sabato 31 marzo 2018

L’opera al nero – Andrè Delvaux



Gian Maria Volontè, già coi capelli bianchi, interpreta un medico che ritorna a casa, a Bruges, dopo aver vagato per l'Europa per non essere processato dall'Inquisizione.
purtroppo l'Inquisizione non dimentica e Zenone è destinato a una brutta fine.
un film non male, ma è come una versione light di quel capolavoro che è Giordano Bruno - Ismaele








Nel film ci sono evidenti limiti di sceneggiatura, che sono assolutamente compensati dalla straordinaria interpretazione di Gian Maria Volontè, che, da sessantenne, dimostra tutto il suo equilibrio e la sua bravura nel costruire un personaggio perfetto, calato in maniera strabiliante nella realtà di quel tempo, tanto da meritare il Nastro d’argento quale migliore attore protagonista. Volontè offre una interpretazione matura ed elegante, di un personaggio malinconico e raffinato; L’opera al nero che è in grado di vedere lontano ove la cultura e la ricerca possono arrivare, ma che anche si rende conto che il presente non offre scappatoie per gli spiriti liberi. Altro limite del film è dato dalla scarsa informazione che esso ci offre della vita e della formazione di Zenone, prima dell’arrivo a Bruges. Si tratta di una scelta discutibile del regista, che evidentemente intendeva concentrare la narrazione del film esclusivamente sull’ultima parte della vita del protagonista. E in verità i pochi flashback non rendono ragione di queste esigenze che, se adeguatamente soddisfatte, indubbiamente avrebbero arricchito il film di elementi biografici e culturali di sicuro interesse nella costruzione della personalità del protagonista. Diverso respiro ha il romanzo, che offre effettivamente un quadro ricco e completo non solo della formazione di Zenone, ma anche e soprattutto delle articolazioni della società del suo tempo e della contraddittoria ricchezza delle varie stratificazioni sociali presenti.
Nel cast troviamo alcuni nomi importanti, quali la godardiana Anna Karina, Sami Frey, e Philippe Leotard, tutti però sovrastati dalla bravura straordinaria di Gian Maria Volontè, che nell’ultima scena del film ci offre un nuovo imperdibile saggio di bravura.

ho guardato il film di Delvaux con più attenzione, ma l'ho trovato noioso, mal realizzato e sicuramente inferiore al modello letterario a cui si ispira. Il romanzo di Marguerite Yourcenar è volutamente costruito su una bipartizione: la prima parte è dedicata alla "vita errante" del protagonista e segue velocemente le tappe della sua esistenza fino alla maturità. La seconda, invece, è dedicata al suo ritorno a Brugge, sotto le mentite spoglie del medico Sébastien Theus, ricercato dall'Inquisizione per eresia. Questa parte è tanto lenta e "immobile" quanto è veloce e intensa la prima, in cui gli scenari mutano rapidamente, anni ed eventi vengono condensati in poche pagine, numerosi personaggi appaiono e scompaiono. Il film, invece, si concentra sulla seconda parte – non a caso, credo, è uscito nel Belgio fiammingo con il titolo De terugkeer naar Brugge (Il ritorno a Brugge) – e in scena vediamo subito uno Zénon anziano, che opera in clandestinità come medico finché non viene smascherato, processato e condannato a una morte a cui si sottrae solo suicidandosi la sera prima dell'esecuzione. Alcuni episodi della prima parte vengono recuperati attraverso una serie di flashback montati nel corpo principale del film. E questo è il primo problema: gli eventi sono così tanti che sceglierne solo alcuni e mostrarli nel corso del film compromette la comprensione della storia. Mentre guardavo il film mi sono chiesto più volte se avrei capito davvero quello che stava accadendo se non avessi già letto il libro e non ne avessi conosciuto la trama. Probabilmente no. A questo si aggiunga la recitazione di Gian Maria Volonté. La custodia del dvd riporta un giudizio del critico Morando Morandini, che elogia l'attore italiano. In realtà Volonté non fa altro che bofonchiare, borbottare e sussurrare per tutto il film, tanto da rendere incomprensibile quello che dice, unico tra i vari personaggi. Chiunque mi sarei immaginato nella parte di Zénon ma non lui – e del resto questo è il classico problema che affligge le trasposizioni cinematografiche delle nostre opere letterarie preferite…

giovedì 29 marzo 2018

Surbiles - Giovanni Columbu

in paesi oggi quasi senza bambini (qui e qui), un tempo, quando i bambini c'erano, e morivano (la sanità era peggiore di quella di adesso), la colpa era delle surbiles, donne vampire che uccidevano i bambini.
non erano vampire da sempre e per sempre, si trattava di una mutazione temporanea che poteva capitare a qualsiasi donna.
l'opera di Giovanni Columbu è praticamente un mockumentary, uno di quei film nei quali documentario e finzione si alternano e si sovrappongono. 
interviste e visioni notturne del paese, illuminate da qualche cinepresa dell'espressionismo tedesco, una donna vaga di casa in casa, ma non può entrare, ma se è una surbile può, se nella casa sono distratti.
non erano certo amate, ma si provava pena per loro, un altro continente rispetto a quello delle streghe di Salem.
film di donne, pieno di segreti, uno può non crederci, alle surbiles, ma la falce con troppi denti è meglio appenderla.
un film molto diverso da Su Re (qui si può vedere e rivedere quel grandissimo film), e magari minore, ma Giovanni Columbu fa solo film molto belli o straordinari.
Surbiles è da non perdere, credo sia il primo mockumentary sardo, se così non fosse mi corrigerete.
beato chi riesce a vederlo al cinema.
buona visione - Ismaele






Il Wagner nel suo libro “La Vita Rustica” a pagina 126 dice  che :
<sas Surbiles erano specie di Vampiri, uomini o donne, che  venuti al mondo 
con una codina d’acciaio, succhiavano il sangue dei neonati e per difendersi 
da loro bisognava mettere in casa la falce  con la punta e i denti all’insù 
(a pikku a susu) possibilmente sistemandola sopra il contenitore del grano 
che così veniva preservato dall’attacco degli insetti (punteruolo del grano).
Di notte queste Surbiles, trasformate
in bestie, andavano nelle case dove
c’erano bambini piccoli ma erano
fermate  dalla falce di cui s’intrattenevano
a contare i denti (circa 600); ma poiché
esse erano in grado di contare solo sino
a sette, ricominciavano sempre da capo
sino a che l’alba le costringeva alla fuga
per non rischiare di rimanere incenerite
prima di ritrasformarsi in persone>.

…Los cuatro capítulos en los que se divide la ficción (protagonizados por rostros y desvelos divergentes) se unirán en la secuencia que cerrará el film. La exhibición de una ceremonia sagrada alrededor de una hoguera en la mitad de la noche, protagonizada por los semblantes de los personajes que emergieron en los minutos anteriores. Danzando y lanzando cánticos en idioma sardo. Mayores y niños. Todos unidos para conmemorar su alianza frente al eje del mal. Una guinda para un pastel extraño, no apto para todos los estómagos. Que prefiere el tedio y la observación a lo trepidante. Que no hace ascos a mezclar realidad con ficción de un modo azaroso y subyugante. Que finalmente no escoge su territorio principal, caminando por senderos por tanto empantanados y peligrosos. Una cinta turbadora y alternativa que hará las delicias de los fanáticos del cine más subterráneo y subversivo.

…Columbu si muove in parte secondo i dettami del documentario etnografico più austero. Penetra nei piccoli paesi, nelle case, interpella perlopiù donne anziane facendosi dire le fosche storie-leggende creciute intorno alla figura delle surbiles. Molte delle chiamiamole testimoni si rifiutano però di parlare, blindate in un’omertà dettata dalla paura (rivelare gli arcana è una colpa? attira su chi lo fa il male?). E quei racconti, quelle testimonianze, li mette in scena. Con una prima sequenza formidabile, una giovane donna sospettata di stregoneria che vaga di notte bussando, chiedendo aiuto, senza che nessuno le apra. Seguono episodi ben più drammatici e foschi. Bambini su cui è caduto il malefizio e che rischiano la morte. Surbiles che fuoriescono dal proprio corpo per invadere ectoplasmaticamente il villaggio, le strade, le case. Una specie di sabba di surbiles e loro seguaci (scena meravigliosa). Lo sguardo di Columbu è di pura osservazione, mai giudicante, e non può non ricordarci quello delle fondamentali ricerche anni Cinquanta dell’antropologo Ernesto De Martino sui riti magici e di possessione del Sud italiano (soprattutto in Lucania). Ricerche che già ispirarono al cinema Il demonio di Brunello Rondi e Arcana di Giulio Questi-Kim Arcalli.
A incantare in Surbiles è quella cultura contadina impregnata di pensiero magico cui Columbu si (ci) avvicina con un rispetto che evoca il migliore Olmi, anche se qui siamo lontani geograficamente e culturalmente dalla bassa bergamasca profondo-cattolica dell’Albero degli zoccoli. Come non restare folgorati da quelle case linde e ordinate di un’austera e perduta premodernità, da quei modi alieni dalla sovreccitazione del nostro tempo. Inquadrature immobili, contemplative, a catturare il tempo lungo e circolare del mito. Silenzi, da un altro mondo e da un altro cinema. Mai come in questo caso la locuzione civiltà contadina sembra acquistare un senso. E però, pur affascinandoci con quel lindore, con quella pulizia di segni, Columbu va anche a esplorare il lato oscuro di quel microcosmo, la paranoica leggenda collettiva delle surbiles intrisa di inquietanti pulsioni alla caccia al diverso, al capro espiatorio. Alle streghe. Ed è forse per attenuare questo senso di allarme che nell’ultimo episodio Columbu cerca di consegnarci un’immagine più addolcita delle (presunte) creature del male, come a voler prendere le distanze dalla paranoica leggenda. Pur oscillando ambiguamente tra fascinazione del pensiero magico e coscienza dei suoi rischi, delle sue deviazioni, Surbiles resta un film indispensabile. Bisogna che circoli, venga visto il più possibile. E sarebbe somma ingiustizia continuare a ignorare Columbu, ormai da collocare tra i nostri maggiori cineasti indipendenti (e, per ritrovare nobili genealogie, non si può non pensare, dopo Surbiles, non solo a Olmi ma anche al Vittorio De Seta di Banditi a Orgosolo). Anche qui, come nel caso di Easy, si rimpiange che Surbiles non sia stato messo nel Concorso Internazionale o almeno in una sezione più visibile della molto interessante ma anche elitaria Signs of Life. E adesso, per favore, date a Columbu un budget adeguato per un grande film…

…Columbu filme ses épisodes avec une économie de moyens absolue, utilisant la temporalité nocturne pour resserrer sa palette autour du noir et des couleurs ocre des lumières et des murs. Chaque affrontement fait l’occasion d’une mise en situation de ses acteurs non professionnels (à l’exception d’une jeune femme jouée par… sa fille !), dont il se révèle un portraitiste exceptionnel. Le réalisateur filme tous ses personnages comme en tangente, leurs visages tranchant l’écran en diagonales marquant leurs affrontements, tandis que derrière eux se déploient les espaces du village s’évanouissant dans la pénombre. Le son rappele au spectateur le hors-champ où rôde le danger, définissant toujours celle-ci selon le point de vue du personnage filmé (les voix des villageois agressifs pour la jeune surbile dans la scène d'ouverture, la surbile cachée derrière la porte pour les enfants terrés à l'intérieur...). Dans une des scènes clés, une surimpression suffit, comme dans le Vampyre de Dreyer, à faire basculer un des personnages dans le monde de l’affrontement avec les morts. Comme chez Dreyer aussi, le récit est organisé par les tensions entre femmes, vieilles veuves et jeunes beautés. Le jeu trouble de désir saphique et de jalousie qui en ressort organise le jeu des regards du spectateur, ce qui explique que la seule scène ennuyeuse, malgré un rythme basé sur l’étirement et l’atténuation, soit celle construite autour d’un homme. Columbu fait de son film non pas tant un documentaire sur les superstitions villageoises, qu’un document de ces croyances. Le village sarde y redevient le théâtre d’une vie épique, marquée par l’affrontement de l’homme avec les forces élémentaires qui le dépassent. Columbu a réalisé avant Surbiles un film basé sur les évangiles, Su Re, qui apparemment n’a même pas eu en France les honneurs d’une projection dans un festival. En attendant un Locarno 2018 qu’on espère meilleur que celui de 2017, voilà donc une découverte à faire.

A prescindere dalla narrazione e da quelle che sono le inferenze antropiche di Surbiles - ciò che si vede e si sente nelle ambagi del film (negli armadi, agli angoli delle camere, proprio nelle intercapedini della struttura cinematografica) a proposito di sincretismi, superstizioni, o del magico superstite (guardando anche un po’ a De Martino) -, con tutto il corollario esistenziale poi connesso a queste figure fragili e dolenti, per quanto orride, erranti di vampire (quindi una gamma di tonalità e registri che prevede anche l’ironico, se non proprio il comico inerente al metabolismo dei vecchi parlanti, semoventi); è nella forma, com’è evidente, che Columbu concentra tutto il suo potenziale dialettico, sfruttando la scarnezza, la povertà della ripresa amatoriale, per fini, come dire, gnoseologici, cioè indagando questioni come l’essenza dell’immagine, la sua presunta autenticità e i margini di manipolazione iconica entro un programma profondante, sprofondante di racconto: perché proprio mentre cerca di addentrarsi negli spazi di profonda, stratificata significazione, questa struttura sembra smottare, ridursi in macerie d’immagine, cumuli di ombre digitali. Cioè, quanto aggiunge questa modalità di ripresa al fondamento filosofico (teorico: ma di una teoria del mondo piuttosto che solo del cinema) necessaria al racconto, alla possibilità di dire e di mostrare anche oltre la finitezza endemica di parole e figure, magari attraverso condizioni particolari di luce, di crepuscolo dell’atmosfera cinematografica? Come se queste, nella fredda povertà, precarietà della ripresa, acquistassero una maggiore pregnanza estetica, gnoseologica appunto: la capacità di dire, mostrare, fare intravedere la bassa, la basica sostanza costitutiva di tutte le cose e adiacente al nulla. Il che sembra confermato dalla confluenza (per certi aspetti) con alcuni esperimenti recenti, partendo da quella sorta di archetipo che può essere Mysterious object at noon di Weerasethakul: ad esempio El futuro di Luis Lopez Carrasco, in cui è proprio la modalità del mostrare, la ripresa in 4:3 e nella definizione di una VHS, ad aprire squarci, passaggi temporali non tanto dentro la Storia (e nella politica), quanto nell’immaginario anche oltre gli anni Ottanta; o I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin, tutto teso nell’alternanza e indistinzione (come in Weerasethakul) tra documentario e finzione, e comunque pervaso a tratti dalla stessa luce crepuscolare, mortifera, dalla stessa scarnezza (problematica, teoretica) del digitale domestico di Surbiles…

...Si addentra nei territori del maligno, Surbiles, ma il suo reale campo semantico di ricerca è un altro: è l’intimità di una cultura, è la radicalizzazione territoriale nelle vite degli uomini, è lo strascico di una leggenda, possibile probabilmente solo nel centro di un’isola, ambiente chiuso e, appunto, isolato per definizione, bisognoso di equilibri interni. Il risultato è un film imperfetto, probabilmente difettoso, eppure dello stesso fascino misterico e inafferrabile di una circolare danza tradizionale. È un film di caccia alle streghe, di ritorni nell’ombra, di lotte fra il bene e il male, di trasformazioni tramite unguenti magici, di conti (in)finiti, di canzoni di Natale mentre fuori infuria la lotta fra gli spiriti; è un film profondamente inquietante, fatto di paura popolare e di abbandoni del proprio corpo, fatto di lente passeggiate nella notte e di fuochi scoppiettanti; è un film profondamente interessante, un trattato antropologico, un’immersione completa nell’Ichnusa di un tempo eppure eterna, archetipica e immutabile come le sue tradizioni più radicate. È un film da difendere, senza dubbio. E a spada tratta.


mercoledì 28 marzo 2018

De jurk (Il vestito) - Alex van Warmerdam

il protagonista del film è un vestito, che veste diverse donne, a caso.
è l'occasione per raccontare delle storie, come se fosse un film a episodi, tutti girati dalla mano sapiente di Alex van Warmerdam.
non è il suo capolavoro, ma si vede davvero bene, certa storie sono belle, altre di più.
buona visione - Ismaele




Un bel vestito estivo a fiori spinto dal vento finisce nel giardino di un'anziana signora e poi sul corpo di una giovane e bella fidanzata di un pittore, di un controllore delle ferrovie, di un autista di autobus. Di una fanciulla di nome Chantal ed anche della barbona Marie. Nel bene e nel male l'abito cambierà la vita di un gruppo di persone. Originale ed ironico film sull'esistenza, non privo di una comicità surreale alla Tati e alla Keaton.

Il Cinema dell'olandese Warmerdam è come questo vestito: viaggia quasi casualmente, in traiettorie tutte sue e lambisce le vite dei suoi personaggi gettandoli in film grotteschi e intriganti. Qui si parte dai campi di cotone e si assiste alla nascita, turbolenta e non senza conseguenze personali per chi ne viene coinvolto, di un vestito leggero, colorato e disegnato con dubbio gusto, che una volta tagliato e venduto passa di corpo in corpo, lasciando su ogni persona che lo indossa, segni profondi, spesso nefasti. Un'anziana signora, un bigliettaio di treno perverso, giovani fanciulle, artisti e vagabondi. Il regista scatena una divertente commedia nera che però declina in qualcosa di più sinistro, variando lievemente di registro mentre si assiste alle varie peripezie dell'umanità coinvolta. Un viaggio casuale e allegro, triste e violento, romantico e sensuale, che però sa un po' di aria fritta dopo un certo tempo, gli manca il colpo del genio, cosa che gli succederà solo con il fantastico "Borgman", nel 2013, il suo capolavoro. Un regista, comunque, che mi piace molto, diverso, coraggioso e stimolante.

De Jurk è imbevuto dello humour nero che attraversa i lavori di Alex Van Warmerdam sin dall’inizio della sua carriera. L’ironia è feroce e tagliente, come una rasoiata. La vita è un viaggio che non promette destinazione certa, questo sembra voler “denunciare” il regista, ed è difficile riuscire a controbattere alcunché. C’è solo da prenderne atto, pur senza rinunciare a indossare, almeno una volta, quel vestito. Dopotutto, farsi portare, docilmente, dalle correnti del caso, può garantire il massimo risultato con il minimo sforzo…

martedì 27 marzo 2018

L'uomo con la lanterna - Francesca Lixi

L'uomo con la lanterna ha vinto il premio Corso Salani (il dio del Cinema lo ricordi e lo faccia ricordare sempre), a Trieste, e sta iniziando a fare i primi passi nelle sale.
una piccola storia di famiglia diventa tante cose, i bauli con i ricordi di zio Mario sono usciti dalla polvere e tornano a vivere, con la stop motion di Michela Anedda e la testardaggine di Francesca Lixi.
anni di ricerche, viaggi, pellicole andate a male, incontri, ipotesi, alla fine hanno partorito questo film, zio Mario è tornato a vivere, e a viaggiare, stando un po' sulle sue, dicendo molte cose, ma tacendone altre, e un po' l'abbiamo conosciuto anche noi.
sarà difficile, ma non impossibile, vedere questo film, quel giorno siateci, non ve ne pentirete, una piccola storia di famiglia che diventa cinema, non capita tutti i giorni.
buona futura visione, allora - Ismaele

ps: il cognome di Francesca, Li Xi, potrebbe aprire le porte delle sale cinesi che sono ormai più di trentamila (nel film si ricorda che anche il nostro paese è stato, nel suo piccolo, fra gli altri, colonialista, per caso, in Cina). 
uno dei produttori di cognome fa Giapponesi, speriamo bene.







L’uomo con la lanterna. Storia di un bancario sardo nel Celeste Impero – Wu Ming 2

Nella storia del colonialismo italiano, che già non brilla per notorietà, la Concessione di Tientsin conserva il ruolo di Carneade. Un’ombra dell’ombra, direbbe Paco Taibo II. Eppure si tratta della seconda terra d’Oltremare che l’Italia riuscì ad accaparrarsi, undici anni dopo l’istituzione della Colonia eritrea. Questo la piazza al secondo posto anche per la durata del dominio, 42 anni, dal 1901 – in seguito all’intervento italiano contro la rivolta dei Boxer – all’invasione giapponese della Cina durante la Seconda guerra mondiale.
In un tempo remoto, quando il collettivo era ancora un quintetto, scrivemmo un soggetto cinematografico piuttosto sgangherato, dove un carabiniere italiano della Concessione indagava su alcuni loschi delitti con l’aiuto di un attendente cinese. Il titolo di lavoro era Tu bene!, traduzione letterale di 你好 (nĭ hăo), il più comune saluto in mandarino. Di quel progetto non si fece nulla, e in questo caso er cinema non ha davvero colpe. La storia era del tutto improponibile.
Tuttavia, il ricordo di quella vecchia trama è riaffiorato, quando la casa di produzione Kiné mi ha proposto di partecipare alla sceneggiatura di un film d’archivio, basato sui documenti, le foto e le pellicole di Mario Garau, nato a Cagliari nel 1891 e impiegato della Banca italiana per la Cina, a Shanghai e Tianjin, dal 1924 al 1936.
La regista del film, Francesca Lixi, è una prononipote del protagonista, ma non lo ha mai conosciuto (è morto nel 1964, per le complicanze di una trasfusione). Fin da piccola, Francesca è affascinata dalla figura di “zio Mario”, il misterioso avventuriero che ha riportato dai suoi viaggi i tanti soprammobili di cui è ingombra la sua casa. Gioca con quegli oggetti senza sapere da dove arrivano, inventa storie che li coinvolgono, sogna di tenere in mano i ninnoli più preziosi e intoccabili.
Crescendo, prova a indagare meglio la biografia di zio Mario e a trovare il modo di raccontarla. Studia teatro per portarla in scena. Organizza un viaggio in Cina, passando dal Nepal, per filmare i luoghi che lui stesso ha filmato (E’ il 1987 e visitare la Repubblica Popolare da turisti indipendenti è ancora molto complicato).  Per realizzare il lungometraggio, decide di farsi le ossa nel mondo del cinema, cercando un ruolo qualsiasi in una troupe. Trova sull’elenco l’indirizzo di Nanni Moretti, gli scrive, riceve una sua telefonata, con molti consigli. Frequenta una scuola di montaggio, scrive sceneggiature, propone trailer, imposta documentari. Con l’avvento di Internet, pubblica su una rivista on-line un romanzo epistolare, composto di lettere immaginarie tra lei e lo zio.
Intanto mette ordine nello sterminato archivio familiare, dal quale spuntano anche gli scatti del sottotenente Mario Garau, impegnato sui fronti della Grande Guerra, dall’Isonzo all’Albania. Cerca inutilmente di consultare l’archivio del Credito Italiano, dove sono conservati i fogli di servizio e i dispacci di suo zio alla direzione della banca. Finché, dopo trent’anni di tentativi più o meno falliti, arriva il progetto di un film che racconti, insieme alla vita di Mario Garau, anche le ricerche di Francesca, utilizzando solo documenti, filmati d’epoca, fotografie, pochissime riprese dirette e animazione digitale di oggetti. Kiné riesce a ottenere un finanziamento dalla Sardegna Film Commission, ed ecco che la proposta di partecipare alla sceneggiatura compare nel mia casella di posta.
L’uomo con la lanterna racconta l’Italia dei primi del Novecento – vista dalla Sardegna – e la vita di un italiano in Cina negli anni del regime fascista. Si interroga sul ruolo delle banche occidentali nel Celeste Impero e su alcuni misteri che costellano la biografia di Mario Garau, senza però violare il suo diritto all’opacità, quello che ci permette di stare con gli altri anche quando non li capiamo fino in fondo.
Lo fa usando le sue foto di feste danzanti e di barricate, i super8 di viaggi in Africa e passeggiate per Shanghai, i cataloghi di “signorine” cinesi con le quali accompagnarsi, gli oggetti che hanno popolato i sogni di Francesca. In parallelo, scorre la ricerca della nipote, a volte disillusa, a volte ossessionata, spesso interrotta per lunghi periodi.
Fino a maturare la consapevolezza, dopo mille ipotesi e faldoni consultati, che “nelle notti dell’altro ci aggiriamo ciechi, reggendo una lanterna che solo c’inganna”.
Dopo aver vinto il premio “Corso Salani” al Trieste Film FestivalL’uomo con la lanterna ha partecipato alla rassegna Visioni Italiane 2018, e lunedì 26 marzo verrà proiettato a Cagliari per la prima volta, al cinema Odissea.
Si sa che un film di questo genere non ha grandi possibilità di distribuzione nelle sale, ma per chi volesse vederlo al cinema, c’è la possibilità di organizzare la proiezione in una delle sale del circuito MovieDay.
L’idea è molto semplice: chiunque lo desideri può selezionare il film, il giorno e la sala dove gradirebbe vederlo. A quel punto, parte una spece di micro-crowdfunding, con prevendita on-line dei biglietti. Se si raggiunge una quota minima (intorno ai 40, ma dipende dal cinema), allora il film viene confermato e inserito nella  programmazione della sala. E’ tutto spiegato qui:

Questo è il link diretto alla pagina de L’Uomo con la Lanterna sul sito di MovieDay.
Se qualche singolo, libreria, circolo o associazione è interessato a organizzare una proiezione, il nostro account Twitter e Giap sono a disposizione per dare una mano a promuoverla.


Metà degli anni ‘20. Un bancario sardo, Mario Garau, viene distaccato in Cina dal Credito Italiano per lavorare come funzionario della Italian Bank of China, negli uffici di Tientsin e di Shanghai. Era l’epoca delle Concessioni Internazionali e dei Trattati Ineguali. Quel bancario era mio zio. Nella mia casa, quando ero bambina, giunsero alcuni bauli che gli appartenevano, pieni di cimeli, filmati 8mm e foto. Questi oggetti esotici, e le poche notizie che avevo su questo parente, han- no ingombrato per decenni la mia fantasia e mi hanno spinto a fare numerose ricerche intorno a questa figura misteriosa.
Attraverso foto, documenti e filmati inediti, questo film narra la storia di mio zio e del mondo rimosso e sconosciuto delle Concessioni Internazionali in estremo oriente, ma racconta anche di come la sua vita, per oltre 30 anni, si sia intrecciata con la mia, e con le mie scelte.
Ho provato a viaggiare con lui, per scoprire se fosse possibile raccontare e comprendere la complessità delle vite degli altri attraverso le vicende che ne hanno segnato l’esistenza, scoprendo i frammenti dell’intreccio che si nasconde tra la nostra vita e quella delle persone, reali o immaginarie, che ci hanno formato.

Era una bambina, Francesca Lixi, quando vide per la prima volta i polverosi bauli, giunti a Cagliari dalla Cina dopo la morte di suo zio. “Avevo 4 anni quando arrivarono nella nostra cantina le casse e i bauli di uno zio sconosciuto. Da allora le sue fotografie, i suoi filmati in 8 mm e gli oggetti portati dai suoi viaggi, sono diventati i testimoni per niente oggettivi della relazione che la sua esistenza ha avuto con la mia storia personale, spingendomi a interpretare e ripercorrere la sua vita alla ricerca di una verità che non potrò mai cogliere del tutto

“Il sogno è il primo genere letterario dell’umanità. Nel sogno siamo registi, attori e spettatori delle vite immaginarie che ci sono state narrate e di quelle che andiamo a comporre”, questo è l’incipit con cui si apre L’uomo con la lanterna di Francesca Lixi, vincitore del Premio Corso Salani al Trieste Film Festival 2018, una frase del filosofo Remo Bodei che vuole chiarirci con quale sguardo la regista abbia provato a dare forma alla vita di suo zio Mario Garau, bancario cagliaritano che dal 1924 al 1935 si ritrova a lavorare per l’Italian Bank for China a Tientsin e Shanghai.
Zio Mario è un uomo taciturno e non parla con nessuno degli anni trascorsi in Cina e nemmeno dei suoi lunghi viaggi intorno al mondo, il suo racconto è affidato ai mezzi con cui registra i suoi spostamenti, gli incontri e i principali eventi di cui sembra essere un attento testimone. Francesca Lixi, non ha fatto in tempo a conoscerlo, è ancora una bambina quando, dopo la sua morte, apre per la prima volta i bauli che contengono la memoria visiva dello zio, a quell’età sono soprattutto i cimeli esotici, le fotografie e le pellicole 8mm ad interessarla, affascinandola a tal punto da influenzarne le scelte future…

venerdì 23 marzo 2018

La ragazza più felice del mondo - Radu Jude

il film inizia con un viaggio in macchina, verso la capitale, due genitori amorevoli e una figlia coccolata, la destinazione è la capitale.
la ragazza, Delia,  ha vinto un concorso a premi e ha vinto un'automobile, per perfezionare la vincita Delia deve girare una pubblicità di un minuto per lo sponsor di bibite.
sarà una giornata, lunga, faticosa, con molti ciak fino a quello buono, e si consuma un dramma familiare.
Delia vuole la macchina, l'ha vinta lei, è sua, i genitori vorrebbero loro la macchina, servono soldi a casa, ma Delia è un'ingrata, le fanno notare continuamente, con sempre minore gentilezza, fino al grande freddo nei rapporti fra genitori e figlia.
le trappole del capitalismo in un mondo uscito dalla miseria in brevissimo tempo.
primo lungometraggio di Radu Jude, ottimo debutto, già allora di cinema ne sapeva molto - Ismaele








Il film racconta della lunghissima giornata di Delia, giovane romena che ha vinto un concorso bandito da una marca di bibite: girare una pubblicità e ritirare una costosa automobile. Parte quindi, con i genitori, a bordo di una Dacia e alla volta di Bucarest, dove la attende una giorno interminabile: tra il caldo estivo, i numerosi Ciak, le pretese del regista e dello sponsor e le discussioni con i genitori, che vogliono vendere l’auto per aprire un bed & breakfast. Il titolo deriva dalla banalissima frase che la ragazza è costretta a pronunciare (“Mi chiamo Fratila Delia Cristina e sono la ragazza più felice del mondo“) nello spot.
Dice il regista: “Nel film si parla di bugie e di compromessi, ma anche di felicità, tristezza e consumismo. Parlo di capitalismo anche quando racconto le mire di due genitori che approfittano dei figli per realizzare i propri sogni“.

Cea mai fericità fatà din lume (La ragazza più felice del mondo) di Radu Jude è un film su compromessi e bugie, su capitalismo e rapporti familiari, che porta anche ad una riflessione sull’ingannevole linguaggio del cinema…

resultó muy interesante The Happiest Girl in the World, debut de Radu Jude (asistente de Cristi Puiu en La noche del señor Lazarescu), que mantiene el espíritu tragicómico y la virtuosa puesta en escena de buena parte del nuevo cine rumano. Una adolescente pueblerina de clase media-baja llega con sus padres a Bucarest para participar de un comercial de una bebida gaseosa al que debe presentarse luego de haber ganado un automóvil en un concurso. Mientras protagoniza -no sin tropiezos- el rodaje de la publicidad en plena ciudad, sus padres tratan de convencerla de que firme un documento para vender el coche y así solucionar los problemas económicos de la familia. Ella, en cambio, quiere manejarlo para ostentar ante sus amigos y compañeros. La utilización de las locaciones reales (puro caos y ruido) de la capital rumana es un verdadero hallazgo de un film que describe de manera despiadada los profundos cambios socioeconómicos de un país que intenta olvidar su pasado comunista a fuerza de consumo (y de codicia).

martedì 20 marzo 2018

Alcool - Augusto Tretti


nasce come documentario sui pericoli dell'abuso di alcool, ma in mano ad Augusto Tretti diventa un ibrido, a metà fra il documentario e il film di finzione.
un film semplice, ingenuo, forse, ma con lo stile di Tretti.
merita, vedere per credere - Ismaele






…Primo film prodotto unicamente da un ente regionale, l’Amministrazione Provinciale di Milano, che nel 1980 era capeggiata da una donna democratica di sinistra; film questo nato con uno scopo didattico che si poneva contro le insidie celate dal consumo di alcool in Italia. Impensabile che un regista come Tretti, che era lontano dai set da otto anni, non volesse aggiungere parte della sua caustica invettiva all’interno di una produzione locale, statalizzata, più simile alle Pubblicità Progresso come fine che non alla libera iniziativa artistica del suo autore. All’interno di una cornice intellettuale, per certi versi atemporale, quasi divinamente oggettiva, composta da quattro dottori che discutono sulle pericolosità dell’uso, prima, e dell’abuso, dopo l’assuefazione derivante da un uso "ricreativo" e compensatore della solitudine societaria nella quale è introdotto l’individuo - senza distinzioni di sesso, razza, classe o religione – Tretti racconta uno spaccato trasversale che non risparmia nessuna microstruttura societaria, nessuno ne esce incolume dall’uso, legalizzato statalmente, dall’alcool. A maggior ragione se messo in comparazione con altri tipi di droghe, leggere o pesanti, che venivano – e tuttora vengono – proibite. Nel fuoricampo delle storie che vengono raccontate sembra sempre presente un tacito accordo tra ciò che è lecito e ciò che non è lecito, con lo Stato come giudice unico a soppesarne i benefici o malefici di entrambi i piatti. E’ la società contemporanea – parliamo del 1980 ma il discorso lo si può tranquillamente estendere fino a i giorni nostri, immaginiamo un lavoro simile sul gioco d’azzardo legalizzato – che crea disagio e solitudini, palati da circuire con le réclame e sete da dissetare con dell’alcool. «Nell’Italia del Nord i ricoverati in ospedali psichiatrici per causa dell’alcol sfiorano il 50 per cento. Eppure, si continua a parlare di droga e ad ignorare quasi l’alcolismo che è la droga più diffusa e letale. […] L’alcolismo è un fenomeno terribile, che non appare nelle statistiche nella sua reale dimensione, e le sue vittime appartengono tutte, tranne qualche eccezione, alle classi subalterne; è gente che non è legittimata a superare nulla, che dalla vita non ha soddisfazioni e che dal futuro non può aspettarsi un’esistenza che lo riscatti. In questo senso il mio è un film politico, perché informa, senza ricorrere a una qualsiasi ideologia che ridurrebbe il problema, che anche questa piaga sta nel conto del rapporto di forza fra chi ha il potere e chi non l’ha, fra chi usa lo droga e chi, invece, ne viene usato».

Le finalità educative ed informative si traducono in Tretti in politica. Una politica però ben lontana, come ammissione delle stesso regista, dall’ideologia. Da qualsivoglia ideologia, né di destra, né di sinistra tantoméno centrista. Una ideologia che sminuirebbe il fenomeno, che sposterebbe l’ago dell’inchiesta e della statistica verso fini precostituiti e non verso dati oggettivi. Ma nonostante questo, Alcool rifugge lo stile algido del film-d’inchiesta, rifugge anche la réclame, e la brevità di forte impatto della Pubblicità Progresso. Alcool è un film trettiano in tutto e per tutto. Se non per l’epifania dell’idea originale almeno lo è per il fine e per il metodo. Uno sguardo sulfureo, grottescamente schietto, inflessibile e libero, mai taciuto per onesta volontà del suo autore, casomai perennemente tacciato ed allontanato. Un anarchico per sua stessa ammissione, «le sue bombe scoppiano con un enorme rispetto della vita umana, ma non a vuoto», come lo definiva Flaiano che in un articolo sintetizzava il suo dono con queste parole: «Il dono di Tretti è una semplicità che non si copia, presupponendo la superba innocenza dell’eremita». Affinché di Tretti se ne parli, lo si conosca, e nella speranza che qualcuno abbia, ancora, la libertà di ascoltarlo. 

1 Augusto Tretti, Corriere d’informazione, 22 Marzo 1980 – Fonte tratta da Rapporto Confidenziale.

lunedì 19 marzo 2018

Splitscreen - A Love Story - James W. Griffiths


Victoria - Sebastian Schipper

Victoria (Laila Costa) e Sonne (Frederick Lau) non ve li dimenticherete per un po'. Sonne lo conoscete già, è Tim, il più fedele discepolo del professore de L'ondaVictoria forse no, è una giovane spagnola portata a Berlino dalla corrente, sopravvive, Sonne e i suoi due amici sono degli sfigati, senz'arte né parte, tutti sono scarti del mondo di oggi, persone in più.
quello che rende il film straordinario, oltre gli attori, oltre la storia, è che si tratta di un unico piano sequenza, al quale non sfuggi più appena inizi a guardare il film.
l'occhio della videocamera non molla nessuno, Victoria e Sonne sono lì, veri, quell'occhio mette a nudo le loro anime.
un film come pochi, cercalo, non te ne pentirai mai, sicuro - Ismaele 





…La macchina da presa non si ferma mai, non perde mai il filo della visione, 138 minuti di inquadrature significanti e pregnanti, un’opera divina,  un alchimia diabolica. Victoria non parla tedesco, solo inglese o spagnolo, ed io la guardo straniata mentre gli sprovveduti  delinquenti  latrano nel loro  idioma alieno, poi guardo attraverso gli occhi di ciascuno di loro, Sonne appunto, poi il pavido Blinker, il dannatissmo Boxer, Fuss lo stonato, ricordo i loro nomi ancora oggi e li ricorderò per tanto tempo ancora. Scene di interni, salite verticali, riprese statiche o in movimento, dentro e fuori le auto, dentro e fuori la follia dell’insospettata piega degli eventi, una storia superba che mozza il fiato, al servizio della quale è la tecnica prodigiosa e non viceversa, qualcuno ha scritto che la tecnica virtuosissima di Schipper immerge e non distrae, è questo il cinema, è questa la grande illusione.
One shot, two hours, total triumph, ha titolato il britannico The Guardian. No one believed Sebastian Schipper could make Victoria in one take, ha scritto Indiewire. The punk rock, single-take cinematic triumph of the year, secondo the Daily Beast. Questo, per tutti noi, per tutti voi, è Victoria, questo è il cinema che abbiamo negli occhi, sia lodato il Dio del Cinema. Sempre sia lodato.
da qui

…Qualcuno ha scritto che la tecnica virtuosissima di Schipper immerge e non distrae: è questo il cinema, è questa la grande illusione. L’eterno prodigio che di tanto in tanto si materializza davanti agli occhi dei fortunati testimoni, un privilegio che può arrivare a commuovere.


…Schipper, con la complicità del direttore della fotografia e operatore Sturla Brandt-Grøvlen, ha trovato il modo per “distrarci” dalla trama, per minare la certezza dei punti di vista, delle prospettive. E qui arriviamo al punto. Victoria è girato interamente in piano sequenza, con la macchina a mano che si muove, incessante, tra le strade di Berlino, i bar, i locali, i garage, le scale e i tetti dei palazzi, rimanendo ostinatamente attaccata ai corpi, ai protagonisti, alla concitazione dei loro movimenti. Al punto che la leggibilità delle traiettorie, degli eventi, si fa via via più precaria con il salire della tensione. E l’immagine sembra oscurarsi, diventare un mistero, come in un war movie girato da Paul Greengrass..
Victoria è davvero una prova muscolare di due ore e venti. Un tour de force del cast e dell’intera troupe. Tutti uniti nello sforzo di inquadrare la trama nel suo dipanarsi, di trovare il punto di coincidenza tra la storia e il discorso, di abbracciare in un unico respiro la notte e la città. E, di sicuro, è uno sforzo che lascia sbalorditi, a bocca aperta. Almeno al principio. Perché, smaltita la sbornia, una volta placata la concitazione, dietro quello sforzo non riusciamo a distinguere alcuna urgenza, alcuna necessità. E quella che sembrava un’adesione totale ai personaggi, finisce per mostrarsi come un estetismo di superficie. Eppure, proprio questo limite rischia di essere l’elemento più affascinante del film. Perché proprio l’ostinazione nel perseguire una scelta estetica “insensata” produce in più punti una stilizzazione abbagliante, una specie di astrazione magica, come nelle magnifiche scene in discoteca o in quei brevi minuti, pochi metri, in cui Sonne e Victoria si ritrovano in taxi, con il fiato in gola e il cuore in mano.

Sebastian Schipper (regista) e Sturla Brandth Grøvlen (direttore della fotografia), aiutati comunque da una protagonista in forma smagliante e in generale da un cast di attori che ce la mette tutta, gestiscono il ritmo della storia in maniera notevole. Certo, ci sono dei cali di ritmo e in generale, non ci si può fare molto, tanto il piano sequenza funziona a meraviglia quando c'è da rendere la tensione dei momenti concitati, quanto si mostra spesso inadeguato nelle parti più raccolte, tranquille, basate sui dialoghi, sui silenzi, magari addirittura romantiche. Nel complesso, però, l'esperimento funziona e fa anzi una certa impressione non solo per la natura di piano sequenza in sé, ma per lo sforzo con cui Schipper e i suoi riescono a mettere sul piatto cura per l'immagine e capacità di variare sensibilmente lo stile delle riprese a seconda del momento, delle emozioni, delle vicende. Ci si ritrova immersi per due ore abbondanti nella folle serie di piccoli eventi e attimi che possono definire la vita delle persone, con un susseguirsi di sfighe e coincidenze talmente assurdo da risultare perfettamente credibile.

Aunque la película tenga lugar en Berlín, podría haber estado ambientada en cualquier ciudad europea. Berlín no es la protagonista del film, casi siempre está fuera de foco. Es significativo que una de las pocas imágenes reconocibles, sea la de uno de los escasos fragmentos, que aún hoy sigue en pie, del muro que separó la capital alemana durante más de veinticinco años. Aún no siendo un film de los llamados sociales, esa imagen parece simbolizar la historia de estos jóvenes ante los que se alza una barrera que los mantiene excluidos de un trabajo digno y de una vida mejor. El símbolo de una Europa que vuelve a levantar un muro frente a una juventud obligada a emigrar, trabajar en condiciones precarias y, como medida desesperada, emprender acciones  para derribarlo. Las últimas imágenes del film, rodadas dentro de un lujoso hotel situado en las calles comerciales más exclusivas, así lo corroboran. El “asalto” a ese muro (que sigue existiendo aunque no físicamente) acaba en fracaso. La victoria del título se torna derrota.

…Le conseguenze della scelta, dogmatica, di fare un unico piano sequenza non sono poche. È come se, scrivendo, si rinunciasse a una vocale, come fece Perec con la e nel libro “La disparition”. Una volta optato per un unico flusso narrativo, regista e cameraman si trovano pressoché sullo stesso piano, architetti di una struttura abnorme e fragilissima che deve reggere per tutta la sua durata, senza errori di sorta. Non a caso, i dialoghi sono per la massima parte improvvisati – parlati in pidgin english, con inserti di berlinese stretto – e le immagini fuori fuoco abbondano. Grøvlen fiata sugli attori come un Dardenne, mentre il quartiere di Kreuzberg (al confine con Mitte), dove si svolge tutto il film con le sue 22 location, resta uno sfondo incerto, semideserto, minaccioso. Per gli attori – e per lo spettatore – un’esperienza immersiva del genere, che soppianta i ritmi della normale sintassi filmica, stimola una sospensione dell’incredulità diversa dal solito, un’apnea che crea dipendenza. Senza il montaggio e le sue magnifiche menzogne, Victoria approda all’ultimo stadio del cinéma verité. Con buona pace dei buoni propositi di sobrietà e verosimiglianza della Berliner Schule e della trilogia berlinese di Thomas Arslan (1997-2001), d’improvviso invecchiati di cinquant’anni. Di miracoloso, il film di Schipper non ha solo il fatto che funzioni e non dia mai segni di cedimento, ma che riesca pure a stupire nel merito, oltre che nel metodo, a non annoiare mai, a commuovere persino, soprattutto quando il suono in presa diretta cede il passo alle composizioni liriche di Nils Frahm. Merito dell’abilità di Grøvlen, degli eccezionali protagonisti (più André M. Hennicke, impagabile nei panni del boss della mala) e di scene spiazzanti, di grande intensità, come quella in cui Laila Costa si mette a suonare il pianoforte…

In tempi di ricerca di un aumentato realismo sensoriale attraverso apparecchiature ed effetti speciali, la scelta di Schipper va quasi controcorrente, facendo tesoro del passato in prospettiva di un suo aggiornamento. Rielaborando alcuni concetti e intuizioni del neorealismo zavattiniano, della Nouvelle Vague francese e del Dogma 95 di Von Trier, il cineasta sviluppa un’idea filmica affascinante pur se non innovativa, espressione di un cinema che – giunto ormai a una saturazione tecnica – torna a lavorare sullo stile come veicolo primario, non al servizio della narrazione, bensì sua controparte nel processo diegetico. Lontana dai ritmi frenetici dei montaggi digitali, la fluidità dell’inquadratura continua dell’operatore Sturla Brandth Grøvlen fa del racconto il pretesto per una descrizione visiva di un arco temporale sospesa tra cinema verité e cinema underground, che rifiuta il manierismo fine a se stesso. Il film di Schipper è cinema all’ennesima potenza, estremizzazione del principio stesso dell’immagine in movimento che viene così a superare la finzione della messa in scena, quasi fosse un documentario o un’opera sperimentale.
Il travalicamento dei rigidi steccati tipologici rende allora Victoria ben più significativo di quanto appaia: né divertissement né bizzarria, ma gesto artistico che apre una nuova strada all’aggiornamento del mezzo cinematografico, non attraverso l’ipertrofico potenziamento dei suoi apparati, ma con una revisione del proprio linguaggio. Un gesto intellettuale la cui effettiva portata potrà essere valutata solo a posteriori.

…Entendiendo Victoria no solamente como un encomiable ejercicio técnico, sino como un todo, un conjunto con, claro está, la particularidad de la detallada atención a algunos de sus elementos, estamos ante una muy interesante propuesta cinematográfica, una vertiginosa historia con una progresión bien calculada, un montaje brillante y un trabajo interpretativo a la altura de las circunstancias. Película que, además, ofrece otros elementos destacables como cierto sentido del humor tarantiniano filtrado por la identidad sociocultural europea, una reflexión metafórica sobre la búsqueda de compañía dentro de la estética de la soledad humana en los entornos urbanos contemporáneos, o la idea de la violencia como catarsis. Ya lo decía el director francés Jean-Luc Godard, «todo lo que se necesita en una película es un arma y una mujer». | ★★★★ |