equilibrio perduto, ciascuno secondo il proprio ruolo, la propria inclinazione. La moglie Silvia Cohen, l’amante Claudia Gerini, il collega di fronte opposto Renato Carpentieri, e su tutti forse i veri protagonisti del racconto, la figlia Livia Rossi e il mistero Luca Filippi, sorta di figlio putativo, e al contempo vendetta incarnata.
Il risultato è un film frammentato e confuso più di quanto sarebbe necessario e che funziona solo a tratti. Prigioniero di uno stile ora trattenuto e realistico, ora più libero, che lascia il racconto in una posizione di scomoda incertezza circa la sua vera natura. Una biografia per immagini che punta alla verità ma non al realismo, studio di un carattere e di una personalità contemporaneamente al centro e ai margini della storia, Hammamet non sempre si mantiene all’altezza dei suoi propositi. Ha il doppio vantaggio di muoversi con coraggio su un terreno vergine, e di farlo affidandosi a un interprete dalle possibilità quasi illimitate.
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…Non chiedetevi chi è, né come si chiama, qui dal realismo della pastasciutta e del piede malato siamo passati alle figure portatrici di messaggi: il Giovane Idealista (o forse Matto, finirà in manicomio), l’Astuto Democristiano agghindato da coraggioso esploratore in terra d’Africa. Ci sarà anche il bagaglino, inteso come avanspettacolo. Per esaurire i pettegolezzi, l’amante discinta. Non uno straccio di idea per un film, che pare suggerito solo dalla scadenza ventennale.

Tutto Hammamet si svolge attorno a una Pasqua degli ultimi mesi di vita del protagonista il cui nome non sentiamo mai, come del resto non sentiamo nemmeno quello degli altri. Gli unici che vengono chiamati per nome sono i personaggi inventati e la figlia (ma non il suo nome vero, Stefania, uno di finzione anch’esso garibaldino, Anita). È una Pasqua che riunisce la sua famiglia nel suo ritiro e gli dà modo di interagire con diverse persone, non solo famigliari. Sono come fantasmi che arrivano in visita e con cui dialogare di politica.
In questo periodo l’anziano Craxi, pieno di acciacchi e malanni, maledice l’Italia per il trattamento ricevuto e si fa curare controvoglia. Poche concessioni di fantasia, molto realismo, sebbene poi intorno a lui i comprimari non abbiano niente di realistico ma oscillino tra lo stereotipo culturale e la maschera teatrale, caricando le interpretazioni e risultando sempre sbilanciati davanti a lui, Pierfrancesco Favino, che in una dimensione parallela scava questo Craxi e trova tantissimo. Il film però sembra non sapere che farsene di tutto quest’ottimo lavoro e vaga, lieto di sentir parlare il protagonista…

Hammamet è un film su Craxi. O forse non lo è. Meglio: forse non lo vuole essere. Ed è proprio in questa contraddizione che va cercato il senso del film di Gianni Amelio, che racconta gli ultimi sei mesi di vita del leader politico, quando era contumace in Tunisia. Con un breve prologo sotto la piramide del congresso milanese del 1989. E un finale fellinian-sciasciano che moltiplica i punti di domanda. Forse non poteva essere diversamente, da parte di un regista che si è sempre tenuto lontano dalla politica: «Non ho mai votato per il Partito Socialista o simpatizzato per Bettino Craxi quando era in vita» ha dichiarato a Ciak. Ma evidentemente il ritratto di un uomo sconfitto dopo aver esercitato un grande potere, convinto di essere oggetto di una persecuzione politica e per questo deciso a combattere fino alla fine rappresentava un soggetto di grande fascino per un regista che si è spesso misurato con i nodi tra la psicologia e la vita, tra il privato e il pubblico…

c’è Hammamet ma non c’è Bettino Craxi. O meglio c’è un uomo che gli somiglia come una goccia d’acqua (anche Virginia Raffaele assomiglia a Ornella Vanoni quando la imita) ma che non porta il suo nome e non si capisce se per imbarazzo, pudore, distanza o perché non è stato concesso. Dicono: Pierfrancesco Favino giganteggia, ma giganteggia la maschera, non l’attore ed è una moda recente questa di trasformarsi nell’altro da sé: Servillo/Andreotti/Berlusconi, Oldman/Churchill, Crowe/Ailes, ancora Favino/Buscetta. Se non sei l’altro, non ne porti il nome allora diventa una parodia. Pensavo a L’imitatore di voci di Thomas Bernhard che a furia di scimmiottare le voci degli altri perde la sua…
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Amelio sceglie la strada di un’agiografia da santo laico per Craxi, provando perfino a muovere la macchina da presa come sa fare magistralmente e da tempo, con tutta la ieratica magniloquenza di un Visconti, carrellate all’indietro, profondità di campo, luci tenui della sera che nel loro simbolismo davvero paiono sbucate dal viaggio nelle tenebre di Coppola. Però il peso della storia su cui il regista vuole aggrapparsi è talmente invadente forse persino per i craxiani più convinti. Non che Amelio eluda le vicende giudiziarie, tutte elencate pedissequamente come nella realtà, il punto è invece l’assoluzione totale, senza ombra di dubbio, sul politico (“rubavano tutti”) e sull’uomo (l’umanizzazione con il debole fanciullesco per la pastasciutta). Nonostante il tentativo di pompare quel sottotesto finzionale, finito addirittura in dimensione onirico grottesca con il padre (Omero Antonutti) che osserva Bettino morente su una carrozzina come fosse una piece di Romeo Castellucci sul palco di un cabaret alla Bagaglino riflesso moribondo nella piramide iniziale di Panseca, Hammamet sembra, esteticamente, un Sorrentino (Divo o Loro che sia) di serie B, come una fidelizzazione cieca alla oramai smunta causa craxiana che nemmeno un Berlusconi qualunque…


…La fotografia, curata dal figlio adottivo del regista Luan Amelio Ujkaj, sarebbe ottima per un prodotto televisivo, non è particolarmente incisiva per un film da grande schermo; anche il montaggio delle musiche di Nicola Piovani, che per l’occasione ha riarrangiato e spezzettato l’Internazionale, a volte è un po’ fastidioso ed eccessivamente presente durante i dialoghi fra i personaggi. Risulta spontaneo, per vari motivi, il paragone con Loro di Paolo Sorrentino: i film sono accomunati da un’indagine sul potere interessata al momento della decadenza, e dalla comune ambientazione “bucolica”, e nel film di Amelio Silvio Berlusconi compare brevemente in TV come se ambisse a prendere il potere che Craxi ha perso; nondimeno il film di Sorrentino risulta più riuscito, perché accanto all’approfondimento psicologico del suo protagonista e delle sue vicende private ha saputo ritrarre con maggiore efficacia il suo entourage, il suo magnetismo e il suo disfarsi.
Hammamet può però vantarsi di una sequenza particolarmente originale e inattesa: si trova quasi alla fine del film, e in essa fa un’ultima graditissima comparsa l’attore Omero Antonutti, scomparso lo scorso novembre, nel ruolo del padre di Craxi, prima che tutto svanisca in fumo e Berlusconi al potere prosegua una Seconda repubblica per molti versi ancora più contestata e scandalosa della prima.

Più di Volonté Moro, più di Servillo Andreotti, Pierfrancesco Favino è Craxi. Lo è, quasi ontologicamente, non soltanto per abilità mimetica, per studio di tic e movenze, per trucco e parrucco. Raramente, anzi mai, è capitato di assistere a una identificazione più profonda e viscerale. Scomoderei persino il concetto di transustanziazione. Hammamet è questo e tanto basterebbe a decretarne il valore assoluto. Perché di fronte a una simile identità, il resto slitta in secondo piano. Ma il resto, nel film di Amelio, c’è. C’è anche quello. Craxi è il poco prima e il moltissimo dopo la bufera nera che lo travolse con una pioggia di monetine all’uscita del St. Raphael, quando coloro che lo invocavano sulla forca ancora dovevano capire, come fanno oggi, anno del signore 2019, che un giorno lo avrebbero rimpianto. La sceneggiatura chiude il cerchio del proprio interesse tra le mura calcinate della dimora fortezza tunisina, dove Bettino consumò il tempo che gli restava. Sedendo sulla spiaggia bianca e aspettando, nei giorni tersi di vento, di vedere lontano, sulla linea dell’orizzonte, la linea sfuocata dell’Italia. Nel cerchio magico dei suoi cari, la moglie, la figlia, il nipote, il figlio, Craxi attende. Attende ovviamente la morte, che nel film arriva alla fine, in sostanza, ma in essenza alita fin dall’inizio. La morte è in tutte le cose che circondano lo statista. Nel refolo di sangue che gli macchia pantaloni e scarpe, come segnale della cancrena che gli sta mangiando una gamba. Nei piatti di pasta e nei gabaret di dolci che il colosso (per la stazza, ma non solo per quella) divora come non dovrebbe, perché il diabete ha piantato saldi i propri quartieri nel suo corpo…

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